Oltre la percezione
Stavo attraversando la barriera temporale. Se il tempo lo si può guadare con moto proprio e volontario, liberandosi dalle rapide perenni dei secondi che si gettano nel passato, io lo stavo percorrendo, senza freni né limiti, espulso dal suo flusso monocorde. Non so come lo compresi: ne possedevo una spontanea consapevolezza che non ammetteva dubbi. Il gorgo che roteava dentro di me era ripido, sottraeva il fiato, sbriciolava i pensieri. Poi la mareggiata di percezioni sensibili mi travolse. Rumori, odori, sapori, aderenze, colori. Tutti di un calibro inimmaginabile, incontenibile per i miei recettori finiti. La luce fluida, densa, fumosa, impermeabile, che non si lasciava attraversare dallo sguardo, mi avvolse. Era una luce che urlava, i suoi acuti erano opprimenti, le sue dita di acciaio ti stringevano l’anima. La luce era fredda, priva di calore, e le sue volute erano cangianti, in profondità i colori ristagnavano imprigionati tra le pieghe, come in camere dalle pareti sbarrate e imbottite. Colori estremi, tutti, senza ordine, fusi uno nell’altro, e poi di nuovo indipendenti, nitidi, senza sfumature, senza la razionalizzazione imposta dalla spettrografia, ribelli alla pacifica convivenza nella luce bianca. Colori estremi. Nessun artista avrebbe mai potuto riprodurli, nessuna suggestione paesaggistica, nessuna incarnazione della natura poteva avvicinarsi a quella disperata perfezione.
I colori. I colori vibravano svincolati da ogni contenuto, isolati nel fattore cromatico, divinità primordiali prigioniere nei recessi di un culto estinto, non più figli obbedienti della luce, i colori come uno spasmo verso la vita, un lamento di esistenza mancata. Fui immerso nei colori. E assieme ai colori i suoni, gli odori, i sapori, le aderenze, l’idea stessa di sensibilità, l’anima priva del corpo, rumori, note musicali scappate disordinatamente da un pianoforte, staccate dal pentagramma, dall’ordine musicale, dall’armonia dell’universo, rumori e note vibravano assoluti, né mano umana avrebbe potuto trascriverli su carta e ripeterne le melodie antiespressive, né orecchio aveva mai udito il loro forsennato infuriare. Il suono selvaggio, il richiamo brado di animali indomabili, le percussioni ottuse dei pensieri dell’uomo contro la paratia della stiva, contro l’insufficienza del cosmo, l’esplosione di stelle traboccanti miliardi di anni e materia fibrillante.
E il tatto, l’aderenza completa del corpo, l’appartenenza, la fusione con la luce densa, era dentro di me, mi attraversava, una compenetrazione tra le membra, come disgregarsi in infinite particelle infinitesimali e ognuna di esse abbracciava una particella di luce, si avvinghiava a lei e poi tornava a ricollocarsi al suo posto per dare vita al mio corpo ricostruito, intatto, invaso dalla luce densa, cangiante che pulsava dentro di me con i suoi colori, i suoni, gli odori, i sapori.
Furono istanti intensi, ma non provavo ancora orrore. Assistevo a uno spettacolo inenarrabile, come mai avrei immaginato possibile, un trionfo di elementi incontaminati, puri, che si avvolgevano, si contorcevano, stridevano l’uno con l’altro in una contrazione disperata verso la vita, la creazione, l’incarnazione nell’essere, la codificazione della materia. Ne percepivo la sofferenza diffusa, più che sofferenza era un fremito: quegli elementi primari erano intrappolati nell’assenza della vita, ma non ne soffrivano coscientemente, come animali nati in gabbia, che non conoscendo la libertà non comprendono la propria prigionia e fremono nello spazio angusto che hanno a disposizione. Conobbi l’esaltazione dei sensi, il loro pulsare fino all’ultimo stadio, oltre i vincoli della vita e della morte, del tempo, della distanza. Il vortice iniziale nel quale sentivo di precipitare si attenuò, ora galleggiavo sospeso in un alone di fumo scuro, come se fossi stato avvolto da un anticorpo prodotto dall’immenso organismo all’interno del quale ero un estraneo. La mancanza di direzioni, non un suolo su cui poggiare i piedi, un soffitto da sentire sopra la testa, rettilinei d’aria in cui infilare le braccia, mi rendeva impossibile definire la posizione del mio corpo. Ero ancora in piedi o ero svenuto, sdraiato a terra esanime, mentre il mio spirito si dissociava in una emulsione onirica; sarei mai tornato alla realtà. Ma esisteva una realtà che potesse definirsi tale in contrapposizione alla quale potevo riconoscere l’irrealtà o il sogno, l’incubo o le allucinazioni, l’assurdo o il metafisico.
Il flusso costante di particelle che mi attraversava non era spiacevole, la paura si attenuava prevaricata da una curiosità inappagata da una lenta assuefazione a stimolazioni nuove. Poi all’improvviso, quando già cominciavo a ritenere un’esperienza piacevole l’immersione nel primordio, divenne morbo contagioso, ferita infetta e maleodorante. Non mutarono i colori nel loro aggrovigliarsi confuso, non mutarono le cascate di suoni e note che rutilavano nella densa foschia violacea, ma cambiò improvviso il mio modo di sentirli, la compressione del mio spirito nel ricevere quelle sollecitazioni.
Muffa, fuliggini, putrefazione, rigagnoli di sangue scuro, il suono cupo del distacco, il sapore della malattia. Le grida dei colori, disperate, la luce che urlava i suoi acuti opprimenti di orrore. La luce era gelida, priva di calore, le sue volute erano cangianti, in profondità i colori erano imprigionati tra le pieghe, come in camere dalle pareti sbarrate e imbottite contro cui scagliavano esasperati la propria impotenza. L’immersione in un fluido di non vita, nella brodaglia indifferente divenne soffocante, mi rivoltai, cercai di nuotare per sottrarmi, per tornare alla vita, lontano dalle tenebre del pensiero, dove era sottratto anche il riparo dell’oscurità.
Poi mentre l’esasperazione iniziò a bruciarmi nella testa, dal fondo limaccioso di quella palude di sensazioni perverse, emersero due mani ruvide, rinsecchite ad artiglio che si diressero verso di me…
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Mio padre aveva molti amici e, spesso e volentieri, all’ora di cena ne portava a casa qualcuno, senza avvisare. Lì per lì, mamma era sempre un po’ a disagio, temeva di fare brutta figura, che l’ospite non gradisse la sua cucina, ma poi trovava sempre il modo di improvvisare una ricettina delle sue con quel che trovava in frigo. Noi bambini venivamo mandati a letto presto, tra mille lamentele, perché avremmo voluto rimanere alzati anche noi e unirci alla combriccola. E così fece mio fratello, non appena fu abbastanza grande per tenere in mano le carte come un vero adulto. Papà andava talmente fiero della precoce abilità per il Poker mostrata dal figlio maggiore, che nel giro di un paio di settimane lo ammise ufficialmente al tavolo da gioco. Facevano coppia fissa, ed erano imbattibili. Io me ne stavo accovacciato sul letto, dividendo la mia attenzione tra le grida festose provenienti dal piano di sotto e interminabili solitari in cui sprofondavo per ore, fino a che gli occhi diventavano troppo pesanti e dovevo infilarmi sotto le coperte. Quando mio fratello tornava su fingevo sempre di dormire, ma lui sapeva che l’ascoltavo e, con voce eccitata, iniziava a parlarmi della serata trascorsa. “Anche stasera abbiamo vinto”. Con quel plurale di appartenenza e complicità che era come una pugnalata. Poi era il silenzio. E anche nel silenzio eravamo diversi. Il suo era riposo. Il mio, oblio. - da "La bambina che ringhia", il mio romanzo d'esordio in uscita questo mese. Sono cresciuto in una famiglia problematica (anche se non quanto quella di Tancredi nel libro) e attraverso i miei personaggi cerco di esorcizzare il dolore. Scrivere è meglio che andare dallo psicologo, fidatevi.
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