#dimagrire tanto nelle gambe

[sono-veramente-io]

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Le ore precedenti alla mia morte non furono strane come mi aspettai, non me ne accorsi neppure.

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La mattina, quando mi svegliai, sentii che quello sarebbe stato un giorno diverso. Ancora non sapevo se in bene o in male. Preparai la colazione a mio padre e uscii velocemente di casa per evitare le sue parole velenose.

Come sempre.

Io invece la saltai, la colazione intendo, e al posto di quella andai a correre.

Come sempre.

Tornata a casa mi cambiai, e mi avviai a scuola. Presi la metro e scesi una fermata prima, per evitare di far vedere all'intera scuola che venivo con essa e non con una macchina di lusso.

Come sempre.

Appena entrai nei corridoi tutti si separarono per farmi passare.

Come sempre

La più popolare.

Che bell'etichetta, potevo scegliere qualunque cosa, una cosa meno impegnativa come la sfigata o la secchiona. Invece, grazie al mio carattere, sono andata a scegliere la popolare.

Ed ogni cosa ha i suoi pro e i suoi contro, purtroppo non vedo i pro in questa. Ed ormai ci sono troppo dentro per chiamarmi fuori

Sentii le ragazze chiamarmi puttana, e sentii i ragazzi fischiarmi dietro, chiedendomi un pompino o una sveltina.

Come sempre.

Ma non gli ascoltai.

Come sempre.

La mela cadeva sempre vicino all'albero, non li contraddivo, effettivamente facevo davvero la puttana, ma non per mia scelta, avevo bisogno di soldi e nessuno accettava una ragazzina per un lavoro ben pagato.

Questo era l'unico modo.

I pro erano soldi veloci e facili.

I contro erano molti, come primo c'era odiare me stessa.

Un odio che mi portava ad attacchi di panico squarcianti, che mi portava ad un disturbo alimentare, che mi portava a farmi del male, che mi portava a graffiare le braccia e le gambe fino a farle sanguinare perché mi facevo schifo. Provavo così tanto odio verso me stessa da non riuscire nemmeno a guardarmi allo specchio.

E tutte queste cose erano calcate ed evidenziate dalle prese in giro a scuola, dalle parole orribili di mio padre e dall'assenza di mia madre. Morta quando andavo in seconda media.

Quanto potere hanno le parole, piccoli suoni usciti con frivolezza dalla bocca di una persona, si trasformano in squarci enormi nel cuore di un altra.

Si trasformano in odio e disgusto verso se stessi.

Si trasformano in malattie mentali, disturbi del comportamento alimentare e molto altro.

Concretamente si trasformano in tagli, in graffi e pizzicotti.

In corse infinite ed estenuanti per bruciare le calorie che si hanno ingerito.

In chiudersi in bagno a vomitare dopo ogni abbuffata.

In sentirsi male ogni volta che si ingerisce qualcosa.

In farsi del male per sfogare tutte le emozioni che traboccano da un cuore spezzato.

In piangere fino ad esaurire le lacrime e i fazzoletti.

In sprofondare la testa nel cuscino per soffocare le urla.

In paura di indossare reggiseni per la sensazione di mancanza di aria.

In farsi abbattere dai giudizi degli altri.

Tutto questo per delle misere e fottutissime parole.

Mi avviai verso la classe di inglese, e mi sedetti all'ultimo banco vicino alla finestra.

Come sempre.

Mi misi a guardare fuori, spaziavo con la mente mentre osservavo turbini di nuvole scomporsi e ricomporsi.

Pensai alle calorie che avrei dovuto ingerire per rimanere viva, pensai al nuovo digiuno che stavo sperimentando, pensai alla combustione di grassi che stava avvenendo nel mio corpo, dopo dodici ore di digiuno.

E mi sentii potente, come sempre quando non mangiavo.

Mi sentii come se il mondo fosse nelle mie mani, come se diventare magra fosse la soluzione a tutti i miei problemi.

Peccato che la magrezza per me non esistesse, che la perfezione non esistesse.

Nella mia mente malata continuavo a ripetere che dovevo dimagrire, che mancava poco, che mancava un solo chilo. Ma dopo quel chilo ne seguiva un altro, e poi un altro ancora, fino a sentirmi male o a svenire.

Tanto a nessuno importava di me, tanto nessuno conosceva la vera me.

Tutti conoscevano una delle maschere che perennemente portavo.

Tutti ne conoscevano una diversa, una peggiore dell'altra.

Mio padre credeva fossi un mostro schifoso da eliminare.

I miei compagni mi conoscevano come una gatta morta, popolare, con una famiglia e una storia perfetta il cui unico scopo è apparire.

I clienti del club in cui lavoravo semplicemente non mi conoscevano, a loro bastava sapere che scopavo bene. Il resto non era importante.

Come sempre.

Quanto potevo restare senza cibo? Quanto tempo dovevo aspettare prima di non avere le forze nemmeno di alzarmi dal letto? Quanto tempo mi restava prima che le malattie di cui soffrivo mi portassero alla morte? Quanto ancora potevo resistere, vivere in questa situazione?

Quanto tempo mancava prima che mi abbandonassi ai gelidi arti della morte, accompagnata da qualche melodia suonata al pianoforte?

Quanto tempo mancava?

Tempo, tempo e solo tempo.

Troppo, troppo poco. Ne siamo dipendenti, il tempo è denaro. Ma il denaro è tempo? Quanto denaro si è disposti a spendere per restare del tempo con una persona cara?

Io spenderei fino all'ultimo centesimo per restare ancora dieci minuti con mia madre.

Darei la vita per poterla riabbracciare, e l'anima per poterle parlare.

Appena finite le lezioni mi recai dal fioraio a prendere delle margherite e delle rose da portare sulla tomba di mia madre.

Come sempre.

Margherite, così belle e così sottovalutate. Un fiore che viene costantemente calpestato dagli altri, eppure continua a crescere, più forte e vigoroso di prima. Una pianta infestante, che si propaga fino a diventare estenuante nella sua bellezza.

Rose, così belle e così sopravvalutate. Un fiore che nessuno oserebbe rovinare. Un fiore maestoso e consapevole della propria bellezza. Cresce da sola, in una pianta rampicante, che si aggrappa con le spine ai bordi del cuore, e se si prova a staccarla più lo lacera.

Mi sento così, mia madre era un perfetto miscuglio tra rose e margherite. Ed andandosene ha strappato il mio cuore, lasciandolo spoglio, invece, di una pianta così comune che diventa normale, ma quando poi viene tolta ne si sente la mancanza.

Appena poggiai i fiori sulla tomba ne poggiai anche la fronte, mi chinai sulla lapide e feci scivolare sulle guance delle piccole lacrime, facendole finire tra i piccoli ciottoli della lapide.

Piantai le unghie negli avambracci già segnati dai tagli, causati dalle fantomatiche parole usate solo per scherzare, dandomi la colpa della sua morte.

Come sempre.

E come ultimo ringraziamento mi diressi verso una sala allestita da mia madre moltissimi anni fa.

Nessuno ci aveva mai messo piede dall'incidente.

Fu proprio come me la ricordavo, le pareti tappezzate di specchi, delle sbarre a creare un perimetro, un pavimento in legno e tante scarpe da ballo, costumi, calze, gonne, body sparsi in giro.

Infilai il primo body e la prima gonna che trovai, accendendo la musica.

Alzai al massimo il volume e misi una delle nostre canzoni preferite.

Ballai fino a non sentire più i piedi, fino a che le braccia non mi fecero male, la schiena si intorpidì e la mia mente si annebbiò.

Si annebbiò di un'idea folle.

Si innamorò di un'idea folle.

Folle come il sorriso che dipingeva le mie labbra.

Folle come la corsa che feci per raggiungere il palazzo dove vivevo.

Folle come la porta che abbattei per arrivare sul tetto.

Folle come il salto che feci oltre il cornicione.

Non mi ero mai sentita così viva come nel momento in cui stavo per morire.

Che paradosso, vero?

Mentre precipitavo nel vuoto non mi ero mai sentita così libera, così spensierata e priva di ogni preoccupazione.

L'ultima immagine che vidi prima di schiantarmi con la schiena rivolta verso terra fu un uccellino, che si libbrava nell'aria come facevo anche io fino a poco fa.

Chiusi lentamente gli occhi, sulle soavi note della melodia che ancora imperversava nelle mie vene.

Chiusi gli occhi un ultima volta, felice di poter raggiungere la mamma.

Chiusi gli occhi un ultima volta, felice di non dover più sentire parole cattive.

Chiusi gli occhi un ultima volta, felice di essere priva di ansie e preoccupazioni.

Chiusi semplicemente gli occhi.

Abbandonando anima e corpo.

Come mai

"Le ore precedenti" di adel_bi.

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