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Apocalittici e integrati
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Nell’ Inventario dell'archivio del Fondo Giancarlo Vigorelli, Biblioteca comunale di Milano, a cura di Cooperativa CAeB, Milano, Biblioteca comunale, 2017, sono registrate tre lettere indirizzate da Rodolfo Quadrelli a Giancarlo Vigorelli nonché un testo inedito del medesimo, dattiloscritto con correzioni manoscritte, contenente riflessioni su scrittura, letteratura e poesia. Sarebbe stato interessante consultarli per sapere qualcosa di più sui rapporti tra il famoso critico e il professore di liceo nato a Milano nel 1939 e morto nell’84 a soli 46 anni: poeta e saggista, studioso di Shakespeare e osservatore attento della crisi, da lui ritenuta soprattutto culturale, dell’Italia dei suoi e dei nostri anni. Quadrelli era fra i rappresentanti di punta di una nuova generazione di intellettuali che avrebbe dovuto raccogliere il testimone di una grande cultura legata all’idea di tradizione, i cui esponenti principali erano stati fino ad allora Augusto Del Noce, Rosario Assunto e, più giovane, Elémire Zolla, critica sia verso il potere dominante che verso i contestatori. Il prevalere del conformismo ideologico e politico determinò (oltre a Quadrelli possiamo citare Emanuele Samek Ludovici e Marco Marcolla) l’ostracismo della grande editoria, l’ostilità del potere accademico ma anche l’indifferenza del ceto politico di centrodestra, che li condannarono all’isolamento e alla disperazione. Vennero così a mancare gli anticorpi adatti a temperare il passaggio dalla militanza al cinismo di massa.
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R. Quadrelli, Il senso del presente. Un diario morale, Milano, Rusconi, 1976; R. Quadrelli, Il paese umiliato, Milano, Rusconi, 1973
  Nell’opera miscellanea: I potenti della letteratura, a cura di Rodolfo Quadrelli, Milano, Rusconi, 1970, scritta con Sergio Quinzio, Armando Plebe e Quirino Principe, il Nostro affronta il tema della critica letteraria, avvertendo che “Non è da ravvisare comunque, nelle pagine che seguono, una nostalgia dell’antico contrapposto al moderno: c’è la convinzione che vi siano idee da ritrovare non necessariamente nel passato, sì piuttosto nelle possibilità permanenti che giacciono al di sotto della storia e in interiore homine". [pp. 8-9]
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Giancarlo Vigorelli pubblicherà invece solo nel 1989 Carte d’identità, una raccolta ragionata e integrata di suoi interventi critici, che certo non costituiscono un’Estetica ma almeno, rispetto all’urgenza del momento, un Discorso sul Metodo critico. La presa di distanza da Benedetto Croce a favore del biografismo di Augustin de Sainte-Beuve (1804-1869) non potrebbe essere più chiaramente espressa. In concreto tuttavia, la critica di Vigorelli ha escluso recisamente ogni storia di dati extrapoetici, ogni proiezione sociologica e tantomeno l’inserimento degli scrittori in sequenze evoluzionistiche, e ciò in piena sintonia col dettato crociano. Forse si era insinuato il sospetto che la questione del metodo critico più che sull’impostazione teorica fosse ormai da collegare allo stato di salute della letteratura. Per quattro numeri, tra il 1983 e il 1984, la “Nuova Rivista Europea” da lui diretta accolse le risposte di quegli (oltre cento gli inviti) scrittori e uomini di cultura che avevano voluto confrontarsi col quesito: “Esiste in Italia una società letteraria?”.
È sintomatico che un’inchiesta analoga a quella di Vigorelli sia stata ripresa nel 2015 da un quotidiano in margine ad alcuni temi sollevati dallo storico della letteratura Alberto Asor Rosa, e riassumibili nell’accusa che la massa di scrittori o lo scrittore/massa espressione di indistinte storie individuali senza capacità di presa sul presente abbiano ucciso la critica consegnandosi al mercato.
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R. Quadrelli, Il linguaggio della poesia, Firenze, Vallecchi, 1969
Umberto Eco aveva marchiato Quadrelli da “ultras della sottocultura cattolica” (L’Espresso, 30 gennaio 1972). Dall’alto della sua erudizione gli “apocalittici” apparivano terribilmente noiosi e datati. Eppure l’abolizione del confine, sulla falsariga degli strutturalisti francesi, tra alta cultura e intrattenimento, ha determinato un punto di svolta segnato per Franco Cordelli proprio dalla pubblicazione nel 1980 del Nome della rosa: un ripristino fittizio del ruolo dell’intellettuale, l’origine di tutta la letteratura di consumo arrivata nei decenni successivi, l’atto di nascita dello “scrittore medio”.
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Ri-formare un pubblico consapevole, colto, moderno è compito ormai della scuola e in questo senso la lettura de La poesia, al di là del suo rilievo entro la coerenza interna della filosofia di Croce e delle preclusioni del suo gusto, invitandoci ancora a guardare ai nuclei più risolutivi dell’esperienza poetica, costituisce un antidoto a tanta letteratura inessenziale.
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Le Nazioni delle Piante
Legata alla XXII Esposizione internazionale della Triennale di Milano: “Broken Nature: Design takes on human survival”, è rimasta aperta fino allo scorso settembre anche la mostra “La nazione delle piante” curata da Stefano Mancuso (una delle massime autorità nel campo della biologia vegetale). Il percorso espositivo proponeva agli umani della cosiddetta era dell’Antropecene, minacciata da catastrofi incombenti, una presa di coscienza a partire dal dato che la biomassa del pianeta Terra resta a tutt’oggi costituita solo per il 3% da animali, compresa la specie umana, mentre i vegetali superano l’80%. È alle piante che dovremmo guardare, dato che esistono da più tempo di noi, e hanno sviluppato soluzioni efficienti e non predatorie degli ecosistemi in cui vivono. Sfatato il mito dell’immobilità del regno vegetale, Mancuso mostrava poi come le piante abbiano colonizzato il mondo, portando la vita su isole sterili e in luoghi inaccessibili e inospitali.
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 Tutte le tavole sono state tratte da: L. Figuier, Storia delle piante, 3. ed. italiana con 502 incisioni disegnate dal vero da Faguet e numerose note ed aggiunte, Milano, Treves, 1882 
Proprio in merito all’accelerazione umana di questo processo, un’altra sezione della Triennale evidenziava tuttavia gli esiti potenzialmente negativi. All’inizio del XX secolo, alcuni ricercatori, dopo aver fallito nel tentativo di utilizzare il fiore del loto come risorsa alimentare, abbandonarono diversi esemplari di Nelumbo nucifera nel bacino fluviale del Mincio, vicino a Mantova. Nell’arco di un centinaio di anni, anche in virtù del riscaldamento climatico, la pianta ha completamente invaso l’ecosistema locale, diventando, malgrado il piacevole aspetto, che ne ha fatto un’attrazione turistica, una seria minaccia per la biodiversità del fiume.
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È invece notizia di poche settimane fa il blitz ecologico organizzato da Legambiente nel bosco di Riazzolo, che si estende nel milanese fra i comuni di Cisliano, Albairate e Corbetta e che, assieme al Bosco di Cusago, è tutto ciò che resta nel Parco Sud, delle foreste che ricoprivano, un tempo, la Pianura Padana. Obiettivo era quello di trovare e catalogare le specie “aliene” che prosperano in questo bosco antico. Piante infestanti importate come il ciliegio tardivo americano e l’albero del paradiso, originario della Cina stanno infatti mettendo in pericolo la diffusione di querce, carpini, aceri e ontani, noccioli, viburni. Specie cantate anche da Virgilio nelle Bucoliche.
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Senza soluzione di continuità la descrizione dei boschi della Penisola fatta dagli autori latini si salda in effetti con le specie ricordate come tipiche da uno dei primi trattati delle neonate Scienze forestali in lingua italiana: Nozioni elementari sui boschi ad uso degl'impiegati de' boschi di Giuseppe Guatieri …, Milano, dalla Stamperia reale, 1812.
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Se un botanico è comunque in grado di individuare le complesse relazioni che regolano, secondo dinamiche di mutualismo e simbiosi, l’ecosistema vegetale costituito dalla foresta, un profano è più propenso a operare delle distinzioni in termini di paesaggio. Per cogliere la differenza nell’approccio non è necessario viaggiare intorno al mondo: a chi dalla Val Venosta, diretto al Passo del Maloja, transita nell’Engadina attraverso il Parco nazionale svizzero, il più vecchio del continente istituito nel 1914, risalta in modo sorprendente il contrasto tra gli ordinati boschi di conifere dell’Alto Adige e della Val Monastero rispetto al caos vegetale del Parco. A qualsiasi latitudine l’Urwald è più simile alla foresta di Fangorn descritta da Tolkien ne Il signore degli anelli che al giardino dell’Eden!
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Al di là delle impressioni estetiche, uno studio recente (M. Agnoletti, Storia del bosco. Il paesaggio forestale italiano, Bari, Roma, Laterza, 2018) afferma peraltro che, almeno per l’Italia, la qualità del paesaggio non aumenta in modo proporzionale alla superficie boscata, ma che, al contrario, oltre certi limiti, ciò porta spesso a fenomeni di degrado. Il lento intervento dell’uomo nel corso dei secoli ha comportato infatti una biodiversità connessa alle modalità di utilizzo del bosco, contribuendo alla complessità del paesaggio medesimo, che può essere osservata a diversi livelli. In primo luogo per la diversità degli spazi che si intercalano alla copertura arborea, dovuti alla presenza di aree coltivate e pascoli, sia in forma di pascoli arborati che di pascoli nudi. “Queste erano un tempo le forme più diffuse di paesaggio che caratterizzavano la penisola, in tutti gli ambienti geografici e le diverse fasce altitudinali. La varietà del paesaggio oggi si è molto ridotta: boschi compatti e omogenei, per due terzi non coltivati, occupano ormai tutta la montagna e gran parte delle colline, essendosi ormai interrotta l'integrazione con le attività agricole e pastorali, salvo in Sardegna, uno dei paesaggi silvo-pastorali più importanti d'Europa. [ibidem, p. XII]”
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Una biodiversità controllata sembra oggi più che mai urgente rispetto ai cambiamenti del clima. Ricorre in questi giorni infatti l’anno dall’evento climatico estremo che, a fine ottobre 2018, tra Lombardia e Friuli-Venezia Giulia, portò alla devastazione di decine di migliaia di ettari di bosco (tra i 15 e i 20 milioni di piante abbattute), conosciuto con il nome di tempesta Vaia.
Senza farsi illusioni: nessuna foresta avrebbe resistito a venti a quella velocità, la mole delle distruzioni indica tuttavia l’abbandono dei principi della silvicoltura ecosistemica a favore dello sfruttamento industriale del bosco: conifere d’alto fusto piantate come un campo di granturco, dimenticando principi già codificati nel 1826: “Nelle situazioni boscose maggiormente soggette all’assalto dei venti gagliardi non si coltiveranno le specie delle piante guernite di poche o deboli radici, ovvero in loro associazione si propagheranno eziandio altre piante a robusta radice e adatte a rendere vani gli assalti de’medesimi [Osservazioni sopra i mezzi di conservare i boschi mediante la regolarita dei tagli di Gio. Battista Sartorelli …, Milano, per Giovanni Silvestri, 1826, p. 184]”.
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Alberi e foreste si sono evoluti per migliaia di anni in simbiosi con l’uomo per essere in grado di avere la massima funzionalità in equlibrio con l’ambiente, garantendo la produzione ma anche la massima resistenza alle perturbazioni esterne. I boschi grandi e antichi mantengono alta biodiversità e resilienza, mentre i “boschi fragili” rivelano anzitutto una crisi culturale.
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Melancholia
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Entro poche ore, tra la notte di San Lorenzo e il 13 agosto, lo sciame di corpi luminosi scaturiti da una cometa, noto come Perseidi, raggiungerà il suo culmine nell’attraversamento dei nostri cieli. Per quest’anno gli astronomi hanno annunciato in concomitanza una sorpresa: l’avvicinamento alla terra dell’asteroide 2006 QQ23, secondo gli esperti della NASA “potenzialmente pericoloso” per il nostro pianeta. Bombardati da notizie allarmistiche non superiamo tuttavia la soglia di una vaga inquietudine.
Nella primavera del 1773, Parigi e le province francesi attendevano invece con angoscia il passaggio di una cometa che avrebbe potuto schiantarsi sulla terra o, più probabilmente, avvicinarsi provocando un innalzamento dei mari e conseguenti catastrofiche alluvioni. Tra aprile e luglio furono molti ad abbandonare la capitale francese per raggiungere le Alpi. La “notizia” ebbe risonanza anche all’estero dove tuttavia destò un’eco solo nel dibattito scientifico da dove in effetti era scaturita, conseguente alla pubblicazione da parte di un celebre astronomo e divulgatore scientifico,  Joseph Jérôme de Lalande, di un Mémoire sur les comètes, come spiega in un recentissimo studio Ilaria Ampollini: Cronaca di una cometa non annunciata. Astronomia e comunicazione della scienza nel XVIIII secolo, Roma, Carocci, 2019.
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Abregé d'astronomie, par M. de La Lande, lecteur royal en mathematiques ... , A Amsterdam : chez Barthelemi Vlam, 1774
Travisato dalla stampa, lo scritto aveva cominciato a destare preoccupazione, trasformatasi poi in allarme, quando l’intervento dell’astronomo che avrebbe dovuto presentare il Mémoire all’Académie des sciences in una seduta pubblica fu annullato per mancanza di tempo. Presto si diffuse infatti la voce che la conferenza fosse stata proibita dalle autorità per non inquietare ulteriormente l’opinione pubblica. Lalande pubblicò allora una versione divulgativa del Mémoire: le Réflexions sur les comètes qui peuvent approcher de la Terre, nel tentativo di rassicurare i suoi concittadini soprattutto in merito al fatto che la catastrofe non era prevista per il 1773. La Biblioteca Sormani non possiede le Réflexions ma possiamo pubblicarne uno stralcio a cura dello stesso Lalande, che lo riportò  nell’edizione dell’ Abregé d’astronomie del 1795: “Parmi les cometes que nous connaissons, je trouve qu’il y en a plusieurs qui peuvent approcher assez de la terre pour y produire des effets sensibles; & parmi le grand nombre de celles que nous ne connaissons pas, il pourrait y en avoir qui fussent également capables d’y causer des révolutions prodigieuses. Une comete de la grosseur de la terre, qui serait seulement à 13290 lieues de nous […] pourrait submerger les quatre parties du monde, comme je l’ai fait voir plus en détail dans mes Réflexions sur les Cometes, que j’ai citées”. [Abregé d’astronomie, ed. 1795, p. 341.] 
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Abregé d’astronomie, ibidem.
Come si capisce si trattava di una rassicurazione a metà!
Secondo il saggio di Ampollini, Lalande si sarebbe dedicato allo studio delle comete in seguito alla lettura degli Éléments de la philosphie de Newton, testo di Voltaire e Émile du Châtelet, che illustrava al pubblico francofono l’astronomia newtoniana, al fine di eliminare dalla meccanica dello scienziato inglese ogni visione provvidenzialistica del cosmo, che questi avrebbe ripreso a sua volta da altri astronomi, nello specifico dall’italiano Giovanni Domenico Cassini (1625-1712).  
Proprio l’analisi del testo di Cassini: Theoria motus cometae anni 1664, ea praeferens, quae ex primis observationibus ad futurorum motuum praenotionem deduci potuere. Cum nova investigationis methodo, tum in eodem tum in comete novissimo anni 1665 ad praxim revocata, nelle collezioni della Biblioteca comunale, ha condotto alla scoperta di altri testi seicenteschi sulle comete non rilevati dal catalogatore probabilmente in quanto raccolti insieme dalla medesima legatura antica: Cometicae obseruationes habitae ab Academia Physicomathematica Romana. Anno 1680 & 1681, Romae, Typis Tinassij, 1681, dal quale sono tratte le immagini che seguono,
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e in appendice a un’opera di Geminiano Montanari (1633-1687): Copia di lettera scritta all'illustrissimo Antonio Magliabechi bibliotecario del sereniss. gran duca di Toscana intorno alla nuoua cometa apparsa quest'anno 1682. sotto i piedi dell'Orsa Maggiore dal dottore Geminiano Montanari astronomo e meteorologo dello studio di Padoua.  
Per entrambi i testi, l’approccio astronomico galileiano si sposa con una visione dell’universo in cui alla dimensione quantitativa si affiancava ancora quella “qualitativa”: le immagini delle figure zodiacali attraversate soverchiano quella della cometa mentre nella lettera di Montanari si dà ampio spazio ai presagi nefasti di cui essa era portatrice, come nella celebre incisione di Dürer, in cui all’angelo non a caso fa da sfondo una stella cadente. Per Isaac Newton (1643-1727) le comete per la loro capacità di nutrire il sole con nuova energia possedevano invece una virtù rigeneratrice dell’universo. Edmond Halley (1656-1742) al contrario abbinava al passaggio della cometa che porta il suo nome il Diluvio universale. 
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In questo senso Jérôme de Lalande rappresenta uno scienziato di nuovo tipo. Secondo Ampollini si hanno fondati motivi per ritenere che nel momento in cui si dedicava alla stesura del Mémoire la sua conversione dal cattolicesimo al materialismo radicale, e alla convinzione di un’immanenza incondizionata dei fenomeni astronomici unicamente spiegabili in termini di calcolo, fosse ormai a buon punto.
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Civiltà della Villa
Tre album di fotoincisioni, appartenenti al lascito Bertarelli, per la maggior parte confluito nelle raccolte del Castello Sforzesco, costituiscono la preziosa testimonianza, raccolta da un ignoto collezionista, della fase estrema di quella che da alcuni storiografi è stata definita “civiltà della villa”.  
Per secoli la configurazione unitaria dello spazio aveva fatto parte dei segni distintivi di ogni dominio, di cui l’arte costituiva il linguaggio, e non un ornamento sovraimposto. Anche in Lombardia, in un’ambiente pur non particolarmente scenografico, molte ville erano diventate la quinta entro la quale ogni aspetto della vita quotidiana veniva messo in scena come parte di un grande teatro emblematico dell'universo (K. Kuvakino, L'architetto sapiente: giardino, teatro, città come schemi mnemonici tra il 16. e il 17. Secolo, Firenze, Olschki, 2011).
Qualche intuibile vestigio di questo antico splendore è ancora rimasto dove il territorio non ha conosciuto un’urbanizzazione selvaggia, come nel caso di chi percorrendo la vecchia strada per Varese vede nella sua veste settecentesca il Castellazzo degli Arconati, che già l’architetto Francesco Maria Richini (1584-1658) aveva definito reggia, e della quale l’editore Bidelli non tralasciò di sottolineare le delizie nella dedica a Galeazzo Arconati del 1631 in occasione della stampa della Storia dei Longobardi. 
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L’opera di Marc’Antonio Dal Re (1697-1766), Ville di delizia, o siano Palagi camparecci nello Stato di Milano, divise in sei tomi, con espressevi le piante, e diverse vedute delle medesime. Incise e stampate in rame da Marc-Antonio DalRè bolognese, In Milano, Alla Piazza de' Mercanti nel Portico superiore delle Scuole Palatine, 1743, anch’essa nelle collezioni della Biblioteca Sormani, è speculare ai tre album: la prima a indicare l’apogeo, i secondi la fine di una civiltà, databile  (le fotografie non riportano indicazioni cronologiche) agli anni attorno alla Grande Guerra, dal momento che fu solo il trattato di Versailles (1918) a sancire la fine, oltre che dei grandi imperi, del ruolo delle monarchie europee coadiuvate da un’aristocrazia di corte che per secoli si era dedicata  alla cosa pubblica, e a sostituire definitivamente il trattato politico di Vienna con una creazione dei giuristi e degli economisti.
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Villa Gallarati Scotti a Oreno nella litografia di Marc’Antonio Dal Re e nelle fotografie del legato Bertarelli.
In particolare per quanto riguarda il capoluogo, l’istituzione del sistema dei Navigli aveva conferito alla città quell’impronta particolare e unitaria che in qualche modo sopperiva a una caratterizzazione altrove raggiunta da elementi geografici eminenti: colli, fiumi, ecc., istituendo anche una relazione omogenea, dal punto di vista storico, topografico e architettonico, col sistema extraurbano delle ville che, dal XV al XVIII secolo, lungo le due direttrici del Naviglio Grande e della Martesana erano sorte non solo singolarmente, ma per nuclei, come nel caso di Corbetta, di Cassinetta di Lugagnano, di Robecco a occidente; di Pioltello, di Cernusco, di Brugherio, di Carugate a oriente, onde coniugare la vita sociale dei proprietari con la sorveglianza nei mesi del raccolto dei fondi agricoli annessi.
A differenza tuttavia di riviere ben altrimenti note, come quella del Brenta, non esiste una tradizione lombarda di pittura di paesaggio. Non a caso per associare un artista noto a una villa del nostro territorio (Villa Cagnola alla Gazzada presso Varese)  bisogna riferirsi al veneto Bernardo Bellotto (1721-1780). E’ stato ipotizzato che lo scarso interesse per il vedutismo sia da attribuire alla discrezione dell’aspetto, soprattutto esterno (caratteristica comune con i palazzi cittadini) della maggior parte delle ville, fatta eccezione per alcune di quelle maggiori, e alla loro effettiva “subordinazione” all’ambiente circostante, che non necessitava l’apporto di celebri architetti. La cura era piuttosto rivolta all’architettura del paesaggio che, per l’intera zona compresa tra Adda e Ticino, aveva fatto della Lombardia occidentale uno dei paesaggi umani più ragguardevoli d’Italia, così come oggi è uno dei più “trasformati”.
L’assenza di nomi di famosi artisti è certamente tra le cause della differente fortuna delle ville venete rispetto a quelle lombarde, al punto che solo un articolo dell’architetto Ferdinando Reggiori, negli anni Sessanta del secolo scorso, ha avuto il merito di riproporle all’attenzione, quando tuttavia il cataclisma paesaggistico era ormai già avviato.
Per vedere ulteriori immagini tratte dagli album (S ART 17) del Legato Bertarelli, connettersi alla galleria su facebook.
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L’originale e le copie
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Tavola I. Testa di vecchio calvo barbato con capelli e ciglia lunghe. Credo sia il ritratto di Leonardo per un passo del Lomazzo, che ho fatto incidere sotto di essa. Questa stampa, di mano del signor Giuseppe Benaglia, non fu presa dal disegno originale di Leonardo (che ora si ignora dove esista) ma da una copia fattane dal signor Raffaello Albertolli. Del Cenacolo di Leonardo da Vinci libri quattro di Giuseppe Bossi pittore, Milano : dalla Stamperia Reale, 1810 ([Milano] : stampato per cura di Leonardo Nardini, ispettore della Stamperia Reale)
È notissimo che nella lettera-curriculum di presentazione a Ludovico il Moro, Leonardo da Vinci abbia offerto i propri servizi come ingegnere militare, come architetto e infine come scultore. In realtà, la testimonianza del suo soggiorno milanese rimarrà sostanzialmente connessa a due pitture: la Vergine delle Rocce e il Cenacolo. Leonardo rappresenta per noi la quintessenza del genio in base a un’interpretazione dell’artista propriamente romantica. I grandi maestri del rinascimento, pur contesi fra le corti, restavano infatti in qualità di creatori di immagini, e soprattutto di immagini sacre, legati, almeno parzialmente, a una tradizione condivisa con l’Oriente di venerazione di archetipi, immutabili e invariabili come il Mandylion di Edessa, che rimandava al volto impresso di Cristo. Lo sconcerto dei confratelli dell’Immacolata, che avevano commissionato al maestro la Vergine delle Rocce, non fu dunque legata tanto alla tecnica e alla qualità pittoriche quanto alla novità  del riferimento iconografico, per il quale Leonardo aveva filtrato i contenuti della fede nel platonismo fiorentino, nelle testimonianze dei mistici e nei Vangeli Apocrifi. Nello specifico si trattava della visione di santa Brigitta di Svezia, che funge da cornice a una sorta di quinto Vangelo mistico, nel quale i due bambini e l’angelo riassumono, nei gesti e nelle pose, l’Annunciazione e al contempo la Natività, il Battesimo (la scena si svolge sulla riva di un Giordano eterno, cfr. M. Fumaroli, La scuola del silenzio, Milano, Adelphi, 1995) e la morte in croce preannunciata dal gesto benedicente di Gesù.
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Tavola VII. Piccolo gruppo di Sant’Anna colla Vergine, il Bambino ed un Agnello. Tutto dall’originale di Leonardo ed inciso dal signo Francesco Rosaspina, ibidem.
Nel Cenacolo, terminato circa quindici anni dopo la Vergine delle Rocce (1498), l’idea eterna della salvezza è rappresentata invece nella sua incarnazione storica. La novità stava questa volta nel non avere scelto un momento preciso del racconto evangelico ma di avere in qualche modo rappresentato una summa degli annunci della passione. Se per tradizione a essere raffigurato era la notizia del tradimento, alla lontananza e solitudine siderale in cui Leonardo rappresenta Cristo meglio si intonano le parole del Vangelo di Giovanni: “Dove vado io voi non potete venire”. Nello sgomento dei discepoli, che reagiscono in modi diversi, a volte quasi scompostamente, al mistero del dolore, l’artista ha descritto, come mai fino a quel momento era stato fatto, i temperamenti e le passioni dell’umanità, che la cultura di allora non attribuiva a una struttura monadica delle psiche ma al combinarsi degli influssi delle intelligenze che presiedevano al movimento di stelle e pianeti al momento della nascita di ogni uomo. 
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Tavola IV. Testa d’uomo attempata in profilo volta a destra di chi guarda. L’ho imitata da un disegno originale di Leonardo, ibidem
Anche in questo caso, lo stupore che prese i contemporanei fu in primo luogo legato all’affermarsi di un nuovo archetipo iconografico, presto replicato, per entrambi i casi, a partire dalla cerchia del maestro. Per il Cenacolo tuttavia si impose un’ulteriore ragione. L’opera, dipinta a tempera su due strati di preparazione gessosa, per non essere stati i pigmenti assorbiti dall’intonaco,  iniziò a guastarsi già nel secondo decennio del Cinquecento. È probabile che nel corso del Cinque-Seicento ci siano stati interventi di pittori a integrare e completare le parti lacunose man mano che pezzi di pittura si staccavano dal muro (cfr. Pietro C. Marani, Leonardo. Il Cenacolo svelato, Milano, Skira, 2011). Di restauro in senso proprio non si può tuttavia parlare fino al XIX secolo, ma una migliore leggibilità del Cenacolo e un recupero sostanziale dei valori cromatici originari furono ottenuti solo nel corso del Novecento attraverso i due memorabili interventi di Mauro Pellicioli (1947-1953) e di Pinin Brambilla Barcilon (1977-1999). Prima di allora la salvaguardia di quella che, perdendo lo status di icona, era diventata un “capolavoro” era stata demandata alla copia. 
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Tavola VI. Figura intera virile con doppie gambe e doppie braccia. È presa dall’originale di Leonardo e l’ha incisa il cav. Longhi, ibidem.
In questo senso la realizzazione di un mosaico a grandezza naturale dell’Ultima Cena rappresenta un momento saliente della vita culturale milanese in età napoleonica. Nel 1803, Francesco Melzi d’Eril chiamò a Milano da Roma Giacomo Raffaeli, al fine di avviare una scuola di mosaico, per così dire, conservativo. Il 21 aprile 1807, il viceré d’Italia Eugenio Behaurnais commissionò a Giuseppe Bossi il dipinto dal quale Raffaeli avrebbe tratto la versione a mosaico (cfr. Bossi e Goethe. Affinità elettive nel segno di Leonardo, a cura di Fernando Mazzocca, Francesca Tasso e Omar Cucciniello, Milano, Officina libraria, 2016) Per la realizzazione dell’opera, il pittore si concentrò su tre copie del Cenacolo: quella ad affresco del convento dei Gerolamini di Castellazzo, allora creduta di Marco d’Oggiono, quella della chiesa di Sant’Ambrogio a Ponte Capriasca e quella conservata all’Ambrosiana, realizzata da Andrea Bianchi, su commissione del cardinale Federico Borromeo, proprio per conservare memoria del dipinto di Leonardo prima della sua definitiva scomparsa. Il Bossi si dedicò inoltre a raccogliere con acribia da filologo gli studi di Leonardo stesso, i giudizi dei contemporanei, testimonianze sulla fortuna critica dell’opera, che culminarono nella redazione di un trattato: Del Cenacolo di Leonardo da Vinci, dato alle stampe solo nel 1810, quando il pittore aveva già terminato il cartone (1807) e il dipinto (1809) con i primi sintomi della malattia, probabilmente contratta nell’umidissimo refettorio delle Grazie, che l’avrebbe condotto alla morte.
Malgrado il plauso delle autorità, e del solito Vincenzo Monti, tutta l’impresa ebbe giudizi contrastanti: Goethe apprezzò l’accurato lavoro sulle fonti e lo studio profuso nella ricostruzione, Carlo Verri polemizzò invece vivacemente sulla scelta delle copie operata dal Bossi, e Foscolo, dall’esilio svizzero, tuonò contro un’opera vana, fatta mentre l’originale andava in rovina. Una critica più circostanziata dei valori estetici dell’opera di Bossi fu invece fatta da Stendhal, che imputò sostanzialmente alla copia del Cenacolo di non avere indovinato il colorito di Leonardo.
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La Sala della Balla al Castello Sforzesco attorno al 1930 con la Raccolta d’Arte Orientale e la copia del Cenacolo realizzata da Giuseppe Bossi, in una foto di autore anonimo conservata presso l’Archivio civico fotografico.
Dopo alterne vicende, il dipinto di Bossi fu posto, a inizio Novecento, nella sala della Balla al Castello Sforzesco dove fu distrutto dai bombardamenti del 1943 dai quali l’originale rimase invece solo ulteriormente danneggiato.
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La Natura si mette in mostra!
È primavera, la natura pian piano si risveglia e rigogliose fioriture regalano scorci inaspettati a turisti e cittadini distratti a spasso per la nostra città. Nell’anno delle celebrazioni per i cinquecento anni dalla morte di Leonardo (2 maggio 1519), Milano dedica proprio al meraviglioso mondo della Natura numerose mostre, da quella del MUBA, dedicata ai più piccini, a quella appena inaugurata a Palazzo Reale, incentrata sul monumentale Ciclo di Orfeo che per oltre un secolo ha dato lustro a Palazzo Sormani: un’opera unica per le sue dimensioni (23 tele) e per la ricchezza degli esemplari zoologici e botanici rappresentati. 
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Il Ciclo di Orfeo. Particolari. XVII secolo 
Se è vero infatti che la rappresentazione del mondo naturale è sempre stata oggetto di attenzione da parte dell’uomo, questo è forse l’unico caso in cui la magnificenza e la pluralità delle forme di vita sono protagoniste indiscusse di un’opera tanto imponente.
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Il Ciclo di Orfeo. Particolari. XVII secolo
Il che risulta ancor più evidente se facciamo qualche passo indietro nel tempo. Nel Medioevo la rappresentazione della natura aveva avuto innanzitutto lo scopo di mostrare la ricchezza del Creato: le enciclopedie riproducevano animali e piante seguendo schemi convenzionali tramandati dalla tradizione classica e miravano a sollecitare il lettore a ragionare sul senso religioso che vi era collegato. Soprattutto nel caso degli animali, nei bestiari, la rappresentazione non doveva essere mimetica ma simbolica e didascalica, rimandando alla figura di Dio, della Vergine o dei demoni. Bisognerà aspettare il De arti venandi cum avibus di Federico II di Svevia o ancora i taccuini di Giovannino de’ Grassi (1350-1398) e di Michelino da Besozzo (1370-1455) per avere dei disegni che ponessero l’attenzione sull’animale in sé, così come appare nella realtà, e non una sua “stilizzazione astratta”.
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Alcuni particolari dal manoscritto del De arte venandi cum avibus; Giovannino de’ Grassi. Cervo. Taccuino conservato presso la Biblioteca Angelo Mai di Bergamo. Immagine tratta da qui
Diverso era l’intento per le specie botaniche, la cui rappresentazione, sin dall’età classica, era legata principalmente a uno scopo medico-pratico. Anche in questo caso, tuttavia, nonostante fosse fondamentale la verosimiglianza della raffigurazione, per molti secoli si ricopiarono modelli preesistenti senza preoccuparsi di ispirarsi alla natura circostante. Fu la nascita delle prime scuole mediche (a Salerno prima, a Padova poi) e la diffusione dei testi scientifici arabi a stimolare una maggiore attenzione nei confronti della rappresentazione della pianta “dal vero” e all’utilizzo dell’immagine per esplicare il contenuto del testo, esattamente come avveniva nei trattati di matematica e astronomia. 
In Italia settentrionale, dalla seconda metà del Trecento e per circa un secolo si realizzarono i tacuina sanitatis, dei veri e propri prontuari di scienza medica ispirati alla tradizione araba che descrivevano le proprietà mediche di ortaggi, frutti e altri alimenti. Il loro carattere “divulgativo” fece sì che ebbero notevole fortuna nel corso dei secoli successivi, come dimostra il Bomprovifaccia per sani et amalati, un vero e proprio prontuario in formato “tascabile” di tutte le piante conosciute, con indicate le loro virtù interne, esterne e particolari: le incisioni riproducono ancora la tradizione iconografica tipica degli erbari, con la pianta rappresentata dalla radice al fiore e il testo riprende fedelmente i testi classici. 
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Parallelamente a queste pubblicazioni, già dalla fine del XV secolo alcuni pittori e incisori dedicarono maggiore attenzione a una rappresentazione veristica delle piante. In mancanza di un vero e proprio linguaggio scientifico, Leonardo, per esempio, affidava ai disegni la descrizione particolareggiata fin nel più piccolo dettaglio di tutte le sue osservazioni sul meraviglioso mondo della natura e simili sforzi si possono riconoscere nell’opera di Dürer.
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Cl. Petri Antonii Michelii Catalogus plantarum Horti Caesari Florentini opus postumum iussu Societatis botanicae editum, continuatum, et ipsius horti historia locupletatum ab Io. Targionio Tozzettio ..., Florentiae, ex typographia Bernardi Paperinii, 1748: tab. I Acacia; tab. VI Helianthemum vulgare flore luteo
Comincia così un percorso parallelo nella rappresentazione della natura: da una parte continua la rappresentazione scientifica, con la stampa di trattati dedicati alle specie botaniche o a quelle zoologiche a fini didattici; dall’altra si diffonde nelle scuole dell’Europa settentrionale un nuovo tipo di rappresentazione in cui gli esemplari zoologici e botanici vengono inseriti nel loro ambiente naturale, esseri viventi che fanno parte di un paesaggio. 
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Conr. Gesneri Tigurini, ... Historiæ animalium liber 3. qui est de auium natura. Nunc denuo recognitus ac pluribus in locis emendatus, multisque nouis iconibus & descriptionibus locupletatus, ac denique breuibus in margine annotationibus illustratus.... Francofurdi, ex officina typographica Ioannis Wecheli : impensis Roberti Cambieri, 1585: De Noctua; De Ciconia
Si possono riconoscere come preludi della “pittura di paesaggio” le opere della scuola senese del Trecento (Simone Martini e Ambrogio Lorenzetti), ma anche alcune scene di genere già presenti sugli erbari tardoantichi e i tacuina sanitatis; in Italia tuttavia questo tipo di rappresentazione ebbe una scarsa eco (fatta eccezione per alcuni artisti come Pisanello), mentre ebbe fortuna e sviluppo in Francia, nelle Fiandre e nei Paesi Bassi.
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Discorsi di M. Pietro Andrea Mattioli sanese, medico cesareo, ne' sei libri di Pedacio Dioscoride anazarbeo della materia medicinale: colle figure delle piante, ed animali cavate dal naturale.... In Venezia, presso Niccolò Pezzana, 1744
Non a caso il Ciclo di Orfeo per anni è stato attribuito a Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto, artista nato all’inizio del XVII secolo a Genova, la città che in quegli anni vedeva il passaggio e l’opera di grandi artisti fiamminghi come Rubens e Van Dyck, maestri riconosciuti nella rappresentazione del mondo naturale. Gli ultimi studi mettono in dubbio ora questa attribuzione e propongono nuove ipotesi interpretative. Volete saperne di più? La mostra rimarrà aperta fino al 14 luglio, non perdetela! A breve in biblioteca sarà disponibile il catalogo.
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Origine della Certosa di Parma
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Luigi Foscolo Benedetto ha individuato ne La Parma di Stendhal il cenobio di S. Martino di Valserena sulla strada fra Parma e Casalmaggiore come la “Certosa”, dalla geografia tra reale e immaginario presentata da Stendhal nel romanzo.
A chi, magari per semplice curiosità, capitasse di aprire nel portale del Sistema bibliotecario di Milano, di Milano, dal menu a tendina RACCOLTE DIGITALI, la voce Centro Stendhaliano e accedesse poi alla pagina Postille vedrebbe un lungo elenco di titoli linkati che rimandano alle pagine scannerizzate e alle relative trascrizioni di note autografe, redatte da Stendhal, ai libri che facevano parte della sua biblioteca quando era console a Civitavecchia (1831-1842). Si potrebbe obiettare sul notevole impiego di tempo e di risorse impiegati nel decrittare quel corsivo nervoso per brevi glosse di difficile comprensione, ma solo se si pensi al lavoro del critico letterario come a un semplice esercizio di soggettivismo estetico. Per Luigi Foscolo Benedetto l’attività da filologo svolta proprio su uno Shakespeare del Fondo Bucci (dal nome della famiglia di Civitavecchia che acquisì i beni dello scrittore dopo la sua morte) ora in possesso della Biblioteca Sormani è stato l’occasione di una notevole scoperta sull’origine della Certosa di Parma, che ha posto in nuova luce la critica del romanzo.
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La Chartreuse de Parme, par l'Auteur de Rouge et Noir [Stendhal], Paris, Ambroise Dupont, 1839 [prima edizione]
Durante il suo soggiorno romano, Stendhal era andato in cerca per biblioteche e librai di testi redatti da ignoti cronisti tra il XVI e il XVII secolo riguardanti quella che si potrebbe ante litteram chiamare “cronaca nera” italiana di quegli anni. Aveva allora acquistato originali e copie oppure aveva fatto copiare lui stesso quei testi, che in larga parte erano poi stati rilegati in dieci volumi in folio. Si tratta dei manoscritti italiani in possesso della Bibliothèque Nationale di Parigi segnati da 169 a 178. Henry Beyle era molto orgoglioso di quella collezione che si divertiva a sfogliare e postillare nelle non particolarmente brillanti serate di Civitavecchia. Tra il maggio del 1836 e l’agosto del 1839, Stendhal ebbe una sorta di “aspettativa” che trascorse a Parigi, dove poté dedicarsi al mestiere di scrittore. Propose fra l’altro alla “Revue des deux Mondes” la regolare pubblicazione dell’adattamento romanzesco delle cronache raccolte a Roma. Videro così la luce: Vittoria Accoramboni, La badessa di Castro, I Cenci, La duchessa di Palliano, ecc. Questi testi furono raccolti dopo la sua morte con il titolo Cronache italiane. L’Origine delle grandezze della famiglia Farnese fu invece pubblicata come una semplice traduzione appena rimaneggiata. L’originale era un piccolo libello con cui l’ignoto autore intendeva mostrare che una delle casate principesche più illustri del suo tempo, tale non sarebbe stata se il suo fondatore, Alessandro, non avesse avuto l’aiuto di una parente, concubina del famigerato Rodrigo Borgia divenuto papa col nome di Alessandro VI, per diventare cardinale a soli ventiquattro anni e, più tardi, a propria volta pontefice (Paolo III).
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Papa Paolo III (1468-1549) con i nipoti Alessandro e Ottavio nel celebre ritratto di Tiziano, oggi a Capodimonte.
Se nella sostanza i fatti riportati corrispondono, come da altre più accreditate fonti, a verità, così come la notizia della detenzione e fuga di Alessandro Farnese da Castel Sant’Angelo e dei suoi amori continuati anche da porporato con una certa Cleria, il libello è privo di valore storico e il suo autore ha cucito insieme le notizie che è riuscito ad avere con approssimazione e fantasia. Stendhal non pare essersi accorto dello scarso valore storiografico dell’Origine, probabilmente per la simpatia ispiratagli da subito dal protagonista, che sostituì il traduttore col romanziere-poeta. La sua cultura artistica gli permetteva tra l’altro di intravedere tra il giovane dissoluto e l’austero pontefice una continuità passionale sublimata nel mecenatismo. Il nome del papa era inseparabile fra l’altro da quello di Michelangelo, al quale aveva commissionato l’affresco del Giudizio universale. Il 16 agosto del 1838, in una nota autografa, Stendhal manifesta l’intenzione di trasformare l’Origine in un “romanzetto”. Non è dato di sapere a cosa effettivamente pensasse, ma certamente abbandonò da subito, se mai l’ebbe, l’idea di rendere protagonista di un suo romanzo un papa rinascimentale. La storia doveva essere ambientata nel presente immaginario dell’Italia a lui contemporanea, a testimoniare il legame rimaneva tuttavia il nome del protagonista: Alexandre.
La nota allo Shakespeare del Fondo Bucci testimonia la definitiva cesura formale:
 “Le 8 novembre [1838] je corrige le dit Vater [Waterloo] et je change Alexandre en Fabrice”.
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Oeuvres dramatiques de Shakspeare, traduites de l'anglais par Letourneur. I. Nouvelle édition précédée d'une notice biographique et littéraire, par Mr. Horace Meyer [...], Paris, Impr. de A. Saintin, 1835
Nella sostanza tuttavia nella Chartreuse permangono i temi idealizzati dell’Origine: una bella zia protegge un nipote sincero e ardente (Fabrizio/Alessandro), fatto per l’azione, nella sua carriera di ecclesiastico, dopo che la partecipazione alla battaglia di Waterloo gli ha precluso quella delle armi, e riesce a coinvolgere il suo amante Primo ministro di un piccolo Stato (Rodrigo/conte Mosca) nell’operazione. Rimane anche quasi inalterato il nome del grande amore del protagonista, la soavissima Clelia, figlia del governatore dell’immaginaria cittadella di Parma, nella cui descrizione non è difficile ravvisare quella di Castel Sant’Angelo.
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Castel Sant’Angelo in una stampa del 1835
Contro di loro, rappresentanti di ciò che ancora esiste dell’ideale stendhaliano di società, intrigano e complottano degli ambiziosi, a loro inferiori sotto ogni aspetto. Stendhal scrisse La Chartreuse de Parme, che fu pubblicata nell’aprile del 1839, in soli due mesi per scongiurare (come ha messo in risalto Marc Fumaroli) il pessimismo (la prima idea per il titolo del romanzo era non a caso La Chartreuse noire) rispetto a un mondo in cui la lotta incessante per il denaro e le comodità materiali avevano messo ai margini l’immaginazione, l’allegria, i piaceri della compagnia, le passioni amorose e le arti, ossia tutto ciò che per lo scrittore rendeva la vita degna di essere vissuta.
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La Strenna per l’anno che verrà. Ovvero quando l’augurio è impresso in un libro
Tra i più bei doni che si possono fare a Natale, si sa, ci sono i libri. Di narrativa, fotografia, storia, qualunque genere voi scegliate, il libro che regalerete sarà un dono apprezzato da chi lo riceverà. Lo sanno bene le case editrici che da più di due secoli allestiscono per Natale strenne editoriali dalle vesti eleganti per farne dono agli estimatori più affezionati. Ma cosa sono le strenne? E da dove prendono il nome? L’origine delle strenne è antichissima e risale addirittura a un uso in voga ai tempi della Roma imperiale.  Infatti il 1° gennaio, giorno dedicato a Ianus, il dio bifronte che con un volto guarda indietro e con l’altro guarda avanti, i Romani erano soliti porgere gli auguri per il nuovo anno regalando vasi che contenevano miele, datteri o fichi e che erano avvolti da ramoscelli di alloro. Questi rametti venivano staccati da un boschetto sulla via sacra consacrato a Strenia, una dea di origine sabina apportatrice di fortuna e felicità, motivo per cui questi rametti di alloro venivano chiamati strenae   (A. Cattabiani, Calendario. Le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno, Milano, Rusconi, 1988). Col tempo, il termine strenna passò a indicare più genericamente il dono in sé e, quindi, a essere utilizzato per le preziose edizioni a tiratura limitata realizzate per Natale. 
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Ricordo d'amicizia. Dono pel capo d'anno e pei giorni onomastici, Milano, C. Canadelli, [1846?]; E. De Marchi, Le quattro stagioni. Strenna a beneficio dei Rachitici, Milano, Cooperativa Editrice Italiana, 1892
La strenna editoriale quale la conosciamo noi di fatto nacque tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo in Inghilterra, dove per augurare un nuovo anno propizio si diffusero due particolari forme di pubblicazioni. Da una parte vi erano i calendari lunari, ovvero gli almanacchi di taglio e destinazione popolare, contenenti pronostici meteorologici, brevi racconti, consigli di economia domestica e proverbi destinati a scandire il tempo di contadini, artigiani e piccoli commercianti; dall’altra le raffinate strenne editoriali destinate alla classe borghese, o keepsake (pegno d’amore, dono propiziatorio per l’anno nuovo), curate in ogni minimo dettaglio, dalla rilegatura ai capilettera.
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Keepsake français. Souvenir de littérature contemporaine, Paris, Louis Janet, [18..?!
Sul modello inglese, nel 1830 viene pubblicato a Parigi il primo “Keepsake français ou souvenir de Littérature contemporaine” con alcuni brani dei più grandi autori della letteratura del tempo introdotti da La maison d’Aspen, la tragedia di Sir Walter Scott tradotta dall’inglese. Tra gli altri vi segnaliamo la breve biografia di Michelangelo Buonarroti scritta e firmata dal “nostro” Monsieur De Stendhal.
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Non ti scordar di me. Strenna pel capo d'anno ovvero pei giorni onomastici, compilata per cura di A. C. Pubblicata a Milano da Vallardi dal 1831 al 1847. N. 1
La prima strenna italiana, invece, venne stampata due anni più tardi a Milano per i tipi di Vallardi. Il titolo, Non ti scordar di me, rimandava al fiore che per antonomasia è il simbolo del ricordo e del pensiero affettuoso. Il prezioso volumetto di 216 pagine si ispirava nella struttura e nell’intento alle étrennes francesi e ai Keepsakes inglesi e, come si affermò nell’introduzione, raccoglieva “molte scritturine siano in prosa, siano in versi, di svariatissimo genere, nuove e prodotte da quante, fra le colte penne che sono ‘Decoro e mente al bello italo regno’, si vorranno pur degnare di offrir un dono, lieve per esse, ma prezioso per la parte più venusta e gentile della società, a cui sarà destinato… La veste, per così dire, festiva, le incisioni analoghe ai componimenti, e caldamente raccomandate al bulino di buoni artisti, e la nitida stampa concorreranno a rendere cotali Strenne graditi presenti fra persone che s’amano”.
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“Strenna italiana per l'anno ...” Milano, Paolo Ripamonti Carpano, 1834-1894; “Strenna femminile Italiana per l'anno...”,  Milano, presso Paolo Ripamonti Carpano, 1837-1839
Da allora, nel giro di pochi anni fiorirono centinaia di strenne editoriali che assunsero sempre più l’aspetto di miscellanee di testi, talvolta giustapposti in modo quasi casuale. Facevano eccezione tuttavia la “Strenna Italiana”, che mantenne sempre una certa raffinatezza anche nella scelta degli autori, e la “Strenna femminile italiana”, composta e illustrata da donne colte e appartenenti a illustri famiglie del tempo che affrontavano anche tematiche sociali e politiche. (Notti di dicembre. Racconti di Natale, a cura di G. Padovani e R. Verdirame, Palemo, Sellerio, 2001)
Era in atto dunque un cambiamento nello stile e nei temi delle strenne: dal libro inteso come oggetto piacevole da sfogliare ed esibire, si stava passando al libro pensato per far riflettere e trasmettere degli insegnamenti. Le stesse novelle prendevano spunto da argomenti commoventi e talvolta patetici che  denunciavano tematiche sociali attuali, come l’oppressione di classe, e allo stesso tempo ponevano l’accento sui buoni sentimenti, sull’importanza della famiglia e la speranza di un risarcimento di un’ingiustizia subita. Questi temi diventarono il fil rouge del tipico racconto di Natale, costruito sempre più intorno a motivi legati all’infanzia, spesso turbolenta o addirittura negata (si pensi al modello di Dickens o alle fiabe dei fratelli Grimm e di Andersen), incentrato su protagonisti bambini e rivolto soprattutto a loro.
Ma questa è un’altra storia e ve la racconteremo la prossima volta.
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A. Vertua Gentile, Il Natale dei Fanciulli, Milano 1895; G. Fattori, I racconti della notte di Natale, Roma, 1909 (frontespizio e illustrazione)
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Un anticonformista
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Carlo Cattaneo, Ritratto giovanile, xilografia
Nelle raccolte di opuscoli che i bibliotecari di un tempo legavano insieme, per analogia di contenuti e di anni di edizione, onde evitarne la dispersione, figura una raccolta di scritti curata da un Comitato elettorale milanese del 1860: si tratta di una miscellanea di brani estratti dalle opere di Carlo Cattaneo compitala per screditarlo nei confronti degli elettori del nuovo Parlamento italiano. Un’operazione spesso ripetuta anche dal giornalismo attuale. In effetti, dagli stralci riportati, il Nostro nelle memorie: Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra non era stato leggero nell’esprimere la propria contrarietà all’unificazione della Lombardia agli Stati sabaudi: 
“Alle servitoresche ambizioni di corte sono complici molte famiglie illustri di Genova, di Milano, di Piacenza, di Bologna, e perfino di Firenze e perfino di Venezia, che ignari, o immemori dei loro domestici fasti, immemori dei padri loro, non sanno che il loro posto è avanti ai popoli non dietro ai re ... e i Milanesi particolarmente e i Cremonesi, e i Bresciani i quali, non famelici, né accalappiati da militare giuramento, accondiscendano a rimanersi in Piemonte, e pongano anzi mano in quelle politiche rappresentanze, se ancora non intendono che furono traditi due volte, e che tosto e sempre lo saranno, sono ebeti del tutto e orbi dell’intelletto. E se intendendo e credendo, prostituiscono tuttavia la persona loro nel corteo del traditore, non mostrano dignità d’uomo; e insultano le miserie della patria. Il popolo se ne ricorderà un giorno. E più facilmente oblierebbe d’averli visti ciambellani dell’Austria: perocchè traditore è peggio che nemico.” (Il circolo elettorale milanese della società nazionale italiana ha deliberato di presentare agli elettori le seguenti informazioni, [1860])
Di fatto, anche se Cattaneo fu poi eletto deputato, non mise mai piede in Parlamento per non dover effettuare il giuramento monarchico, come accadde anche nel 1865, preferendo continuare a insegnare in un liceo di Lugano. Poco incline alle prese di posizione ideologiche e alle illusioni utopistiche, Carlo Cattaneo (morto il 6 febbraio di centocinquanta anni fa) si era abituato, come dichiarava nel primo numero de “Il Politecnico”, la rivista da lui fondata nel 1839 a “appianare ai nostri concittadini […] la più pronta cognizione di quella parte di vero che dalle ardue regioni della Scienza può facilmente condursi a fecondare il campo della Pratica, e crescere sussidio e conforto alla prosperità comune ed alla convivenza civile”.
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Il politecnico : repertorio mensile di studj applicati alla prosperita e coltura sociale, Milano : L. Pirola, 1839-1865
Questa attitudine, unita a una scarsa propensione a opportunismi e compromessi, lo avevano reso un estraneo in patria. Estraneità pagata coi lunghi anni di esilio, prima in Francia e poi in Svizzera, a seguito dell’attiva partecipazione alle Cinque Giornate, e poi con le angherie e meschinità del governo italiano, che gli negava gli stipendi arretrati di membro dell’Istituto Lombardo, già sequestratigli da Radetzky, che gli rifiutava la nomina a segretario di quel medesimo Istituto, tentando perfino di negargli la cittadinanza italiana, col pretesto di aver ottenuto dalla Svizzera quella d’onore, e contestandogli il godimento della pensione d’insegnante.
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Carta idrografica del Po allegata a: C. Cattaneo, Notizie naturali e civili su la Lombardia, Milano : G. Bernardoni, 1844.
Osteggiato e scomodo in vita, elogiato, ma poco seguito (e poco letto, anche a causa del desueto italiano ottocentesco, fatte salve le antologie curate da Salvemini e Galasso), in morte, Carlo Cattaneo resta estremamente attuale per almeno due intuizioni fondamentali: il federalismo in politica e quello che oggi chiameremmo sviluppo ecocompatibile.
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A. Inganni, Il giardino della villa Richiedey alla Santissima di Gussago, Brescia, Galleria d’Arte moderna, riprodotto in: Il volto della Lombardia : da Carlo Porta a Carlo Cattaneo : paesaggi e vedute 1800-1859/ Maria Cristina Gozzoli, Marco Rosci,  Milano : Gorlich, 1975 
Il primo principio nasceva dall’intuizione che:
“Ogni popolo può avere molti interessi da trattare in comune con altri popoli; ma vi sono interessi che può trattare egli solo, perché egli solo li sente, perché egli solo li intende. E v’è inoltre in ogni popolo anche la coscienza del suo essere, anche la superbia del suo nome, anche la gelosia dell’avita sua terra.” (Le più belle pagine di Carlo Cattaneo / scelte da Gaetano Salvemini, Milano, F.lli Treves, 1922, p. 92)
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Mappa botanica della Lombardia, allegata a Notizie naturali e civili su la Lombardia , ibidem.
Notava tuttavia Cattaneo che, a partire dal Decreto del 23 giugno 1804, proprio per quel che concerneva il mattone fondamentale dell’ordinamento federale: il Comune,  l’unico diritto era ormai il diritto di obbedienza: “Il comune è l'ultima appendice e l'infimo strascico della prefettura e della viceprefettura. Il comune non è più il comune. Tutto il sistema è una finzione. Nel 1814, i podestà e i consigli nominati dal re non mossero un dito a salvare il regno. Alcuni di essi accolsero gli Austriaci, facendo suonar le campane a festa. Tale è la solidità delle istituzioni burocratiche. Chi semina la servilità, raccoglie il tradimento”. (Le più belle pagine di Carlo Cattaneo / scelte da Gaetano Salvemini ; postfazione di Luciano Cafagna, Roma : Donzelli, 1993, p. 105) Anche la ricchezza lombarda della seconda metà del Settecento era ricondotta dal Nostro alla presenza di un numero notevole di piccoli comuni in grado di gestire bisogni e interessi locali mantenendo un rapporto costante e diretto fra amministratori e amministrati. Quel modello si era perduto con l’accentramento, prima francese poi sabaudo, a favore di un corpo burocratico opaco e impenetrabile in grado di vanificare il reale controllo da parte dei cittadini ridotti a sudditi di un monarca tanto impersonale quanto assoluto. La lezione federalista di Cattaneo aveva peraltro anticipato il pericolo di una prevalenza delle forme amministrative più arretrate nel caso di unificazione affrettata.
Il secondo principio deriva dal primo in quanto legato, per così dire, alla “biodiversità” connessa alle specificità dei singoli popoli, a cui proposito, proprio in riferimento alla Lombardia, aveva orgogliosamente rivendicato il merito all’operato degli uomini di aver corrisposto alla “cortese natura” nel rendere il paese “ubertuoso e bello e nella regione dei laghi forse il più bello di tutti […]”(C. Cattaneo, Notizie naturali e civili su la Lombardia, Milano, coi tipi di Giuseppe Bernardoni di Giovanni, 1844, cxii).
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G. Bisi, Veduta di Lecco, Milano, collezione privata, riprodotta in Il volto della Lombardia : da Carlo Porta a Carlo Cattaneo : paesaggi e vedute 1800-1859 , ibidem.
Un aspetto ancora confermato negli anni Venti del secolo scorso da un insospettabile testimone, Romano Guardini, che poteva indirizzarsi così a un immaginario corrispondente del Nord Europa: “Quando passai attraverso le valli della Brianza, da Milano al lago di Como […] non volevo credere ai miei occhi. Dappertutto una terra abitata. Vallate e pendii ricoperti di borgate e cittadine. Tutta quanta la natura lavorata e modellata dall’uomo. Ciò che si chiama cultura nel senso più raffinato, mi si presentava nella forma più armoniosa (R. Guardini, Lettere dal lago di Como. La tecnica e l’uomo, Brescia, Morcelliana, 2001, pp. 11-12)”.i
Tra le altre osservazioni si potrebbe notare il richiamo a una tradizione per la quale Politica e Cultura non sono realtà distinte, dal momento che anche la politica è cultura nel senso più alto, di Arte del Buon Governo.
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Aldo Carpi. Una vita salvata dall’arte
“C’è tanto male oggi nel mondo, tanto soffrire che dovrebbe l’artista diventare apportatore di pace e di gioia spirituale tra gli uomini; questo può fare l’artista, perché egli vede e sente ciò che gli altri non vedono e non sentono; l’artista può essere allora, nell’ombra che avvolge gli uomini, un segno di luce; anche la più piccola basterebbe” (Aldo Carpi. 1939).
Con queste parole l’artista milanese Aldo Carpi, nel dicembre del 1939, introduceva la propria mostra personale alla Galleria Gian Ferrari di Milano. Parole forti, che dimostrano una visione lucida e smaliziata di quello che si stava preparando nel mondo e che lui stesso avrebbe subito in prima persona, ma anche parole di speranza verso il potere salvifico dell’arte. Aldo Carpi De' Resmini nacque a Milano il 6 ottobre 1886. Mostrando sin da bambino una precoce attitudine artistica, a dodici anni prese lezioni dal pittore Stefano Bersani e sette anni più tardi frequentò all'Accademia di Brera i corsi di Cesare Tallone, insieme ad Achille Funi, Emilio Gola e Carlo Carrà.
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1-Carlo Carrà. Ritratto eseguito da Giacomo Manzù nel 1945. Fotografia [Archivio Aloi Biblioteca Comunale di Milano]; 2- Achille Funi. Riproduzione dell’autoritratto dell’autore. 1890 [Archivio Aloi Biblioteca Comunale di Milano]; 3- Emilio Gola. Autoritratto dall’Iconoteca G. Scheiwiller [Archivio Aloi Biblioteca Comunale di Milano]
Diplomatosi nel 1910 con il massimo dei voti alla scuola di nudo, due anni più tardi cominciò a esporre alle mostre di Brera e alla Biennale di Venezia, alla quale partecipò quasi ininterrottamente fino all’edizione del 1952. Allo scoppio del primo conflitto mondiale fu inviato in Albania, dove realizzò una serie di disegni che ritraevano la ritirata serba, raffigurando “dal vero” la tragedia della guerra in tutto il suo orrore. Una volta congedato, dal 1919 riprese a tempo pieno la sua attività di pittore: espose le sue opere presso prestigiose gallerie d’arte e sedi pubbliche milanesi (come il Circolo della Stampa, la Famiglia Meneghina, la Permanente e Palazzo Reale) e ottenne premi e riconoscimenti anche in ambito internazionale.
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4-Daniele Fontana. Aldo Carpi. Caricatura, carboncino acquarello. Associazione Culturale Biblioteca Famiglia Meneghina-Società del Giardino. Immagine edita in: Milano e la sua memoria. Il teatro dialettale e le nuove acquisizioni bibliografiche, a cura di Marina Bonomelli, Milano, 2011
Nel 1930 gli venne assegnata la cattedra di pittura dell’Accademia di Brera. Insegnante generoso ed entusiasta, Carpi rispettava la libertà espressiva dei suoi allievi, le loro inclinazioni e la “dimensione personale” della loro arte, senza imporre dettami “circa il colore e la forma” (Aldo Carpi, testo di Leonardo Borgese, Milano, Amilcare Pizzi, s.d.). Egli stesso infatti amava sperimentare diverse tecniche artistiche, passando dalla pittura su tela all’affresco, dal disegno all’incisione, e si dilettava a cimentarsi in temi iconografici vari, dal ritratto al soggetto religioso e al paesaggio “attraverso l’eccellenza di uno stile originale” (Il Vangelo di Aldo Carpi. Le vetrate provenienti dalla Cappella delle Suore del Cenacolo donate al Museo Diocesano, a cura di Paolo Biscottini, Milano, Museo Diocesano, 2006).
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5-Aldo Carpi. Giovanna. 1925. Fotoriproduzione del dipinto.  [Archivio Aloi Biblioteca Comunale di Milano]; 6-Aldo Carpi. Autoritratto. Riproduzione fotografia incollata su cartoncino. Dalla iconoteca G. Scheiwiller.  [Archivio Aloi Biblioteca Comunale di Milano]; 7- Aldo Carpi. Signora in rosa  Fotoriproduzione del dipinto.  [Archivio Aloi Biblioteca Comunale di Milano]
Questo spiega l’unicità della sua arte e l’eterogeneità degli artisti che si formarono e lavorarono con lui: da quelli che aderirono a “Corrente”, come Ennio Morlotti, Bruno Cassinari, e Aligi Sassu, al gruppo del “realismo esistenziale” degli ultimi anni cinquanta, come Bepi Romagnoni, Mino Ceretti e Giuseppe Banchieri, a molti altri non iscrivibili a un particolare movimento artistico del Novecento.
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8-Modulo inviato da Roberto Aloi all’artista per poter compilare la voce su di lui per il Dizionario degli artisti che stava preparando. Il modulo è interamente compilato da Aldo Carpi. [Archivio Aloi. Biblioteca Comunale di Milano]
Nel gennaio 1944 tuttavia la sua vita ebbe una svolta inaspettata. Un collega delatore informò i fascisti delle origini ebraiche del pittore: Carpi venne arrestato, condotto a San Vittore poi a Mauthausen e infine a Gusen, dove annotò su foglietti, che nascondeva in fondo alla tasca della sua tuta, uno sconvolgente diario fatto di frasi pigiate e tremanti. Aldo Carpi riuscì a salvarsi perché era un pittore. Era stato messo a lavorare nelle cave finché, per caso, non venne scoperto il suo talento da uno sei suoi aguzzini: i generali nazisti cominciarono a commissionargli dipinti e due medici polacchi gli permisero di rimanere in uno sgabuzzino dell’ospedale a dipingere: in un anno di lagher fu costretto a realizzare decine di quadri per i suoi carnefici, a tempera o ad olio, per lo più ritratti di parenti copiati dalle fotografie o paesaggi italiani disegnati “a memoria”. Dopo la liberazione persino i soldati americani lo trattennero alcune settimane per farsi fare dei ritratti.
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9-Aldo Carpi. Le fuggitive. 1939. Dipinto. Immagine edita in Aldo Carpi alla Galleria Gian Ferrari, Milano, 1940 [Archivio Aloi. Biblioteca Comunale di Milano]
Quando finalmente tornò a casa, per due giorni riversò addosso alla sua famiglia il ricordo di tutto l’orrore che aveva vissuto, poi non ne volle più parlare e non volle nemmeno più riprendere in mano quei foglietti. Sarà il figlio Pinin a occuparsene e a “ricucire insieme” i ricordi del padre per poi pubblicarli nel 1971 con il titolo “Diario di Gusen”, probabilmente l’unico esempio di diario uscito da un campo di concentramento.
Rientrato dalla guerra, dovettero trascorrere alcuni anni prima che Carpi provasse a raffigurare gli orrori del lagher. Scriveva infatti: “Riprendo e continuo la vita: nell’apparenza come prima, con lo stesso slancio, con lo stesso spirito. Così come noi tutti.Ma quanto siamo cambiati!…Non ho qui i miei ultimi lavori perché ho dovuto vagare troppo lontano, tra uomini sconosciuti ed oscuri. I miei ultimi lavori sono dentro il mio spirito nascosti. Domani vedremo.”
Realizzò poi una serie, intitolata Carabinieri, tesa a far riflettere sul tema del potere e sull’ingiustizia da esso generata. Nel frattempo era stato nominato direttore dell’Accademia di Brera con un’acclamazione pubblica che riconosceva in lui un esempio, “un maestro, nell’arte come nella vita”. Aldo Carpi visse altri vent’anni, dedicandosi all’arte e agli artisti con la stessa generosità che aveva contraddistinto la sua vita prima della guerra, ma con un nuovo stato d’animo di silenzioso e continuo lutto, perché quegli anni terribili lo avevano “umiliato e offeso, e con lui avevano umiliato e offeso atrocemente tanti uomini”.
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10-Riproduzioni fotografiche di opere di Aldo Carpi tratte da Il Vangelo di Aldo Carpi. Le vetrate provenienti dalla Cappella delle Suore del Cenacolo donate al Museo Diocesano, a cura di Paolo Biscottini, Milano, Museo Diocesano, 2006.
Quest’anno, per la giornata della memoria, vi proponiamo di riscoprire la figura di Aldo Carpi leggendo il suo diario,andando in cerca della sua arte e, se volete, riscoprendo alcuni appunti di Roberto Aloi su Carpi e gli artisti che si formarono con lui e con la sua arte.
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Il sonno della ragione
In che misura il contesto politico-sociale condizioni l’arte o quanto gli artisti anticipino nella loro espressione ciò che più tardi si impone come una percezione comune della realtà è un problema che risalta evidente per la generazione che ha vissuto la guerra del 1914-18. Che cosa hanno in comune i luminosi manifesti di Dudovich o le strisce di Sergio Tofano con una pubblicazione come questa? I committenti certo.
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Gli unni ... e gli altri / idee e motti di Giannino Antona-Traversi ; disegni di G. Ardy, A. Bonzagni, A. Cagnoni, L.D. Crespi, M. Dudovich, L. Dudreville, A. Mazza, E. Sacchetti, S. Tofano (Sto), R.C. Ventura, sculture di V. Franco, Milano : Rava, [1915?]
Ma alcuni artisti non si sono limitati a guerreggiare con la matita e col pennello: molti di loro, coscritti o volontari che fossero parteciparono al conflitto. Alcuni di essi, conosciuto l’orrore delle trincee, rinnovarono il genere iconografico della danza macabra come l’artista boemo Alfred Kubin e l’artista tedesco Otto Dix. Essi erano stati preceduti su questa via, fin dal 1914, da Alberto Martini (1876-1954).
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La Danza macabra europea : litografie colorate. Prima serie : 12 litografie a penna e tre matite / di Alberto Martini. - Treviso : D. Longo, 1914
I movimenti espressionisti in pittura erano nati tuttavia prima del conflitto, quando l’ottimismo della Belle Epoque non era stato messo ufficialmente in discussione. Il movimento tedesco Die Brücke (il ponte) risale al 1905 e trae ispirazione sia dalle testimonianze figurative delle popolazioni extraeuropee che da quelle della cultura tedesca del Quattrocento, in particolare dalle xilografie, con l’espresso intento di denuncia sociale di forze disumanizzanti che come le pestilenze e le guerre vissute dagli antenati lasciavano presagire l’Apocalisse.
Negli anni giovanili Martini aveva collaborato con diverse riviste non solo italiane ma anche tedesche come Jugend, che segnarono molto la sua ricerca stilistica, soprattutto per le influenze del movimento secessionista.
L’estro di Martini si manifesta tuttavia così eclettico da poter utilizzare diversi registri improntati dal liberty e dall’espressionismo, con anticipazioni surrealiste.
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La Danza macabra europea : litografie colorate. Prima serie : 12 litografie a penna e tre matite / di Alberto Martini. - Treviso : D. Longo, 1914 
Come risulta da un foglietto illustrativo allegato alla quarta serie delle cartoline, la prima serie della Danza macabra europea fu edita nell’ottobre del 1914; la seconda seguì nel dicembre dello stesso anno; la terza nel febbraio del 1915, la quarta nell’agosto e la quinta nei primi mesi del 1916. “Il messaggio della Danza Macabra Europea era però troppo forte, troppo personale e trascendeva troppo la contingenza del momento per prestarsi a un esplicito uso propagandistico. Il suo influsso diretto rimase dunque abbastanza limitato.
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La quarta danza macabra europea : 6 litografie colorate originali / di Alberto Martini. – Treviso : D. Longo, 1916.
Ma è probabile che la diffusione parigina delle sue opere spingesse lo Stato Maggiore francese, e di altre nazioni, ad affiancare le cartoline ai cannoni”. (E. Storani, Le cartoline di Alberto Martini, in Danza macabra europea. La tragedia della Grande Guerra nelle 54 cartoline litografate, saggi a cura di Andrea Mulas, iconografia a cura di Maria Pia Critelli, Recco, Le mani, 2008)
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La terza danza macabra europea : 12 litografie colorate originali / di Alberto Martini. – Treviso : D. Longo, 1915.
Secondo gli orientamenti storiografici attualmente prevalenti non erano state tuttavia l’intransigenza dell’Austria o l’ostinazione dei serbi a rendere inevitabile un conflitto locale, allargatosi rapidamente su scala europea e poi mondiale, ma la rivalità germano-britannica che aveva portato a una situazione di impasse il complicato equilibrio della balance of powers europea seguito alle guerre napoleoniche, al punto da far desiderare a molte cancellerie una guerra che ovviasse alla paura di un attacco improvviso e insieme al timore della rivoluzione sociale.  Lo scoppio della guerra mise altresì in luce l’impersonalità del potere negli organi statali giunti all’apogeo della loro forza. La Grande guerra fu pertanto avvertita dai contemporanei come qualitativamente diversa: il primo conflitto moderno combattuto con mezzi e strumenti nuovi, preludio all’avvento di mondo e di un uomo “nuovi”, ostacolati da forze che era necessario esorcizzare come demoniache, delle quali si continuò a urlare nelle piazze dell’Europa sconvolta dalla guerra, anche dopo che quasi dieci milioni di soldati erano morti in combattimento e circa il triplo erano rimasti feriti o mutilati.
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La quinta danza macabra europea : 12 litografie colorate originali / di Alberto Martini. – Treviso : D. Longo, 1916.
Anche oggi la presenza di masse di “apolidi” (per usare l’espressione cara a Hannah Arendt) si contrappone al ruolo crescente di burocrazie non elettive, selezionate (quando va bene) sulla base del merito mentre la raccolta telematica sta ponendo le basi di una nuova rivoluzione tecnologica. Tutto ciò non è andato tuttavia di pari passo con una modifica della rappresentanza democratica in grado di salvaguardare quest'ultima dai rischi insiti nello sviluppo incontrollato di reti e burocrazie, rendendo tra l’altro impossibile ogni ricambio sociale. La prova si è avuta con la crisi finanziaria del 2008. Milioni di persone hanno perso i propri risparmi ma il sistema finanziario globale è rimasto sostanzialmente immutato. I poveri sono diventati ancor più poveri, mentre i ricchi si arricchivano ulteriormente. Rispetto al Novecento la satira per immagini non ha più lo stesso effetto dirompente. Internet riesce talvolta ad assicurare a un settore ormai residuale una tragica fama presso società premoderne, ma la guerra di parole, esorcizzata la violenza manifesta, è scandita piuttosto da campagne sistematiche di disinformazione.
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Cerco un Paese Innocente
All’alba del 24 ottobre 1917 le artiglierie austro-germaniche cominciarono a colpire le posizioni italiane dall’alto monte Rombon all’alta Bainsizza. Iniziò così un attacco serrato che provocò, nel giro di poche ore, la più grave disfatta della storia dell’esercito italiano. A Caporetto, tuttavia, l’esercito e l’intero Paese risposero reattivamente con provvedimenti finalizzati a evitare il tracollo: la sostituzione del Generale Cadorna con Armando Diaz, la riorganizzazione dell’esercito, la chiamata alle armi dei ragazzi del ’99, le sottoscrizioni per sostenere lo sforzo bellico e l’istituzione del Servizio P, un sistema articolato che aveva l’obiettivo di assistere le truppe materialmente, di risollevarne gli animi e di risvegliare in loro lo spirito patriottico.
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,1- Cesare Annibale Musacchio. Ritratto di Armando Diaz, 1918. Collezione Isolabella; 2-Manifesto promozionale per la sottoscrizione al Quinto Prestito Nazionale. Collezione Isolabella; 3-”Sempre Avanti”. Tavola. Collezione Isolabella
A questo scopo, il 29 marzo 1918, il Servizio P approvò, con una circolare, la redazione di “giornaletti satirico-umoristici d’Armata da diffondersi tra le truppe il più largamente possibile”. La stampa di questi fogli era affidata ai singoli Corpi e la loro compilazione coinvolgeva direttamente combattenti di ogni ordine e grado: compaiono tra i nomi dei redattori anche quelli di giovani artisti e letterati non ancora affermati, come Bontempelli, Jahier, De Chirico, Carrà, Sironi, Ungaretti e Soffici. Nel corso dell’anno i giornali di trincea cominciarono ad aumentare le tirature e a diffondersi anche lontano dal campo di battaglia, creando un ulteriore legame tra il fronte e il paese civile.
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4-”La Ghirba”. 7 aprile 1918. Collezione Isolabella; 5-”Il Montello. 20 settembre 1918. Collezione Isolabella; 6-”La Trincea”. 10 novembre 1918. Collezione Isolabella 
Arruolatisi sia nei corpi volontari sia in quelli regolari, gli artisti e gli scrittori soldato, inoltre, documentavano su taccuini e album le fasi dei combattimenti e i momenti della vita in trincea. Attraverso schizzi, appunti, abbozzi,riflessioni e veri e propri dipinti, cercavano di descrivere l’inesprimibile tragedia con parole e immagini che ancora oggi costituiscono una fonte fondamentale per la ricostruzione storica di quegli avvenimenti.
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7-Anselmo Bucci. Imbarco. Collezione Isolabella.
 Non a caso in trincea videro la luce alcune tra le pagine più intense della letteratura del primo Novecento italiano: dalle riflessioni di Soffici e Stuparich al diario di Gadda, dal racconto nitido di Lussu allo sgomento di Ungaretti davanti alla fragilità della condizione umana. Pagine dolorose che stridono con quelle di Marinetti e D’Annunzio che celebravano le spettacolari imprese personali e sostenevano con eccitazione il conflitto in atto.
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Avrete ormai intuito che quella che vi stiamo presentando è la mostra che la Biblioteca Sormani ha organizzato per ricordare il centenario della conclusione della Grande Guerra. Una mostra che ripercorre mese per mese l’ultimo anno del conflitto attraverso lo sguardo e i racconti di scrittori e artisti e i documenti delle raccolte della Biblioteca e della Collezione Isolabella.
Perché rievocare, a distanza di cent’anni, questa pagina di storia? Non certo per manie di grandezza, né per rinfocolare vecchi conflitti che hanno fatto il loro tempo. La memoria della Grande Guerra non deve andar persa per almeno due ottimi motivi: per rendere omaggio, da un lato, alle diverse centinaia di migliaia di soldati che furono sacrificati sull’altare dell’indipendenza e dell’unità nazionale, ma anche, dall’altro, per alimentare nelle nostre coscienze l’orrore della guerra (Giuseppe Langella, curatore della mostra insieme a Luigi Sansone). Tutti i dettagli della mostra li trovate qui.     
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Caporetto. Il fulmine cui seguì il baleno
A cento anni esatti dalla conclusione della Prima Guerra Mondiale, 4 novembre 1918, la Biblioteca Sormani ripercorre le fasi dell’ultimo anno di conflitto attraverso due esposizioni di testimonianze inedite. Nello spazio mostre all’ingresso della Biblioteca, già da alcuni giorni è possibile ricostruire le fasi della disfatta di Caporetto, attraverso mappe e documenti che scandiscono, momento per momento, le fasi più incerte di tutto il conflitto.
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1-Spazio espositivo della mostra. Foto di Nicola Nicodemi
Ecco i fatti. Siamo nell’ottobre 1917. Caporetto, un piccolo paese all’incrocio tra il corso dell’Isonzo e la valle del Natisone, oggi in Slovenia, è uno dei punti strategici in cui si stanno affrontando le truppe italiane e quelle austriache. Il Generale Luigi Capello, al vertice della II Armata, di stanza vicino a Caporetto, in quei giorni viene colto da un severo attacco di nefrite, tanto che l’11 ottobre, per l’acutizzarsi della malattia, il Comando Supremo decide di sostituirlo provvisoriamente con il Gen. Luca Montuori, l’allora comandante del II C.d.A. dislocato sulla Bainsizza. L’improvvisa sostituzione al comando delle truppe determina una inevitabile situazione di incertezza e confusione tra ordini già dati e ordini in corso di esecuzione. Confusione che viene portata all’estremo quando Capello riprende il Comando pochi giorni più tardi, il 23 ottobre.
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24 ottobre. Alle ore 12 l’urto delle forze degli Imperi Centrali appare ormai incontenibile e la città di Caporetto ne rimane travolta, così come, in poco tempo, cade la linea del fronte da Plezzo a Tolmino. Nel frattempo il Gen. Capello deve cedere definitivamente a Montuori la guida dell’intera II Armata. Sono giornate di piogge cadenti, di nuvole basse, di nebbie fittissime che rendono impervie le comunicazioni tra i reggimenti, le brigate, le divisioni e i Corpi d’Armata, come ci racconta Arrigo Cajumi: 
“La pioggia scroscia violentissima, ne siamo imbevuti, inzuppati, affranti…mi sento sperduto, piccino, annientato, con la volontà distrutta, senza nervi, senza possibilità di agire”. (A. Cajumi, L’offensiva scritta col lapis. 22 ottobre-4 novembre 1918)
Inizia una lunga, disordinata e disastrosa ritirata che si sarebbe fermata soltanto quattro settimane dopo, il 19 novembre, sulla linea del Piave.
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2-I documenti del Generale Montuori esposti in mostra. Foto di Nicola Nicodemi
Contemporaneamente, sul monte Krasij, a nord di Caporetto, si trova la terza linea difensiva formata da alcuni battaglioni alpini, tra cui quello comandato dal volontario interventista Carlo Emilio Gadda:
“Poco dopo egli tornò con un altro, recandomi l’ordine di ritirarmi dalla posizione, il più presto possibile. – Quest’ordine mi fulminò, mi stordì: ricordo che la mia mente fu come percossa da un’idea come una scena e riempita da un lampo: «Lasciare il Monte Nero!»; questa mitica rupe, costata tanto, e presso di lei il Wrata, il Vrsic; lasciare, ritirarsi; dopo due anni di sangue. Attraversai un momento di stupore demenziale, di accoramento che m’annientò…Meticoloso come sono, volli curare che tutto fosse raccolto e portato via…Ero attonito: i soldati erano pure costernati. Come potei raccolsi tutta la sezione, e a uno a uno li feci partire: Sassella chiamava. – Io mi misi in coda col cuore spezzato, con la mente fulminata dall’orribile pensiero della ritirata, e andammo. …” (C.E. Gadda, Giornale di Guerra e Prigionia. Con il diario di Caporetto, Milano, Garzanti, 2002) 
In quei giorni, quarantamila soldati italiani vengono uccisi o gravemente feriti, altri 365 mila sono fatti prigionieri. Quando a novembre la situazione si stabilizza, Cadorna viene sostituito con il generale Armando Diaz, che avrebbe guidato l’esercito italiano fino alla vittoria finale. In tale situazione di incertezza, il Gen. Montuori si trova a gestire quel che restava delle truppe sull’Isonzo nel suo ripiegamento: sulle mappe che porta con sé segna ogni tappa, ogni ordine ricevuto e anche i contrordini; i segni tracciati, nella loro forza, raccontano la tragedia di quei momenti.
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3-Le mappe del Generale Montuori esposte in mostra. Foto di Nicola Nicodemi
Le carte esposte in mostra, provenienti dalla Collezione Lodovico Isolabella, fanno parte del fascicolo personale del Generale Montuori e illustrano la disposizione delle forze dal giorno della sua definitiva assunzione di comando della II Armata. Sono la sintesi grafica di ordini e comunicazioni della ritirata di Caporetto: fonogrammi, telefonate, messaggi portati a mano attraverso i valichi e pervenuti al quartier generale dell’Armata dai Comandi dei Corpi che ne costituivano la componente operativa. Ordinate e numerate con specifico riferimento alle disposizioni “in entrata e in uscita” ricostruiscono, a conclusione di ogni giornata, le impressionanti operazioni militari comprese tra il 25 ottobre e il 9 novembre 1917.
La mostra su Caporetto (il fulmine) si pone come preludio a quella che si aprirà il 29 novembre p.v. sullo Scalone d’onore della Biblioteca e che proseguirà, attraverso le testimonianze di artisti e letterati, nell’intento di ricostruire i momenti salienti dell’ultimo anno di guerra (il baleno).
 Il conflitto infatti si concluderà solo un anno dopo la disfatta di Caporetto: 
“4 novembre. Oggi alle ore 15 sono terminate le ostilità tra italiani e austriaci: per terra, per mare e per aria. Voci di soldati sussurrano incredule: “L’è finia!” Dopo il rancio, grande adunata di batteria. Discorsi d’occasione, parole altisonanti. Io sono felice ma anche un poco confuso da un così repentino mutamento di prospettiva. “Pace” è divenuta ormai una parola arcana, di cui nessuno più ricorda il significato. Più tardi, quando è ormai notte fonda, mi reco come per caso tra i miei cannoni. Silenziosi e immobili, sembrano aver perso ogni imponenza.”  (D. Malini, Quella cosa grande (o fetente) che è la guerra. Da Caporetto a Vittorio Veneto: il memoriale ritrovato di un ragazzo del ’99.)
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William Congdon. Il gesto dell’io
Siamo nel 1952, a New York. Harold Rosemberg pubblica il saggio American Action Painters, attribuendo finalmente un nome a quella nuova forma di espressione che stava diffondendosi proprio a New York nel Secondo Dopoguerra: un nuovo concetto di arte, che poneva al centro dell’attenzione non l’opera finita bensì il suo processo creativo, il gesto dell’artista che l’aveva realizzata. Un gesto che poteva essere anche “violento” o dare dei risultati del tutto casuali: Jackson Pollock per esempio faceva colare dall’alto le vernici e i colori su supporti di grandi dimensioni stesi per terra, eliminando quel distacco che l’uso del cavalletto interpone tra un artista e la sua opera.
Si avvicina a questa nuova forma di espressione artistica anche William Congdon, originario di Providence, Rhode Island, tanto che alla fine degli anni Quaranta realizza le prime mostre presso la Betty Parsons Gallery come esponente della corrente degli Espressionisti Astratti con Rothko, Pollock, Barnett Newman, Motherwell, Reinhardt e Pousette-Dart. 
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William G. Congdon. CIELO. 21 maggio 1987. Olio su pannello. 60 x 70 cm. Collezione Carlo Rapetti
Nonostante il successo artistico in terra statunitense, già negli anni Cinquanta, però, Congdon si allontana dall’Action Painting ed intraprende un cammino di maturazione umana ed artistica in Italia, alla sofferta ricerca di un proprio linguaggio: Venezia per prima, quindi Napoli, Roma, Assisi, Milano, ogni città italiana lascia nel suo “io” un segno che poi l’artista cercherà di esternare e comunicare attraverso le sue opere.
“Sono venuto in Italia per il mio amore per Venezia che avevo conosciuto per la prima volta a 18 anni. Poi ho scoperto il mio amore per Napoli e per Roma... Viaggiavo sempre non turisticamente ma scoprendo me stesso sotto le apparenze… galleggiavo nel mistero. Il mio modo di camminare non è di uno che sa di qualcosa ma di uno che muove dentro, che vive le cose per scoprire [se] stesso”.
I viaggi che Congdon compie non solo in Italia, ma anche in Cambogia, Grecia, Turchia, spingendosi fino al Guatemala, sono percorsi che compie anche nella sua anima e si traducono e rivivono nelle opere attraverso un linguaggio originale che fa comunicare la rappresentazione della realtà quale la conosciamo con il simbolismo.
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1-William G. Congdon. YEMEN MONTAGNE 6. 24 marzo 1971. Olio su faesite. 60 x 80 cm. Collezione Carlo Rapetti; 2-William G. Congdon. IQUITOS BARACCHE FIUME 2. 2 maggio 1976. Olio su pannello. 65 X 95 cm. Collezione Carlo Rapetti
“Per venti anni abito ad Assisi e a Subiaco. Per poco tempo abito anche a Milano dove per disgusto faccio quadri incrostati di nero smog raccolto dai davanzali delle finestre. L’incontro con Cristo mi fa scoprire che il suo dramma di Croce è pure il mio”.
Dopo aver trascorso vent’anni ad Assisi ed essersi avvicinato alla fede cattolica, Congdon si stabilizza nella Bassa milansese, a Gudo Gambaredo, dove la sua arte raggiungerà le punte più alte di espressione: qui si consolida il rapporto di amicizia e di collaborazione con Carlo Rapetti, che diventa suo assistente di studio fino alla morte (1998). Rapetti - unico ad essere ammesso nella Cascinazza, il monastero benedettino presso il quale Congdon, nell’autunno 1979, aveva trasferito il suo studio - più volte fu l’ago della bilancia nella decisione di salvare o cancellare un quadro nella fretta di reperire supporti: fu grazie alla sua capacità di prendere tempo e di procurare nuove tele che vennero salvate molte opere di Congdon “condannate” dall’artista a essere distrutte. 
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1-William G. Congdon. CAMPI CIELI. 4 marzo 1993. Olio su pannello. 60 x 50 cm. Collezione Carlo Rapetti; 2-William G. Congdon. FICO 3. 10 ottobre 1993. Olio su pannello. 50 x 60 cm.Collezione Carlo Rapetti
Il corpus delle opere salvate da Rapetti è il “fondo speciale” protagonista della mostra tuttora in corso presso la Biblioteca Sormani, una mostra che intende proporre spunti e riflessioni per una nuova lettura dell'opera integrale di William Congdon. Durante il percorso espositivo, i quadri salvati, alcuni documenti  appartenuti all’artista e messi a disposizione da The William G. Congdon Foundation - fotografie, lettere autografe di Jacques Maritain, Thomas Merton e Igor Stravinskij, diari e alcuni strumenti (spatola, pennello, pettine metallico, punteruolo) utilizzati per dipingere – e alcuni cataloghi e pubblicazioni dalle raccolte della Biblioteca aprono un nuovo sguardo su un artista ancora poco conosciuto.
Preferiamo non dirvi altro, ma vi invitiamo a non perdere la mostra per scoprire voi stessi la forza del gesto, la tridimensionalità del colore, la profondità delle opere di Congdon. Volete saperne di più?  Potete trovare qui tutte le informazioni sulla mostra!
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Olivettiana
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Questo fascicolo appartenente alle collezioni grafiche (numerose le cartelle non ancora inventariate di grafica pubblicitaria) della Biblioteca Centrale contiene una breve storia della scrittura, anonima, ma nello stile di Elio Vittorini, che nel 1939 aveva già presentato per Olivetti un’altra campagna promozionale.
Quando nel 1908 (110 anni fa) Adriano Olivetti fonda la Apple italiana si appresta a dirigere l’azienda come una corte rinascimentale:  incarica architetti e designer (anche se la categoria ancora non esisteva) di progettare le prime macchine da scrivere elettroniche, nomina direttori di filiale neolaureati in storia medievale, organizza concerti di Luigi Nono nella mensa aziendale. Al  progetto avveniristico di un hardware di macchine per ufficio accompagna insomma un’idea dell’industria e del Paese che oggi difetta anche ai magnati della Silicon Valley, i cui dipendenti sono magari costretti a dormire in macchina. Quel che ha reso la vicenda olivettiana così peculiare è stato forse proprio il suo anacronismo rispetto a un’imprenditoria unicamente orientata al profitto.
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La cura per il territorio e il proposito di orientare lo sviluppo non erano tuttavia estranei a quegli industriali lombardi la cui consapevolezza in merito alla forte differenza che separava l’Italia dalle potenze industriali europee fu fino agli ultimi decenni dell’Ottocento piuttosto occasione per la ricerca di soluzioni alternative in grado di non tradire “le specificità identitarie frutto di una tradizione secolare”.[ M. ROMANO, Alle origini dell’industria lombarda. Manifatture, tecnologie e cultura economica nell’età della Restaurazione, Milano, F. Angeli, 2012, p. 282] La specificità del processo d’industrializzazione lombardo stava nel tentativo di essere il meno dirompente possibile, perseguendo un equilibrio tra città e campagna attraverso il mantenimento della duplice funzione di operaio e di agricoltore tra le maestranze. Rispetto allo sviluppo industriale si era mantenuta anche un’attenzione costante alle conseguenze sociali, curando fin dalla prima metà dell’Ottocento l’edificazione di nuove strutture residenziali e lavorative, a cominciare dalla rete di case coloniche costruite per consentire lo sviluppo della gelsibachicoltura. Tali interventi si articolarono in forme estremamente varie ma con esempi rimasti eclatanti come quello realizzato dalla famiglia Gavazzi, industriali serici, a Valmadrera, seguito più tardi da altri analoghi esempi: Varano Borghi, Crespi d’Adda, Fara d’Adda, Campione sul Garda.
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Veduta di Crespi d’Adda (BG)
Per quanto riguarda più specificatamente Milano una perorazione in difesa del suo sistema manifatturiero è contenuta nelle pagine giustamente note, e in qualche modo profetiche, redatte in forma di contributo per un’opera collettiva dal titolo: Mediolanum, pubblicata nel 1881 da uno dei membri più in vista della “consorteria” liberale: l’ing. Giovanni Colombo. A suo avviso, la nascita della grande industria era stata favorita dall’abbondanza di combustibile o di metalli, o dalla facilità di accesso all’energia idraulica o ancora dall’accesso a un grande porto, ma esisteva un altro tipo di industria non meno importante rispetto alla grande manifattura, orientata tuttavia a soddisfare un altro tipo di esigenza. “Qui non si allude alle sole industrie, che hanno per iscopo la confezione degli oggetti di lusso; ma gli stessi oggetti di prima necessità e d'uso comune devono, per soddisfare a quelle esigenze, rivestire forme determinate dal gusto e dalla moda; gli stessi prodotti della grande industria non sono in molti casi immediatamente applicabili, se non dopo aver subito una trasformazione, che richiede un nuovo e non meno importante lavoro.” [ G. COLOMBO. Milano industriale, in Mediolanum, v. 3, Milano, Vallardi, 1881, p. 40] Il termine design era ignoto all’ing. Colombo ma non il concetto e l’importanza, che dovevano tornare in auge come novità e scoperta solo dopo che il tessuto urbano, sociale ed economico si erano ormai degradati.  “In una parola, l'industria milanese è piuttosto un' industria di dettaglio; essa produce più nel genere fino, elegante, costoso, che si smercia in misura modesta, ma compensa col prezzo le minori proporzioni della vendita […] Ma, perché l'industria si svolga in questo senso, essa ha bisogno di due cose: di una popolazione operaia abile, abituata a comprendere le esigenze create dal benessere e dalla coltura; e di forti case commerciali […]”. Giovanni Colombo traeva la conclusione che Milano sarebbe potuta essere altrettanto grande col commercio che con l’industria o per meglio dire il commercio avrebbe altrettanto bene potuto giovarsi della grande come della piccola manifattura, a favore della quale giocavano peraltro la versatilità di maestranze specializzate, delle quali l’autore auspicava quella che con parole attuali si definirebbe “formazione continua”, in modo da adattare le abilità trasmesse di padre in figlio ai cambiamenti della produzione.
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  Cupola della Galleria Vittorio Emanuele II a Milano
Malgrado gli auspici, i luoghi del lavoro disseminati in piccole unità economiche vissero a partire dalla metà del secolo processi di concentrazione e specializzazione, nei quali l’adeguamento delle funzioni produttive si accompagnò tuttavia alla ricerca estetica connessa all’impiego di nuove tecnologie e materiali, soprattutto vetro e ferro, spesso con l’intento esplicito di non separare a livello di immagine la qualità del prodotto da quella del luogo di fabbricazione, come nei casi esemplari dello stabilimento Campari di Sesto San Giovanni o negli edifici destinati alla produzione della “nuova energia”, in primis le centrali elettriche: dall’impianto Edison di Paderno del 1898 alla centrale idroelettrica di Trezzo sull’Adda, perfettamente inseriti nel contesto storico e naturale del paesaggio. 
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Made in Italia : selezione dei marchi italiani / [con la collaborazione di Giorgetto Giugiaro e Bruno Munari],  Monte San Pietro, Bo : Istituto Nazionale Editoriale Italiano, 1988.
Lo sviluppo dell’idea di marchio andò a coincidere nel tempo con una dimensione sempre più virtuale: l’estetica del prodotto era connessa all’immaginario del consumatore rispetto al quale risultavano oramai indifferenti territorio e luogo di produzione.
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L’eccentricità di Adriano Olivetti ha avuto in tal senso un riconoscimento postumo nel corso del 42° Comitato del Patrimonio mondiale Unesco, svolto a Manama (Bahrein) dal 24 giugno al 4 luglio 2018, che ha deciso di tutelare Ivrea come sito Unesco per aver saputo conciliare le testimonianze del suo remoto passato con l’utopia umanistica della cittadella industriale Olivetti.
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Echi del Sessantotto alla Biblioteca Sormani
17 novembre 1967 - Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore: dopo una lunga assemblea notturna, 1200 studenti votano l’inizio dell’occupazione dell’ateneo. A spingerli, un aumento improvviso e spropositato delle tasse universitarie, letto come espediente per trasformare l’ateneo in un’università per soli ricchi. La repressione arriva poche ore dopo, ma non riesce a disinnescare una miccia ormai accesa. Nei cortili dell’Università Statale intanto si organizza il Movimento studentesco, negli altri atenei milanesi e nelle scuole si dà il via a occupazioni e manifestazioni, lungo le strade della città si snodano cortei che spesso sfociano in drammatiche guerriglie urbane. A ruota molte altre città italiane seguono l’esempio di Milano, fino ad arrivare all’occupazione della Facoltà di Architettura a Roma (Valle Giulia) il 1 marzo 1968.
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1- Mondo Beat, 30 aprile 1967; 2- Domenica del Corriere, 26 marzo 1968; Lo Specchio, 15 dicembre 1968 
Partito nella metà degli anni Sessanta nei campus americani con le proteste contro la sanguinosa guerra in Vietnam, con le contestazioni sulla questione dei diritti civili, a sua volta legata a quella razziale, e la nascita del movimento hippy, il Sessantotto ha investito rapidamente l'Europa, da Parigi a Praga, e ancora oggi, a cinquant’anni di distanza, ci si interroga sui suoi effetti.
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4-Domenica del Corriere, 27 febbraio 1968; 5-The New York Times Magazines, 22 September 1968; 6-Lo Specchio, 1 settembre 1968
Di certo, uno degli elementi più interessanti di questo complesso e fortemente sfaccettato fenomeno di massa è che ad animarlo siano stati i “giovani”, intesi come categoria sociale, non leader politici o mentori religiosi. Quei giovani nati nel Dopoguerra, in un momento di estrema vitalità economica e di istruzione scolastica sempre più radicata, che si sono trovati a vivere un sentire comune, a condividere una sorta di “coscienza globale” e una nuova esigenza di cambiamento. La televisione, con le trasmissioni in mondovisione, contribuisce ad abbattere le distanze e offre una nuova dimensione del mondo: “vedere per la prima volta la terra dallo spazio, osservarla da lontano, costringeva a rendersi conto, in modo diretto e concreto, che ciò che abitiamo è una minuscola porzione dell’universo” (M. Capanna, Lettera a mio figlio sul Sessantotto, Milano, 1998).
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7- Time, July 25, 1969 
Si aprono nuovi orizzonti, dunque, e si sviluppano nuovi linguaggi. L’editoria propone spunti di riflessione attraverso le opere di autori come Ginzberg, Marquez o Pablo Neruda, oltre, naturalmente, alle biografie e ai saggi sui grandi protagonisti politici del tempo, da Bob Kennedy a Martin Luther King, da Che Guevara a Mao Ze Dong o Ho Chi Minh. Ma, ancor più immediate, sono le riviste il veicolo privilegiato per diffondere le idee e sviluppare il dibattito: i giovani danno vita a giornali autogestiti (anche dall’interno delle scuole, come la “Zanzara” del Liceo Parini di Milano), gridano i loro slogan su ciclostili e manifesti, utilizzano strumenti di informazione “tradizionali” stravolgendoli nella forma.
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8-Domenica del Corriere, 3 aprile 1966 
A corollario dei media tradizionali, c’è inoltre una nascente “cultura pop”, fatta di cinema, fumetti e musica “leggera”, a costituire l’humus in cui la generazione del 68 può riconoscersi, dentro e fuori i confini nazionali. Accanto a un’iniziativa editoriale d’avanguardia come “Linus”, che porta in Italia le strisce americane di Schultz, artisti come Guido Crepax e Hugo Pratt realizzano delle “prove d’autore” più sperimentali e provocatorie e persino i piccoli albi di Diabolik o di Tex diventano icone generazionali (dalla presentazione alla mostra di Fausto Colombo).
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9-Guido Crepax, L’astronave pirata, Milano, Rizzoli, 1968; 10-Linus, giugno 1968; 11-Re nudo, aprile-maggio 1968
Il panorama musicale internazionale viene stravolto dall’onda di Woodstock, irrompono i grandi beat e rock inglese e americano e la canzone di protesta di Bob Dylan e di Joan Baez. In un’Italia ancora sconvolta dal suicidio di Luigi Tenco, intanto, si apre definitivamente la grande stagione dei cantautori, con figure come De André, Guccini e Gaber che esplorano un nuovo impiego della parola e della musica.
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12-Time, July 7, 1967
Infine il cinema. Fanno notizia i film, dai toni spesso provocatori, di giovani autori come Bertolucci, Bellocchio e Pasolini, le pellicole di Godard e della nuova Hollywood, anch’essa segnata dalla riflessione sul cambiamento e la crisi del modello americano. Da qualche settimana in Sormani è stata scoperchiata una capsula del tempo nella quale sono conservati tutti i segni lasciati da questo vento di cambiamento nell'industria culturale: manifesti, libri e riviste, fumetti, copertine di dischi, edizioni di protagonisti della contestazione a Milano rievocano il clima di fermento sociale e culturale di quegli anni. La mostra, a cura di Fausto Colombo, rientra nel palinsesto Novecento Italiano ed è realizzata in collaborazione con lo Studio Origoni-Steiner, la Kasa dei Libri, l’Archivio Franco e con la consulenza scientifica, per la sezione moda, di Elisabetta Invernici. Cosa aspettate? Avete ancora tempo fino al 14 luglio. Per tutte le informazioni potete cliccare qui.
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