Tumgik
#ritorno scarlatto
crazy-so-na-sega · 29 days
Text
Puoi ignorare i simboli, MA i tuoi nemici no. I comunisti no... Dopo aver preso il potere, la prima cosa che fecero i comunisti fu INVERTIRE il significato di 3 simboli tradizionali.
Evola scrive che i movimenti rivoluzionari moderni prendono "i principi, le forme e i simboli tradizionali" delle società più sane del passato e danno loro una NUOVA svolta. Scava in 3 simboli:
• Il colore rosso
• La parola rivoluzione
• Il simbolo della stella pentagrammica
Tumblr media
sul ROSSO: Nell'antica Roma, l'Imperatore era vestito e tinto di rosso violaceo per "rappresentare Giove, il Re degli Dei". Nel cattolicesimo, i "Principi della Chiesa", i cardinali, indossano una veste rosso scarlatto. Tradizionalmente, il rosso è stato collegato alla gerarchia, all’ordine e al potere. Nell'antichità classica, il fuoco era collegato al colore rosso. Il "paradiso sopra il cielo" era composto da puro fuoco. Il rosso rappresentava autorità e gerarchia. Ma nel XX secolo fu cooptato dai marxisti e fatto rappresentare il contrario. : Uguaglianza, masse e democrazia.
Tumblr media
La parola Rivoluzione: “Rivoluzione nel senso primario non significa sovversione e rivolta, ma in realtà anche il contrario: ritorno a un punto di partenza e movimento ordinario attorno a un centro” In fisica questo è vero: la rivoluzione di un pianeta significa "gravitare attorno a un centro". Le rivoluzioni mantengono i pianeti in un'orbita stabile.
Tumblr media
Le società tradizionali immaginavano che la rivoluzione fosse un movimento che mantiene in armonia l'universo morale. Ma Evola nota che le rivoluzioni adesso significano: allontanarsi dai centri stabili - sommosse- distruzione della regolarità.
Tumblr media
Evola: La Rivoluzione moderna è come lo scardinamento di una porta, l'opposto del significato tradizionale del termine: le forze sociali e politiche si allentano dalla loro orbita naturale, declinano, non conoscono più alcun centro né alcun ordine.
Sul pentagramma:
Il pentagramma, una stella, rappresentava tradizionalmente il destino dell'uomo come microcosmo che conteneva il macrocosmo. Rappresentava l'uomo come "immagine del mondo e di Dio, dominatore di tutti gli elementi grazie alla sua dignità e alla sua destinazione soprannaturale.
Tumblr media
La stella rappresentava l'uomo come "spiritualmente integrato sovrano in modo soprannaturale". Ma i marxisti presero questo simbolo e ne cambiarono il significato. lo hanno reso terreno e "collettivizzato". E' stato messo sulle bandiere dell'URSS e della Cina comunista, diventando distruttivo di ogni valore più alto
Tumblr media
Questo degrado dei simboli è un segno dei tempi estremamente significativo ed eloquente. I simboli sono il linguaggio visivo universale. Questa trasformazione radicale del loro significato non è casuale. Sono stati intenzionalmente riorganizzati attraverso l'inversione, la sovversione e il degrado.
Jash Dholani
[Julius Evola (L'inversione dei simboli- 1928]
20 notes · View notes
gamingpark · 2 years
Text
Pokémon Scarlatto e Viola potrebbero presentare una nuova meccanica o il ritorno di meccaniche precedenti
Pokémon Scarlatto e Viola potrebbero presentare una nuova meccanica o il ritorno di meccaniche precedenti
Abbiamo ricevuto alcune informazioni interessanti riguardanti uno dei titoli più attesi di Switch. Stiamo infatti parlando di Pokémon Scarlatto e Viola. Gli ultimi della serie principale hanno introdotto meccaniche nuove e familiari come Mega Evolutionnella Sesta Generazione,Z-Movesnella Settima Generazione o Pokémon Dinamax e Gigamax nell’Ottava Generazione. Con questo in mente è probabile che…
Tumblr media
View On WordPress
0 notes
spettriedemoni · 4 years
Text
Quando vidi Batman la prima volta
Nel 1989 c'era più fiducia e ottimismo rispetto ad oggi. L'anno dopo sarebbe iniziato un nuovo decennio e io andavo per i 18 anni.
Undici anni prima era uscito nelle sale cinematografiche Superman intitolato semplicemente "Superman the Movie" e, come diceva il teaser poster, credemmo che un uomo potesse volare.
A 50 anni dall'uscita del fumetto con la sua prima apparizione sarebbe uscito nei cinema anche il film di Batman. Il battage pubblicitario fu notevole, c'era gente che comprava ogni tipo di gadget, si narra che New York fosse tutto un proliferare di logo del pipistrello nero in un ovale giallo oro. Perfino la locandina aveva il logo ovale oro con il pipistrello dentro e basta, nessuna immagine del protagonista solo i nomi di Jack Nicholson e Michael Keaton. E poi c'era la "Bat-Dance" di Prince in vetta a tutte le classifiche delle hit-parade di quell'anno.
Avevo comprato l'adattamento a fumetti del film uscito assieme a Corto Maltese edito dalla RCS. Bene o male avevo già chiara la sinossi del film e i disegni di Jerry Ordway erano fantastici. Ricominciai a disegnare Batman che in Italia non usciva più nelle edicole dopo la chiusura della Cenisio. Erano tornati invece L'Uomo Ragno e gli altri eroi Marvel. Avevo anche trovato Batman Year One, i cui disegni non mi avevano entusiasmato, che avevo letto con avidità. Ricordo che provai a ridisegnarlo per farlo meglio di David Mazzucchelli, per esercitarmi. Più di tutto però aspettavo il film.
Michael Keaton era vicino ai quarant'anni più che ai trenta, anzi direi che era oltre i 40. Aveva quelle sopracciglia un po' a V e quelle labbra carnose. Però il fisico era decisamente non adatto a quello di un supereroe. Avevano preso come costumista Ringwood, mi pare si chiamasse così, che aveva curato le armature del film Excalibur. Per Batman aveva previsto una tuta con muscoli scolpiti in gomma, credo, e un cappuccio che faceva tutt'uno con il collo rendendo di fatto impossibile all'attore girare la testa.
Tumblr media
Il logo del pipistrello era sempre nero in un ovale giallo ma era diverso da quello della locandina, non ho mai capito perché. Inoltre era fissato al cappuccio e non al petto della tuta come si vedeva nei fumetti. Le orecchie poi erano lunghissime ben oltre la testa.
Ricordo l'emozione per il trailer in italiano, le primissime immagini del Bat-wing, di Viky Vale interpretata da Kim Basinger, i primi pugni tirati da Batman, le prime sequenze della Batmobile e il Joker cui prestava il volto Jack Nicholson e che lo rendeva fantastico grazie alla sua mimica facciale già vista in Shining.
Non vedevo bene Keaton come Batman, non era il primo nome che veniva in mente per il ruolo, ma la "Magia di Hollywood" fece sì che un uomo di 1,77 m potesse apparire come uno di 1,80 o addirittura di 1,90.
Ricordo gli applausi dei bimbi quando Batman salva Viky dalle grinfie del Joker al Museo, la scena di combattimento nel vicolo, il mantello che si apre quando Batman plana sui cattivi.
Come Christopher Reeve è identificato con Superman, così Michael Keaton è identificato con Batman.
Oggi si vocifera di un ritorno di Keaton nel ruolo del Cavaliere Oscuro nel film di Flash sfruttando il potere del Velocista Scarlatto di tornare indietro nel tempo e di attraversare le varie versioni del "Multiverso".
Keaton sarebbe insomma una delle tante versioni di Batman. Si aprono molte possibilità che potrebbero permettere alla Warner DC di decidere, volta per volta in base al successo delle varie pellicole, quale versione dei vari suoi eroi è la migliore per il suo universo condiviso.
Sarebbe poi possibile, suppongo, vedere una versione di Superman di Reeve assieme a quella di Cavill, la versione di Lynda Carter (ancora in formissima) di Wonder Woman con quella di Gal Gadot.
Insomma una Crisis on Infinite Earths che possa competere con l'evento Marvel Avengers Endgame.
Ma più di tutto mi piace tornare ragazzino rivedendo Keaton vestire i panni di Batman ancora una volta.
6 notes · View notes
thegoudenduivel · 5 years
Photo
Tumblr media
.               𝚠𝚑𝚊𝚝 𝚒𝚏: 𝒇𝒂𝒏𝒕𝒂𝒔𝒚 𝒂𝒖.
    ‷ 𝑖𝑜 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑙𝑖𝑙𝑖𝑡ℎ-𝑖𝑠𝑖𝑑𝑒, 𝑙'𝑎𝑛𝑖𝑚𝑎 𝑛𝑒𝑟𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑜;      𝑡𝑟𝑒𝑚𝑎! 𝑙'𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑠𝑐𝑜𝑛𝑜𝑠𝑐𝑖𝑢𝑡𝑜, 𝑓𝑢𝑛𝑒𝑠𝑡𝑜, 𝑖𝑙𝑙𝑖𝑚𝑖𝑡𝑎𝑡𝑜          𝑐ℎ𝑒 𝑙'𝑢𝑜𝑚𝑜 𝑓𝑟𝑒𝑚𝑒𝑛𝑑𝑜 𝑐ℎ𝑖𝑎𝑚𝑎 𝑓𝑎𝑡𝑎𝑙𝑖𝑡à         𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑖𝑜. 𝑎𝑛𝑎𝑛𝑘è, 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑖𝑜. 𝑡𝑟𝑒𝑚𝑎! 𝑖𝑙 𝑣𝑒𝑙𝑜,          𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑖𝑜. 𝑖𝑜 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑙𝑎 𝑛𝑒𝑏𝑏𝑖𝑎 𝑒 𝑡𝑢 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑒𝑖                     𝑐ℎ𝑒 𝑙𝑎 𝑠𝑡𝑒𝑙𝑙𝑎;        𝑡𝑢 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑒𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑖𝑏𝑖𝑙𝑖 𝑙𝑢𝑐𝑖; 𝑖𝑜                     𝑖𝑛𝑣𝑒𝑐𝑒 𝑠𝑜𝑛𝑜         𝑙'𝑜𝑠𝑐𝑢𝑟𝑖𝑡à 𝑒𝑡𝑒𝑟𝑛𝑎 𝑒 𝑠𝑖𝑛𝑖𝑠𝑡𝑟𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑛𝑜𝑡𝑡𝑖;         𝑡𝑢 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑒𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑖𝑏𝑖𝑙𝑖 𝑙𝑢𝑐𝑖; 𝑖𝑜;         𝑣𝑎𝑡𝑡𝑒𝑛𝑒! 𝑠𝑓𝑜𝑟𝑡𝑢𝑛𝑎 𝑎 𝑡𝑒, 𝑙𝑢𝑐𝑐𝑖𝑜𝑙𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑡𝑖                      𝑠𝑚𝑎𝑟𝑟𝑖𝑠𝑐𝑖!
               𝑙𝑎 𝑓𝑖𝑛 𝑑𝑒 𝑠𝑎𝑡𝑎𝑛, 𝒗. 𝒉𝒖𝒈𝒐
𝒏𝒐𝒎𝒆  𝒍𝒊𝒍𝒊𝒕𝒉, from hebrew לִילִית‎ lîlîṯ meaning ‶of the night″ ;; ghost, night monster. 𝒓𝒂𝒛𝒛𝒂  demone dell'acqua // regina dei demoni. 𝒓𝒂𝒏𝒈𝒐  𝑖𝑎𝑚𝑎𝑙𝑖𝑒𝑙, ‶gli osceni″, spiriti da lei capeggiati.
𝒑𝒐𝒕𝒆𝒓𝒊  incorporea se fuori dal proprio ospite, poiché allo stato di vento o tempesta ; manipolazione dell'umano, nella fattispecie di sesso maschile riguardo le pulsioni sessuali e l'accoppiamento ; forza e velocità di gran lunga superiori al normale ; teletrasporto/telecinesi/telepatia ; eccelse capacità di rigenerazione, possessione ed evocazione. 𝒅𝒆𝒃𝒐𝒍𝒆𝒛𝒛𝒆  immune alla maggior parte delle debolezze demoniache, seppur limitata dall'incisione su specifici amuleti della propria figura e dai nomi dei tre angeli che la pregarono di far ritorno nell'Eden, 𝑆𝑒𝑛𝑜𝑦, 𝑆𝑎𝑛𝑠𝑒𝑛𝑜𝑦 e 𝑆𝑒𝑚𝑎𝑛𝑔𝑒𝑙𝑜𝑓. 𝒂𝒓𝒎𝒊  nessun utilizzo.
𝒊𝒏𝒇𝒐 𝒂𝒈𝒈𝒊𝒖𝒏𝒕𝒊𝒗𝒆 ─ secondo la cabala ebraica è la prima moglie di adamo, creata con quest'ultimo dalla terra e non dalla costola - alla pari ; ─ in epoca medievale si riteneva fosse lilith il serpente tentatore che offrì il frutto dall'albero proibito ; ─ possiede l'immortalità, avendo abbandonato l'eden prima che dio punisse l'umanità con l'essere mortale ; ─ assume spesso la forma di un serpente o di una civetta, materializzandosi esclusivamente con le tenebre ; ─ dimora in fondo al mar rosso, nel quale si è ritirata dopo la fuga dal paradiso terrestre ; ─ esiliata dal giardino dell'eden per aver rifiutato la sottomissione a suo marito adamo si è giunta all'angelo della morte samael, al fine di generare schiere demoniache ; ─ maledetta per aver bestemmiato il nome di dio ed aver rifiutato di tornare da adamo, viene punita perdendo ogni giorno cento dei suoi figli, demoni oscuri // tuttavia ha potere sui nascituri - figli di eva - i quali vengono da lei uccisi e sui quali ha libero arbitrio ( secondo un patto con i tre angeli ) solo otto giorni dopo la nascita dei maschi, venti delle femmine; ─ legata alla lussuria, al piacere, profanatrice del seme maschile: quando questo si disperde è in grado di generare, con l'aiuto di lilith, spiriti malvagi destinati a popolare il mondo.
 𝚎 𝚍𝚒𝚘 𝚍𝚒𝚜𝚜𝚎: ‷ 𝚏𝚊𝚌𝚌𝚒𝚊𝚖𝚘 𝚕'𝚞𝚘𝚖𝚘 𝚊 𝚗𝚘𝚜𝚝𝚛𝚊 𝚒𝚖𝚖𝚊𝚐𝚒𝚗𝚎,  𝚊 𝚗𝚘𝚜𝚝𝚛𝚊 𝚜𝚘𝚖𝚒𝚐𝚕𝚒𝚊𝚗𝚣𝚊, 𝚎 𝚍𝚘𝚖𝚒𝚗𝚒 𝚜𝚞𝚒 𝚙𝚎𝚜𝚌𝚒 𝚍𝚎𝚕 𝚖𝚊𝚛𝚎  𝚎 𝚜𝚞𝚐𝚕𝚒 𝚞𝚌𝚌𝚎𝚕𝚕𝚒 𝚍𝚎𝚕 𝚌𝚒𝚎𝚕𝚘, 𝚜𝚞𝚕 𝚋𝚎𝚜𝚝𝚒𝚊𝚖𝚎, 𝚜𝚞 𝚝𝚞𝚝𝚝𝚎  𝚕𝚎 𝚋𝚎𝚜𝚝𝚒𝚎 𝚜𝚎𝚕𝚟𝚊𝚝𝚒𝚌𝚑𝚎 𝚎 𝚜𝚞 𝚝𝚞𝚝𝚝𝚒 𝚒 𝚛𝚎𝚝𝚝𝚒𝚕𝚒 𝚌𝚑𝚎  𝚜𝚝𝚛𝚒𝚜𝚌𝚒𝚊𝚗𝚘 𝚜𝚞𝚕𝚕𝚊 𝚝𝚎𝚛𝚛𝚊.  𝚍𝚒𝚘 𝚌𝚛𝚎ò 𝚕'𝚞𝚘𝚖𝚘 𝚊 𝚜𝚞𝚊 𝚒𝚖𝚖𝚊𝚐𝚒𝚗𝚎; 𝚊 𝚒𝚖𝚖𝚊𝚐𝚒𝚗𝚎 𝚍𝚒 𝚍𝚒𝚘  𝚕𝚘 𝚌𝚛𝚎ò; 𝚖𝚊𝚜𝚌𝚑𝚒𝚘 𝚎 𝚏𝚎𝚖𝚖𝚒𝚗𝚊 𝚕𝚒 𝚌𝚛𝚎ò.
Languida cadeva l’aura chioma che la regina del più nero inferno – mesta – tangeva; litania proibita. Se ne stava muta senza apparente alito d’amaro piacere in quella notte ancora priva di morte; s’osservava. Negli occhi screziati di corvino manto ora un lampo di scarlatto desìo, a circondare le iridi stanche e immortali. Nulla scalfiva la di lei carne, adornata di vento e tempesta, imperlata delle acque malevole – sua calda dimora. Nulla scalfiva l’austera figura della madre dei maligni spiriti, incoronata di nubi e sempiterne fiamme. Presenza costante. [ … ] S’era materializzata lungo l’aspro sentiero. Calata la notte si chiudevano le porte di massiccia prestanza al di lei passaggio, a far da attempato ostacolo all’usuale presagio di morte. Era vento lieve ed oscuro. Ululato notturno. I turbati palmi delle madri piangenti che leste celavano al di lei respiro. Allora era sceso l’atroce torpore del sonno sulle umane genti e lei – fattasi donna, desiderio di tutti i mortali – nuda ed eccitante avanzava nell’ombra, carezzando e piegando aere ed oniriche fonti. Con le esili dita torceva le discinte esistenze degli uomini a letto ora intenti a sfiorarla, e con il solo intelletto in loro accendeva fantasie d’un tempo sino alla follia mentre i figli suoi questi generavano nel silenzio di nascite oscure, sparsesi come vento nell’ebbrezza del male. La cedevole cadenza di un tempo che terminava coi primi raggi del sole scottante e divino. Fresca di nono giorno la prima sua preda nella tepida e lattea biancheria. Famelica già assapora nelle fauci mefistofeliche il sentore di sangue e potere, d’onnipotenza celere e vana, ma le spezza il respiro e l’aura intera. S’arresta dal nulla impedita poco distante, porta lo sguardo sull’inciso amuleto – eterno impedimento di un potere sconfinato per metà. Una casa toccata da Dio, una casa protetta dall’angelico canto. La giurisdizione limitata di cui pur si nutriva la di lei immortalità. In fasce lo tange col caldo respiro mentre sfugge la preda dal sangue bollente al predatore più abile – non una sola parola manifestarsi dalle labbra increspate in un agghiacciante e rassegnato riso. E nella mente va instillando il castigo, rovinosa profezia.
“ Graziato mi appari dal tocco del dio tuo, o mia splendida creatura. Tu crescerai tra le mani del celeste protettore e uomo ti farai a sua eterna immagine, mortale come tutti i tuoi fratelli luridi figli di Eva. Ed allora raggiungerò il tuo sonno, la brama di me s’imprimerà in te ed accenderò la voglia e sarai mio; mi farò moglie e ribelle pulsione, conoscenza e rovina, caldo seme mio eterno dono. E nasceranno schiere di spiriti miei figli dannati. Si spargeranno nel vento e popoleranno la terra. Condurranno al vino ed alla follia, all’adulterio e alla vergogna. Sarai l’infernale strumento, sarà mio il tuo ultimo bacio, sarà mia la tua vita. Non v’è creatura al sicuro quando cala la notte di cui io son regina. ”
 ‷ 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑖 𝑝𝑢ò 𝑐𝑎𝑡𝑡𝑢𝑟𝑎𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑣𝑒𝑛𝑡𝑜,    𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑖 𝑝𝑢ò 𝑐𝑎𝑡𝑡𝑢𝑟𝑎𝑟𝑒 𝑐𝑜𝑙𝑒𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑐𝑜𝑟𝑟𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑒𝑠𝑡𝑒.
1 note · View note
giorgiodecesario · 2 years
Photo
Tumblr media
Un Convivio all’Avanguardia ne La Casa degli Artisti …e Vincent, sempre lui, allestì una grande mostra nella Casa degli Artisti, aveva sempre voglia di tornare, lui, e stavolta organizzò un evento megagalattico, coinvolgendo alcuni grandi sia del presente che del passato. Tutti pronti a seguirlo nella nostra residenza pur di trascorrere qui alcuni giorni godendo della nostra ospitalità. Con lui c’era il grande Pierre-Auguste (Renoir), accompagnato dai suoi canottieri della Senna, opera esposta da noi in quella circostanza; e poi c’erano Pablo e Jackson (Pollock), rispettivamente con le signorine di Avignone e con alcune convergenze, tele famosissime che furono esposte da noi per la prima volta; e poi un grande ritorno, quello di Andy, stavolta insieme al compagno Basquiat, che aveva lasciato la nota singer Madonna pur di trascorrere un po’ di giorni con il caro Andy; e poi ancora la perfida Frida che si era offerta di accompagnare Vincent, noto sciupafemmine, avendo saputo che sua moglie Lisa non sarebbe stata presente…infine si era unito alla comitiva il severo Piet (Mondrian) con le sue geometrie da esporre nella mia galleria. Ma non solo. Approfittò del suo breve soggiorno per arricchire la nostra suite Mondrian con i suoi colori e le sue forme squadrate. Quindi Piet si sistemò con Jackson nella suite Mondrian, uno nel lettone e l’altro nel divano letto rosso scarlatto, Vincent occupò come sempre la sua stanza, la Van Gogh, stavolta accompagnato da quell’invadente di Frida; Pierre-Auguste volle andarsene da solo tra i ghirigori e le note della stanza Bach, musicista che aveva sempre ammirato; anche Pablo volle andare a dormire da solo nella stanza Leonardo, dove le opere del grande maestro gli avrebbero fatto di sicuro buona compagnia. Andy e Basquiat invece se ne andarono nella stanza D’Annunzio per respirare aria liberty e poesia. Anche quella mostra collettiva fu un successo di pubblico e di critica, come del resto le nostre cene in loro compagnia. Andy si era portato appresso un po’ di scatolette di minestra Campbell per sé e per gli amici ma è inutile dire che nessuno ne mangiò…la cucina salentina soddisfa i palati più esigenti…see you next week! (presso La Casa Degli Artisti) https://www.instagram.com/p/CaQAiaIq1_o/?utm_medium=tumblr
0 notes
levysoft · 3 years
Text
8 marzo 1845. Roma è in fermento e il popolo accorre nei pressi della chiesa di San Giovanni Decollato per garantirsi un posto in prima fila attorno al patibolo. La ghigliottina è pronta, ma del condannato non c’è traccia. Passano le ore, il sole sale sempre più in cielo fino a iniziare la sua lenta discesa verso il tramonto; intanto si sparge una voce: il criminale del giorno rifiuta di confessarsi.
La folla rumoreggia, si agita, pretende l’inizio dello spettacolo. All’improvviso riecheggia nell’aria uno squillo di trombe: è giunto il momento. Un lungo corteo scorta l’omicida sul luogo dell’epilogo. Ha le mani legate dietro la schiena, la camicia strappata all’altezza del collo. Mentre s’inginocchia al cospetto della lama, un soldato adagia una borsa di cuoio atta a raccogliere la testa e un monaco gli pone davanti un crocifisso, affinché lo sguardo di Cristo lo accompagni fino agli ultimi istanti. Un uomo con indosso un mantello scarlatto si avvicina, tende la mano per azionare la ghigliottina. Giustizia è fatta. La testa rotola nel cesto e, afferrandola per i capelli, il boia la esibisce per mostrare a tutti il destino di chi sfida la legge. Il boia in questione, però, non è uno fra tanti, ma Giovanni Battista Bugatti, al secolo Mastro Titta.
Anche conosciuto con l’appellativo de “il boia di Roma”, il suo nome ha segnato un’epoca ed è diventato il paradigma di tutti i carnefici vissuti prima e dopo di lui, guadagnandosi una fama che ha attraversato la letteratura del XIX secolo fino ad approdare nelle sale cinematografiche. Entrato di diritto nell’immaginario comune del popolo capitolino, la sua storia è indissolubilmente legata al patibolo, un palcoscenico di cui fu assoluto protagonista.
Bugatti nacque a Senigallia il 6 marzo 1779. La sua biografia è frammentaria, spesso contraddittoria, e le uniche nozioni dettagliate sono quelle professionali. Formalmente era un verniciatore di ombrelli, ma la tetra reputazione di cui godeva era legata al suo secondo lavoro. Era un maestro di giustizie, la mano incaricata di eseguire le condanne emesse dai tribunali del papa. Fino al 1870, anno della presa di Roma, la città era sede di una sorta di monarchia assoluta in chiave religiosa, governata da un sovrano che, pur essendo, formalmente, un ecclesiastico, esercitava il potere sulla falsariga di qualsiasi altro regnante europeo. La pena di morte era il destino finale di tutti coloro che sfidavano la legge vaticana, e qualcuno doveva pur svolgere l’incarico. Quel qualcuno, per un certo periodo, fu proprio Mastro Titta. La sua carriera sul patibolo fu una delle più longeve; esercitò la professione quasi ininterrottamente per 68 ben anni, al servizio di sei papi, da Pio VI a Pio IX, per una media di 7 esecuzioni annue. I condannati dell’epoca si sottrassero al boia solo per pochi mesi del 1849, quando la Repubblica Romana di Mazzini spodestò il Papa e abolì la pena di morte. Dopo l’interferenza di Napoleone III e la restaurazione del potere temporale di Pio IX, Mastro Titta riprese le sue mansioni.
Abitava nella cinta vaticana, sulla riva destra del Tevere, più precisamente, a Vicolo del Campanile, nel rione Borgo, a pochi passi da San Pietro. In cambio dei suoi servigi, i papi gli concessero uno stipendio, vitto e alloggio e, al contempo, ne salvaguardarono l’incolumità. Ovviamente, era mal visto dal popolo, quindi, per scongiurare linciaggi o ritorsioni da parte dei familiari delle vittime, gli era vietato attraversare ponte Sant’Angelo se non nei giorni delle condanne, che avvenivano sulla riva sinistra del Tevere, principalmente a Piazza del Popolo, a Campo dei Fiori (dove Giordano Bruno fu arso vivo) e a Piazza del Velabro. Da questo particolare aneddoto sono nati due detti:
“Boia non passa ponte” e “Boia passa ponte”
Nel primo caso, il significato è generico: che ognuno stia al suo posto. Nel secondo caso, era un modo di dire per indicare che quel giorno qualcuno sarebbe passato a miglior vita.
Inviso a tutti per la sua fama di carnefice, paradossalmente, svolgeva un’attività che risultò essere l’intrattenimento preferito dal popolo. Negli anni dello Stato Pontificio, le esecuzioni erano all’ordine del giorno e intere folle di romani si accalcavano attorno al patibolo per assistere alla morte dei criminali. Era uno spettacolo macabro, ma ugualmente adatto a tutte le età e arricchito da una particolare tradizione dal valore pedagogico. Pare che gli uomini portassero con sé i figli maschi e, nell’esatto momento in cui i condannati subivano l’esecuzione di mastro Titta, erano soliti dargli uno schiaffo come monito a non sfidare mai la legge e rigare sempre dritto.
La carriera di Bugatti fu lunga e ricca di vittime. Ne conosciamo il numero esatto, 516 perché aveva l’abitudine di annotare tutto su un taccuino, anche se dal conto ufficiale va escluso un condannato fucilato e un altro impiccato e squartato dal suo aiutante. Ritrovato dallo scrittore Alessandro Ademollo e, successivamente, pubblicato nel 1886, recava data, nominativo, luogo, colpa e motivo della pena. Tutti questi dati da lui registrati, nel complesso, restituiscono a noi posteri un quadro generale di ciascun uomo passato sotto la sua scure.
Non operava solo a Roma, ma, in quanto boia ufficiale del papa, eseguiva condanne in tante altre zone dei possedimenti vaticani, come Ancona, Foligno, Macerata, Frosinone o Perugia. I capi di imputazione erano molto variegati e permettono di conoscere le cause che portavano le persone al suo cospetto. La pena di morte era prevista per i reati di cospirazione, criminalità organizzata, omicidio e grassazione (aggressione a mano armata a scopo di rapina). Per i crimini minori Mastro Titta sfoderava il suo pugnale e mutilava i malcapitati, asportando loro un occhio, tagliandogli un orecchio, il naso, la mano sinistra e, in caso di recidività, anche la destra.
I veri e propri condannati, invece, erano giustiziati con il mazzolamento, ossia l’uccisione con un preciso colpo di mazza, l’impiccagione e la decapitazione con la scure. In quest’ultimo caso, il lavoro del boia fu, poi, facilitato dall’avvento della ghigliottina, fresca introduzione dei venti rivoluzionari provenienti dalla Francia. Qualora vi fossero delle aggravanti, ad esempio l’uccisione di un prelato, la legge pontificia prevedeva che Mastro Titta infierisse sui corpi esanimi, squartandoli e affiggendo gli arti attorno al patibolo.
L’esibizione dei resti di un criminale era uno degli elementi caratteristici delle esecuzioni e, anche nel caso della decapitazione, era usanza che la testa mozzata venisse presa per i capelli, mostrata al popolo e, infine, infilzata su una picca. Ogni sentenza sottostava a un preciso rito cerimoniale. Prima di svolgere il suo compito, Mastro Titta si confessava e riceveva la comunione, dopodiché indossava il suo caratteristico mantello scarlatto e s’incamminava lungo il ponte.
Anche al condannato del giorno era concesso un ultimo passaggio in chiesa per assicurare l’anima a Dio, ma rigorosamente con le mani legate dietro la schiena per impedirgli di fuggire. Da lì in avanti, veniva scortato al patibolo da un corteo che, a mo’ di processione, gli si raccoglieva intorno camminando al suo fianco. In testa vi era il boia, seguito da alcuni soldati e dai frati incappucciati dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato. Questi ultimi, esattamente come Mastro Titta, erano presenze fisse di ogni esecuzione. A loro spettava il compito di pregare lungo il cammino per i criminali prossimi alla morte, di raccogliere fra la folla offerte per le loro famiglie e conservare i cappi di ciascun impiccato. A spettacolo concluso, dopo i consueti riti di esibizione post-mortem, il boia ripuliva l’attrezzatura e faceva ritorno sulla riva destra del Tevere, in attesa di una nuova sentenza da eseguire.
Come da lui stesso riportato, Mastro Titta esordì sul patibolo a 17 anni il 22 marzo 1796, impiccando e squartando a Foligno Nicola Gentilucci, reo di aver ucciso un sacerdote e due frati. Da allora, la sua carriera fu più che longeva e ogniqualvolta passava ponte la città accorreva in massa. Anche due grandi nomi della letteratura inglese furono testimoni del suo lavoro e, sebbene fosse nota la popolarità di quella macabra usanza, rimasero profondamente turbati da ciò che videro. Il primo fu Lord George Gordon Byron. A Roma di passaggio, il 19 maggio 1817 si imbatté nell’esecuzione di Giovanni Trani, Felice Rocchi e Felice De Simoni. A Piazza del Popolo assistette a un cerimoniale che, in una lettera al suo editore John Murray, definì:
Più impressionante del volgare e sudicio new drop (l’impiccagione; ndr.) e dell’agonia da cane inflitta alle vittime delle sentenze inglesi
Nelle sue parole, l’autore lasciò trasparire una certa incredulità nel constatare come, al terrore di uno dei condannati, la folla contrappose un’ansia spasmodica per ammirare l’attimo fatale. L’8 marzo 1845, invece, fu il turno di Charles Dickens che, nel mezzo del suo tour per l’Italia, fu anch’egli testimone dell’ormai celebre boia di Roma. Era il periodo pasquale; solitamente non vi erano esecuzioni, ma per il malcapitato di quel giorno fu fatta un’eccezione. Come narrato dal padre di Oliver Twist nel suo libro Lettere dall’Italia, l’uomo aveva commesso un reato gravissimo, seguendo, derubando e uccidendo presso la Tomba di Nerone, lungo la via Cassia, una contessa bavarese recatasi in pellegrinaggio nella Città Eterna. Con perizia di particolari, ne descrisse l’atmosfera, i riti e l’inspiegabile boato orgiastico che accompagnò il calar della lama.
Non vi era alcuna manifestazione di disgusto, o di pietà, o di indignazione, o di mestizia. […] Fu uno spettacolo brutto, sporco, ributtante
Ciascuno a suo modo, gli inglesi fornirono dei resoconti minuziosi dei rispettivi eventi, ma ciò che più li colpì non fu l’atto in sé delle esecuzioni, piuttosto la reazione entusiasta del popolo, infatuato di quei macabri momenti permeati di morte e indifferente alla sventura altrui.
In ambito lavorativo Mastro Titta fu un libro aperto, ma a livello personale vi è una notevole divergenza d’opinioni. La sua figura, strettamente legata allo Stato Pontificio, è stata ripetutamente passata al vaglio delle correnti di pensiero anticlericali e per tutti i nemici del papa il boia era un cinico e freddo assassino, un macellaio che, sadicamente, gioiva nell’infliggere la morte ai condannati. Completamente in antitesi a questa lugubre descrizione, c’era chi affermava che, in realtà, era un bonaccione, un uomo dal viso sereno e paffuto che svolgeva quella mansione perché qualcuno doveva pur farlo.
D’altronde, Mastro Titta era molto professionale ed era solito rassicurare i condannati, promettendo loro di eseguire la sentenza con precisione e velocità. Talvolta, offriva loro un ultimo omaggio terreno: un sorso di vino o una presa di tabacco. A inquinarne ancora di più la memoria, cercando di estrapolare il suo lavoro dalle varie circostanze, alcuni anni dopo la presa di Roma, nel 1891, fu pubblicato il libro Mastro Titta, il boia di Roma: Memorie di un carnefice scritte da lui stesso. L’opera, che prendeva spunto dal suo personale taccuino, era un falso in chiave anticlericale, forse scritto dal giornalista Ernesto Mezzabotta, ma, ufficialmente, di firma anonima.
La carriera di Bugatti giunse al termine il 17 agosto 1864, dopo oltre mezzo secolo. Alla veneranda età di 85 anni, giustiziò Antonio Olietti e Domenico Demartini, per poi esser sostituito dal suo allievo Vincenzo Balducci. Pio IX lo premiò con la concessione di una pensione di 30 scudi mensili e, fino al sopraggiungere della morte si dedicò alla formazione di nuovi apprendisti a cui svelare i trucchi del mestiere. Si spense a Roma il 18 luglio 1869, al tramonto dello Stato Pontificio che per lungo tempo aveva servito. Da allora, Mastro Titta divenne sinonimo di boia, sia per i suoi successori sia per i predecessori. Ne è un esempio il sonetto n. 68 composto nel 1830 dal poeta Giuseppe Gioacchino Belli. Nei suoi versi narrò dell’impiccagione di Antonio Camardella, colpevole di aver brutalmente assassinato il suo socio in affari. La condanna fu eseguita nel 1749, ma il boia è ugualmente indicato col nomignolo di Mastro Titta, a riprova di quanto fu grande la fama che accompagnò il suo nome.
Nella parte finale Belli scrive:
Tutt’a un tratto, al “paziente”, Mastro Titta
appioppò un calcio in culo, e il papà a me
uno schiaffone sulla guancia con la destra.
«Tieni!», mi disse, «e ricordati bene
che questa stessa fine sta già scritta
per mille altri che sono meglio di te».
La memoria di Bugatti sopravvisse nell’immaginario comune della capitale che, dopo averlo visto come un onnipresente protagonista delle cronache giudiziarie dell’epoca, gli ha riservato uno spazio nel Museo Criminologico sito nel Palazzo del Gonfalone, dove è possibile osservare l’inconfondibile mantello scarlatto da lui indossato sul lavoro per 68 anni. Secondo una leggenda popolare, il suo fantasma si aggira alle prime luci dell’alba presso ponte Sant’Angelo, offrendo una presa di tabacco a chi lo incontra, come era solito fare per consolare gli sventurati che incrociavano il suo cammino sul patibolo.
0 notes
iltrombadore · 4 years
Text
1964, Paolo VI in India e l’inviato Antonello Trombadori: “Il Papa mi ha detto: abbiamo molti dialoghi da fare”
Tumblr media
(Nel dicembre del 1964 Papa Paolo VI fece un viaggio in India, dove si svolgeva il Congresso Eucaristico. Mio padre Antonello lo seguì come inviato de l’Unità, allora diretto da Mario Alicata. Palmiro Togliatti era scomparso da qualche mese e nel PCI si apriva una stagione di lotta politica che ebbe tra le varie poste in gioco anche il rapporto con il mondo cattolico per le prospettive aperte dal Concilio Vaticano II. Accadde così che un breve ma eloquente accenno del Pontefice rivolto all’ inviato de l’Unità divenne sintomatico colpo giornalistico che occupò la prima pagina suscitando col titolo una notevole eco: “Il Papa mi ha detto: abbiamo molti dialoghi da fare”. Se la vita della Chiesa si rivolgeva alle ansie del mondo contemporaneo,  l’ invito al dialogo segnava l’ attenzione a quanto maturava nel mondo comunista in termini di riforma e revisione. Ricordo bene che all’epoca –avevo diciannove anni- non seppi nemmeno cogliere l’ importanza politica e la portata morale di quanto accadeva. Chiuso nelle mie certezze marxiste ero un chierichetto dell’ ortodossia ideologica. Col tempo, grazie a Dio, ho rivisto completamente quell’ ottuso modo di pensare.Riproduco volentieri l’articolo di Antonello Trombadori e il titolo che vi appose de l’Unità.)
Tumblr media
Primo servizio di Antonello Trombadori sul viaggio di Paolo VI
“IL PAPA MI HA DETTO: ABBIAMO MOLTI DIALOGHI DA FARE”
Una breve conversazione tra Paolo VI e l’inviato speciale dell’Unità si è svolta a bordo del ”Nanga Parbat” tra Beirut e Bombay
Bombay,2 dicembre 1964-Alle 21, 20 ora italiana, a diecimila metri di altezza, sulla parte settentrionale dell’Oceano Indiano, esattamente sul Mar d’Arabia nel punto dove finiscono le acque territoriali pakistane e cominciano quelle della Repubblica Indiana, Paolo VI è passato davanti al mio posto nella classe turistica del Boeing 707 che ci ha trasportati a Bombay. Mi sono levato in piedi e gli ho detto: ‘Antonello Trombadori del giornale l’Unità’. Il Papa ha avuto un attimo di sorpresa. Io ho subito soggiunto:’ Buon viaggio da parte dei nostri lettori’. Paolo VI ha immediatamente ribattuto: ’Auguri, auguri’. Poi, dopo un fugacissimo silenzio, ha proseguito: ‘Auguri, avremo tanti bei dialoghi da fare’ .Ha poi seguitato il suo cammino verso la coda dell’apparecchio soffermandosi a salutare altri passeggeri e in particolare due suore missionarie che fanno ritorno nell’Assam, dove la maggiore di esse risiede da 36 anni.
Un giornalista americano, non appena il Papa si è ritirato nella sua cabina, ha avuto un rapido colloquio con mons. Samorè, segretario per gli affari straordinari della Segreteria di Stato. Gli ha chiesto: “questo viaggio del Papa, vuole aprire un dialogo anche con altre religioni; anche con chi non crede, con i comunisti ?”. Monsignor Samorè ha risposto: “con tutti, purché vi sia buona volontà”. Poco prima tra il corrispondente della NBC Irving Levine e il Pontefice aveva avuto luogo questo scambio di frasi: ”Perché intraprendere questo viaggio ?”.Paolo VI:” Ci vorrebbe troppo tempo per rispondere. Spero di incontrare molti fedeli e altri uomini. Spero che il viaggio contribuisca alla pace e risulti una testimonianza di buona volontà”.
E certo più di una testimonianza di buona volontà ha richiesto la enorme folla venuta a salutarlo all’aeroporto di Bombay e lungo i circa trenta chilometri che lo separano dal luogo dove si svolge il Congresso Eucaristico. Cattolici, certo; ma anche induisti, buddisti, musulmani e uomini senza religione precisa, presumibilmente venuti a vedere che panni veste e che cosa promette il Capo della Chiesa Cattolica.
Tumblr media
E non c’è dubbio che assieme al Pontefice quella folla che non ha mai smesso di gridare, di interrogare con gli occhi profondi e di ridere di cuore protendendo le mani verso le macchine del Pontefice e del seguito, ha anche inteso accomunare nello stesso saluto uomini di altro colore e di altre nazionalità in una spontanea testimonianza di amicizia e di pace. L’aereo che ha portato Paolo VI in India si è alzato da Fiumicino alle 4,30. Dal mio taccuino traggo questi appunti sul viaggio fra Roma e Beirut. Sono le 8,10 ora italiana. Da circa un’ ora l’aereo pontifico della Air India che tra sporta Paolo VI a una quota pari a quella di una della più alte vette dell’Himalaya, di cui porta il nome, “Nanga Parbat”, e sul cui muso, diciamo alla altezza della tempia sinistra, è stato dipinto lo stemma vaticano accanto alla bandiera indiana, ha lasciato Roma sotto una pioggia fitta e battente Stiamo ora sorvolando l’ultimo lembo di terra italiana si distinguono piccolissimi i lumi di qualche villaggio calabrese- Melissa, Stromboli, Isola Capo Rizzuto - l’ area della grande miseria è già cominciata. Il sole dell’alba ci viene incontro dalla Grecia sbucando di sotto lo strato spesso di nuvole che copre i monti del Peloponneso. Paolo VII, che nessuno finora  è riuscito a vedere, riposa nella parte della cabina di prima classe che è stata compostamente trasformata in una piccola e comoda alcova. I due cardinali invece (si tratta di Cicognani e di Tisserant) posso  indovinarli di spalle dal mio posto di classe turistica sonnecchianti e abbandonati con la testa all’indietro sulle poltrone; dall’altra parte della cabina di prima classe a loro riservata insieme a qualche altro importante prelato distinguo la chioma pepe e sale ben pettinata del prefetto delle cerimonie, mons. Dante, quello stesso che tante volte i telespettatori hanno potuto vedere accanto al Pontefice per suggerirgli questo o quel movimento del cerimoniale; un filo di fumo sale azzurrino  da dietro la sua spalliera, monsignor Dante preferisce evidentemente tenersi desto per ogni evenienza.
Tumblr media
Non siamo soltanto giornalisti sul “Nanga Parbat”. C’è anche il sindaco di Venezia, Favaretto Fisca, che corregge tra uno sbalzo e l’altro dell’aereo il testo del saluto che porterà al Congresso Eucaristico di Bombay; ci sono le due suore missionarie che fanno ritorno nell’Assam dopo aver partecipato in Italia alla elezione della madre badessa del loro ordine; vi sono altri sacerdoti cattolici e vi è un agricoltore trevigiano dalla faccia angelica e non nemica del buon vino, che accompagna in una sorta di viaggio turistico religioso la giovane figlia al Congresso eucaristico. Le hostess abbigliate in elegantissimi e alquanto plastici sari a strisce marrone, verde marcio e argento, hanno un gran daffare. Non si sono fermate un momento dal decollo in poi. Il primo faticoso lavoro è stato quello di restituire ai rispettivi proprietari macchine fotografiche. Cineprese, macchine da scrivere, borse e valigette che erano state ritirate prima di varcare il posto di polizia; poi è cominciata la distribuzione delle cartelle messe a disposizione dei giornalisti da parte della compagnia di navigazione. In una di queste cartelle vi è un testo inglese nel quale i dirigenti dell’ Air India fanno un personale apprezzamento dello storico significato del viaggio del Pontefice nel loro paese e a bordo di un loro aereo. Gli stessi concetti sono stati in parte ripetuti all’altoparlante dalla hostess Ursula Stocker, una gentile svizzera cattolica di ventitré anni che ha detto in italiano lentamente ma senza emozione: “L’Air India oltre che il suo benvenuto porge a Sua Santità l’augurio di un comodo e piacevole viaggio. Grazie”.
Tumblr media
Se è vero che questo viaggio è destinato a passare alla storia, non c’è dubbio che le prie eroine della sua cronaca sono queste quattro hostess. Della prima vi ho già detto il nome. Vi presento ora le altre tre: Cintya Kyte, smilza dai capelli scuri, nata a Bombay ventisei anni fa, diplomata in economia all’università di Karnatak; ama Roma e Londra, suona il piano ed è campionessa di ping pong. Collleen Biladzava, nata in un villaggio presso Bombay, ventun anni, prima di entrare nella Air India ha frequentato il convento di Gesù e Maria. Shirley Kennedy, ventotto anni, mannequin, buona atleta, vittoriosa in numerose gare. Infine Kalini Shahani, ventun anni, snella e elegante, nata a Karachi, protestante. Ho tratto queste notizie dal registro di bordo.
Alle sette in punto Paolo VI, interamente vestito di bianco, ha fatto la sua apparizione sulla soglia della porta che divide la sua alcova dalla zona riservata ai prelati del seguito, e si è spinto, tra  lampi di flash e mani protese a toccare le sue, fino alla soglia della classe turistica, sbarbato, risposato, sorridente. Ha fatto i suoi complimenti al sindaco di Venezia ricordando che dalla Serenissima mosse a suo tempo verso l’Oriente Marco Polo; ha anche inaugurato il carnet di un industriale milanese invitato al suo seguito con la seguente frase latina:” Ambulate in dilectione”. Voleva poi percorrere tutto il lungo corridoio del “Nanga Parbat” , ma monsignor cerimoniere visto l’affollamento lo ha dolcemente spinto all’indietro. Le due madri missionarie che erano rimaste disciplinatamente al loro posto hanno perduto l’occasione di baciargli la mano e di raccontargli dei morti di fame, dei lebbrosi e degli appestati dell’ Assam. Sono le sette e un quarto (sempre ora italiana) e il Libano è sotto di noi. Dopo un quarto d’ora il Boeing 707 ha toccato con delicato e autorevole colpo di cloche  del comandante Shirudkar la pista di Beirut; gli ultimi minuti di volo a bassa quota li abbiamo fatti quasi in riva al mare, tra cespugli fitti di tamerici dai quali sbucavano come formiche soldati armati di ogni tipo. Alcuni di essi hanno salutato agitando le braccia.
Tumblr media
Paolo VI è apparso sulla vetta della scala di prima classe con un gran mantello rosso scarlatto, è sceso agilmente a terra e subito è stato circondato da sacerdoti vestiti di rosso e di nero con grandi barbe e volti bruni di libanesi e di siriani. Si è fatto incontro il cardinale Taupouni, piccolo e segaligno, con due occhi vivi e neri come il carbone che si sono appuntati in quelli grigi del Pontefice, prima che  questi si avviasse a passo rapido e con il braccio alzato in segno di saluto verso il picchetto d’onore schierato in armi.
A fianco di Paolo VI si è posto il presidente della repubblica libanese. Tutto lo spazio disponibile per il pubblico sugli spalti dell’aeroporto era gremito di suore e di preti cattolici di rito maronita e di rito melchita. Il Papa ha riscosso i loro fervidissimi battimani ogni vota che fermandosi a benedire le bandiere issate sulla baionetta dei capi plotone, alzava il braccio e  l o spingeva  oltre i soldati. Tra i prelati libanesi ho osservato attentamente Massimo IV, il patriarca cattolico di rito melchita. E’ un uomo duro, fermo, tarchiato, fiero sotto la sua piccola cappa nera che gli cala fin quasi sui mustacchi. E’ nota la sua funzione di punta nel Concilio in rivendicazione della priorità dei riti e delle comunità cattoliche orientali da lui considerate originarie. E’ nota anche la sua ferma posizione in difesa dell’uso delle lingue nazionali, soprattutto il greco, l’aramaico, e nel suo caso il francese, per lo svolgimento dei riti sacri. Ma è ancora più nota la sua rivendicazione della funzione dei patriarchi in rapporto a quella dei cardinali. Il Papa, nel suo saluto di risposta alla allocuzione del Presidente della Repubblica libanese ha ricordato per nome soltanto il cardinale Taupoumi.+Mentre Paolo Vi parlava ho avuto la sorpresa di vedermi accanto un giornalista svizzero della nostra comitiva improvvisamente trasformatosi in Cavaliere del Santo Sepolcro. Un gran mantello bianco con la croce greca rossa, un berrettone di velluto nero alla Raffaello, impettito e militarmente corretto egli testimoniava così la presenza del suo Ordine al seguito del Pontefice. Gli si è avvicinato un giovane sacerdote, di quelli che hanno posto in prima classe, e mi pare proprio che gli abbia fatto un cicchettone.
Paolo VI ha donato quarantamila dollari per i poveri del Libano: ventimila nelle mani del Presidente della Repubblica, ventimila nelle mani del Nunzio apostolico a Beirut. Poi abbiamo ripreso il volo e alle dieci e trenta (ora italiana) ci è stata servita la colazione. Sul frontespizio del menù figura una incisione della chiesa indiana di Nostra Signora Pullaparame, forse uno dei più antichi templi della cristianità. Si narra che sia stato fondato dall’incredulo apostata Tommaso, evangelizzatore dell’India nel 52 d.C.
Antonello Trombadori
0 notes
holmes-nii-chan · 4 years
Text
1047~1050話について  |  Sui Capitoli 1047-1050
Ciao! Finalmente, dopo... 13 capitoli... ritorno con un post di riflessione su quest’ultimo caso, che chiamerò “Caso dell’avvelenamento ad una festa di compleanno di una modella”, tanto per non dargli nomi lunghi, eh.
Il post nasce come riflessione sulla linguistica del capitolo, quindi perdonate per il poco spazio dato ai miei pensieri. Dopotutto, io più che dire la mia devo lavorare perché voi diciate la vostra - o almeno, questo è ciò che penserà Rie Zushi.
Parlata di Mary (& di Vermouth)
Mary è una straniera, all’interno del manga di DC, essendo inglese - così come Vermouth, che è americana. Pertanto, forse perché gli inglesi sono un po’ complessi e arzigogolati, o forse proprio per rendere questo suo essere esterna al mondo nativo nipponico, la sua parlata (o meglio, la loro parlata, anche se per Vermouth si nota di meno) è piuttosto strana e obsoleta. Ma non preoccuparti, Mary-chan, non sei la sola.
Tumblr media
Dal capitolo 1049. In questa subordinata finale, con verbo negativo (”per evitare che si sospettasse che si potesse trattare di una trappola”, lett.), Mary usa la negativa letterale con ~ぬ -nu invece che con un semplice ~ない -nai. Il tutto è reso ancora più strano dal fatto che il verbo è (giustamente) al passivo. Mah.
Tumblr media
Sempre dal Capitolo 1049. In questa ipotetica, Mary usa ancora una forma letteraria per coniugare al condizionale la desinenza negativa: nella grammatica Giapponese autoctona (che non si studia in Italia, in generale), anche le desinenze verbali si coniugano a varie forme (f. imperfetta, f. connettiva, f. conclusiva, f. attributiva, f. ipotetica e f. imperativa). La desinenza negativa letteraria, ぬ -nu, alla f. ipotetica è proprio ねば -neba - quindi il verbo diventa un “se non torno/tornassi”.
Inoltre, per dire di “aver lasciato detto” (a sua figlia che se non tornerà entro il tempo prestabilito sarebbe dovuta scappare da Londra, eccetera), usa il verbo 言う iu alla forma ~てある -te aru. Non è desueto, ma è particolarmente caratterizzante: per definizione, ~てある -te aru indica uno stato risultante da una particolare azione: “se quello Tsutomu è falso, allora vattene dal Giappone”.
Tumblr media
Anche questo è un costrutto desueto per due ragioni:
知る由もない shiru yoshi mo nai è un’espressione particolarmente obsoleta per dire che “non c’è modo che (tu) sappia”. Si trova praticamente solo in idiomi e/o proverbi.
Mary usa なかろう -nakarou come forma presuntiva / volitiva di ない -nai, che è caduta in disuso. Oggi si direbbe probabilmente ないだろう -nai darou.
Tumblr media
(scusate la censura; non vorrei incappare per sbaglio nella politica restrittiva di Tumblr.)
Qui non ho evidenziato nulla, perché effettivamente tutta la frase di Vermouth è piuttosto strana. Soprattutto quel まで made alla fine: di per sé, まで made indicherebbe un limite ad una portata, sia letterale che figurato; in questo caso, è lì solo come enfasi, come suppellettile, perché non significa nulla.
Ah, lo strano mondo del giapponese.
Tumblr media
(Breve stacco solo per notare che forse questo foreshadowing di Mary è la vera parte interessante del Capitolo 1050)
Tumblr media
*squints*
OK, questo sì che è strano. Il significato è “dobbiamo mettere le mani (su quel siero)”. Seguitemi in questo ragionamento (scusate se non metto la trascrizione della pronuncia accanto ai kana, verrebbe una lista troppo estesa, perché il costrutto è lunghetto):
手に入れねばなるまい (lett. se non ci mettiamo le mani, non andrà bene)
~ねば come notato prima è il condizionale di ~ぬ, negativa letteraria condizionale ⇒ “se non...” ⇒ “se non ci mettiamo le mani” ⇒ 手に入らなければ (giapponese standard)
+ なるまい, negativo obsoleto di なる - ma più marcato - (che, per carità, è grammatica del JLPT N2, ma diciamocelo chiaro: chi lo usa? Nessuno. Whoops.), che in giapponese standard è ならない
⇒ in giapponese moderno: 手に入らなければならない ⇒ “se non ci mettiamo le mani, non andrà bene” ⇒ “dobbiamo metterci le mani”
Nulla di che, ma è divertente vedere come Aoyama cerchi di rendere una parlata innaturale di una straniera... Fallendo miseramente. Una straniera al massimo utilizza impropriamente la grammatica, non è che la arcaicizza. *squints twice*
Parlata di Sera
Lo sappiamo: Sera parla di sé al maschile, infatti è una bokukko - una maschiaccia (letteralmente: “una ragazza che usa per sé il pronome maschile” - ed effettivamente è proprio quello che fa), ma la sua lingua in generale non ha nulla di particolare.
Fatta forse eccezione per un solo punto nel File 1050:
Tumblr media
Questa qui è una forma un po’ desueta di un negativo particolarmente enfatico.
Cominciamo col dire che il verbo è バレる bareru, che indica lo “scoprirsi”, l’”essere svelato” di un segreto o di un comportamento scorretto.
Prendiamo la forma connettiva del verbo (per intenderci, quella a cui attacchiamo verbi ausiliari come ます masu - che indica cortesia - e simili) ⇒ バレ bare. Per la cronaca, バレ da solo significa qualcosa: è l’abbreviazione di ネタバレ netabare, che vuol dire spoiler - ネタ neta è una parola complessa che indica una “parte/punto significativa/o” + バレ bare da バレる bareru.
Digressione a parte, a バレ- aggiungiamo il costrutto やしない ya-shinai (che probabilmente deriva da ~はしない -wa shinai, che pone il verbo in evidenza e poi lo nega col verbo “fare”, a grandissime linee) ⇒ バレやしない bare-ya-shinai.
Non è altro che una negativa. Quindi, parafrasando, il significato è praticamente “non poteva venire scoperto (assolutamente)”; avremmo potuto dire 絶対バレない zettai barenai.
Non è naturalmente a livello di sua madre, intendiamoci: questa roba qua si studia per il JLPT N1, e l’ho ancora sentita in FairyTail, mi pare, quindi non è nulla di eclatante. Ma confesso che in un certo senso ho strabuzzato gli occhi vedendomi una situazione del tipo: “AH, ma allora non si studia e basta, la usano pure! ‘nnaggia!”.
È tutt-- Ah, no! Le opinioni sul caso!
Tumblr media
Io non sono un tipo che teorizza: quello lo lascio fare a Giò, che è molto più bravo, ma spendo lo stesso qualche riga per dirvi cosa ne penso del caso sia per quanto riguarda la trama che per quanto riguarda la lingua:
In sintesi, non è stato nulla di che da tradurre: abbiamo cercato di essere i più letterali possibili per evitare malintesi quando formulate le vostre teorie. Spero apprezziate le sette camicie moltiplicate per due che abbiamo sudato nel farlo! ^o^
Per quanto riguarda il manga in sé, l’unico capitolo decente è stato il 1049 (uno su quattro! Yay!), perché finalmente sappiamo chi ha somministrato il siero a Mary. Fun fact, sei delle sette camicie moltiplicate per due le abbiamo sudate nell’escogitare un modo, nel File 1047, per riferirci alla persona che ha somministrato il siero a Mary - senza usare qualcosa di gender-specific, ma neanche “quella persona” che si confonde col Capo. Indovinate che piacere scoprire che... si sarebbe saputo nel capitolo dopo. AH AH AH. Ciao.
Particolarmente interessante è la vignetta indicata sopra coi tre puntini di sospensione di Mary: che ne sapesse già di più sul veleno? E meno male che almeno abbiamo avuto una conferma ufficiale del legame tra Elena Miyano e Mary.
Il delitto invece non mi è piaciuto per nulla: ritengo che sia stato scialbo e poco articolato. Regalaceli ‘sti colpi di scena, ogni tanto, Aoyama-sensei!
Il Capitolo 1051 uscirà l’8 aprile (perché la serie deve essere obbligatoriamente in corso di pubblicazione nel periodo di proiezione del Film), e io credo che avrà come personaggi centrali ancora Sera, Mary e Akai - anche come promozione della nuova versione cinematografica, “Il Proiettile Scarlatto”.
Continuate a seguirci sul Discord di DCFS: https://discord.gg/mu64Tsg e/o sul nostro sito: https://dcfamilysubs.com :D
1 note · View note
fuoco-rosso · 6 years
Text
13-12-17
Ciao sono Rosso.
Il rosso è un colore e, come tale, può rappresentare molte cose. Può evidenziarle, darle significato, o cancellarle, lasciando uno squarcio brutto da vedere. Il rosso travolge e spicca tra molti. È caldo, amichevole, ma ti fa sentire a disagio se lo osservi per molto tempo. Ti fa male la vista, è troppo forte e non riesci ad ammirarlo per più di qualche momento, quindi ti annoia, anzi ti infastidisce e lo scarti. Ecco io sono Rosso. Sono acceso, travolgente, ovunque vado lascio il segno, talvolta anche troppo marcato, quella pennellata in più che è difficile da sfumare. Profondo, vado sempre oltre, capisco una cosa ma, come il rosso, una volta che la ho assorbita difficilmente cambio colore. Certo la mia tonalità sfuma, dal chiaro al scuro o viceversa, ma ritorno ad essere rosso. Sono scarlatto, passionale, una fiamma lieve mi brucia nel petto e continuamente gli altri colori cercano di soffocarla. Ma lei continua, rossa più che mai, lingua dopo lingua, luce dopo luce, si fa avanti e rossa rimane. Lussurioso, molto lussurioso è il rosso. Passione fatta a colore e come tale può risultare sfacciato, deve cercare di controllarsi, reprimersi, mischiarsi con altri colori o sfumature, non sue, per risultare simile agli altri, ma rosso è e rosso rimane. Sperando che gli altri colori accettino la sua unicità dell'essere un colore primario. La minoranza. Questo sono io, Rosso.
Attento a non scottarti.
2 notes · View notes
blog-melacque-role · 5 years
Photo
Tumblr media
                     Corban Svariate nubi nere erano apparse tra la folla per scatenare il terrore, per seminare il panico e insediare incubi alle streghe e ai maghi presenti a King’s Cross. Quelle nubi nere che significavano morte, erano dei maghi estremisti che seguivano /quel/ mago oscuro. /il/ signore oscuro.Corban era uno di quei mostri che però, mostri non si reputavano. Nella sua mente perversa e malata, Corban era ammaliato da questi ideali purosangue. Pensava di combattere per i giusti ideali anche se con ferocia e malignità. Fin da bambino era stato cresciuto con severe regole e imposizioni che lo portavano a crescere come una macchina mortale soprattutto perché, crescendo, si rese conto che il potere ed essere temuti da /persone/ di basso rango, lo elettrizzavano. In più era stato educato da bambino a disprezzare tutto quello che era diverso; i Mezzosangue, i Natibabbani, i Magonò e i babbani.Quindi fino in giovane età, era come se quella vita gli fosse stata predestinata. Combattere contro quelle specie di persone che si facevano chiamare maghi, servive Voldemort. Era come se il suo destino era stato scritto. E a Corban piaceva particolarmente.Per quello appena si smaterializzò passando da nube nera al suo vero aspetto, si fece riconoscere scagliando dove capitava un incantesimo che lo divertiva particolarmente; Bombarda Maxima. Mattoni, vagoni del treno, pilastri in ferro, stava distruggendo tutto quello che li capitava a tiro per seminare ancora più disagio e moltiplicare i feriti.Rideva, da sotto la maschera che ritraeva un teschio. Una risata meschina, subdola ma anche particolarmente allegra, che rimbombava all’interno della maschera. Faceva venire i brividi.
                     Jacqueline Scesa dalla treno, Jacqueline perse tempo a chiacchierare con le sue amiche, anziché andare a cercare sua madre. Questo perché la donna era una stilista molto impegnata; immaginava sarebbe arrivata con qualche minuto di ritardo. Ammesso sempre che non avesse delegato qualcun altro di andare a prenderla! Un anno era stata incaricata Mifet, l’elfa domestica; era stato, senza ombra di dubbio, il peggior ritorno a casa di sempre, per la Serpeverde. Stava salutando la Fawley quando i Mangiamorte invasero la stazione. L’amica l’aveva stretta in un abbraccio per congedarsi e lei, dalla sua spalla, aveva scorto i genitori di lei passare dal guardarle felici - in attesa che la loro bambina li raggiungesse - al deformarsi in un misto di preoccupazione ed urgenza. Corsero verso di loro, che nel frattempo si erano separate ed afferrarono Calarisse per un braccio. L’amica prese quello di Jacqueleine. Volevano smaterializzarsi. Troppo sconvolta per pensare lucidamente e per capire cosa le venisse urlato, la bionda si sottrasse dalla stretta, e, febbricitante, lasciò che la famiglia si smaterializzasse davanti ai suoi occhi, prendendo poi a guardarsi intorno. Doveva trovare sua madre. Intorno a lei le persone correvano come seguendo la corrente di un fiume in piena. Fuggivano da loro, dai mangiamorte. E senza che potesse neppure accorgersene, del viscoso fumo nero saettò a pochi metri da lei, lasciando apparire, nel diradarsi, uno di quei volti mascherati. Lanciò un bombarda, l'uomo. Furono i danni dell’incantesimo a farglielo notare. Jacqueline urlò. La fuliggine le si sbriciolava addosso. Era ancora vicina al treno; avrebbe voluto spostarsi ma rimase impietrita, riuscì solo ad accucciarsi, coprendosi il capo per impedire proteggersi dalle macerie. Successivamente portò una mano nella tasca incantata della gonna, a toccare l’impugnatura della bacchetta che - per la troppa paura - non estrasse.
                     Corban Corban ammirava con estrema gioia, da sotto quella maschera bianca e spaventosa, il caos che regnava alla stazione. Nubi nere come la pece, bacchette che sputavano incantesimi sotto forma di saette colorate, occupavano quel luogo tanto quanto le urla agghiaccianti di maghi e streghe che stavano perdendo amici, parenti. A che avrebbero potuto pure perdere loro stessi, abbracciando in modo violento la morte avvenente. Corban stava scagliando un incantesimo specifico per creare seri danni, per far notare la sua figura imponente e far percepire la malvagità che lo abitava, quando un grido acuto e terrorizzato lo interruppe. Il suo sguardo assetato di morte e divertimento si spostò verso l’urlo di una voce femminile: Una ragazza molto minuta e bionda era d’innanzi a lui, con un’ambientazione quasi apocalittica alle spalle. Sembrava quasi pietrificata dalla paura, come se quell’emozione la stesse neutralizzando. La paura gioca brutti scherzi. Notando che la studentessa doveva ancora recuperare la bacchetta e quindi era ancora indifesa da un qualsiasi attacco, Corban decise di non ucciderla immediatamente, ma di giocare con quella ragazzina che poteva essere molto probabilmente, dell’età di sua figlia Crystal. Avanzò lentamente di alcuni passi quando con una mossa veloce mirò ad un altro vagone con lo stesso incantesimo di prima. Così da aggiungere più esplosioni e detriti al suo prossimo omicidio, la voleva spaventata a morte, che capisse cosa e chi le stava andando incontro. Si avvicinò sempre di piu alla studentessa, scagliando oltre il suo corpo incantesimi non mortali per spaventarla. Gli scagliò tutti non verbali, poiché avvicinandosi ora velocemente alla strega, voleva evitare che lei o chiunque altro, riconoscesse la sua voce; la voce di Corban Yaxley, un famosissimo ex giocatore di Quidditch.
                     Jacqueline Lasciò definitivamente perdere la bacchetta quando il Mangiamorte prese a lanciarle maledizioni irripetibili. Cosa avrebbe potuto fare? Era perfettamente consapevole dell’inefficacia dei suoi protego. Gli unici incantesimi in cui Jacqueline eccelleva erano quelli d’uso quotidiano. Li conosceva tutti a memoria; ne aveva uno per arricciare i capelli, uno per lisciare gli abiti che - aveva scoperto - funzionava anche con la sua chioma, uno per spolverare - ma lei lo usava per togliere i peli di Pompon dai suoi vestiti - e persino uno per le pellicine.
Messa difronte a quella verità, realizzò che le rimaneva la fuga. Tuttavia la folla, se possibile, la terrorizzava ancora più dell’uomo dal volto mascherato. Era una bellissima, giovane, donna purosangue. Che fine avrebbe fatto intrappolata in quella mischia confusa di babbani, nati babbani e mezzosangue? Convenne, cadaverica in volto per il tumulto d’emozioni, che la miglior opzione fosse quella di riuscire ad urlare il suo cognome: Bulstrode.
A fatica, indietreggiò contro il vagone scarlatto; le gambe urtarono i gradini per salire sul treno. Senza togliere gli occhi dall’oscura figura, con una mano cercò sostegno e riuscì a salire un gradino. ‹‹ S-son ›› le parole le morirono in gola. Quel nero, tutto quel nero, le grida delle persone, il verde lampante dell'anatema che uccide... arrancò sempre più all’indietro, salendo i gradini. Sull’espresso sarebbe stata al sicuro dagli incantesimi, pensò. Ma trovò la porta sigillata. Frettolosamente portò lo sguardo sulla maniglia e subito dopo, nuovamente al Mangiamorte. Il crescente panico; le mani a spingere convulsamente contro la porta; Jacqueline aveva paura. Fu allora che riuscì ad urlare ripetutamente: ‹‹ sono una Bulstrode! Sono una Bulstrode, sono una Bulstrode! ›› E sempre allora, la prima lacrima scese lungo il suo viso.
                     Corban
                     Jacqueline
0 notes
reinadelbaile · 5 years
Photo
Tumblr media
.                                🥀  ╱   fashback, chicago.             2015 ;   ##ᴛᴏᴏᴍᴜᴄʜᴛᴏʙᴇᴀʀ.                                  𝗵𝗲𝗿 𝗽𝗼𝗶𝗻𝘁 𝗼𝗳 𝘃𝗶𝗲𝘄 ...          Di quel passo avrebbe impresso, in modo permanente, nella propria mente il grottesco diramarsi delle crepe sulla parete che era stata intenta a fissare nel corso delle ultime ore, nella totale perdita della cognizione del tempo. Le mani riposte in grembo non avevano accennato a disfare quella sorta di capanna fatta di membra atta a donare almeno l’illusione di un po’ di conforto oppure   - probabilmente la verità era quella -   semplicemente poste lì a tenere stretta la presa al fine di evitare che quel vuoto che nasceva al centro del suo ventre si espandesse fino a divorarla viva. Poteva scorgere in quella parete il metaforico e lento sgretolarsi della sua esistenza, nell’accettazione di una sola e cruda realtà: che la sua vita sarebbe stata costellata di perdite ma alcune, proprio come quella, sarebbero avvenute proprio per mano sua ed ella avrebbe dovuto imparare a convivere con esse, con i sensi di colpa, con l’odio che provava nei confronti di se stessa. Un’altra ragione per cui teneva le mani incollate al suo stesso scarno corpo avrebbe potuto essere il terrore di scrutarsi i palmi e scorgere lo scarlatto lucore di un sangue puramente immaginario, appartenente ad una vita ormai spenta che gravava sulla sua coscienza. Era stata tutta colpa sua, della sua immaturità, della sua impulsività e della sua più grande paura   - quella di perdere ciò che più amava -  quindi aveva agito nel modo che le era parso più ragionevole: facendo sì che un probabile futuro amore non vedesse mai la luce. Quella concezione, però, non era neanche in grado di azzerare la colpevolezza né di metterla a tacere, mentre quella emetteva urla stridule ed agghiaccianti, simili a mille unghie su di una lavagna. Avrebbe perlomeno preferito piangere, riversare quel dolore in brucianti e lenti rivoli, mentre quel vuoto di cui si circondava dava agio alla mente di formulare un dolce e sommesso pulsare in prossimità del basso ventre, prima che esso si spegnesse in un lungo ed eterno silenzio. La morte che prende possesso della vita; l’aveva scorta per la prima volta due anni addietro, nelle calde e scure iridi del suo amato padre, e ora l’avvertiva, pervaderla e consumarla dall’interno del suo stesso corpo, come se portasse proprio la morte in grembo.   ( … )   Un lungo bagno nella soffice spuma dal profumo acre dei saponi scadenti di un motel nella periferia di Chicago non erano bastati ad annullare l’odore pungente di disinfettanti che ancora rendeva il ricordo della sua visita in ospedale fresco e recente. Non aveva avuto il coraggio di far ritorno a casa, né di contattare, in qualche modo, Miguel. L’intenzione era quella di sparire dalla vita di chiunque conoscesse il suo volto, per ritirarsi dalle scene di un’esistenza ormai ridotta in frantumi e rifugiarsi, da irrimediabile codarda, da quel dolore che il destino e le sue stesse giovani mani le avevano inflitto. Una nuova fitta si levò dal centro del suo petto, al pensiero che, stavolta, fare una scelta cosciente avrebbe implicato dire addio alla sua sorellina, senza nessun saluto verbale, senza concedersi un ultimo abbraccio; confidava nel fatto che la bambina e sua madre avrebbero trovato il modo di gioire, presto o tardi, nella vita, nonostante la sua dipartita. Quel pensiero fu in grado di farle bruciare gli occhi ed inumidirle le guance. La meta designata, non troppo difficile da raggiungere passando inosservata, sarebbe stata il nord di Chicago, l’altra faccia di una città che avrebbe semplicemente potuto sparire; non avrebbe, per lei, fatto più alcuna differenza.                      __________________________                                 𝗵𝗶𝘀 𝗽𝗼𝗶𝗻𝘁 𝗼𝗳 𝘃𝗶𝗲𝘄 ...              « Sto cercando Nerea Rivera. » Le livide tracce di una notte insonne contornavano gli occhi d’ebano di Miguel Rodriguez, dando al suo normale colorito caramellato una tonalità smorta, scavando ombre grottesche cariche di apprensione. La donna dalla pelle di porcellana striata di premature rughe seduta alla scrivania della reception dell'ospedale parve soppesare la richiesta, intenta a battere sonoramente i tasti di una grossa tastiera, dunque levò su di lui lo sguardo, scrutando quei lineamenti con professionale curiosità.     « Lei è un parente? »     « Sono il suo ragazzo. » Ed era, con molta probabilità, la prima volta che si attribuiva quell’appellativo, in quanto la relazione condivisa nel corso degli ultimi due anni non aveva mai ottenuto definizione alcuna. Con altrettanta probabilità  - a sentire la bocca dello stomaco stretta nella morsa di un pessimo presentimento -   sarebbe stata anche l’ultima. Tuttavia, la donna parve farsi bastare la replica, e rivolse lo sguardo allo schermo di un computer.     « La signorina Rivera è stata dimessa stamattina in perfetta salute, dopo alcuni controlli. » Recitò, traducendo le informazioni che le suggeriva quella luminosa scatola, e scandì le parole in un modo così chiaro che persino la di lui evidente stanchezza non ebbe modo di trovare, in esse, qualcosa di incomprensibile. Tuttavia, era la sua mente a rifiutarsi categoricamente di accettare il pensiero di essersela lasciata sfuggire.     « Comprendo e, senta … Non ho avuto modo di parlare con lei, ma volevo accertarmi delle sue condizioni. Vede, c’era la probabilità di una gravidanza in corso e volevo ... » Ma le sue parole si spensero al sorgere di un nuovo sguardo riflesso nelle iridi acquose della receptionist che, nuovamente, rivolse a lui l'attenzione: compassione.     « Sono spiacente della perdita. » Replicò soltanto, accompagnando quei verbi con un gentile e veemente annuire. Un senso di tumultuosa nausea nacque laddove la morsa aveva tenuto a bada le sue viscere; tutto ciò che seppe, era che avrebbe voluto urlare a squarciagola e maledirsi per avere avuto tra le mani tutto ciò che avesse mai amato ed averlo fatto a pezzi. Seppe anche che, così come aveva sempre ironicamente associato la personalità della giovane Rivera a quella di un felino, quest’ultima, proprio come un esemplare di mammifero in questione, prendeva le distanze in stato di sofferenza; era andata via e lui non l’avrebbe rincorsa, non se farlo le avrebbe arrecato ulteriore danno. Ricordò le parole della di lei matrigna e fu chiaro cosa ella intendesse nel ridurla a pezzi: egli aveva adempiuto al di lei volere e di Nerea non restava che il ricordo. Avrebbe, pertanto, mentito, come il cacciatore mentì alla Regina nell’affermare che Biancaneve era morta. Stavolta avrebbe agito per il bene di lei, affinché si salvasse, trovasse il modo di essere felice, prima che quel peso gravasse sul di lui colpevole cuore come un macigno, troppo pesante da sopportare.                     .
0 notes
livioacerbo · 5 years
Text
The Flash 5: Nuovi segreti e nuove risposte nel decimo episodio | VIDEO
The Flash 5: Nuovi segreti e nuove risposte nel decimo episodio | VIDEO
Il 15 gennaio andrà in onda il 10 episodio della quinta stagione di The Flash. Con il ritorno sul piccolo schermo dello Speedster Scarlatto, arriveranno nuove domande e nuove importanti risposte.  “The Flash & The Furious“ è il titolo del decimo episodio di The Flash 5 che andrà in onda in America il 15 gennaio. …
Continue reading “The Flash 5: Nuovi segreti e nuove risposte nel decimo episodio |…
View On WordPress
0 notes
tizianacurti · 6 years
Text
Maggio il mese dolce per eccellenza ,un periodo nel quale coincidono momenti speciali quinto mese dell’anno nel calendario gregoriano e giuliano:nel dizionario  si trovano queste definizioni :un bel sole di maggio |rose di maggio, che fioriscono in maggio |bella come una rosa di maggio, si dice di ragazza dotata di una fresca bellezza. Tutto ci riporta a una sensazione di bellezza gioia allegria.
Il nome Maggio deriva dal nome latino Maius Il nome latino avrebbe preso origine, secondo Ovidio, da majores: “gli adulti anziani” a cui i romani dedicavano questo mese (avendo Romolo diviso la popolazione romana in due, i maggiori, gli adulti anziani, appunto, e i minori, i giovani abili alle armi, così che i primi governassero con la saggezza, i secondi con la forza delle armi) ; secondo altri deriverebbe dal nome di Maja, la madre di Mercurio, a cui il mese sarebbe stato dedicato (secondo altri ancora esso era consacrato al dio Apollo).
Nel Medioevo il mese di Maggio veniva rappresentato come un giovane che portava fiori, oppure come un giovane intento a tagliare il fieno.E’ˆ il mese della fioritura, dell’esplosione della natura. E’ il mese del risveglio completo che segue la sonnolenza di Aprile e che precede il fulgore della vicina estate. Il Calendimaggio o Cantar maggio, che trae il nome dal periodo in cui ha luogo, cioè l’inizio di maggio, è una festa stagionale che si tiene per festeggiare l’arrivo della primavera. Il Calendimaggio è una tradizione viva ancor oggi in molte regioni d’Italia come simbolo del ritorno alla vita e della rinascita: fra queste la Liguria, la Lombardia, l’Emilia Romagna, la Toscana, l’Umbria. 
Dopo tutto questo per festeggiare al meglio perchè non fare una visita dal GATTO SCARLATTO  via Benedetto Dei 10 , troverete abiti freschi , magliette dipinte a mano dai meravigliosi colori , vi sentirete delle vere regine indossandole , e poi profumi e bigiotteria , e con  le gonne a tulipano potrete ballare il Maggio in tutta libertà
Maggio mese delle rose , delle spose e delle mamme Maggio il mese dolce per eccellenza ,un periodo nel quale coincidono momenti speciali quinto mese dell’anno nel calendario gregoriano e giuliano:nel dizionario  si trovano queste definizioni :un bel sole di maggio |
0 notes
pangeanews · 6 years
Text
“Era basso, il Duce, ma aveva scarpe con il tacco alto. Io speravo che si accorgesse di me…”: le confidenze di Adele, che conobbe Mussolini
Lo chiamano il ricovero, ma da quando è morto lo gnomo Pierino, caro amico, non sono andato più a trovare gli anziani e gli infermi ospiti in questo luogo di “reclusione” di Fabriano. Ci entro, dopo anni, perché devo intervistare il presidente della casa di riposo Vittorio Emanuele II, come mi è stato commissionato. Mi vengono illustrate le novità, gli interventi strutturali, l’acquisto della mobilia, il reparto della riabilitazione con le attrezzature dove si fa ginnastica tutti i giorni. Mentre prendo appunti, si avvicina con circospezione Adele, che ormai ha quasi cento anni. Cammina speditamente, ma la memoria le provoca uno strano cortocircuito. Non ricorda quasi nulla del presente, eppure sa menzionare dettagli anche insignificanti accaduti quaranta, cinquant’anni fa. Indossa la vestaglia rosso scarlatto anche d’estate, quando scende nel giardino adiacente la casa, dove piange premendo la schiena sulla spalliera di una panchina di marmo. Adele non guarda più il mondo, ed è addolcita solo dalla distanza del tempo passato, dal tumulto dei ricordi. La vestaglia è elegantissima, ha il collo scialle ad incrocio, due tasche ai fianchi, cintura e passanti in morbido pile. Le mani affondano nel vuoto dell’aria, e Adele sorride, prima di piangere. Ce l’ha con la morte, con chi non va mai al cimitero. Dentro la casa di riposo sono in pochi coloro che parlano tra loro. Le donne preferiscono rimanere nelle stanze davanti al televisore con il volume talmente alto da stordire gli infermieri, mentre gli uomini escono a qualunque ora, ma sempre da soli. Se comunicano lo fanno con i cenni. Gli infermi galleggiano come sospesi in un altro mondo.
Villa Gioia, a Civita di Fabriano, frequentata da Benito Mussolini: vi incontrava l’amante, Alice de Fonseca
Mi hanno detto che Adele conosceva casa Pallottelli nella zona di Civita, a Fabriano, dove durante il ventennio fascista Mussolini veniva a far visita alla sua amante, Alice de Fonseca, marchigiana d’adozione ma fiorentina di nascita. Divenne un’ambasciatrice del fascismo, la bella signora il cui marito fu podestà repubblichino di Fabriano. L’edificio è stato costruito agli inizi del Novecento come casa padronale in una vasta area di poderi destinati all’agricoltura. Oggi vi sorge Villa Gioia. Il sito è stato scelto per la posizione climatica, tant’è che vi è ancora uno degli pochi esempi di palma ad un’altitudine di 500 metri. Si può notare una caldaia del 1928, primo esempio di riscaldamento nella città. Durante il periodo di proprietà del podestà Pallottelli, la casa è stata frequentata dal Duce. Intorno agli anni Quaranta la società buona di Fabriano si recava nello splendido parco per prendere il thè.
Adele giura di aver visto il Duce del fascismo, quando aveva quasi vent’anni.
-Adele, ma è vero?- le chiedo accompagnandola a passeggiare nel giardino mentre il sole si leva dai tetti e una coda di vento solletica le sue gambe, sotto la vestaglia.
-Certo, a Fabriano veniva il Duce, e la signora ne era innamorata. Riusciva perfino a fermare i treni.
-Cioè?
–Mussolini scendeva a Vetralla, dove lo aspettavano in carrozza. Arrivava in incognito, a Fabriano.
-E lo hai visto di persona?
-Abitavo da quelle parti. Mio padre faceva l’ortolano, e con un’amica entravamo spesso in casa Pallottelli. La servitù ci regalava sempre qualcosa che avanzava dalle cucine. La vetrata della porta era opaca, ma lo vidi mentre usciva.
-E come facevi a sapere che si trattava di Mussolini?
-Lo dicevano tutti, e quando arrivava c’era un gran fermento, nella casa. Erano indaffarati tanto da non accorgersi che spiavamo dalla finestre. Era basso il Duce, ma aveva le scarpe con il tacco alto. Ricordo un distintivo del fascismo che pendeva dalla sua giacca. La testa era sproporzionata, rispetto al resto del corpo. Sai cosa dicevano con la mia amica Ada? Che se quell’uomo comandava l’Italia non saremmo andati lontano. Ridevamo, dietro i cespugli. Però pensavamo anche che poteva farci diventare famose se ci avesse conosciute, che ci avrebbe potuto introdurre nel mondo del varietà.
-Quante volte lo hai visto?
-Una sola volta, ma so che venne spesso. Era di passaggio, a Fabriano. Andava a riposare al Furlo, che gli piaceva sin da quando di mestiere faceva il giornalista. La forestale volle costruire il suo profilo sulla parete del Pietralata in modo che fosse visibile dal lato di Acqualagna e da quello di Fossombrone. Si poteva scorgere perfino dal mare, e per renderlo luminoso anche di notte venne progettata l’illuminazione, che però non fu mai realizzata. Il monumento suscitò polemiche tra i fascisti, perché parve presentare il Duce in posizione di riposo, mentre era risaputo che Mussolini non dormiva, ma vegliava sui destini dell’Italia.
-E del letto del Duce cosa sai?
-Da Roma a Predappio il viaggio era lungo. Mussolini transitava per il valico appenninico e si fermava appunto sul Furlo. All’albergo “Antico Furlo” c’è ancora la stanza dove il Duce pernottò una cinquantina di volte. C’è il letto dove dormiva, il lavabo dove si sciacquava le mani e la coperta di lana ispida per ripararsi dal freddo. Si mangiano pure i “tagliolini alla Benito Mussolini”, che dicono siano i migliori d’Italia.
-Un giorno ci andremo.
-Vorrei sedermi sul tinello del Duce, prima di morire. Fammi questo regalo, sarà una festa.
-Mantengo sempre le promesse. Ma dimmi, tu eri fascista?
-Non me ne importava niente, capivo ben poco di politica. Ma avrei voluto stringergli la mano, al Duce. Lo sai che fanno ancora a gara per dormire nella stanza di Mussolini? Le coppie dicono che porta fortuna fare l’amore su quel letto. Lasciano una scritta sul muro, di ringraziamento. Ma in pochi sanno che c’è anche un’altra stanza, nell’albergo. Lì una volta soggiornò Togliatti di ritorno dalla Russia. Negli anni Sessanta si fronteggiavano fascisti e comunisti. Chi nella stanza di destra, chi nella stanza di sinistra. C’era il timore che finisse male.
-E la signora Pallotteli com’era?
-Dolce, intelligente. Aveva gli occhi luminosi, una pettinatura curata. Sembrava una dama. Ma anch’io era bella, sai? Se il Duce mi avesse vista l’avrei spuntata io, sarei stata io a fare concorrenza a Claretta Petacci. Vuoi che te lo dica? Ci speravo. Non facevo che gironzolare intorno a quella casa. Se avvistavo una carrozza mi prendeva il batticuore.
-Andremo sul Furlo, durante l’estate. Ci fermeremo una giornata intera e scatteremo fotografie.
-Dicono che il tinello del Duce allunghi la vita. Chiunque ci si siede sente un’energia speciale. Sognavo di presentarmi a Mussolini con i capelli a caschetto lungo, con un tailleur, una giacca severa e una gonna linguette. Oppure con un bellissimo abito da sera scivolato…
Alessandro Moscè
L'articolo “Era basso, il Duce, ma aveva scarpe con il tacco alto. Io speravo che si accorgesse di me…”: le confidenze di Adele, che conobbe Mussolini proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2HIokFh
0 notes
ulrichbloodwar · 7 years
Text
Ezechiele 25, 17.
Ulrich non aveva idea di cose significasse combattere contro un fratello. Iniziò a domandarselo nel momento esatto in qui Aaqa posò i piedi a terra.
In realtà i due non erano fratelli, ma Ulrich percepiva comunque un legame.
Aaqa era uno dei fratelli di Orcus, il mezz'orco che Ulrich aveva incontrato nelle terre fuori Bresa. Colui che per la prima volta lo aveva introdotto alla fede di Ifrit, e con il quale il barbaro si era trovato decisamente in sintonia: i due condividevano il sangue orchesco ed il modo di combattere, prediligendo un grosso spadone da brandire a due mani in mischia. Orcus era morto nel tentativo disperato di vendicare i fratelli uccisi a Bresa dal Corruttore del fato.
Il ricordo della morte di Orcus richiamò nell'animo di Ulrich il profondo senso di fallimento che spesso provava e che gli appesantiva il cuore.
“Cosa penserebbe di me Orcus se uccidessi uno dei suoi fratelli?” si chiese mentalmente il barbaro, senza trovare risposta.
Aaqa alzò lo sguardo in pieno gesto di sfida. <Cosa diavolo ci fate qui?> ostentava sicurezza, ma sapeva di essere stato colto con le mani nel sacco. Aaqa era accompagnato da un piccolo manipolo di coboldi; sicuramente appartenenti della tribù di Eths, nemici di Ifrit; forse era addirittura coinvolto nella scomparsa di Ifrit stesso.
Victor fece un passo in avanti, vicino ad Ulrich. Lo scontro era inevitabile, sganciò il martello dalla cintura.
Ulrich sentì montare la rabbia dentro di sé, il suo respiro si fece più rapido e pesante.
<Cosa ci fai tu, piuttosto. > abbaiò il mezz'orco di rimando. <Hai tradito la tribù?> attese la risposta mostrando i denti aguzzi tipici del sangue orchesco.
Il mantello di Aaqa si animò, trasformandosi in due grandi ali piumate dietro la sua schiena. Ulrich era stato messo in guardia sulla pericolosità di Aaqa e del suo infido stile di combattimento. Le ali si mossero violentemente, una grande massa d'aria venne spostata, muovendo a sua volta terra e polvere intorno ai combattenti. Aaqa arrivò a una decina di metri di altezza, e nel farlo estrasse una pozione dalla cintura. <Non sono affari tuoi mezz'orco. Tu non hai capito nulla della tribù di Ifrit! Non c'è nessun legame che lega i membri della tribù: forza personale e sopravvivenza sono l'unica cosa che conta per tutti loro.> sentenziò stappando la boccetta. <Non m'importa nulla di voi, ma non posso lasciarvi andare.> e detto questo ingurgitò rapidamente il liquido, sicuro di non poter essere disturbato dalla sua posizione sopraelevata.
Ulrich non aveva occhi che per Aaqa, ma Victor osservò meglio il campo di battaglia. Prima che il Tanar'ri riprendesse il volo gli avversari erano separati da un lungo fossato che si perdeva da entrambi i lati nella boscaglia, esso era profondo un metro e mezzo e largo tre. Victor non avrebbe potuto attraversarlo con facilità con la sua pesante armatura, era chiaro quindi che avrebbe dovuto mantenere la posizione e aspettare che fosse Aaqa ad agire. Dietro lui ed Ulrich si nascondevano Lythos, padre Ezechiele e Lady Nulaye. I due combattenti potevano fare da muro verso i compagni, ma Aaqa aveva un vantaggio tattico di mobilità che a loro mancava, avrebbe potuto raggiungere la parte debole del gruppo, e Victor non poteva permetterlo.
Il loro avversario era tuttavia in chiara inferiorità numerica.
Appena Victor fece questo pensiero dalle fronde degli alberi uscirono quattro coboldi armati di balestre. Oltre ad Ulrich e Victor l'unico altro vero combattente era Lythos, quindi avevano perso anche quel vantaggio.
Ulrich estrasse lo spadone da dietro la schiena. <Come vuoi Aaqa, vieni a prenderle!> sentenziò minaccioso, mentre anche Victor posizionava il pesante scudo davanti a sé.
Un istante soltanto fu necessario ad Aaqa per essere addosso al barbaro. La spada del Tanar'ri produsse un lungo taglio lungo braccio sinistro di Ulrich, fendendo prima il cuoio a protezione dell'arto poi parte dei muscoli del bicipite e della spalla. Di reazione il mezz'orco menò un fendente cercando di colpirlo, ma Aaqa era già passato oltre sfruttando lo slancio dato dalla carica in volo.
Victor fu più fortunato, il potere divino che aveva infuso nel suo martello guidò il suo attacco, e il martello diede un colpo violento alla gamba destra di Aaqa, lasciata scoperta dal movimento compiuto dal Tanar'ri. Aaqa continuò e sfruttando la velocità della picchiata riuscì a riprendere quota risalendo fino a tre metri di altezza al sicuro da altri attacchi.
Erano già pronti a prepararsi ad un nuovo attacco in volo, quando diversi quadretti vennero lanciati nella loro direzione. Victor offrì parte della copertura offerta dal suo scudo al compagno, fiducioso che l'armatura in pelle di demone avrebbe comunque fermato le frecce, e così fu. I due erano illesi dall'attacco dei coboldi, tuttavia rischiavano grosso. Alla lunga un colpo fortunato avrebbe potuto colpirli ed avvelenarli, come era successo a Shaper.
<Non questa volta!> urlò Lythos dietro di loro. L'incantatore si era spostato lateralmente, il muro di muscoli che lo aveva difeso, ora intralciava la visuale. La bacchetta di Shaper venne agitata con energia, sulla punta si formò una piccola sfera di luce. <Palla di fuoco!> annunciò Lythos puntando la bacchetta in direzione dei coboldi. La sfera di luce raggiunse l'altra sponda del fossato ed esplose violentemente.
I coboldi vennero tutti sbalzati dall'esplosione, volando a terra, ma solo per uno la palla di fuoco fu fatale; il suo corpo completamente carbonizzato giaceva a terra, un altro risultava pesantemente ferito, e a fatica cercò di alzarsi. Gli ultimi due erano riusciti miracolosamente a salvarsi gettandosi a terra. Erano intontiti e leggermente scottati, ma principalmente illesi.
Lythos guardo la bacchetta. <Shaper sei sempre una delusione.> disse mettendola nella cintura, poi osservò i compagni. <Pensate all'angelo della simpatia; delle lucertole mi occupo io; gli insegno due o tre cosette sul fuoco.> Ulrich e Victor annuirono.
Padre Ezechiele si avvicinò a loro. <Dio è con noi figli miei, non disperate.> sembrava spaventato, ma in qualche modo desiderava dare il suo contributo.
Ulrich sorrise. <”E la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno su coloro che si proveranno ad ammorbare ed infine distruggere i miei fratelli.”> recitò il mezz'orco a memoria.
<conosci un passo della bibbia a memoria, figliolo?> chiese Ezechiele stupito.
<Solo questo versetto padre, me lo ha insegnato Shaper: lo trovava adatto a me.> disse con un sorriso ripensando all'amico. Il vecchio pastore a quella rivelazione si chiuse nei suoi pensieri.
Il barbaro era invece ben presente e osservava Aaqa. La ferita da lui inferta lo indeboliva e pulsava in modo tremendo. Lo spadone si era fatto molto pesante.
<Aspettiamolo qui, quando ripassa lo colpiamo.> suggerì Victor. Ulrich grugnì un segno di approvazione, riluttante. Non gli piaceva combattere in questo modo. C'era dell'altro celato nel malumore del mezz'orco, qualcosa lo preoccupava.  
Ulrich trasse un profondo respiro, una serie di rapide immagini gli riattraversarono la sua mente. La salvezza trovata fuori Bresa grazie al manipolo di Orcus, il ritorno alla città maledetta nel tentativo di ritrovarli, la morte di Grat'tz durante la fuga, il combattimento contro il corruttore del fato e l'assurda morte di Orcus. Il viaggio nelle terre selvagge alla ricerca del rifugiò della tribù, il bosco freddo, l'accoglienza ricevuta da Aaqa, poi quella di Mysk, fino al combattimento nell'arena. Tutti ricordi che avevano il sapore amaro della sconfitta. La perdita era insita in ogni azione che lo aveva condotto nella ricerca di quella verità che sembrava non arrivare mai, a quella fede che faticava a farsi sentire.
Risentì il calore dei fuochi intorno all'arena ed i tamburi suonati dai giovani membri della tribù durante quel combattimento. Sentiva che quell'esperienza l'aveva già vissuta, era nascosta nelle pieghe della sua mente; era dove i tamburi suonavano, era quel suono che aveva sempre salvato e di quello sapeva di potersi fidare.
Per la prima volta i tamburi risuonavano da un ricordo completo e non da vaghi accenni abbandonati. Il suono si fece più costante e ritmico.
“Aaqa ha tradito la tribù, è mio compito uccidere lui e tutti i coboldi nella città abbandonata. È questo che farebbe Orcus. Lui era fedele ai suoi compagni.” decise Ulrich, fu l'ultimo pensiero cosciente della sua mente.
Aaqa non si fece attendere oltre, il suo movimento non si fermò. Muovendo le ali compì una virata stretta volgendosi di nuovo contro i suoi avversari e scese nuovamente in picchiata. Questa volta Ulrich era pronto. I due combattenti calarono le spade contemporaneamente, nessuno dei sue si preoccupò di opporre una difesa all'attacco dell'avversario.
Il mezz'orco mosse lo spadone in un poderoso affondo. La spada penetrò facilmente la difesa del Tanar'ri procurando un profondo taglio al fianco sinistro. Aaqa fece una smorfia di dolore, ma con un fendente verticale cercò di colpire in testa Ulrich. Fortunatamente con un rapido riflesso Ulrich tolse la testa dalla traiettoria della lama che impattò contro la spalliera dell'armatura leggera del mezz'orco. La forza del colpo venne trasmessa ai muscoli e alle ossa, era un colpo doloroso, ma non mortale.
Victor, temendo di colpire il compagno ebbe un istante di esitazione, il suo martello sfiorò Aaqa mentre stava già risalendo verso una posizione più sicura.
Un raggio scarlatto scaturì dalle mani di Lythos e colpì il coboldo già ferito. Il raggiò lo trafisse generando un buco nel suo petto. Il coboldo crollò a terra mentre cercava di ricaricare la balestra. Gli altri due si erano rialzati ed avevano sparato i loro dardi verso l'incantatore. Entrambi lo avevano colpito, ma non in modo grave.
La situazione era abbastanza svantaggiosa per l'incantatore. Doveva finire i coboldi uno per volta; ci sarebbe voluto tempo e lui non poteva fare da puntaspilli a lungo. Un violento brivido scosse le sue membra, un forte senso di freddo si sparse lungo il torace che però si spense rapidamente come era venuto: era riuscito a resistere al veleno.
Era stato fortunato, se avessero continuato a colpirlo lo avrebbero steso. Lythos osservò il combattimento principale: Victor ed Ulrich sembravano essere in difficoltà contro Aaqa, era un bastardo sfuggevole.
Ebbe un'idea. Una di quelle idee rischiose che venivano spesso in mente a Shaper.
Sospirando disse: <Dannato vecchiaccio, spero che il tuo diuccio sia davvero con noi.> e rivolse la sua attenzione ad Aaqa, i coboldi erano impegnati nell'ingrato compito di ricaricare le balestre, Lythos poteva contare su alcuni istanti di vantaggio. Raccolse le energie per generare la deflagrazione che normalmente sfruttava a piacimento, ma mentre lo faceva aggiunse alcune parole nella lingua infernale: < A tutti coloro che esistono e seguono le leggi del tempo e della natura. Io sterminerò razze, distruggerò stirpi e spezzerò dinastie.  > Le parole influirono sul potere del warlock potenziandolo ulteriormente, si rivolse direttamente ad Aaqa nella lingua infernale <e tu che sei il mio nemico sei solo un cadavere abbandonato sull'argine di una storia senza importanza, quella dei mortali.> Gli occhi di Lythos si fecero luminosi come bracieri e il voltò fu stravolto da una smorfia impossibile da ricreare da muscoli umani. La bocca era aperta oltre il naturale e dal fondo della sua gola scaturiva una tenue luce calda. Nonostante l'innaturale smorfia sembrava rendere più difficoltoso parlare, la lingua infernale ne veniva agevolata, l'incantatore pronunciò: <Fuoco infernale.> L'energia si animò nuovamente. Lythos concentrò tutto il potere nel palmo sinistro della mano e la diresse contro Aaqa. Il raggio colpì il bersaglio al torace generando un buco tra il petto e la spalla del Tanar'ri. Aaqa urlò di dolore. Egli si voltò improvvisamente verso di lui.
Il volto del Tanar'ri era colmo di rabbia. <Tu! Piccolo vigliacco! > disse osservando la ferita. Il foro era piccolo, ma da esso si spargeva una bruciatura piuttosto grave. Fortunosamente per lui non era il braccio della spada.
Aaqa si scagliò in una violenta carica verso Lythos, il quale oppose una minima resistenza. La spada taglio in profondità la spalla destra del Warlock tagliando vesti, carne ed ossa. Dopo il colpo, Aaqa passò oltre.
Lythos granò gli occhi osservando la ferita, crollo a terra un istante dopo in una pozza di sangue.
<Lythos!> urlò Victor. Ora la situazione era ancora peggiorata. Iniziava a preoccuparsi di come ne sarebbero usciti vivi, passo lo sguardo dietro di sé. Sia padre Ezechiele che Lady Nulaye erano spaventati a morte.
Doveva salvarla a tutti i costi.
Cercando di coglierlo alla sprovvista gli ultimi due coboldi spararono al paladino, ma ancora una volta l'armatura fece da protezione.
L'ennesima fallimento fece spazientire i due mostri che gettarono a terra le balestre ed estrassero due spade corte mentre si avvicinavano alla sporgenza del fossato, scesero sul fondo e iniziarono a strillare qualcosa. Victor non conosceva la loro lingua, ma forse aveva intuito il senso del discorso. Stavano avvertendo Aaqa: la sfera che rotolava all'interno del fossato stava arrivando. <Credo che la palla stia arrivando> suggerì al mezz'orco.
Aaqa fermò il suo volo a mezz'aria, osservò Ulrich indicando il corpo di Lythos. <Non puoi fare nulla mezz'orco! Tutto ciò in cui credi, tutto ciò in cui credeva Orcus è spazzatura! La fede di mio fratello si è spezzata e la tua è nata morta.> sentenziò con un ampio gesto della mano. Poi estrasse un'altra boccetta e ne bevve il contenuto. Alcune delle sue ferite vennero guarite.
Il cuore di Victor sprofondò nella disperazione. Due coboldi stavano attraversando il fossato e presto il avrebbero raggiunti. Lythos era caduto ed Ulrich era pesantemente ferito. Grazie al pesante scudo lui forse avrebbe resistito molto più a lungo, ma solamente per vedere morire i suoi amici uno dopo l'altro, ancora una volta era in grado di proteggere solo se stesso.
Invece che caricare Aaqa scese sul fondo del fossato, dalla parte opposta alla loro, in modo da poter comunicare con Ulrich. <Vieni fratello, vieni a combattere a terra! Non puoi vincere se continuo a volare!>
Era una trappola, Ulrich lo sapeva, nonostante la frenesia da battaglia la sua mente fu abbastanza lucida da capirlo e decise di attendere dalla sua posizione.  <Non ci casco Aaqa, vieni tu qui a combattere ad armi pari!> abbaiò il barbaro.
Aaqa scosse la testa, il mezz'orco non aveva mangiato la foglia, poco male. Ormai la sfera era in arrivo. Era un globo traslucido di un materiale a metà tra il liquido ed il solido. Ulrich non era sicuro che potesse danneggiare Aaqa, ma era forse il metodo più rapido per porre fine al combattimento. Senza il loro capo  i coboldi si sarebbero sparpagliati fuggendo.
Aaqa apri le ali <Non siamo ancora ad armi pari!> urlò con forza caricando Ulrich. Il barbaro aprì la guardia permettendo all'avversario di infliggergli una profonda ferita al fianco. Con il braccio e la spada cercò di intrappolare Aaqa in una presa ravvicinata bloccando la sua spada tra il fianco ferito e il suo spadone. Ora il Tanar'ri era abbastanza vicino perché Ulrich gli assestasse due forti pugni in faccia. Aaqa incassò i colpi rimanendo leggermente stordito. Approfittando dello stato confusionale dell'avversario il mezz'orco liberò la spada e con entrambe le mani cercò di dare una violenta spinta al suo avversario tentando di spingerlo nel fossato proprio mentre passava la sfera.
I pugni purtroppo non avevano stordito abbastanza a lungo Aaqa che riuscì ad opporre una forte resistenza. Le sue ferite erano state curate a differenza di quelle di Ulrich che era sanguinava piuttosto gravemente.
Aaqa sorrise quando si rese conto del vantaggio, calciò violentemente Ulrich all'addome facendolo crollare a terra poco distante da lui.
Aaqa rise di gusto vedendo a terra il mezz'orco che boccheggiava nella polvere <fuori uno!> annunciò, e si voltò verso Victor che teneva alto lo scudo. Una difesa quasi impenetrabile per un attacco frontale. Aaqa si mosse rapido spostandosi a lato di Victor, gli bastò un istante per essere al suo fianco. La spada si conficcò tra le placche dell'armatura. <Ti ho preso!> disse ridacchiando. Victor si voltò subito porgendo nuovamente lo scudo contro di lui, Aaqa provò un nuovo affondo che questa volta colpì lo scudo. Il Tanar'ri sorrise, <sarà un giochino lungo, ma alla fine ti prenderò per stanchezza.>
Una follia. Il possente Ulrich a terra, come avrebbero fatto? Padre Ezechiele era terrorizzato. Quel maledetto demonio li avrebbe uccisi tutti, perché dio li aveva abbandonati? Il vecchio sacerdote osservò Ulrich sporco di terra, polvere e sangue che cercava di trovare le forze e rialzarsi. Le sue ferite sembravano piuttosto serie, ma qualcosa si leggeva in profondità nel suo volto. Stava cedendo, si stava arrendendo.
La pozza di sangue su cui giaceva Lythos si stava lentamente allargando, l'incantatore non ne aveva per molto.
Perché Dio aveva abbandonato lui e quei ragazzi? Nessuno di loro credeva davvero in Dio, lui lo sapeva, ma tutti credevano in qualcosa. E quel qualcosa li portava a proteggere i deboli, ad essere misericordiosi e a distruggere il maligno. Quei ragazzi credevano in Dio seppur chiamandolo in altro modo. Allora perché Dio li aveva abbandonati? Si era offeso per così poco?
Padre Ezechiele era anziano e la sua mente non lavorava bene, eppure un pensiero lo scosse. <Dio non li ha abbandonati. Io sono l'aiuto di Dio per loro...nella mia autocommiserazione non mi sono accorto di tutto questo. Non ho tradito Dio aiutando questi ragazzi, l'ho tradito non aiutandoli.> disse fra sé e sé queste parole che solo Lady Nulaye poteva sentire.
<Padre nostro che sei nei cieli...> iniziò a recitare mentre muoveva le sue vecchie membra verso il mezz'orco. Ogni passo era incerto e doloroso, ma presto fu al capezzale del giovane guerriero. Impose le sue mani sulle spalle di Ulrich. <...concedi a questo ragazzo la forza di un toro. Così che la sua vendetta possa abbattere colui che cerca di distruggere la nostra famiglia. > Il potere divino si espanse nel corpo martoriato. <Vai ragazzo, puoi farcela. Dio è con te, Ifrit è con te, il dio di tutte le cose taglienti è con te. Vai ad aiutare Victor perlamisericordiadeicieli!> fu l'incoraggiamento di padre Ezechiele per Ulrich che finalmente riuscì ad alzarsi in piedi.
Appena mazz'orco fu di nuovo in piedi, il padre si mosse ancora per andare ad aiutare Lythos, per raggiungerlo calpesto l'erba intrisa di sangue. <..quale sacrificio hai compiuto ragazzo mio, non puoi morire così.> disse inginocchiandosi vicino a lui. La mano grinzosa e tremante si appoggiò sulla guancia del Warlock con fare paterno. <Padre dei cieli, la misericordia nel tuo nome e nei nostri cuori. Salva lui e tutti noi.> disse sottovoce. La magia divina si attivò immediatamente riformando ossa spezzate e muscoli. Lythos apri debolmente gli occhi. <Ben tornato tra noi.> sussurrò il padre.
Ulrich era ancora ferito, ma la sua forza era stava risanata dalle parole e dalla magia di padre Ezechiele. Victor stava cercando di resistere al balletto mortale in cui Aaqa lo aveva trascinato. Il Tanar'ri era veloce e qualche volta riusciva ad infilarsi nella guardia del paladino.
Il barbaro si rese conto di essere disarmato, la sua spada gli era sfuggita quando Aaqa lo aveva colpito; aveva solo una possibilità: estrasse lo spadone di Orcus.
L'arma non era magica, ma era di buona fattura seppur essenziale nei dettagli di guardia e pomo. Orcus era un tipo dai pochi fronzoli. Ulrich con quella lama aveva già abbattuto un membro della tribù di Ifrit: Mysk.
Doveva ripetere l'impresa.
Doveva scegliere il momento adatto, ma il barbaro tentennava, i tamburi iniziarono a farsi più forti e un canto ritmico si aggiunse ai colpi di percussione. Capì che era quello il momento di agire, Ulrich impugnò lo spadone e si volse alla carica. Aaqa gli dava le spalle ed era concentrato nel trovare un varco nella difesa di Victor quando si ritrovò il mezz'orco alle spalle. Un violento fendente aprì un lungo tagliò lungo la schiena di Aaqa, in mezzo alle due ali. Il Tanar'ri il voltò urlando di dolore alzando la spada in difesa.
Ulrich era totalmente in balia dell'ira. Una folle frenesia combattiva muoveva il suo corpo oltre il suo stesso pensiero. La rabbia che non aveva trovato sfogo prima si stava scatenando ora. I colpi erano violenti e rapidi, Aaqa riuscì a pararne un paio indietreggiando, poi perse la spada e l'arma del mezz'orco fendette la carne del torace, dalla coscia alla spalla opposta. Il taglio era esteso e profondo. Aaqa rimase intontito dal dolore, un istante dopo si ritrovò mezzo spadone nelle viscere. Ulrich affondò la lama avvicinandosi al Tanar'ri che boccheggiava sputando sangue. <Non ferirai più nessuno di questa famiglia!> abbaiò e con un calcio sfilò lo spadone dal corpo del nemico che cadde senza vita nel fosso.
Ulrich era riuscito a fermare Aaqa, ma ancora due coboldi erano in giro. Victor si rallegrò voltandosi finalmente verso i due, ma si stupì di non vederli.
<Davanti a te, sono invisibili...> spiegò Lythos con un filo di voce, cercando di alzarsi.
Qualcosa colpì la sua armatura, uno dei coboldi era riuscito a superare la sua guardia, ma le placche demoniache erano comunque riuscite a difenderlo, subito dopo l'attacco il coboldo tornò visibile. Iniziò ad imprecare nella sua lingua. Victor abbatté con forza il martello sul braccio armato dell'avversario che lasciò cadere la daga. Spaventato e ferito il coboldo si allontanò rapidamente da Victor e scappò nella foresta.
Visto il fallimento del compagno, l'altro coboldo non tentò neppure un attacco. Scappò ancora sotto gli effetti dell'invisibilità.
Fu Lythos ad annunciare che i nemici si erano dati alla fuga.
Aaqa era appena caduto nel fossato, ed Ulrich lo aveva seguito immediatamente, disinteressandosi dei coboldi. La sua mente stava tornando ad essere lucida, temeva di non aver inflitto un colpo mortale all'avversario e si avvicinò per quello di grazia.
Il corpo di Aaqa era a terra coperto di sangue, ma ancora si muoveva cercando di recuperare la sua spada. Il pesante stivale di Ulrich bloccò quell'ultimo patetico tentativo. Le parole che uscirono dalle labbra del Tanar'ri erano bagnate nel sangue. <sei solo un pazzo...>.
La spada di Orcus si fece spazio fino ad arrivare al cuore di Aaqa spezzando definitivamente la sua vita.
Senso di giustizia e sensi di colpa attorniavano in equa misura il cuore del mezz'orco. Due facce della stessa uccisione: la morte di un fratello colpevole di tradimento.
Ulrich sprofondò di nuovo nel dubbio, la sicurezza che aveva trovato in combattimento lo aveva lasciato nuovamente orfano di risposte. Non sapeva spiegarlo nemmeno a sé stesso, ma sapeva che, anche se aveva ucciso il proprio nemico, aveva perso.
Ulrich aveva perso un altro fratello e con lui l'ennesima possibilità di capire cosa significasse credere in Ifrit o in qualsiasi altra cosa.  
Il barbaro si riunì ai suoi compagni trascinando con sé il corpo di Aaqa; il mantello sarebbe stato usato da uno di loro, la spada l'avrebbero probabilmente venduta e lui avrebbe seppellito il corpo del Tanar'ri.
Ulrich osservò i suoi compagni, la disperazione di pochi istanti prima si attenuò un po', quello che più contava era ciò che aveva salvato valeva molto di più di ciò che aveva perso.
0 notes
lilacs-diary · 7 years
Photo
Tumblr media
/ about. ❛ Potente Kushiel di sferza armato ultimo dei bronzei portali col dardo tuo acuto di sangue macchiato pungi l’occhi ai prescelti mortali. ❜ Correva l’anno 1780 in quel dì francese della Corte della Notte, quando per la prima volta si udì il pianto di un neonato provenire dalla finestra di un’anonima abitazione situata ai piedi della collina: non la massima aspirazione per una donna istruita al lusso, ma sicuramente risultava esserlo per un mediocre mercante dell’epoca. Quella notte la luna era alta nel cielo, e la luce di mille e più stelle illuminava il letto a baldacchino dalle lenzuola color panna: Lilian de Merliot stringeva tra le braccia una creatura dalle dimensioni di un minuscolo fagotto, di cui si riusciva a scorgere esclusivamente un ciuffo di capelli scuri. Poi ci fu il vuoto. La creatura era bella, bellissima, tranne che per una minuscola, crudele imperfezione, che per quanto piccola ed insignificante le costò un’infanzia infelice in un’isolata casa di Grenoble, sino ai cinque anni – sino a quando non fu abbastanza grande da poter essere portata altrove. Il giorno del suo quinto compleanno, difatti, ambo i suoi genitori decisero di portarla alla già precedentemente nominata Corte della Notte, precisamente a Casa Cereo, per tenerla lontana da se stessi e per permetterle di vivere una vita di lussi ed agi, di insegnamenti. « Ma è imperfetta » furono le parole della priora. I lineamenti del suo viso rispecchiavano quelli di sua madre, come una miniatura perfettamente intagliata; l’incarnato, sebbene troppo chiaro per i canoni di Casa Cereo, era di una sfumatura d’avorio più che accettabile. Ed i capelli, che crescevano in una piacevole profusione di ricci, eran più scuri della notte stessa: in alcune Case, questa era vista come una caratteristica affascinante. Gli arti erano dritti e flessuosi, le ossa — una meraviglia di delicato vigore. I suoi occhi, una volta raggiunta la tonalità definitiva, erano della sfumatura che i pittori ed i poeti usan appellare come “acqua marina”: una tinta intensa, profonda e luminosa, simile a quella di uno stagno nel cuore di una foresta, ombreggiato da antiche querce. Turchese, quindi; intenso, liquido & brillante, ma con un’imperfezione. Turchese, eccetto che nell’occhio destro, nella cui iride brillava una macchia di colore differente: rosso, per quanto dire “rosso” non sia sufficiente a descriverne la brillantezza. Meglio definirlo scarlatto, o cremisi, più rosso dei bargigli di un galletto o della mela glassata in bocca ad un maialino arrosto. « Ti prego, Miriam, è figlia mia! » E fu così che ella l’accolse, ma ad una condizione: avrebbe sempre dovuto tenere gli occhi bassi. Mai, mai e poi mai issare lo sguardo in compagnia di altre persone. Fu così, dunque, che ella trascorse i successivi otto anni: istruita e trattata alla stregua di nobili e ricchi, con un’unica, importante, differenza. Gli adepti della Corte eran dunque costretti ad imparare e tramandare attraverso i secoli i doni di Namaah, tant’è che tutti, uomini e donne, venivano istruiti all’arte del dare piacere. Ma come le regole esordivano, non appena compì dodici anni alla porta della sua stanza apparve un uomo di bell’aspetto, più vicino ai trenta che ai venti: era alto, bello, con lunghi capelli bruni ed occhi verdi come il prato. Era lì per adottarla, per acquistarla, nonostante quegli strani occhi cerulei screziati di cremisi – in netto contrasto con i suoi capelli corvini. « Miriam, hai tra le mani un’anguisette*, una vera anguisette! Guarda come trema, persino ora, persa tra paura e desiderio! Dovresti migliorare gli archivi. » Furono queste, le parole che segnarono l’inizio della vita di Aurora Lacroix nó Delaunay. Anafiel Delaunay la accudì e la trattò come una figlia, alla stregua del dolce e bello Anachin, figlio biologico dell’uomo, con l’unica differenza che s’impegnò a fondo per renderla un’ottima amante ed un’egregia spia, riuscendo ad insegnarle come sfruttare al meglio i doni ricevuti, alla nascita, da Kushiel. Le insegnò a percepire i sentimenti delle persone sfruttando le linee di sangue che la univano al Castigatore di Satana, ad udire anche il più sottile dei rumori. Ed Aurora, al contempo, vi si affezionò. A quattordici anni fece in modo di dare una festa in suo onore al Palazzo Reale, comprensiva di un’asta per la sua verginità. Questa la vinse una donna, Mélisande Shahrizai, che fece render conto ad Aurora di cosa significasse in realtà quel dardo posato nella sua iride destra, e che la fece innamorare – per poi spezzarle il cuore. Da quel momento, venne da sempre considerata ed appellata come “l’anguisette di Delaunay”, la “spia della regina Ysandre” e la miglior cortigiana del Regno. Tutto ebbe fine, però, mentre un giorno tornava alla villa di città a seguito di un’assegnazione: l’intera Grenoble era in subbuglio, a causa della morte dell’amante del principe Rolande. Aurora trovò il suo corpo nell’enorme libreria di casa insieme a quello di Anachin, ed era intenta a piangere sul suo corpo martoriato quando il buio l’assopì. Al suo risveglio, che probabilmente avvenne dopo ore o forse giorni, la sua natura era mutata: non era più una semplice umana, e per vivere aveva bisogno di sangue. Sarebbe rimasta una ventunenne per il resto della sua esistenza. Iniziò dunque a vagare in giro per il mondo senza meta alcuna, lasciandosi alle spalle una scia continua di sangue, morte e distruzione. Fu solo secoli dopo che riuscì a stabilirsi nuovamente. La sua ultima tappa fu Londra, dove con forza e coraggio rimise insieme i pezzi del suo cuore martoriato, riuscendo a gettarsi alle spalle la vita ch’aveva vissuto. Ciò avvenne, soprattutto, grazie ad una famiglia di lupi che con coraggio ed amore l’adottò, donandole un fratello che ella amerà sempre, senza se e senza ma, forse persino più di quanto si dovrebbe. Ma ad aiutarla fu sicuramente il suo vecchio amante, colui che Aurora ha nel tempo amato più di chiunque altro ed al di sopra di qualsiasi altra cosa – colui che l’ha aiutata a crescere, a maturare, ad essere più di un’eterna giovane donna; colui che l’ha compresa, accettata, amata. Colui che dalle spalle le ha risollevato il peso di una terribile maledizione, colui grazie alla quale ella, in futuro, potrà osservare il proprio riflesso nello specchio senza doversi necessariamente piegarsi alla volontà di quella macchia scarlatta. Colui grazie alla quale nelle sue vene tutt’oggi scorre sangue demoniaco. Colui che l’ha portata ad andare via, a ritornare alle vecchie abitudini, nel momento in cui le loro strade si sono separate. Prima che ella si decidesse a tornare. *anguisette: mortali scelti da Kushiel, il Castigatore di Satana, per impostare un ritorno di equilibrio nel mondo. Essi sono marchiati con un granello rosso negli occhi, indicato come una ferita non guarita. Sono essenzialmente masochisti estremi, che trovano piacere nel dolore, ed hanno il vantaggio di guarire rapidamente. Chi uccide un’anguisette sarà all’inferno tormentato per mille anni; tuttavia, se il killer è un rampollo di Kushiel, sarà tormentato per diecimila anni. ‧ ( © ) ━ text. mansione a George Craig per l’ultima parte di trama ;
0 notes