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#destinato all'angolo
jacopocioni · 6 months
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Il Tabernacolo del Bargello
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Nel carcere del Bargello era antica consuetudine, già nel Cinquecento, che il giorno di San Bonaventura, il 15 luglio, le porte del Palazzo venissero aperte alle Confraternite e alle Compagnie di Carità per la visita ai carcerati, e in quell'occasione chiunque poteva portare cibo e vestiti ai prigionieri. I carcerati, a quei tempi, non venivano mai mantenuti con il denaro pubblico ed era un'opera assistenziale curata dai cittadini quella di provvedere con cibo ed altri beni di prima necessità al sostentamento di coloro che erano incorsi in problemi con la giustizia.
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Per ricordare questa antica usanza, nel 1588 Fabrizio Boschi, appena diciottenne, dipinse l'affresco oggi racchiuso nel tabernacolo posto all'angolo tra via dell'Acqua e Via Ghibellina. Il Tabernacolo risale al 1859, quando il Governo Provvisorio Toscano stabilì che all'interno del Palazzo del Podestà, che nel Cinquecento era stato destinato a sede del Capitano di Giustizia (il cosiddetto Bargello), fossero raccolte tutte le opere scultoree minori, medioevali e moderne che avevano fatto parte della Galleria degli Uffizi, e tutte le opere provenienti sia chiese che da edifici civili, da cui si era ritenuto opportuno toglierle. Il Tabernacolo fu costruito a protezione dell'affresco del Boschi, già notevolmente deteriorato dagli agenti atmosferici. Il dipinto rappresenta San Bonaventura nell'atto di visitare i carcerati, porgendo loro del pane da un cesto. Attorno al santo vi sono i membri delle Compagnie di Carità e due persone del popolo che osservano la scena, mentre i carcerati attraverso le sbarre ricevono il pane. L'alluvione del 1966 danneggiò ulteriormente l'affresco, che venne staccato e restaurato nel 1996.
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Gabriella Bazzani Read the full article
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daimonclub · 9 months
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Il pupazzo di neve
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Una favola per tutti Il pupazzo di neve di Andersen, una breve storiella metaforica del grande autore danese, celebre in tutto il mondo per le sue favole per bambini. Le storie intrattengono e insegnano; ci aiutano a goderci la vita e anche a sopportarla. Dopo nutrimento, riparo e compagnia, le storie sono la cosa di cui abbiamo più bisogno nel mondo. Philip Pullman Se volete che vostro figlio sia intelligente, raccontategli delle fiabe. Se volete che sia molto intelligente, raccontategliene di più. Albert Einstein Le storie sono la cosa più importante al mondo. Senza storie, non saremmo affatto esseri umani. Philip Pullman Hans Christian Andersen (2 aprile 1805 - 4 agosto 1875) è stato uno scrittore danese. Sebbene sia stato un prolifico autore di opere teatrali, diari di viaggio, romanzi e poesie, è ricordato soprattutto per le sue fiabe. Le fiabe di Andersen, composte da 156 storie in nove volumi e tradotte in più di 125 lingue, sono diventate culturalmente integrate nella coscienza collettiva dell'Occidente, facilmente accessibili ai bambini, presentano tuttavia lezioni di virtù e resilienza di fronte alle avversità anche per i lettori più maturi. Le sue fiabe più famose includono "I vestiti nuovi dell'imperatore", "La sirenetta", "L'usignolo", "Il soldatino di stagno", "Le scarpette rosse", "La principessa e il pisello", "La regina delle nevi, "Il brutto anatroccolo", "La piccola fiammiferaia" e "Pollicina". Le sue storie hanno ispirato balletti, opere teatrali e film d'animazione e live-action. Uno dei viali più ampi e trafficati di Copenaghen, che costeggia la piazza del municipio, all'angolo della quale si trova l'enorme statua in bronzo di Andersen, è chiamato appunto "H. C. Andersen Boulevard”. La storia del pupazzo di neve nasce da molto lontano e Bob Eckstein ha addirittura scritto un libro su di lui, The History of the Snowman, in cui racconta le sue origini. Il primo ritratto documentato risale al 1380, trovato in un antico Libro delle Ore e ora custodito in una biblioteca dell’Aia. Il Pupazzo appare poi in diverse stampe del Cinquecento, prima di essere celebrato da Hans Christian Andersen nel racconto pubblicato il 2 marzo 1861 in cui L’uomo di neve si innamora perdutamente di una stufa e finisce liquefatto da un vento caldo.
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Una storia di Natale Negli anni ’50 l’editoria e la discografia americane rispolverano l’omino di neve e proprio il 14 dicembre 1950 esce Frosty the Snowman, la celebre canzone scritta da Steve Nelson e Jack Rollins e interpretata da Gene Autry - There must have been some magic in that old silk hat they found, for when they placed it on his head, he began to dance around! - (lo stesso che l’anno prima aveva portato al successo la canzone dedicata a Rudolph la renna dal naso rosso - Rudolph the red-nosed reindeer, had a very shiny nose. And if you ever saw it, you would even say it glows -) e in contemporanea viene pubblicato l’omonimo libro scritto da Annie Nord Bedford e illustrato da Corinne Malvern, dove il nostro eroe anziché sciogliersi per amore, all’arrivo del caldo se ne va per ritornare l’anno successivo. Il pupazzo di neve di Andersen rappresenta invece il simbolo della forza dell’inverno ed è indiscutibilmente legato al destino delle stagioni, e più in generale alla nascita e alla morte del ciclo naturale, con un evidente rimando all'amore, motore del nostro agire, per cui, senza scomodare Aristotele con la teoria del caldo e del freddo, possiamo concludere ricordando che l'essere umano pur essendo una macchina termodinamica ha anche uno spirito che va oltre la pura materia, e che la letteratura, così come la religione, ci aiuta ad interpretare, anche se per molti personaggi questa essenza non è altro che un freddo, se non gelido, spiffero di vento che nel giro di poco tempo è destinato a dissolversi tra le onde di polvere inquinata che agitano il nostro misero pianeta, e a queste povere anime chi ci penserà più? Tutto ciò che guardi può diventare una favola e puoi ottenere una storia da tutto ciò che tocchi. Hans Christian Andersen Limitarsi a vivere non è abbastanza. C'è bisogno anche del sole, della libertà e di un piccolo fiore. Hans Christian Andersen Dove le parole falliscono, parla la musica. Hans Christian Andersen C’era una volta, in una freddissima giornata d’inverno, un pupazzo di neve, che in tutto quel freddo stava proprio bene e mentre guardava il sole diceva: “Cos’avrà da fissarmi? Beh, non riuscirà a farmi sbattere le palpebre! Continuerò a tenere le tegole aperte, io!”. Diceva così perché i suoi occhi erano fatti con due pezzetti di tegola, mentre la bocca era un vecchio rastrello spuntato e per questo si poteva dire anche che avesse i denti.
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La filastrocca del pupazzo di neve Il sole intanto volgeva al tramonto e la luna sorgeva, grande e rotonda nel blu del cielo, e il pupazzo di neve desiderava potersi muovere e andare a scivolare sul ghiaccio come i ragazzi che aveva visto nel pomeriggio, ma non sapeva come si faceva! E mentre faceva queste riflessioni, il vecchio cane legato alla catena, disse: “T’insegnerà il sole a correre! Come è successo a quello che c’era prima di te e a quello prima ancora! Bahu! Bahu! Uno alla volta se ne sono andati tutti”. “Non capisco, amico mio”, disse il pupazzo di neve. “Quello che sta lì sopra”, e indicava la luna, “mi dovrebbe insegnare a correre? È vero che è scappato via quando l’ho guardato dritto negli occhi, ma adesso è spuntato fuori dall’altra parte…”. “Non capisci un bel niente”, rispose il cane. “Anche se bisogna ammettere che sei ancora nuovo nuovo! Quella che tu vedi adesso si chiama luna, quello che se n’è andato era il sole che tornerà domani e vedrai se t’insegnerà a scivolare lungo il fossato. Tra un po’ il tempo cambierà: lo so perché la mia zampa sinistra dietro mi dà dei dolori…”. “Mah, non capisco proprio”, disse il pupazzo di neve. “Non so perché, ma sembra quasi che tu mi voglia dire qualcosa di spiacevole. Neanche quello di prima, che mi fissava e che si chiama sole, neanche lui deve volermi bene, temo”. Intanto il cane, dopo essersi rigirato tre volte su se stesso, si addormentò nella sua cuccia. L’indomani il tempo cambiò e un vento freddo cominciò a soffiare così che tutti gli alberi e le piante erano pieni di brina. Sembrava una foresta di perle bianche! Nel frattempo uscirono in giardino un ragazzo e una ragazza che stavano ammirando il paesaggio e il pupazzo di neve chiese al cane chi fossero quei due ragazzi! Il cane gli disse che loro erano due padroni e cominciò a raccontare la sua vita al pupazzo di neve curioso! E gli narrò che prima di essere messo in catene viveva nella casa della padrona, dove aveva un bel cuscino tutto suo e passava le sue giornate, quando fuori era tanto freddo, vicino ad una stufa che lui ancora si sognava tanto fosse bella! E mostrò al pupazzo di neve la stufa attraverso la finestra della casa!
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Atmosfera natalizia Appena il pupazzo scorse, attraverso la finestra, la stufa, si sentì strano! Era una sensazione che non riusciva a spiegarsi. In cuore aveva come una nostalgia che non aveva mai provato, ma che tutti gli uomini conoscono bene, quando non sono fatti di neve. “Ma perché l’hai lasciata?”, chiese, che aveva deciso che doveva trattarsi di una creatura femminile. “Come hai potuto abbandonare quel posto?”. “Sono stato costretto!”, disse il cane. “Mi hanno buttato fuori e mi hanno attaccato qui dopo che mi capitò di mordere il più giovane dei padroni, perché aveva dato un calcio al mio osso! E così è finita la mia bella vita d’un tempo”. Ma il pupazzo non lo ascoltava più! Stava guardando fisso la stufa: “Che strana sensazione quella che provo! Mi riuscirà mai di incontrarla? Devo entrare a ogni costo, anche se dovessi rompere i vetri!”. “Bahu! Tanto non ci arriverai mai!”, disse il cane, “e poi, se ti ci avvicini sei finito, non lo sai? Bahu!”. “Già ora non mi sento affatto bene”, rispose il pupazzo di neve. Per tutto il giorno il pupazzo rimase a guardare la finestra: alla luce del tramonto la stanza sembrò diventare ancora più accogliente! La stufa, emanava un bagliore dolcissimo, più dolce di quello della luna, e anche di quello del sole. Se qualcuno apriva lo sportello, ne usciva una fiammella e una di quelle fiamme sembrò penetrare proprio il petto del pupazzo di neve. “Non resisto”, diceva lui. “Com’è carina, quando mette fuori la lingua”. Intanto i giorni passavano e il pupazzo di neve era sempre più triste perché gli mancava la stufa, ma il tempo stava cambiando e ben presto arrivò il vento tiepido che cominciò a sciogliere la neve e, dopo qualche giorno, il pupazzo crollò e al suo posto restò qualcosa che sembrava un manico di scopa dritto nell’aria. I bambini lo avevano usato per farlo reggere meglio. “Adesso capisco cos’era la sua nostalgia!”, disse il cane, “quel pupazzo aveva in corpo uno spazzolone per stufe! Ecco cos’era che lo turbava tanto! Bahu! Ma ora è tutto finito”. Anche l’inverno ormai era agli sgoccioli e nel frattempo i bambini in giardino cantavano: “Bel mughetto, da bravo, esci fuori, vedi che al salice spuntan già i fiori? Se non è marzo, qui è già primavera. Senti gli uccelli cantare alla sera! E insieme a loro io canto: Cucù, Fratello Sole, vien fuori anche tu!”. E al povero pupazzo di neve, chi ci pensava più?
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Buone feste a tutti! Se amate il Natale, le feste e la letteratura potete anche leggere i seguenti articoli: Aforismi e citazioni sul Natale Aforismi divertenti sul Natale Barzellette sul Natale Aforismi di C.W. Brown sul Natale Pensieri e riflessioni sul Natale Numeri sul Natale Odio il natale (Umorismo) A Christmas Carol by Charles Dickens Other books by Charles Dickens Fairy tales and other stories by Hans Christian Andersen Best Christmas songs videos and karaoke Christmas markets in England Christmas markets in America Christmas markets in Italy and Germany Christmas quotes 60 great Christmas quotes Christmas tree origin and quotes Christmas jokes Christmas cracker jokes Funny Christmas Stories Amusing Christmas stories Christmas food Christmas thoughts Christmas story Christmas in Italy Christmas holidays Christmas songs Christmas poems An Essay on Christmas by Chesterton Read the full article
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lamilanomagazine · 2 years
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Mondadori Duomo trasloca: apre la nuova libreria all’angolo tra Piazza Duomo e Via Mazzini
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Mondadori Duomo trasloca: apre la nuova libreria all’angolo tra Piazza Duomo e Via Mazzini. Il 23 marzo 2023 apre la nuova libreria Mondadori Duomo. Un luogo di contaminazione culturale e artistica in grado di accogliere tutti. Uno spazio di ispirazione, idee, in cui lasciarsi andare accrescendo la propria immaginazione. La lettura, i lettori e i libri saranno al centro dello spazio culturale ed artistico. Saranno allestite nuove aree nelle quali migliaia di storie prenderanno forma: dallo spazio “we are junior” al “Just Comics” (sezione dedicata ai manga o comics), fino all’area dedicata agli Eventi, grazie alla quale si potrà interagire con i propri autori o artisti preferiti. Un trasloco decisamente oneroso, costato per la convenzione firmata tra Mondadori e il Comune di Milano, oltre 11 milioni di euro. Il trasferimento sarà di poche centinaia di metri; la nuova libreria aprirà nello stesso palazzo di Via Dogana, ma all'angolo con via Mazzini. Il corpo centrale dell’edificio che verrà lasciato libero, sarà destinato ad ospitare un albergo con servizi e negozi connessi, oltre al progetto di ampliamento del Museo del Novecento.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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carraromarco · 6 years
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Fuori il cielo è un pò così: un pò incerto, in bilico. Come quei trapezisti che in centro pista stanno in equilibrio su un filo teso, contesi al centro tra due poli di salvezza. Mi chiedo: libertà è rischio di scoprire o la calma di saper apprezzare? Fatto sta che questa sera il cielo è a metà via, indeciso, tagliato male e sghembo. A nord le nuvole, a sud le stelle. Mi stupisce questo mio sapermi orientare nello spazio, collocare nelle tre dimensioni i limiti che definiscono la mia posizione. Da piccolo dentro alle confezioni di merendine avevo trovato un giorno una bussola, uno di quei giocattoli in plastica per cui subito si dice "Sicuramente non funzionerà". Poi però ho scoperto che il magnetismo segue regole tutte sue: non c'entra la corrente elettrica, non c'entrano le batterie ricaricabili che poi ricaricabili non lo sono mai. Così passai giornate intere a muovermi con quella bussola, come a cercare nel mondo una collocazione solo mia. Qual è il posto che mi è destinato?, mi chiedevo, come quei calzini che nel cassetto hanno ognuno un proprio posto. Pensavo che ognuno avesse un posto che gli è destinato, qualcosa di già deciso e scritto e a cui non ci si può sottrarre. Ma il cielo questa sera è incerto e mi chiedo: parlo del cielo o parlo di me? Sempre così tagliato male, a metà strada, preoccupato per quelle scelte che mi aprivano strade mentre intanto me ne precludevano altre. Migliori o peggiori? Come la pizza che non sapevo se prendere con i wurstel o con le patatine, meglio la Coca o il tè alla pesca? Chissà se sono meglio i jeans o la tuta, chissà se i capelli li taglio o li lascio crescere. Sempre così, con i piedi paralleli: mai un piede deciso, davanti all'altro e sicuro. Avessi adesso quella bussola di un tempo non saprei che farmene: me ne starei al centro aspettando che qualcuno decida per me, che mi trascini lasciandomi guidare. Sempre così indeciso e incerto, con tutti apatico ma mai con te. Mi chiedo quanto tu abbia saputo cambiarmi, forgiarmi e mallearmi, così, con questo mio metallo che per anni ho ritenuto indeformabile e duro, poco plastico. Mi chiedo quanto tu sia riuscito a migliorarmi, a sviscerarmi e ricompormi. Trovandomi all'angolo, rannicchiato e decomposto, come quei gattini che appena usciti dalla pancia della mamma sono ancora bagnati, appiccicosi e indifesi. E trovandomi mi hai raccolto, di me hai colto tutto. E mentre fuori il tempo non sa che fare ripenso a tutte le volte che in macchina parte quella canzone che a te piace tanto, quella che fa "Sai che ho vinto il mondiale da quando ci sei, sei la nazionale del 2006", e proprio in queste parole ti giri e mi guardi, ti chiedo "Le stai solamente cantando o me le stai dedicando?" mentre penso che, per una volta, sei tu per me la nazionale del 2006.
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breitschwanz-blog · 7 years
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"Arrivederci." "Verrai, vero?" dice Clarissa. "Promettimi che verrai." "Prometto. Arrivederci." Esce dall'appartamento, ancora sul punto di piangere, furioso con Clarissa, vagamente assurdamente innamorato di Julia (lui, che non è mai stato attratto dalle donne, mai dopo tutti questi anni, rabbrividisce ancora al ricordo di quel terribile, disperato tentativo fatto con Clarissa, semplicemente per mantenere il possesso su Richard). Si immagina di scappare con Julia da quell'orribile appartamento privo di gusto, di portare se stesso e lei via da quell'appartamento con le pareti tappezzate di colori chiari e le stampe botaniche, lontano da Clarissa e dai suoi bicchieri di acqua gassata con le fette di limone. Percorre il corridoio poco illuminato (ventitré passi), supera la porta d'ingresso e poi, attraverso la porta principale, esce su West Tenth Street. Il sole esplode come un flash fotografico nei suoi occhi. Si unisce, grato, alla gente del mondo: un uomo che sembra un furetto, che porta a spasso due bassotti tedeschi, un individuo grasso che suda maestosamente nel suo vestito blu scuro, una donna calva (moda o chemioterapia?) che aspira avidamente una sigaretta appoggiandosi alla palazzina di Clarissa e il cui volto sembra un livido fresco. Louis ritornerà qui, in questa città, vivrà in un appartamento del West Village, siederà da Dante con un espresso e una sigaretta di pomeriggio. Non è vecchio, non ancora. La notte prima ha fermato l'automobile nel deserto dell'Arizona ed è rimasto immobile sotto le stelle finché non ha sentito la presenza della sua anima, o comunque si voglia chiamarla, quella parte che era stata un bambino e che ora - sembrava solo un momento dopo - era in piedi nel silenzio del deserto, sotto le costellazioni. Pensa con affetto distratto a se stesso, al giovane Louis Waters, che ha trascorso la giovinezza vivendo con Richard, che era variamente lusingato e irritato dall'infaticabile adorazione che Richard dimostrava per le sue braccia e il suo culo, e che alla fine lasciò Richard per sempre dopo un litigio alla stazione di Roma (era stato specificamente per la lettera che Richard aveva ricevuto da Clarissa, o era stato per la sensazione più generale di Louis di un interesse esaurito nell'essere l'elemento più adorato, ma anche il meno brillante?). Quel Louis, solo ventottenne ma convinto della sua età avanzata e delle sue opportunità perdute, aveva camminato lasciandosi Richard alla spalle ed era salito su un treno che poi scoprì essere diretto a Madrid. Era sembrato all'epoca un gesto drammatico ma temporaneo, e mentre il treno avanzava (il conducente lo aveva informato, sdegnoso, di dove stava andando) si era sentito stranamente contento. Si era liberato. Adesso rammenta a malapena i suoi giorni senza meta a Madrid: non ricorda neanche con tanta chiarezza il ragazzo italiano (il suo nome poteva davvero essere Franco?) che lo convinse alla fine ad abbandonare il progetto lungo e destinato a fallire di amare Richard in favore di passioni più semplici. Ciò che ricorda con assoluta chiarezza è di essere seduto su un treno diretto a Madrid, a provare il tipo di felicità che immaginava potessero sentire gli spiriti, liberati dai loro corpi terreni ma ancora in possesso della parte essenziale di sé. Cammina verso est in direzione dell'università (settantasette passi fino all'angolo). Aspetta per attraversare.
Le Ore
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iomangioigrillini · 8 years
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4 cose che ho imparato sui grilli
1) Lo scetticismo culturale delle persone, il primato della farina
Senza dubbio alcuno non sarà facile per un popolo abituato a quella che conosciamo come dieta mediterranea far passare e rendere commestibile il concetto di “insetto come alimento”. Se da un lato la curiosità è sempre un motore importante per aprirsi a nuove esperienze, dall'altro è indubbio che mettere in bocca per la prima volta un grillo, una cavalletta, uno scorpione o una larva, non possa essere per tutti semplice e immediato. La conferma sul campo – seppur avendo a disposizione un pannello molto ristretto – l'ho avuta anche nella mia breve esperienza in cucina. Se è vero che non sono stati così pochi gli ospiti che si sono fatti trascinare dalla curiosità, lo è altrettanto il fatto che la soluzione più apprezzata sia stata quella che riporta più o meno al vecchio detto dell'occhio che non vede… Mangiare insomma una fetta di una pagnotta dove alla farina tradizionale sia stata aggiunta farina di grillo (parlando del mio caso) è qualcosa che si può affrontare per 8 convitati su 10, mentre il numero si riduce a meno della metà se consideriamo l'insetto intero, visibile e riconoscibile. Almeno in un primo periodo, ammesso che l'intera faccenda non finisca per essere solo una moda passeggera destinata a creare una piccola nicchia e poco più, sarà di sicuro la farina a fare la parte del leone, nuda o all'interno di quei prodotti trasformati (penso tanto per fare degli esempi alla pasta di Bugsolutely o Spagrillo o ai crackers di Crické) che già stanno facendo da apripista nel mercato. C'è sicuramente un problema legato ai costi, che al momento non sono proprio contenuti (siamo sui 5 euro per un pacco di pasta da 350g e si parte dai 23/25 euro al chilogrammo per la farina di grillo), ma con ogni probabilità dovrebbero scendere con l'aumento dei soggetti coinvolti nel settore. E' la concorrenza, bellezza!  
2) Si possono allevare a casa senza problemi se…
Chi - come il sottoscritto - abbia vissuto la fase di passaggio dal cortile con le galline razzolanti al decoro condominiale e alla spesa settimanale al supermarket all'angolo, non può non provare un certo entusiasmo nella possibilità di (tornare a) produrre una parte più o meno consistente di proteine per il consumo domestico nella propria abitazione. Con gli insetti questo torna ad essere teoricamente possibile? Dopo aver assaggiato per qualche mese la convivenza tra le quattro mura con una colonia di grilli, la risposta sembra essere totalmente affermativa, per quanto sia da mettere in bilancio qualche cambiamento nello stile di vita e un suono di sottofondo costante e continuo nell'arco delle 24 ore. Per ciò che riguarda gli odori di un allevamento domestico – che come detto possono anche risultare un pochino fastidiosi - il consiglio è quello di aggiungere ogni tanto un po' di fieno profumato nelle vasche dove crescono i grilli. Per loro (come praticamente qualsiasi cosa del resto) sarà un alimento da sbocconcellare, e insieme lascerà nell'ambiente destinato all'allevamento un buon odore balsamico. Tra le questioni più dibattute al momento, vista la prossima commercializzazione degli insetti da mangiare anche nel nostro paese, c'è proprio quella legata agli allevamenti, e agli standard da stabilire per mantenere un livello costante di qualità e garantire al contempo la sicurezza del consumatore finale. Nel mio caso la questione è stata affrontata consultando quanto più materiale possibile attinente alle patologie dei grilli allevati, e insieme moltiplicando l'attenzione all'igiene dell'ambiente nel quale far crescere la colonia. In rete si trovano molti video di persone che nel loro garage – non in Italia, sia chiaro! - hanno già allestito piccoli o medi centri di allevamento degli insetti, destinati al consumo personale e non… che sia una strada percorribile presto anche dalle nostre parti? Dipenderà anche da come (e quando...) si muoverà il nostro apparato legislativo, che per ora si è distinto per la sua immobilità e per l'incapacità di considerare l'entomofagia come possibile fonte di positivi cambiamenti culturali, a dispetto delle indicazioni da tempo impartite a livello europeo. E' l'Italia, bellezza!
3) Analisi del gusto: poco WOW! e molta sostanza (proteica)
A scanso di equivoci chiarisco subito la mia posizione per ciò che riguarda il gusto: mangiare i grilli (la mia esperienza da entomofago si limita per ora a questi) non fa strillare al miracolo, né può essere paragonabile al piacere provato all'assaggio di altri alimenti tradizionali. Il cervello rimanda a sapori già provati in precedenza (tipo il sapore dei crostacei e della nocciola), la croccantezza (in particolare nella versione dei grilli essiccati con l'aggiunta di sale) è sicuramente piacevole ma niente di tutto questo fa sì che venga voglia di strapparsi i capelli. La sensazione di piacere è qualcosa di meno immediato e di più strutturato, impossibile da provare senza avere la piena consapevolezza di trovarsi di fronte a un alimento altamente proteico, ricco di sostanze benefiche per l'organismo. Un piacere più ragionato, se così può definirsi, che assegna la giusta importanza al valore nutrizionale dell'alimento, insieme al gusto. Per questo fa un po' strano trovarsi di fronte a preparazioni del tutto tradizionali dove venga aggiunto, a mo' di trofeo, un grillo a far bella mostra di sé. Le tartine con salsa guacamole con l'immancabile grillo/trofeo aggiunto in cima mi mettono addosso insomma una bella dose di tristezza, mentre per parte mia apprezzo quanti (in particolare alcuni chef) si stiano dando da fare per caratterizzare quanto più possibile l'assaggio, studiando e sperimentando, spingendosi oltre il semplice accostamento di ricetta tradizionale (spesso fighetta) e insetti commestibili. E' l'insostenibile leggerezza della fuffa, bellezza!  
4) Affinità e divergenze tra “entoentusiasti” e “gastrofanatici”
Quali quindi i rischi del fare comunicazione intorno al mondo dell'entomofagia? Qualche tempo fa quel grande di René Redzepi aveva giustamente osservato: “Penso che la sostenibilità sia un valore che rende una cena più piacevole (…) so benissimo che tra un piatto di grilli e una tagliata di fassona, il cliente normale sceglie la seconda”. Ecco, dimenticarsi che il motore di questo cambiamento nella cultura alimentare italiana e europea sia il bisogno di avere accesso a altre fonti proteiche rispetto a quelle odierne, molto costose sotto tanti punti di vista e certamente non sostenibili, rischia di far scadere il tutto a un'esperienza modaiola, superficiale, al brivido di un momento. Abbiamo già assistito (e troppo spesso assistiamo) alle ridicole deviazioni del gastrofanatismo, con chef rockstar, cercatori della lenticchia perduta e blogger desiderosi di mostrare sui social le foto perfette dell'ultimo piatto assaggiato, per non temere che gli attuali “entoentusiasti” possano ripercorrerne i passi falsi. La “sfida culturale” che si prospetta per proporre al grande pubblico un'esperienza tutt'altro che facile da digerire non può non tenere conto, soprattutto nel campo della comunicazione, di concetti base come la sostenibilità e il valore nutrizionale di una scelta del genere, insieme all'attenzione per il gusto. Le moderne ossessioni nel mondo del cibo, tipiche di questo periodo storico che ci fa mangiare più per moda che non per fame, hanno prodotto effetti tanto disastrosi da essere ormai sotto gli occhi di tutti. Gli insetti, che con ogni probabilità - almeno nella mia visione personale - faranno difficoltà ad essere le nuove aragoste di questo millennio (la sapete vero la storia delle aragoste come cibo povero?), possono rappresentare il punto di partenza per la ricerca di un nuovo equilibrio nella nostra cultura del cibo. Raccoglieranno il guanto di sfida i comunicatori del settore?
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jacopocioni · 2 years
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L'Oratorio di Santa Maria Vergine della Croce al Tempio
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Questa piccola Chiesetta è entrata di prepotenza nelle mie ricerche per capire da dove derivasse il nome della “Compagnia de' Neri”. Sembra che questa fosse l'originaria sede della Compagnia a due passi dal Tabernacolo all'angolo con via de' Macci dove nasceva la Compagnia stessa. La Compagnia de' Neri era in realtà una sotto-compagnia della Compagnia di Santa Maria della Croce al Tempio. Dalle ricerche effettuate si può desumere che in origine si trattasse di uno 'spedale templare sito in via del Tempio, nome della via originario dell'epoca. Quando l'Ordine Templare fu abolito da Clemente V nel 1307 il luogo rimase inutilizzato. In seguito alla formazione della Compagnia di Santa Maria della Croce al Tempio il 25 marzo del 1347 questo spazio fu affidato loro, il nome della Compagnia deriva infatti dal nome della Chiesetta eliminata la desinenza Vergine. Questo Oratorio era destinato alla preghiera e alle riunioni della Compagnia, non era però pubblico e vi si poteva accedere solo come membri della Compagnia o con il loro permesso. In attesa della costruzione della Chiesetta al Tempio, fuori dalle mura cittadine, era in questo luogo che i condannati a morte potevano pregare per l'ultima volta prima di essere condotti ai Prati della Giustizia, percorrendo quella che poi era divenuta via dei Malcontenti, dove veniva eseguita la sentenza. La sua architettura si confà al periodo, la facciata appare semplice con pietre irregolari disposte a filaretto, al centro un portone in legno lavorato dove si riconoscono nei due polilobi superiori due stemmi, uno della compagnia e l'altro di uno dei rami della famiglia Torrigiani. In perpendicolare sopra il portone c'è un rosone a vetri quadrati e al lato del portone due finestre con arco a tutto sesto protette dalle originali inferiate in ferro battuto. Sempre al lato del portone all'altezza del basamento delle finestre ci sono due ghiere originali in ferro battuto, fatte ad anelli, che servivano per posizionare gli stendardi della Compagnia. La facciata si caratterizza inoltre per un elemento molto particolare. Si tratta un tetto sporgente non convenzionale, non in uso all'epoca. Il tetto è dirimente nella descrizione del Fioretti per identificare questo Oratorio come la sede ufficiale della Compagnia (Storia della Chiesa Prioria di Santa Maria del Giglio e di San Giuseppe – Fioretti – Forti Firenze 1855 pag. 76). L'interno dell'Oratorio oggi ci appare come un vano rettangolare a navata unica con un pavimento in cotto e coperto da un tetto a capriate.
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Targa trascritta Le due pareti laterali presentano due porte con stipiti ed architrave in pietra serena che oggi chiudono due armadi a muro. Queste due porte erano probabilmente l'accesso alle palazzine laterali che facevano parte dello 'spedale. Lungo le pareti andando verso il fondo sono presenti sei nicchie atte probabilmente a porvi dei lumi, uno per ogni letto, forse risalenti all'uso 'spedale al tempo dei templari. Sempre sulle pareti laterali in fondo all'Oratorio sono presenti due targhe. La prima del 1428 quando un antenato di Michelangelo Buonarroti lasciò un'eredità alla Confraternita per la ristrutturazione dello 'spedale.
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Affresco nell'arco ad ogiva L'affresco nell'arco ad ogiva della parete di fondo risale al 1928 ed è una celebrazione della Confraternita voluta dal parroco di allora della vicina chiesa di S. Giuseppe, Mons. Luigi d'Indico (La Confraternita di Santa Maria della Croce al Tempio – D’indico – Stabilimento tipografico E. Ducci Firenze 1912). L'affresco presenta sullo sfondo le mura fiorentine, sotto la Madonna del Giglio in gloria tra due angeli, (Madonna del Giglio che come sostiene il Fioretti era la Madonna che ispirò i giovinetti a formare la Compagnia ((Storia della Chiesa Prioria di Santa Maria del Giglio e di San Giuseppe – Fioretti – Forti Firenze 1855 pag. 87). Due cortei che si incontrano, quello proveniente da destra è dei confratelli, il corteo di sinistra è capeggiato da Lorenzo il Magnifico. Al davanti del corteo di sinistra Papa Eugenio IV parla con il Battista. Al davanti del corteo di destra San Francesco indica la Vergine al Savonarola. Sempre nel corteo di destra si vede il ritratto di Benito Mussolini.
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Disegno dell'affresco L'affresco risulta fortemente danneggiato dall'alluvione di Firenze del 1966 ed oggi appare come nella foto a sopra mentre nel disegno qui sotto se ne può apprezzare l'originale immagine.
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Lunetta a mosaico Un piccolo mosaico con il volto di Cristo sulla parete destra eseguito nel 1923 ricorda il nome di Monsignor D'Indico che fu colui che riattivò la Compagnia ed appunto una pittura a metà della parete sinistra ricorda la rinascita della Compagnia come Confraternita nel 1912.
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Interno dell'Oratorio Si deve fare un inciso sulla pianta interna dell'Oratorio che oggi appare molto diversa dall'originale. In origine erano presenti due stanze appena entrati, una alla destra e una alla sinistra e il tetto delle due stanze era un ballatoio subito al disotto del rosone. Le due finestre quindi servivano a dare luce alle due stanze e il rosone per dare luce all'Oratorio. Ne descrive questa pianta anche Richa (Notizie istoriche delle chiese fiorentine – parte 2 del quartiere di Santa Croce – Richa – Viviani Firenze 1775) che ricorda una stanza a destra entrando utilizzata per le adunanze segrete e una a sinistra dove la Compagnia dava udienza ai poveri e a chi si rivolgeva a loro. La stessa disposizione è descritta anche da Gio. Battista Uccelli (Della Compagnia di S. Maria della Croce al Tempio – Lezione recitata il 27 gennaio 1861 alla Società Colombaria – Gio. Battista Uccelli – Firenze Tipografia Calasanziana 1861 pag. 15). Questa struttura è stata probabilmente abbattuta in seguito all'alluvione del 1966. A testimonianza di questa architettura è anche la lettura dell'Uccelli per quanto riguarda i beni delle Compagnia (pag. 29). Questa disposizione ci viene anche testimoniata dal Dott. Giampiero Cioni, forse l'ultimo vivente ad aver fatto parte della rinata Compagnia in tenerissima età (Il Dott. Cioni ci ha rilasciato un racconto inserito nell'articolo riguardante la storia della Compagnia). 
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Nel registro dei beni posseduti dalla Compagnia Libro I° spedali c.4 dell'anno 1548 si trova fra le proprietà: “Una casa alato a la di sopra tiene il capelano per suo abitare. La proprietà era di Mona di Bartolomea donna di Tanino di Bartolomeo da Monte Cuccoli e che fu lasciata alla Compagnia“. Questa casa si riferisce al terra-tetto in via San Giuseppe 12, cioè al lato sinistro dell'Oratorio di Santa Maria Vergine della Croce al Tempio. Il fatto che sia specificato oltre che alato anche sopra ne avvalora il sospetto infatti chi percorrendo via San Giuseppe si fermasse ad osservare noterebbe che questa casa ha un'estensione sopra l'Oratorio, cioè sormonta con un'ala il tetto dell'Oratorio (nella fotografia di destra se ne intravede un pezzettino). Durante dei lavori di ristrutturazione di questa ala furono trovati i primi due scalini di una scala a chiocciola che in verticale calava nell'angolo a sinistra entrando nell'Oratorio. Considerando che era ad uso abitativo del cappellano questo avrebbe un senso in quanto lo stesso avrebbe avuto un accesso diretto al'Oratorio. La stessa scala oltre che raggiungere la stanza di sinistra si apriva anche sul ballatoio che nel 1912 dopo la riapertura della Compagnia veniva usato per cantare le novene di Natale, come appunto ci ricorda il Dott. Cioni per aver fatto parte del coro. Da dire inoltre che nel 1428 grazie alla donazione dell'antenato del Michelangelo, Simone Buonarroti, di cui abbiamo già parlato, questa palazzina si integrò con lo spedale che la Compagnia allestì alla sinistra e alla destra dell'Oratorio stesso (La Compagnia de’ Neri – L’arciconfraternita dei Battuti di Santa Maria della Croce al Tempio – di Eugenio Cappelleti – Felice Le Monnier editore 24 maggio 1927 Firenze pag. 40).
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Jacopo Cioni Read the full article
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