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storiearcheostorie · 1 year
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SCAVI / Lastre decorate, altarini e bacini lustrali: da Muro Leccese nuove testimonianze della città messapica
Nuovi ritrovamenti archeologici a Muro Leccese (LE), una delle più grandi città messapiche. Trovata una stanza pavimentata con cinque enormi lastre decorate con motivi geometrici a rilievo, tre altarini e reperti legati a un recinto sacro
Nuovi ritrovamenti archeologici a Muro Leccese (LE), una delle più grandi città messapiche. Trovata una stanza pavimentata con cinque enormi lastre decorate con motivi geometrici a rilievo, tre altarini e reperti legati a un recinto sacro, tra le quali dei bacini lustrali (uno con iscrizione) riccamente decorati nei quali era contenuta l’acqua utilizzata durante i rituali. ©SABAP Brindisi e…
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religio-iapygiorum · 1 year
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THANA
.: iapygian deity associated with deer :.
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[IMG TRANSCRIPTION (mirrored): Ψana. IMG SOURCE: F.G. D’Andria, Archeologia dei Messapi (Bari: Edipuglia, 1990), 232.]
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Inscriptions dedicated to Thana are found in several locations across Messapia. One inscription is on a pottery sherd found at the sanctuary of Scala di Furno, where deer bones were also found, and surrounding sherds can be reconstructed to form part of the image of a fawn.
A few scholars suggest that since she is clearly associated with deer, Thana was thus syncretized with Artemis. However, plenty of inscriptions devoted to Artemis (spelled Artamis in Messapic) are also found across Iapygia, so they seem to have been two separate deities in this time and place.
Thana is also the name of a goddess found in Illyria (nearby in the modern-day Western Balkans), where she is a goddess of forestry and hunting. Thana is often portrayed with different iconography from Roman Diana or Greek Artemis; in Illyria, she’s nearly always paired with the deity Vidasus, another woodlands god.
.: :.
Sources:
J.-L. Lamboley, Recherches sur les messapiens (Roma: École Française de Rome, 1996), 431-432.
Maria Teresa Laporta, “Divinità femminili e titoli sacerdotali nel Pantheon messapico,” in Studia di antichità linguistiche in memoria di Ciro Santoro (Bari: Cacucci, 2006), 217-242.
Ciro Santoro, “Il lessico del ‘divino’ e della religione messapica,” in Atti del IX Convegno dei Comuni Messapici, Peuceti e Dauni, Oria 24-25 novembre 1984 (Bari: Societa di Storia per la Puglia, 1989), 139-80.
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dreamers-queen · 8 months
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SIMU SALENTINI DE LU MUNDU CITTADINI RADICATI ALLI MESSAPI CU LI GRECI E BIZANTINI
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inonda · 11 months
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Il 14 novembre presentazione del volume sulle ricerche a Castro
martedì 14 novembre 2023, alle ore 17 presso il MUSA – Museo Storico-Archeologico dell’Università del Salento (via di Valesio, Lecce), è in programma la presentazione del volume che raccoglie i contenuti della mostra “Athenaion: Tarentini, Messapi e altri nel Santuario di Atena a Castro”, a cura di Francesco D’Andria, Eva Dell’Innocenti, Maria Piera Caggia, Tommaso Ismaelli, Lorenzo Mancini,…
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delinquenzanews · 2 years
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Successo di pubblico e partecipazione per la Festa del Rugby giocata a Brindisi
Successo di pubblico e partecipazione per la Festa del Rugby giocata a Brindisi
Sabato 26 novembre si è tenuta a Brindisi l’evento ENI RUGBY TOUR 2022 presso Il Parco Comunale del Cillarese di Brindisi. Al Club organizzatore, l’Appia Rugby Brindisi si sono unite le società dell’ Amatori Rugby Monopoli, Bernalda Rugby, Bisceglie Rugby, Falcons Conversano, I Messapi Rugby Club, Salento Rugby , Salento XV Trepuzzi Rugby e Valle d’Itria Rugby, oltre a tre Istituti Comprensivi…
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Nuovo post su https://is.gd/CIWTAN
Ritrovamenti messapici e greci a Sava
SAVA, 1889: I RITROVAMENTI MESSAPICI E GRECI, LA VISITA
DEL PROF. VIOLA E L’INDAGINE ARCHEOLOGICA OMESSA
  di Gianfranco Mele
In un articolo apparso su “La Voce di Maruggio” ho parlato esaustivamente del manoscritto di Achille D’Elia “Sava e il suo feudo”, della storia antica di Sava raccontata dal D’Elia (ma anche dall’ Arditi e dal Coco), e della figura del D’Elia stesso fornendo una biografia dell’autore che mostrava la serietà e il peso culturale del personaggio.[1]
Con questo scritto intendo dimostrare come alcune annotazioni dello studioso circa l’archeologia e la storia savese siano assolutamente da rivalutare, sulla base di una serie di interconnessioni con le vicende che coinvolgono la ricerca storico-archeologica nel territorio in quegli anni ed i protagonisti di quella ricerca.
Dobbiamo prendere in considerazione due diversi aspetti dell’analisi fornita dal D’Elia in merito alla Sava antica: le certezze documentarie, e le congetture, senza accavallare e confondere tra loro questi suoi due distinti e distinguibili contributi.
Ora, il D’Elia fornisce, per ciò che concerne le certezze, una serie di dati fondamentali: 1) l’esistenza, in Sava, di quelli che egli chiama “Castelli Castrum Munitum Messapici”; 2) i rinvenimenti di “ monete della vecchia Orra, quelle di Metaponto ed altre molte primitive”; 3) l’esistenza, ancora all’epoca in cui scrive, delle “fondamenta d’epoca evidentemente ciclopica”; 4) il rinvenimento di una serie di reperti visionati anche nell’agosto del 1889 dal “chiarissimo Professore Viola del Reg. Museo di Taranto”; 5) l’esistenza di un sepolcreto messapico a 500 metri dal rione Castelli.
Vedremo più avanti, nei dettagli, per quale motivo le notizie suddette sono da considerarsi certezze. Per quanto riguarda le congetture, invece, il D’Elia finisce con l’identificare il territorio di Sava con la mitica “Sallentia urbs messapiorum”, e qui entriamo sicuramente nel campo dell’ indimostrabile, sebbene lo storico savese Gaetano Pichierri riprenda con slancio e passione nelle sue ricerche, arricchendole di ulteriori speculazioni, queste ipotesi affascinanti ma un po’ visionarie del D’Elia.[2]
A causa di queste conclusioni (che peraltro lo stesso D’Elia presenta come dato ipotetico, quasi fantasioso, e non come convinzione), sia il Coco che storici successivi non prendono troppo sul serio l’opera del D’Elia. Ma c’è di più: ciò che viene considerato veramente inspiegabile e perciò contribuisce a non dar troppo credito a tutto l’impianto del manoscritto è la notizia che il D’Elia fornisce circa le parole attribuite al professor Viola durante la sua visita a Sava: ciò che il Viola vede, lo dichiara, stando a quanto riportato dal D’Elia, “di origine remotissima qual solamente vide a Sparta e Messene“. Come mai, ci si è chiesto spesso, se Viola resta così stupefatto dei reperti rinvenuti in Sava, non ne raccoglie e diffonde documentazione, non li prende con sé esponendoli al Regio Museo, non pubblica un report, non cita e non pubblicizza la scoperta?
La risposta sta proprio nella figura del professore e nella sua biografia, costellate di imbarazzanti contenuti ed episodi. Nel corso di questa esposizione ci soffermeremo a lungo sulla storia del personaggio e su alcuni momenti-chiave del suo operato.
Andiamo ora per ordine, riportando 1) quanto esposto nel manoscritto del D’Elia, 2) i dati e le evidenze a supporto dei contenuti del manoscritto, 3) la questione della visita del Prof. Viola a Sava e della omissione della rendicontazione di quanto osservato.
Contrada Agliano, Sava: un ritrovamento dagli scavi condotti nel 2008 dalla Cooperativa Museion
  La copertina del libro di Evans nel quale son citati i ritrovamenti numismatici avvenuti a Sava
  Il manoscritto del D’Elia
La più esaustiva fonte descrittiva dell’ agglomerato antecendente l’attuale Sava e denominato Castieddi, sullle rovine del quale quale viene fondata Sava, consiste in un manoscritto del 1889 di Achille D’ Elia andato perduto ma del quale Primaldo Coco fornisce vari stralci nella sua opera “Cenni storici di Sava”. Il Manoscritto aveva per titolo “Sava e il suo feudo, storia paesana”.
Prima del D’Elìa sarà l’Arditi a parlare, seppur fugacemente, dei “Castelli”, e successivamente, oltre al Coco, ne parleranno il Del Prete e il Pichierri che forniranno ulteriori descrizioni.
Riporto a seguire i più importanti passaggi dell’opera del D’Elia:
“La storia di Sava non è gran che negli annali civili di questa provincia; essa è circoscritta alla più esigua cronaca militare di una rocca. Non potrebbe però convenevolmente parlarne chi trascurasse rifarsi e discutere dei Castelli Castrum Munitum Messapici, o Salentini ora distrutti e ridotti in un bel giardino ad Oriente della novella Sava […] Ch’essi Castelli fossero costruzione vetustissima – non ben accertato se messapica o salentina per mancanza d’ iscrizioni – lo attestano le monete della vecchia Orra quelle di Metaponto ed altre molte primitive ivi rinvenute miste con alcune della repubblica Tarentina e con quelle romane del basso impero; la irregolarità delle forme nei massi tufacei delle fondamenta ancora visibili – d’epoca evidentemente ciclopica e certi cocci di una tal terraglia pesante come ferro del color della ghisa è bastante che il chiarissimo Professore Viola del Reg. Museo di Taranto in una breve visita fattavi nell’ultimo agosto (1889) dichiarasse di origine remotissima qual solamente vide a Sparta e Messena.”[3]
Come si è visto, qui il D’Elia cita la visita in Sava del Prof. Viola, argomento sul quale torneremo nel seguito di questo scritto per chiarire cosa accadde dopo quella visita. Da notare che il manoscritto è redatto nello stesso anno della visita di Viola, presumibilmente pochi mesi dopo. Il D’Elia prosegue:
“Questi Castelli erano in comunicazione sotterranea con un piccolo fortino sito in contrada Specchiodda e forse anco con quello di Uggiano Montefusco, e di Manduria: ciò che prova che essi rappresentar dovessero un intero sistema di fortificazioni di confini dei due regni Messapico e Tarantino. […]Tale sarebbe la versione più modesta che potrebbe darsi alle dicerie corse sui nostri Castelli. Ci sarebbe dell’altro però. Dalla lunghezza della via sotterranea di forma poligonale, visibile anche oggi in casa Testa e nel giardino Melle, ci sarebbe da arguire che essa servisse alle comunicazioni segrete fra i vari forti.
Dai sepolcri messapici – con la facciata del cadavere sempre rivolto ad Oriente – trovati in gran numero a mezzo chilometro dai vecchi Castelli e ad un metro di profondità in quel tratto di terreno che va dal convento di S. Francesco sino alla via provinciale, ci sarebbe da inferirne che qui fosse un sepolcreto da quelli dipendente.”[4]
Sin qui, il resoconto obiettivo del D’Elia. Con poche righe successive e conclusive entra poi nel campo della congettura:
“Ora ditemi: non potrebbe per un momento venire in mente all’erudito di vecchie cronache che qui davvero – sul confine dei tre regni Messapico, Salentino e Calabro – fosse stata edificata la città di Sallenzia Urbs Messapiorum ?” [5]
  I dati a supporto delle tesi del D’Elia
Dell’antico casale Castelli fornisce per primo alcune notizie Giacomo Arditi:
“Il territorio si appoggia sul sabbione e sul calcare di varia specie; nel predio Castelli, appo l’abitato, sogliono scavando rinvenirsi delle monete di tipo greco […] Qui d’appresso esisteva una volta il casale appellato Castelli, e ne fan fede il nome che ancora dura nella contrada, le due vecchie vie che esistono e che chiamano Vetere o Portoreale, e i ruderi e le monete accennate di sopra. Distrutto Castelli nel sec. XV, o per vecchiezza, o per incidenza delle guerre e dei conflitti allor combattuti tra Spagnuoli e Francesi, i suoi abitanti eressero vicin vicino quest’altro appellato Sava […] “ [6]
Copertina dell’opera di Arditi
  Il Coco a sua volta riprende la maggior parte delle descrizioni dell’antica “Castelli” dal manoscritto del D’Elia, accettandone la ricostruzione dei fatti, ma rigettando l’ipotesi della identificazione di “Sava-Castelli” con la antica e leggendaria Sallenzia, però conclude :
“Quanto poi riferisce l’autore circa la forma dei Castelli, la via sotterranea, i sepolcreti e le monete trovate, merita fede avendo io – le stesse cose – sentite narrare da altri testimoni oculari” [7]
Del resto, sempre il Coco cita alcuni ritrovamenti avvenuti alla sua epoca:
“ Salvatore Schifone trovò in un suo podere non lungi da Sava una grande quantità di monete greche in bronzo.
Sotto l’abitazione del sig. Pietro Schifone furono rinvenuti alcuni antichi vasetti in un sepolcro scoperto a caso. Alcune tombe sono state scoperte nella contrada del paese detta “Castelli” mentre si cavavano le fondamenta di alcune case e vi si trovarono non poche monete di vaolre e oggetti preziosi. Quivi e nei dintorni della masseria di Pasano si osservano tuttora dei cunicoli e dei grandi recipienti scavati nel masso, che i proprietari adibiscono a depositi d’acqua”.
Ad Aliano poi, nel luogo ove sorgeva l’antico paese, oggi di proprietà del sig. Giovacchino Spagnolo, si osservano tuttora molti rottami di argilla, di vasi, di tegole, piccoli idoletti, amuleti, giocattoli per fanciulli, lucerne di creta di varie forme, monete, e altre cosette. Fino a poco tempo fa si osservavano anche avanzi di un antico edificio a ferro di cavallo dai grossi macigni, che divisi e suddivisi in 18 parti sono stati adibiti per nuove fabbriche.
Pare, da ciò che ne riferisce l’attuale proprietario, che dovesse essere un antico tempio pagano.
Altri avanzi di antichi edifici vi erano ai principi del secolo XVIII e furono abbattuti dal feudatario signor Giuseppe De Sinno, che, nella speranza di trovar tesori, intraprese degli scavi, che certo gli fruttarono qualche cosa.
Tutto quanto però si è trovato nei detti casali e dintorni e quanto era rimasto dell’antico è andato soggetto a vandalica distruzione per ignoranza, oper ingordigia”. [8]
Il libro di Primaldo Coco
  Riguardo alle vie sotterranee esiste poi un resoconto di Pasquale Del Prete[9] e altre testimonianze raccolte da Gaetano Pichierri, mentre rispetto a tombe, ritrovamenti e sepolcreto c’è un’ampia ricostruzione del Pichierri stesso corredata da testimonianze, e anche da foto di reperti trovati in una tomba.[10]
Della Sava messapica parla anche lo studioso francavillese Cesare Teofilato, laddove nel suo scritto su Allianum la descrive come caratterizzata da una cinta megalitica distrutta:
“Quell’ antico braccio della Via Traiana che partendo da Taranto costeggiava il Sinus Tarantinus prende tuttora, nel tratto che attraversa gli agri di Sava e Manduria, il nome tradizionale di Via Consolare. Quivi, lungo il suo percorso, toccava tre stazioni di vita messapica: Allianum, la cinta megalitica di Sava, barbaramente distrutta o seppellita, e la più celebre muraglia di Mandurium.”[11]
Sava, via S.Filomena: Skyphos a vernice nera del IV sec. a. C. rinvenuto in una tomba (foto G. Pichierri)
  Fondamentali, rispetto alla documentazione sulle monete ritrovate, una serie di testimonianze di Attilio Stazio e altri ricercatori che riassumo a seguire. Abbiamo già citato l’opera del 1879 dell’Arditi, nella quale, a proposito di Sava, riferisce di ritrovamenti di antiche monete “di tipo greco” nel rione Castelli; dieci anni dopo, come abbiamo visto, il D’Elia sempre parlando dei Castelli riferisce i ritrovamenti di “monete della vecchia Orra, quelle di Metaponto ed altre molte primitive ivi rinvenute, miste con alcune della repubblica Tarentina e con quelle romane del basso impero”. E’ molto probabile che entrambi gli autori siano a conoscenza e si riferiscano – tra l’altro – ad una scoperta sensazionale avvenuta alcuni decenni prima dell’uscita dei loro scritti, che fece scalpore nel mondo della ricerca archeologica e numismatica dei tempi (sino ad essere citata ancora oggi nel Notiziario del Portale Numismatico dello Stato[12] ).
Difatti, in un testo editato nel 1863 Sambon riferisce con dettagliata descrizione in merito a ritrovamenti avvenuti in Sava pochi anni prima, nel 1856: monete incuse di Sibari, Crotone, Metaponto, Siris, Taranto.[13] Il ritrovamento, di grande importanza, viene citato successivamente da Evans nel suo “The Horsemen of Tarentum” edito nel 1889[14] . Riprende la citazione della scoperta Attilio Stazio, specificando:
“Quando, sul finire del sec. VI a.C., Taranto dette inizio alle sue emissioni monetali, nella tecnica “incusa” caratteristica della Magna Grecia e secondo il sistema ponderale in uso nell’area achea di Sibari, Crotone, Metaponto e Caulonia, nessun altro centro della regione Puglia coniava moneta. Tuttavia sin dall’inizio del secolo successivo in alcune zone della Puglia è documentata la presenza di monete della Magna Grecia, giuntevi evidentemente per il tramite di Taranto, la cui costante rivalità con le popolazioni indigene confinanti non impedì certamente rapporti di scambio, come non impedì – e in un certo senso, anzi, favorì – influssi culturali spesso profondi e determinanti sul piano linguistico, religioso, artistico, ecc. “[15]
A tutt’oggi le monete rinvenute a Sava sono tra le più antiche tra quelle ritrovate. Difatti lo Stazio così prosegue:
“E a questo proposito può essere significativo ricordare che i più antichi tesoretti monetali della regione sono stati rinvenuti a Sava e a Valesio, cioè lungo quella naturale via istmica di collegamento tra il mar Ionio e il mar Adriatico, che poi, in età romana, sarà la via Appia”.[16]
La pagina del testo di Sambon che fa riferimento alle monete ritrovate in Sava nel 1856
  Non mi dilungo, in questo scritto, con le citazioni dei ritrovamenti ben più documentati e frequenti nella contrada savese di Agliano, distante pochi km dal centro abitato di Sava,[17] nonché nella vicina altra contrada di Pasano[18] (ne ho parlato in altri scritti e a quelli, qui inseriti nelle note, rimando), e sul monte Magalastro situato tra feudo di Sava e Torricella.[19] Rispetto ad Agliano, è interessante notare come il Teofilato la inserisca all’interno di una triade insediativa comprendente Manduria, Sava e la stessa “Allianum”; in occasione di una sua indagine sul campo, lo studioso vi scorge inoltre una iscrizione messapica segnalata al Prof. Ribezzo e “al dottor Ciro Drago del R. Museo di Taranto e all’ispettore onorario di Manduria dottor Michele Greco”. Il Ribezzo parlerà difatti di questa iscrizione nel Nuovo Corpus Inscriptionum Messapicorum, citando il Teofilato, ma senza aggiungere note di rilievo e interpretazioni in quanto non aveva visionato di persona l’opera.[20]
Teofilato scorge in Agliano anche i resti di un antico tempio citato anche dal Coco, e resti di costruzioni consistenti in “ enormi massi squadrati, come quelli delle mura di Manduria”.[21]
La cosa curiosa è che gli storici locali, ad eccezione del Teofilato, hanno tenuto separati gli studi e la storia di queste località dell’agro di Sava da quelli riguardanti Sava-Castelli, attribuendo a quest’ultima presenza messapica, e a quegli altri siti magno-greca. Si tratta in realtà di siti che distano pochissimi km dal centro abitato di Sava, e che sembrano parte di una storia antica comune e coerente non solo per questioni di datazioni dei ritrovamenti e per prossimità geografica, ma anche perchè, quand’anche il territorio di Sava fosse stato spaccato in due, in un dato momento storico, da una espansione della Chora tarantina sino a queste terre, prima della presunta espugnazione di parte del territorio ad opera dei tarantini, si sarebbe trattato comunque di una unica comunità messapica insediata, appunto, tra l’attuale centro storico di Sava, la sua periferia, e le vicinissime contrade di Agliano, Pasano, Magalastro, Tima,[22] ed altre. Devono aggiungersi a questi siti anche quelli di contrada Petrose[23] e contrada S. Giovanni, ancor più prossimi al centro del paese, e si deve tener presente che la distanza tra il cosiddetto sepolcreto messapico e la zona indicata come di insediamento magnogreco non supera i 2 km.
Corredo tombale in contrada Agliano, Sava (foto G. Pichierri)
  Monte Magalastro, frammento di vaso a figure nere e terracotta figurata (foto P. Tarentini)
  Luigi Viola e la ricerca non divulgata
Sebbene vi siano precedenti importanti e significativi, la ricerca archeologica sistematica e continuativa in area ionico-tarantina inizia nel 1880 con l’invio in Taranto, da parte ministeriale, del professor Luigi Viola, professore di greco ed esponente della Scuola Italiana di Archeologia.[24] Già nel 1881 Viola pubblica resoconti delle sue attività in quest’area nella prestigiosa rivista “Notizie degli scavi di Antichità” della Regia Accademia dei Lincei, e dal quel momento e per una serie di anni successivi continuerà a pubblicare dettagliate relazioni. Nel 1882 viene istituito un Ufficio speciale per le Antichità e nel 1884 il comune di Taranto stipula grazie a Viola una convenzione per l’istituzione di una collezione museale tarantina. In precedenza tutti i reperti ritrovati erano stati inviati, depositati ed esposti presso il Museo Nazionale di Napoli. Tuttavia l’invio di materiali a Napoli non cessò neanche negli anni successivi, poiché tra il 1891 e il 1898 la Direzione del Museo di Napoli annesse a sé la Direzione scientifica ed amministrativa del Museo di Taranto.[25]
Luigi Viola (1851-1921)
  Il Viola è ricordato come personaggio competentissimo ma anche assai discusso, e vedremo perchè.
Intanto è bene ricordare che a quei tempi l’acquisizione museale dei reperti era condizionata da leggi non ancora adeguate alla situazione attuale. Tutto ciò che si ritrovava nei terreni di proprietà privata, era considerato di appartenenza del proprietario del suolo, che poteva liberamente vendere qualsiasi anticaglia rinvenutavi, previo un nulla osta dello Stato, la qual clausola però era, tra l’altro, facilmente e sistematicamente elusa.[26]
Si creò il fenomeno della caccia ai reperti e del loro traffico e vendita incontrollati.
Nel 1885 Luigi Viola sposa Caterina Cacace, figlia del latifondista Carlo Cacace, il quale si ritrovava nella stessa posizione di molti altri uomini del suo status: i ricchi latifondisti dell’epoca e della zona erano tacciati di speculare sui reperti ritrovati nei numerosi suoli che possedevano. Di più, il Viola inizia a collaborare con il suocero in questo genere di attività.[27]
Difatti, Luigi Viola iniziò a subire diverse critiche all’epoca, per i suddetti motivi e perchè improvvisamente dedito più alla politica che alla professione (nel 1889 divenne anche Sindaco), ma soprattutto, per quel che ci riguarda, perchè era accusato di disattenzioni nel suo operato di archeologo: testualmente, Fedele, Alessio e Del Monaco riportano che
“gli veniva infatti rimproverato non solo di non dare più notizie al mondo scientifico delle notevoli scoperte di cui era fortunato spettatore, ma anche di non documentare in maniera sufficiente gli scavi fatti, dei quali non registrava l’ubicazione, non traeva disegni dei monumenti, non teneva separati i materiali”.[28]
Questo periodo particolare e discusso del Viola coincide con la sua visita a Sava, che, come riportato dal D’Elia, risale al 1889. E’ esattamente il periodo delle “distrazioni” del professionista e della sua elusione dalla rendicontazione di osservazioni e scoperte.
A seguito di questi motivi e delle critiche e accuse subite, pare, nel 1891 il Viola viene trasferito a Napoli, ma nel frattempo il rapporto con il Ministero si inasprisce sempre di più e nel 1895 rassegna le sue dimissioni. Da questo momento diviene un dichiarato e accanito antagonista del Museo, e addirittura si dedica apertamente e ancor più intensamente, a quanto riportato, al commercio di reperti archeologici per conto del suocero e di altri privati:
“Da quel momento Viola divenne un accanito antagonista del Museo, collaborando con il suocero in attività poco chiare di reperimento e di commercio di oggetti archeologici e svolgendo inoltre il ruolo di consulente di privati in contrattazioni di vendita con il Museo, nell’interesse dei quali, e per proprio tornaconto, giocava sempre al rialzo delle valutazioni”.[29]
A questo punto è chiaro il motivo per il quale pur avendo dichiarato Il Viola nella sua visita a Sava insieme al D’Elia di aver visto cose interessanti “ di origine remotissima qual solamente vide a Sparta e Messene”, non vi fu un seguito a livello di trasparenza, documentazione e ricerca archeologica ufficiale in merito a quanto osservato. E forse, a seguito di ciò si spiega anche il motivo per il quale il manoscritto del D’Elia non fu mai dato alle stampe. Il D’Elia era un autore particolarmente prolifico e proprio in quel 1889 edita difatti ben due opere per i tipi della Parodi di Taranto e Lazzaretti di Lecce, e a distanza di soli 2 anni ne edita altre tre sempre per Parodi.[30] Qualcosa o qualcuno dunque dovette indurre l’erudito a desistere dal completare e pubblicare “Sava e il suo feudo”: l’impossibilità di provare gran parte dei contenuti dello scritto, o una qualche pressione a non divulgare più di tanto?
Sta di fatto che di sicuro il Viola non compie disinteressatamente la sua visita a Sava, proprio negli anni del suo maggiore invischiamento in operazioni di ricerca non istituzionale, e sta di fatto che della visita e delle scoperte fatte in Sava da parte del Viola non viene fatta menzione alcuna in articoli, riviste, documenti. Questo riserbo certamente non è da imputare al caso, quanto alla coerenza con quell’atteggiamento di commerciante di oggetti archeologici e di consulente di privati.
Nel 1895 il Museo di Taranto è diretto dal prestigioso archeologo Paolo Orsi, il quale in una relazione dell’anno successivo pubblicata in “Notizie degli Scavi di Antichità” lancia un feroce j’accuse al Viola scrivendo:
“…E’ stata una vera jattura per l’archeologia in genere, e specialmente per la topografia tarentina, che delle frequentissime scoperte dell’ultimo ventennio non siasi tenuto un diario minuzioso ed esatto…”[31]
  Note
[1] Gianfranco Mele, “Sava e il suo feudo”: il contributo di Achille D’Elia alla storia antica locale, La Voce di Maruggio, sito web, febbraio 2019 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/sava-e-il-suo-feudo-il-contributo-di-achille-delia-alla-storia-antica-locale.html
[2]    Gaetano Pichierri, I confini orientali della taranto greco-romana, in: Omaggio a Sava, raccolta postuma di saggi a cura di Vincenza Musardo talò, Edizioni Del Grifo, 1994, pp. 251-256; si veda anche: Gianfranco Mele, Sulle tracce dell’antica Sallenzia: le ipotesi di Achille D’Elia e Gaetano pichierri concernenti l’agro di Sava, La Voce di Maruggio, sito web, marzo 2019, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/sava-e-il-suo-feudo-il-contributo-di-achille-delia-alla-storia-antica-locale.html
[3]    Achille D’Elia, Sava e il suo feudo, Storia paesana, Mss. di f.3, 1889, citato e trascritto da Primaldo Coco in Cenni Storici di Sava, Stab. Tip. Giurdignano, LE, 1915 ( ristampa a cura di G.C.S., Marzo Editore, 1984), nota (1) pp. 58-60
[4]    Ibidem
[5]    Ibidem
[6]    Giacomo Arditi, La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’ Otranto, 1879, pp. 548-549
[7]    Primaldo Coco, Cenni storici di Sava, Stab. Tipografico Giurdignano, Le, 1915 – ried. Marzo Editore, Manduria, 1984, nota a pag. 60
[8] Primaldo Coco, op. cit., nota 1 a pag. 16. Laddove riferisce di “Aliano”, trattasi di contrada savese altrimenti detta Agliano, a pochi chilometi dal centro di Sava. Agliano fu anche fattoria romana e casale medievale. [9] Pasquale Del Prete, Il Castello federiciano di Uggiano Montefusco, Archivio Storico Pugliese,Bari, Società di Storia Patria per la Puglia a. XXVI, 1973, I-II, pp. 41-42; vedi anche Gianfranco Mele, Sava: “Li Castieddi” e i camminamenti sotterranei, La Voce di Maruggio, sito web, novembre 2018, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/sava-li-castieddi-e-i-camminamenti-sotterranei.html
[10] Per un riepilogo dei vari e numerosi scritti di Gaetano Pichierri in merito ai camminamenti sotterranei savesi e ai ritrovamenti effettuati nell’area, si veda: Gianfranco Mele, Sava-Castelli, la città sotterranea e la necropoli. Documenti, tracce e testimonianze di un antico centro abitato precedente la Sava del XV secolo, Terre del Mesochorum, Storia, Archeologia e Tradizioni nell’ area ionico tarantina, sito web, luglio 2015, https://terredelmesochorum.wordpress.com/2015/07/19/sava-castelli-la-citta-sotterranea-e-la-necropoli-documenti-tracce-e-testimonianze-di-un-antico-centro-abitato-precedente-la-sava-del-xv-secolo/
[11]  Cesare Teofilato, Segnalazioni archeologiche pugliesi. Allianum, in Il Gazzettino – Eco di Foggia e della Provincia – Anno (24) 7- n. 38 , sabato, 21 settembre 1935 Anno XIII, pag. 2
[12] Notiziario del portale Numismatico dello Stato – Ministero per i Beni e le Attività Culturali: “Contributi/Vetrine e Itinerari/Dossier n. 1, 2013, pag. 36: “… Sambon aveva potuto dare notizie di un ritrovamento di monete della Magna Grecia avvenuto a Sava nel 1856, fornendo l’elenco delle monete scoperte e disperse solo sulla base di una notizia ricevuta “par un tèmoin oculaire” ed entrando peraltro solo in possesso di pezzi scelti”. [13] Arthur Sambon, Recherches sur les anciennes monnaies de l’ Italie meridionale, Neaples, Cataneo, 1863, pag. 11
[14] Arthur Evans , The Horsemen of Tarentum – a contribution towards the numismatic history of Great Greece, London, 1889, pag. 2, nota 4
[15] Attilio Stazio, Per una storia della monetazione dell’antica Puglia, in Archivio Storico Pugliese, 28, 1972, pag. 42
[16] Ibidem
[17] Per brevità qui riporto due miei articoli, nei quali sono citati tutti gli altri studi compiuti sul sito di Agliano: Gianfranco Mele, Agliano al confine tra Magna Grecia e Messapia. Un sito ancora da indagare, in: Cultura Salentina, Rivista di pensiero e cultura meridionale, sito web, ottobre 2014, https://culturasalentina.wordpress.com/2014/10/15/agliano-al-confine-tra-magna-grecia-e-messapia-un-sito-ancora-da-indagare/ ; Gianfranco Mele, Allianum cittadella messapica, avamposto di Sava e Manduria, Fondazione Terra D’Otranto, sito web, settembre 2016, https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/30/allianum-cittadella-messapica-avamposto-sava-manduria/
[18]  Gianfranco Mele, Pasano e dintorni: aspetti storico-archeologici, La Voce di Maruggio, sito web, marzo 2019 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/pasano-e-dintorni-aspetti-storico-archeologici.html ;
Gianfranco Mele, Sava: tombe e rinvenimenti in Pasano e contrade limitrofe, La Voce di maruggio, sito web, maggio 2020, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/sava-tombe-e-rinvenimenti-in-pasano-e-contrade-limitrofe-camarda-grava-ecc.html
[19]  Paride Tarentini, Torricella. Itinerari storico-archeologici a sud-est di taranto, Museo Civico di Lizzano,Quattrocolori studio grafico, luglio 2018, pp. 14-28
[20]  Francesco Ribezzo, Nuove Ricerche per il Corpus Inscriptionum Messapicarum, Roma, 1944, pag. 105
[21]  Cesare Teofilato, op. cit.
[22]  Gianfranco Mele, Per una ricostruzione della storia della masseria Tima in agro di Sava e luoghi circostanti, La Voce di Maruggio, sito web, maggio 2020, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/per-una-ricostruzione-della-storia-della-masseria-tima-in-agro-di-sava-e-luoghi-circostanti.html
[23]  Gianfranco Mele, Antichi insediamenti in contrada Petrose, in agro di Sava, La Voce di Maruggio, sito web, febbraio 2019, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/antichi-insediamenti-in-contrada-petrose-in-agro-di-sava-di-gianfranco-mele.html
[24]  Biagio Fedele, Arcangelo Alessio, Orazio Del Monaco, Archeologia, civiltà e culture nell’area ionico-tarantina, Banca Popolare Jonica, Grottaglie, 1992, pag. 307 e nota (2) a pag. 326
[25]  Biagio Fedele, Arcangelo Alessio, Orazio Del Monaco, op. cit., pp. 307-308
[26]  Biagio Fedele, Arcangelo Alessio, Orazio Del Monaco, op. cit.,pp.309-310
[27]  Ibidem (pag. 310)
[28]  Ibidem
[29]  Ibidem
[30]  Gianfranco Mele, “Sava e il suo feudo”: il contributo di Achille D’Elia alla storia antica locale, op. cit.
[31]  Paolo Orsi, Relazione sopra alcune recenti scoperte nel Borgo Nuovo, Notizie degli Scavi di Antichità, 1896, pag. 107.
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designme2011 · 3 years
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🌴 Modigliani Experience 25 giu - 01 nov Modigliani experience - Modlight: l'arte e la tecnologia offrono una dimensione suggestiva della vita e delle opere di Amedeo Modigliani. Da domani e fino al 1° novembre la mostra sarà visitabile nelle Sale espositive del Castello normanno-svevo di Mesagne, nell'ambito del progetto "Puglia Walking Art". Un'esperienza immersiva che restituisce con precisione anche lo spessore delle pennellate impresse dall'artista, in un'atmosfera densa di sensazioni che aprono uno spaccato sensibile sulla sua biografia, il periodo storico e i luoghi che Modì ha respirato. Lui, "poeta ardente e pittore grande fra i grandi. Passò come una meteora, tutto grazia, tutto collera, tutto sprezzo" (P. Guillame). • • • #visitmesagne #visitmesagnecuordisalento #a2passidamesagne #visiting #mesagne #ilovemesagne #designme #minuzzerie #eventimesagne #mesagnerurale #mesagnedascoprire #mesagneview #streetphotography #streetphotographer #immersiveexperience #baroccoleccese #messapi #altosalento #turismoslow #a2passinelmondo #mesagnea2passidalmare #mesagnedavedere #viveremesagne #mesagnemylove #mesagneview #mesagnemoremio #lacittadellamore #lacittadelcuore #mesangeles https://www.instagram.com/p/CQt1f9SMkpb/?utm_medium=tumblr
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marioncallies · 4 years
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„abends kochen wir nicht nach „man nehme“, sondern „man öffne“ 😄...für das Gesellige ist Werner zuständig 💕 #Vino #wine #wein #jacquesweindepot #gelsenkirchen #buer #kochenmitwein #rotwein #messapi #negroamaro (hier: Marl, Germany) https://www.instagram.com/p/B--NP8eld8H/?igshid=djteyi0h0j2m
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maxmancini · 6 years
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LA RICCHEZZA DEL #SUD Le antiche terre Magno greche, Italiche, Romane, del Regnum Siciliae e poi del Regno di Napoli sono ancora oggi delle perle di cultura, degli incanti paesaggistici, dei luoghi dove vivere bene. Eppure non ci si rende conto che se si investisse in infrastrutture logistiche, marketing del turismo e cultura, servizi, rinunciando alle inutili industrie inquinanti, non ci sarebbe opportunità migliore e maggiore per alcun altro posto al mondo. La splendida #Lecce, antica #Lupiae romana e Ροδίαι #Rudiae messapuca, l’incantevole #Salento. #visititaly #italy #cultura #culturaturismo #turismo #italia #sud #suditalia #puglia #salento #teatrolecce #magnagrecia #messapi (presso Piazza Sant' Oronzo - Lecce) https://www.instagram.com/p/BsLBn4_gtDx/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=1i54v88djhsu6
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storiearcheostorie · 2 months
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Muro Leccese, scoperti un nuovo edificio di culto e una necropoli dei Messapi: risalgono alla fine del IV secolo a.C.
ARCHEOLOGIA | Muro Leccese, scoperti un nuovo edificio di culto e una necropoli dei Messapi: risalgono alla fine del IV secolo a.C.
Redazione Si è conclusa da pochi giorni la campagna di scavi archeologici nel sito messapico di Muro Leccese (Lecce), effettuata in regime di concessione ministeriale dal Dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento, sotto la direzione scientifica del dott. Francesco Meo. Le ricerche si sono concentrate in un nuovo settore di località Palombara, nella parte est dell’antico…
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ndncjsjsxnsj · 5 years
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Simu salentini de lu munnu cittadini
Se nu te scierri mai de le radici ca tieni
Rispetti puru quiddre de li paisi luntani
Se nu te scierri mai de du ede ca ssa ieni
Dai chiù valore a la cultura ca tieni
Simu salentini de lu munnu cittadini
Radicati a li messapi cu li greci e i bizantini
Uniti intra stu stile osce cu li giammaicani
Dimme tie de du ede ca ssa bieni
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salentipico-blog · 7 years
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Si è svolta nello scorso mese di settembre la seconda campagna di scavi presso il sito archeologico di località Li Schiavoni, nel territorio di Nardò. Le indagini, condotte sotto la direzione scientifica di Giovanna Cera (Università del Salento) e in concessione con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Brindisi, Lecce e Taranto, sono state in parte finanziate dal Comune di Nardò e hanno visto la partecipazione degli studenti del Dipartimento di Beni Culturali dell’ateneo salentino.
Posto a circa 4 km a nord-est di Porto Cesareo, il sito (un esteso pianoro soprelevato dal quale si domina gran parte del litorale ionico da Porto Cesareo a Torre Lapillo) presenta
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. Il tracciato delle mura antiche, in parte visibili sotto al muretto a secco moderno che circonda l’area, raggiunge una lunghezza di circa 650 metri e delimita una superficie di 3 ettari. L’esistenza del fossato che fiancheggia parte del circuito murario sul lato orientale (e ben evidente nelle immagini aeree) denota la vocazione difensiva dell’insediamento. Vocazione sottolineata anche dalla scelta del luogo, arretrato rispetto alla costa e protetto naturalmente grazie alla posizione dominante, a controllo del territorio. Le attività di scavo si sono concentrate all’interno di un terreno agricolo di proprietà privata e sono state finalizzate a comprendere le modalità e le fasi di occupazione del sito e a intercettare i resti delle mura di cinta. L’apertura di un saggio a ridosso del muretto a secco che delimita il pianoro ha permesso di documentare le caratteristiche delle fortificazioni, forse realizzate in due fasi successive. È venuta in luce una poderosa struttura, caratterizzata da due paramenti esterni realizzati a grandi blocchi di forma irregolare e da un riempimento interno di notevole spessore, costituito da pietre calcare e tufacee, coppi e frammenti ceramici. I materiali recuperati dai livelli associati a queste strutture sembrerebbero attestare un’assidua frequentazione dell’area per lo più nell’ambito dell’epoca arcaica e classica, pur comprendendo residui di probabile orizzonte protostorico, dell’Età del Ferro e anche più recenti reperti di età ellenistica, probabilmente ultimo periodo di utilizzo dell’opera difensiva.
È stata individuata anche un’area di necropoli. Tuttavia l’attività degli scavatori clandestini ha danneggiato per sempre il contesto archeologico e le tombe messe in luce, realizzate in blocchi e lastre di pietra leccese, sono apparse sconvolte e già pesantemente manomesse, impedendo agli archeologi di ricomporre con sicurezza le originarie associazioni di materiali. Degni di particolare interesse, tra questi ultimi, alcuni esemplari di importazione attica, corinzia e coloniale – indizio dei contatti commerciali che gravitavano attorno a questo insediamento – numerosi contenitori o bacini con orlo modanato e pesi da telaio. Le indagini, in ogni caso, sono solo all’inizio e ancora tanto resta da scoprire di questo antico insediamento. A settembre 2018 è in programma la prossima campagna di scavi.
“Gli scavi – rileva il consigliere comunale Paolo Maccagnano – stanno facendo emergere un’interessantissima finestra sulla storia della nostra città e del Salento. È importante capire fino in fondo, grazie a questo lavoro comune con Unisalento e in concessione con la Soprintendenza, cosa nasconde questa porzione di territorio e cosa può rappresentare sul piano archeologico, storico e anche della fruibilità collettiva. Serviranno tempo e risorse, ma è un fronte su cui la nostra amministrazione ha una sensibilità altissima. Riteniamo infatti che le potenzialità storiche e ambientali di questo territorio, in parte ancora sconosciute e in generale valorizzate molto poco sino ad oggi, siano il più efficace motore di sviluppo che abbiamo a disposizione”.
Un abitato fortificato di età messapica e una necropoli a Nardò Si è svolta nello scorso mese di settembre la seconda campagna di scavi presso il sito archeologico di località Li Schiavoni…
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swapmuseum · 7 years
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🚩Hai voglia di cimentarti in una nuova avventura con ArtBIT - muSEI che suonano? 🎧 Vieni al Museo Diffuso Messapico, sono aperte le iscrizioni per il laboratorio di musica elettronica 🎛 🎺 con Giorgio Distante.
Come⁉️ Attraverso l’utilizzo di dispositivi forniti dall’organizzazione, potrai comporre la tua traccia audio 🎼 con i suoni del #museo. 🏛 🏆 a missione compiuta sarai premiato 🎁 con buoni per l'acquisto di musica 🎧 o libri 📚.
Se vuoi essere parte dell'iniziativa scrivici su [email protected], è gratis e i posti sono limitati! 💌
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ArtBIT - muSEI che suonano rientra nelle attività del progetto Swapmuseum promosso da 34esimo Fuso e sostenuto da Fondazione CON IL SUD attraverso il Bando “Con il Sud che partecipa”, e nell'ambito del programma "InPuglia365 Estate". Partner di progetto CoolClub.it e Pugliamusei.
Programma: 📌 13 settembre, ore 16 - 19 Workshop "ArtBit" a cura di Giorgio Distante; laboratorio aperto a ragazzi dai 16 ai 30 anni finalizzato all'acquisizione dei suoni del museo e alla composizione di una traccia audio (per prenotarsi al workshop occorre inviare una mail a: [email protected]) 📌 16 settembre, ore 18 - 00.00 Dancing Museum - Performance di danza contemporanea di Erika Schipa e Betti Rollo Silent Disco - Visita del Museo con sonorizzazione a cura di Giorgio Distante Performance/concerto di Giorgio Distante 📌 17 settembre, ore 18 – 00.00 Dancing Museum - Performance di danza contemporanea di Erika Schipa e Betti Rollo Silent Disco - Visita del Museo con sonorizzazione a cura di Giorgio Distante Sabato 16 e domenica 17 settembre, in programma alcune visite guidate gratuite al Museo Diffuso.
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Tym razem przedstawiamy #wino #wine #vinos #contiene #solfiti #messapi #primitivo #redwine #italianwine #puglia #fantastic #wow #somelier #enolove #enoteca #vinogusto #polska #nysa #poland #mobilephotography #superwine #instawine #instaenoteca #miesiaczwinamiwloskimi #urbanwineproject #worldsomelier (w: Vinogusto)
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Origini del nome
Il toponimo storico Apulia che in epoca preromana abitavano la parte centro-settentrionale della regione (i Dauni a nord, i Peuceti al centro, mentre a sud era stanziato l'affine popolo dei Messapi). Il termine Japudes (Japigi) si compone del prefisso arcaico "jap-", che indicherebbe i popoli provenienti dall'altra costa dell'Adriatico. Secondo una diffusa pseudo-etimologia, invece, Apulia deriverebbe da Apluvia, ossia terra senza piogge. Con l'occupazione romana fu istituita la Regio II Apulia et Calabria, che includeva un territorio appena più esteso dell'attuale regione: solo in seguito il toponimo Apulia sarebbe stato adottato per designare anche la penisola salentina. Solo negli ultimi decenni l'uso del singolare Puglia si è stabilizzato; fino a prima dell'istituzione delle regioni, infatti, si usava indifferentemente anche il nome le Puglie.
Mappa del XIX secolo del Regno delle Due Sicilie
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Erano Sallentini o Salentini?
di Nazareno Valente
  Poi alla fine qualcuno di noi scoprirà che i suoi avi erano più precisamente Calabri, e che con i Sallentini o i Salentini — come dir si voglia — avevano solo comunanza di stirpe. Comunque sia intriga ugualmente il quesito posto dall’amico Armando Polito nel suo recente interessante intervento, “Salentini o Sallentini?”, su quale di questi due termini debba considerarsi corretto.
Premetto che, per me, la forma da preferirsi è Sallentini.
E cercherò di avvalorare questa mia scelta partendo, visto che si tratta di antichità, da lontano.
La prima volta che le fonti narrative antiche citano la nostra terra non ne menzionano la denominazione, ma unicamente la zona geografica dove essa era collocata. È infatti riportato che è quella parte della Iapigia («Ἰηπυγίης») che sta a sud dell’istmo che va dal porto di Brindisi a Taranto («ἐκ Βρεντεσίου λιμένος ἀποταμοίατο μέχρι Τάραντος»)1.
Erodoto — che, mi piace pensare, introdusse questo passo mentre in una serata estiva d’un anno vicino al 440 a.C. declamava le sue “Storie” ai concittadini Turini, tradizionali alleati dei Brindisini — non dà pertanto un nome al nostro popolo né alla nostra terra. Utilizza infatti un più generico toponimo, Iapigia, che caratterizzava una regione ben più vasta, pressappoco coincidente con l’attuale Puglia e quella parte della Lucania che si affaccia sul mare Ionio, e che comprendeva quindi anche la penisola che noi chiamiamo salentina.
Iapigia e Iapigi, risultano rispettivamente il più antico coronimo ed etnico utilizzati per definire la nostra terra ed i nostri antenati. E, cosa meno nota, erano termini utilizzati dalla gente del luogo per definire sé stessi, quando nel II millennio i Greci non avevano fatto ancora capolino in quelle contrade.
Quando i colonizzatori greci alfine arrivarono, causarono una piccola grande rivoluzione nella società iapigia che incominciò a differenziarsi e, nel corso del tempo, finì per formare al proprio interno gruppi etnici con differenti specificità.
Al riguardo la tradizione maggiormente accolta è quella di matrice greca che prevede la ripartizione degli Iapigi in Dauni, Peuceti e Messapi i quali ultimi occupavano la Messapia, i cui confini erano appunto all’incirca delimitati a nord dall’istmo che collega Brindisi a Taranto.
Tale percezione divenne sempre più esplicita in età ellenistica fino a trovare una sua compiuta definizione nella tradizione divulgata da Nicandro di Colofone2 il quale narra come Licaone, che ebbe per figli Iapige, Dauno e Peucezio, raccolto un grosso esercito in gran parte composto da Illiri guidati da Messapo, giunse sulla costa adriatica e scacciò gli Ausoni. Effettuata la conquista, divise l’esercito e il territorio in tre parti, denominati in base al nome di chi li comandava, Dauni, Peucezi e Messapi, e la regione che si protendeva nella parte estrema dell’Italia al di sotto di Taranto e Brindisi fu chiamata Messapia.
In definitiva la ripartizione canonica della regione Iapigia, vale a dire grosso modo dell’attuale Puglia, in Daunia, Peucezia e Messapia, accolta anche da storici del calibro di Polibio3 e da geografi tipo Strabone4, e che soggiace di fatto alla visione egocentrica con cui i Greci erano soliti vedere tutto ciò che era di là dai propri confini.
Era tipico della spocchia greca che le terre ed i popoli fossero ridefiniti con nuovi termini, del tutto diversi da quelli usati dagli indigeni. Così, ad esempio, gli Etruschi diventavano per loro i Tirreni. Allo stesso modo, i nostri progenitori divennero Messapi. Queste operazioni erano poco accettate dalle comunità locali, in genere molto legate alle proprie tradizioni e denominazioni, però prendevano piede e finivano per creare una specie di sudditanza al mondo ellenico, che era appunto l’obiettivo ultimo di chi si poneva di svolgere azione colonizzatrice.
In questo modo si sono perse memorie e termini antichi, dando luogo anche ad aspetti per certi versi ridicoli: mentre i nostri antenati sarebbero andati su tutte le furie a sentirsi definire con un etnico diverso da quello da loro scelto, noi ne andiamo quasi orgogliosi. I Toscani si guarderebbero bene dal dirsi discendenti dei Tirreni, mentre sono fieri d’essere stati Etruschi. Noi, invece, gonfiamo il petto a dirci Messapi e, magari, neppure sappiamo che non era l’etnico natio, avendo di fatto assorbito, senza averne cognizione, questa forma forzata di integrazione culturale che ha eclissato le nostre origini.
Probabilmente molti di noi neppure sanno quali erano i coronimi e gli etnici coniati dai nostri antenati.
Ebbene, chi volesse scoprirli, ricorra a Strabone che, per nostra fortuna, ce ne ha lasciato memoria. Il geografo pontico ci fa infatti sapere che la denominazione geografica di Messapia è di origine greca («Μεσσαπίαν καλοῦσιν οἱ Ἕλληνες»), mentre la gente del luogo («ἐπιχώριοι» epicórioi) ripartisce la Messapia nel territorio dei Salentini («Σαλεντῖνοi») e in quello dei Calabri («Καλαβροὶ»). Successivamente6 ci fa sapere che gli indigeni chiamano la propria terra Calabria («Καλαβρία»).
In definitiva, i nostri progenitori non usavano le denominazioni greche, Messapia e Messapi, ma quelle da loro ideate, vale a dire Calabria, per definire la terra che noi chiamiamo Salento, e Calabri e Salentini, per indicare le genti che la popolavano. Quindi, di fatto, un solo coronimo, Calabria, e due etnici, Calabri e Salentini.
In merito a questa ripartizione dei popoli che l’abitavano, lo stesso Strabone specifica, sia pure in modo generico, che la terra dei Salentinoi è attorno a Capo Iapigio («τὸ περὶ τὴν ἄκραν τὴν Ἰαπυγίαν»7) — lasciandoci così intendere che gli insediamenti Salentinoi sono limitati attorno al Capo di Santa Maria di Leuca — e che il resto della regione è abitato dai Calabroì. Grazie all’apporto di altri geografi e storici dell’antichità si viene a conoscenza di altri particolari che consentono di definire con una qual certa precisione quali erano in epoca classica gli stanziamenti di questi popoli consanguinei8.
Senza dilungarci, riassumiamo le conclusioni cui si è pervenuti.
Località Calabre: Ostuni, Carovigno, Caelia (forse Ceglie Messapico), Brindisi, Scamnum (forse Mesagne), Oria, Manduria, Valesio, Lecce, Rudiae, Statio Miltopes (forse San Cataldo), Fratuentum, Portus Tarentinus, Otranto.
Località Salentine: Soleto, Vaste, Castrum Minervae (probabilmente Castro), Vereto, Capo di Santa Maria di Leuca, Ugento, Alezio, Gallipoli, Nardò, Senum.
  Sin qui abbiamo consultato solo autori di lingua greca i quali ribadiscono quanto già è a nostra conoscenza, vale a dire che le fonti elleniche utilizzavano in maniera esclusiva il termine Salentini.
Le fonti latine incominciano ad interessarsi della nostra terra, solo quando essa entrò nell’orbita romana e, a differenza delle fonti letterarie greche – che, come visto, privilegiavano termini di propria ideazione – facevano in maniera quasi esclusiva uso della terminologia indigena.
Di fatto il mondo latino accantonò i termini di matrice greca per divulgare solo quelli d’origine autoctona.
Era questo un approccio del tutto diverso da quello attuato dai colonizzatori greci. Un approccio che aveva una chiara impronta politica: far comprendere ai popoli conquistati che non si volevano deprimere i loro usi, i loro costumi e le loro più antiche tradizioni che, anzi, s’intendevano valorizzare.
Era il modo usuale d’agire dei Romani che concedevano ampio spazio gestionale alle città sottomesse, lasciandole libere di fare al proprio interno ciò che ritenevano meglio. Di là dai confini cittadini, però, non avevano più alcun potere, nel senso che non potevano avere una propria politica estera. Anche il dissidio più banale tra comunità vicine doveva essere infatti composto da un’autorità romana. E lo stesso avveniva per qualsiasi attività contrattuale, salvo gentile concessione di Roma.
Non fu pertanto a caso che, l’apparato augusteo, nel delineare un possibile scenario geografico delle popolazioni italiche, utilizzò in maniera diffusa i vocaboli indigeni.
La nostra terra fu quindi conosciuta nel mondo antico con il nome di Calabria9, che era il coronimo di derivazione locale creato dai nostri antenati, ed i popoli che vi abitavano venivano chiamati Calabri10 e Sallentini, anch’esse voci di origine autoctona.
In effetti occorre ricordare che quest’ultimo termine era privilegiato dagli storici e dai letterati latini che l’usavano in prevalenza anche per definire chi in effetti era più propriamente Calabro11. Sicché i Brindisini venivano, a volte, detti Sallentini, sebbene fossero in realtà Calabri.
In definitiva il termine in origine era di matrice indigena. E, nella traslitterazione in lingua greca, era stato reso con una lambda — corrispondente alla “l” latina — (Σαλεντῖνοi, Salentinoi), mentre in quella latina con una doppia lettera “l” (Sallentini).
Pertanto, constatato che il vocabolo è autoctono, il quesito può essere posto in questi termini: quale di queste due trascrizioni è più corrispondente alla voce originaria?
Già per il fatto stesso che i Romani, a differenza dei Greci più propensi a filtrare ed a modificare ogni cosa secondo il proprio metro di giudizio e le proprie convinzioni, fossero in genere rispettosi delle tradizioni dei popoli con cui venivano a contatto, indurrebbe a credere che la forma più fedele al termine originario sia quella latina. E quindi con una doppia “l”.
Si aggiungono poi due ulteriori considerazioni che avvalorano ancor più questa ipotesi.
Tra i tanti autori latini che impiegano il termine Sallentini ci sono pure Marco Porcio Catone12 e Cicerone13. Il primo un tradizionalista per antonomasia; il secondo un attento divulgatore delle forme linguistiche in uso. Entrambi pertanto, sia pure per motivi diversi, poco disposti ad impiegare un termine in maniera palesemente scorretta.
Ma quel che più conta è che quando il vocabolo s’impose veniva veicolato per lo più in forma orale, non certo in forma scritta.
Ora la doppia consonante viene espressa con un suono che, pur essendo singolo, è reso in modo più continuato e più lungo. Tuttavia, per chi ascolta, fare l’analisi dei suoni in determinate circostanze non è un’operazione del tutto banale, e questo a maggior ragione avviene quando gli interlocutori si esprimono in linguaggi diversi e magari la parola che si ascolta presenta delle difficoltà. Una di queste è insita nel suono allungato che si deve riconoscere per comprendere che si ha a che fare con una consonante doppia. Si pensi ad esempio ai Veneti, portati nel loro dialetto a non usare quasi mai le doppie, e che hanno qualche difficoltà a percepirne l’utilizzo anche nella lingua italiana che adoperano usualmente.
Un qualcosa del genere avviene anche per i Greci moderni che pronunciano le doppie in modo un po’ più prolungato ma mai continuato come facciamo noi. Per cui le consonanti doppie — e tra queste anche la lettera lambda (λ), come già detto corrispondente alla lettera latina “l” — sono da loro espresse come se fossero singole. Di conseguenza, ad esempio, il termine Ελλάδα (Elláda) lo pronunciano Eláda.
Ora è vero che non sappiamo se questa abitudine dei greci moderni possa essere attribuita pari pari a quelli del tempo antico, tuttavia non pare insensato ipotizzare che il Sallentini, pronunciato dai nostri avi, sia stato riportato oralmente dai Greci senza far sentire la doppia e di conseguenza traslitterato in lingua greca con una sola lambda. In pratica il termine originario Sallentini – contenente una doppia “l” – divenne traslitterato in greco Σαλεντῖνοi (Salentinoi), con una sola lettera lambda.
Mi pare, in definitiva, che ci sia più d’un motivo per credere che la forma latina sia quella più corrispondente al termine originario. E che, quindi, “Sallentini” sia l’interprete più fedele dell’antica espressione coniata dai nostri avi.
  Note
1 ERODOTO (V secolo a.C.), Storie, IV 99, 5.
2 NICANDRO DI COLOFONE (II secolo a.C.), conservato presso ANTONINO LIBERALE (…), Metamorfosi XXXI, fr. 47 Schneider.
3 POLIBIO (III secolo a.C. – II secolo A.C.), Le Storie, III 88, 3.
4 STRABONE (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 1.
5 Ibidem, VI 3, 1.
6 Ibidem, VI 3, 5.
7 Ibidem, VI 3, 1.
8 N. VALENTE, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, in Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn. 6 – 7, Nardò 2018.
9 L’aspetto un po’ curioso è che molti cronisti brindisini – al pari dei redattori di Wikipedia – ritengono tuttora che Calabria è denominazione d’invenzione romana.
10 Altro aspetto curioso è che molti cronisti e storici brindisini affermano che i nostri progenitori erano Calabresi. Questo è l’etnico degli abitanti della Calabria attuale; gli abitanti della Calabria di epoca romana erano detti Calabri. Il termine Calabresi, infatti, neppure faceva parte del latino classico.
11 Per una più ampia analisi, si veda: VALENTE, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, pp. 104 e 105. Consultabile al link https://www.academia.edu/35875669/La_penisola_salentina_nelle_fonti_narrative_antiche
12 CATONE (III secolo a.C. – II secolo a.C.), De Agricultura, VI 1.
13 CICERONE (II secolo a.C. – I secolo a.C.), Pro Sesto Roscio Amerino, 132.
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