Tumgik
#deliri mattutini via telefono
montag28 · 5 years
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6:30
sveglio già da quaranta minuti. l'età adulta è anche questo: più la sveglia sarà impostata sul presto, più il tuo corpo la anticiperà. quella specie di tensione elettrica che non cala mai oltre un certo limite. c'è chi le chiama preoccupazioni.
5:51
vado in bagno. nella foschia della prima veglia mi accorgo di avere ancora i coglioni girati da ieri sera. quelle dannate tisane alla melissa e al tiglio non servono a un cazzo! e io che, quando leggo "rilassante" circa un infuso, mi illudo di avere tra le mani la pozione magica in grado di donare una profonda amnesia... diciamo dai sedici anni in poi. però le tisane sono buone - ma con il miele assieme al limone, nell'acqua calda, cosa non lo è - e i tigli sono creature meravigliose. mi rimetto a letto, anche se so già che il sonno è ormai andato.
7:24
c'è una linea frastagliata di nuvole, come un grande muro di cenere, che da Est si allunga fino a Nord. sotto di esso covano le braci del mattino che brillano, rossastre, accese dal primo sole. svegliarsi presto fa schifo; è bello, svegliarsi presto. si potrebbe quasi pensare che, dai, in fondo va tutto bene. basta far finta di non pensare a quello che sta succedendo in Siria ed in Cile. Bernie Sanders non ce la farà mai. basta far finta di non essersene mai interessati. buoni e cattivi non esistono. l'inquinamento non esiste e l'Antartide non si sta squagliando. basta non pensarci. solo far finta.
07:49
eccola di nuovo, la tensione elettrica. ma che scrivo a fare.
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montag28 · 7 years
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Indicativo presente e cuore aperto
La mattina presto non ha metafore, né altre figurazioni fuorvianti. La mattina presto è scorrere un articolo che ti fa tornare la voglia di leggere romanzi russi, mentre non riesci a riprendere sonno. È imbattersi nel profilo instagram di un vecchio amico del liceo e scoprire, fra le altre cose, che ha avuto un secondo figlio; l'ultima volta che c'eravamo visti, nel giugno di due anni fa, non sapeva neanche che sarebbe diventato papà. Poi capiti su foto precedenti, vedi che viaggia praticamente solo in Italia, che è stato da poco a Firenze. Vedi Michelangelo, il suo David all'Accademia e il suo Lorenzo alle Cappelle Medicee; vedi i bronzi scuri del Mercurio di Giambologna e dell'altro David innarrivabile, la meraviglia di Donatello, al Bargello. Vedi gli scatti normali di un turista qualunque con il quale, anni prima, sotto quelle statue ti eri fermato a trarne disegni.
La mattina presto non ha congiuntivi, eccessi di aggettivi o ricerche di sinonimi, né costruzioni retoriche o altre larghe dispersioni di parole. La mattina presto è indicativo presente e cuore aperto. È pensare a un vecchio conoscente e volergli dire: anche se non ci teniamo più in contatto, noi amici lo saremo sempre. E nel mentre, sentire un sentimento rotondo e completo che è più leggero della nostalgia.
Quali che siano i talenti o i motivi, bisognerebbe sempre scrivere al mattino presto, appena svegli. Alle persone, o ai taccuini.
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montag28 · 7 years
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C'entra tutto
Sentimenti di mancanza, mai mi mancheranno.
C'entra niente lo star bene, l'essere amati, avere una casa, le lenzuola pulite, un bancomat per la spesa, sentirsi ricchi con l'abbonamento mensile nella tasca, il bronzo delle olive e l'oro dell'uva, la crosta del pane il formaggio il vino rubino, una carta e una penna, saperci ancora fare, gli occhi un poco guasti ma vedenti, le orecchie per farci entrare la musica, la musica, l'allegria, il letto caldo, un rubinetto di acqua potabile, tu che mi aspetti nel vapore della cucina, quest'ottobre clemente. C'entra niente.
Tutto ciò che è stato, mancherà. Manca oggi tutto ciò che si chiama ieri; mancano ieri diversi, in ordine del tutto sparso e casuale, in diversi oggi. Mancano i vissuti che così ardentemente si vorrebbero riavere indietro (al punto di sperare che il paradiso esista e che non sia una beatitudine astratta, ma la libertà di un viaggio a ritroso dentro sé stessi); ma mancano anche altri momenti che lo stesso si vorrebbe rivivere, diversamente o anche allo stesso modo, sebbene sia chiaro e razionalizzato il conforto di saperli lontani.
Perché la memoria, pittrice ancor prima che drammaturga, anche del dolore fa un affresco; ma dalla rappresentazione, di velatura in velatura, fa scomparire i dettagli inutili o inutilmente pericolosi. E nella larga campitura di pece della tenebra, quel che si guarda è il punto minuscolo dell'unico luccicore. E così nei chiaroscuri più complessi, che scolpiscono maestosità.
O almeno: a volte è così.
Perché il ricordo è fatto per servire. Perché il tempo è un fiume; e quanto più ci porta a valle nella sua corrente, tanto più ci fa guardare con clemenza e tenerezza alle visioni che abbiamo lasciato a monte.
O forse perché amare ciò che siamo stati significa voler bene a ciò che adesso siamo. Ugualmente, esser grati per ciò che abbiamo avuto, ci aiuta a comprendere meglio il valore di ciò che oggi abbiamo. E difenderlo.
La nostalgia non ha alcun bisogno di essere nobilitata: è, esiste. Pena per chi non ne prova.
Ma la mancanza, con questo suo nome, è un sentimento o un paradosso? Forse sia l'uno che l'altro. E quando non è capriccio, ha a che fare con l'amor proprio.
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montag28 · 7 years
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Rats
Ore 6:09
Ho sognato ch'ero povero. Ch'eravamo poveri. Io, tu, mamma, papà, tutti. Ma non proprio poveri; servi. La famiglia ricca che ci ospitava era quella di una ragazzina che nella realtà iscrissi in palestra un paio di mesi fa. Loro avevano il salotto che chiamavano living, i sofà di pelle, il buffet in piedi, i cibi gourmet, i piattini le forchettine i calicini i vini l'acqua microfiltrata. Noi avevamo la cucina col pavimento sgombro, solo un paio di sedie rimaste; avevamo cibo profumato dentro grandi piatti da portata o ancora in teglie fumanti con le pareti d'alluminio incurvate dalle troppe infornate. Di alluminio anche una grande bacinella piena d'acqua del rubinetto, al centro della stanza. Sembrava un oggetto pop anni 70, di quelli che ti regalavano ai matrimoni poiché - sempre all’interno della logica del sogno - all'epoca era molto in voga: una specie di vasca di metallo, svasata e rotonda, posizionata sul suo apposito sostegno, come un cavalletto, anch'esso di alluminio. Ma adesso, dopo quarant’anni, era un poco arrugginita e somigliava al cerchione ingigantito di una fiat 128. La bacinella ruotata di 45°, cosi da poterci ficcare un bicchiere dentro a raccoglierne una sorsata sufficiente. L'acqua non si rovesciava, era come solida, eppure trasparentissima, come un'impalpabile gelatina incolore; particolare strano, quella traslucenza rendeva trasparente anche il fondo metallico del recipiente, ad avvicinarsi si intuivano le mattonelle del pavimento sottostante, azzurrate e deformate, come quando vai sott'acqua in piscina con gli occhi aperti protetti dagli occhialini. E insomma, nessuno dal salotto veniva a bere la nostra acqua del rubinetto dalla tinozza della 128. Al contrario, eravamo noi ad essere invitati di là. Noi, i servi, che avevamo pulito casa in vista della festicciola e preparato ogni pietanza. E loro, i benestanti festanti e noiosi, che ci trattavano con quella creanza tipicamente borghese, quella cortesia affettata, quelle buone maniere che ti fanno sentire ancora di più un pezzente. Assaggiate, servitevi pure, se volete, diceva, la padrona di casa in mezzo ai suoi ospiti. Servitevi, servi. Sfamatevi. Ché tanto loro erano tutti pronti a sprecare tutto. La ragazzina iscritta in palestra mi guardava con occhi indifferenti, poi abbracciava languidamente la madre sul divano di pelle color crema; davanti a loro, un largo tavolino da caffè pieno di piattini lasciati a metà. A me il cibo offerto non andava giù e mi veniva tanto da piangere.
Ore 6:44
Poi il risveglio, la fantasia incendiaria delle 6, la mia maglietta nera, tu che dormi, la mia arrabbiatura ancora non neutralizzata dal sonno e dal sogno, il bagno, la mia arrabbiatura ancora non pisciata fuori, il letto, il caldo, la mia arrabbiatura ancora non sudata via, i tuoi mugolii sognanti, la sveglia del vicino che non smette di mitragliare, il sonno che non torna, no, adesso torna, arriva, tra un'ora anche la mia sveglia mi spara al cuore, ti sfioro la mano, il cielo grigio, le mie mani non saranno mai svelte abbastanza per i pensieri del primo mattino, il mio sguardo sulle cose si alzerà ma non riuscirà mai a oltrepassare l'Appennino, o l'arco alpino, siamo persi in una valle, siamo servi, sì, non siamo poveri, no, né ricco ci vorrei diventare. Voglio l'acqua di rubinetto nella bacinella e un pennino che disegni, talvolta scriva, scriva per salvare i sogni e per impacchettare le arrabbiature, spedirle via, come una brutta cartolina, anzi, come una cartolina brutta, ché quelle fanno ridere e io voglio ridere, tu vuoi? Ridiamo insieme, lavoro anche oggi, ma meno di ieri. Poi andremo a comprare le tue scarpe. Anche se piove e alla sera comincia, appena percettibilmente, a scurire un poco prima. Anzi, no, sta uscendo il sole. Qualcuno sbadiglia. Penso che gli alberghi sono già tutti pieni. Anche le tende da campo, ché fossero vuote, sarebbero richiuse. Qualcuno ci dorme ancora dentro. Come vorrei il letto di casa in una camera d’albergo in una baita d'alpeggio col mare di fianco e la verandina da campeggio con un millimetro di poliestere e una cerniera soltanto a separarmi dal cielo stellato. Pieno di stelle il cosmo, piene di globuli le vene, piene di organismi le spiagge; però - com’è? - le città non sono meno vuote. Esseri umani, troppi esseri, poco umani. Ovunque. Formiche. Ratti. Cavallette. Pidocchi. Parassiti. Scoprono, raggiungono, colonizzano, invadono. Sfruttano, inquinano, distruggono. Solo il rumore del mare di notte non lo puoi distruggere. Moriremo poveri, servi, inquinati, sciolti dal pianeta che va a fuoco. I nostri figli? Saranno tristi, i nostri figli. Mi fa paura la tristezza degli altri. E anche la malattia. Ieri, non te l’ho detto, ho scoperto che è morto un mio professore del liceo. Giorgio. L’ultimo anno mi mise dieci in pagella. Era matto, era un astrattista, era simpatico, era severo, era molto buono, era esigente ed era di manica larga, chic senza essere radical, con la giacca di velluto e l’eterno dolcevita. Lo ricorderò sempre, in vita. Mi dispiace, mi dispiace da morire. Dormire, sognare; senz'altro, pisciare. Sto vaneggiando. Devo fare colazione. Qualcuno sbadiglia, di nuovo.
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montag28 · 9 years
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A ciascuno il suo
Ho troppe pulsioni, troppe fascinazioni, troppi omaggi da rendere, troppi debiti morali da saldare. Stilarne privatamente un elenco su un quaderno, riempirci una libreria o una videoteca, financo farne raccolta pubblica su un weblog, sarebbe inutile. Così sterile ed autoreferenziale, fine a sé stesso, mi sembrerebbe. Mi toccherà davvero scriverne a riguardo, dando fondo a tutto il barile, senza più riserve. Ma aumentando il livello al mio massimo, fino alla forma-libro, per rendere organizzato questo groviglio di cose che mi attraversano e non restarci impigliato dentro, senza sbocchi, ossia senza dare a me una direzione ed a loro un senso. Fosse anche l'esperienza di un solo romanzo, o viceversa una lunga avventura da giornalista non accreditato. Perché? Per liberare me stesso, ma anche per mandare dei messaggi, nella misura in cui un uomo vuol soddisfare il suo desiderio di avere un carteggio con il mondo. Per arrivare a chi non c'è più, a chi non saprei come raggiungere diversamente; oppure per attutire, attraverso la forma pubblica (sì, non è un paradosso), un impatto umano di cui non avrei il coraggio nell'eventuale privato. Fondamentalmente, per la necessità di raccontare certi "Grazie", certi "credevi ti avessi dimenticato?", certi "se sono arrivato fin qui in questo modo, in piccola parte c'entri anche tu", e via così. Per scrivere tante dediche ma in forma più ampia, trasformata, come a restituire fiori o frutti ai portatori di semi, volontari o inconsapevoli che fossero. Infine, per rispondere ad un paio di semplicissime ma basilari domande: Tutto quello che ho imparato e visto e registrato, a cosa mi serve? Tutto quello che sento, cosa lo sento a fare?
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montag28 · 9 years
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Dipendenti e di pesi
Io con me stesso, più o meno staccato da tutto, ci sto più che bene. Già, purché io stia bene, grazie al cavolo. Ma quando perdo la salute? E cos'è che mi fa male?
Il (mio) principale nemico è la perdita dell'indipendenza, di qualunque tipo sia. Essere indipendenti moralmente, economicamente, politicamente. L'indipendenza nelle opinioni, nei gusti, o quella più o meno impossibile dall'egemonia naturale degli ormoni; l'indipendenza dalle religioni e dai retaggi culturali non sani. Il contrario dell'indipendenza è chiaramente la dipendenza, ma può essere anche il bisogno. Chi è irrimediabilmente assoggettato a un bisogno è uno schiavo; ma chi si approfitta del bisogno altrui è uno schiavista. Si dovrebbe avere non più di un padrone, ossia quello che paga un giusto stipendio alla fine del mese, purché sia equo e non abbia la presunzione di farti un favore, né la pretesa di averti per più di un terzo del tuo tempo. I padroni iniqui fanno male. Troppi padroni sono un male. La dipendenza, va da sé, è tossica. Ma non tutto ciò che ci fa marcire il sangue ha natura chimica, tangibile, visibile. Molte cose tossiche sono perfettamente legali. E magari impalpabili, astratte. Ma non per questo meno reali, meno pericolose.
Disintossicarsi. Non ricascarci. Liberarsi. Liberarci. Lo facciamo abbastanza? Quasi tutti siamo schiavi di qualcosa, di qualcuno. L'importante è che non ci mettiamo le catene da soli. E impegnarsi per provare a svincolarcene, più o meno ogni mattina.  Ché i bisogni si soddisfano. O si combattono. Sennò s'ingigantiscono. E diventati enormi, ci fanno ombra o ci comandano.
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