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tempi-dispari · 7 months ago
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Ai Groove Suicidal Tendencies la storia del metal e dell'hardcore
Nella storia della musica alternativa, poche band possono vantare l’impatto rivoluzionario dei Suicidal Tendencies. Nati a Venice, California, nel 1980, i Suicidal hanno segnato un punto di svolta per due generi apparentemente lontani: l’hardcore punk e il thrash metal. Con il loro stile inconfondibile, hanno contribuito a definire una nuova identità sonora che ha ispirato generazioni di musicisti.
Un debutto che ha cambiato tutto
L’album omonimo del 1983, Suicidal Tendencies, è considerato uno dei pilastri dell’hardcore punk. Brani come “Institutionalized” e “I Saw Your Mommy” sono diventati inni di ribellione giovanile, raccontando con crudo realismo il disagio della periferia americana. La loro miscela di velocità punk, liriche sarcastiche e un’attitudine spavalda è stata una ventata d’aria fresca in un panorama dominato da cliché.
“Quella rabbia e quella sincerità hanno fatto scuola”, ha dichiarato Lars Ulrich dei Metallica in un’intervista del 2016. “I Suicidal ci hanno mostrato che si poteva essere estremi senza perdere il senso dell’ironia.”
La svolta crossover
Se l’esordio era profondamente radicato nell’hardcore, con Join the Army (1987) i Suicidal Tendencies iniziarono a esplorare territori più complessi, gettando le basi del crossover thrash. L’album mescola la furia del punk con le strutture più articolate del metal, anticipando un genere che avrebbe preso piede con band come D.R.I., Anthrax e Corrosion of Conformity.
Il vero capolavoro arriva nel 1988 con How Will I Laugh Tomorrow When I Can’t Even Smile Today. Questo disco segna l’ingresso definitivo nel thrash metal, con riff aggressivi, assoli tecnici e testi introspettivi che esplorano temi come depressione e alienazione. Brani come la title track e “Trip at the Brain” sono esempi perfetti della loro evoluzione artistica.
Kerry King degli Slayer, in un’intervista, ha definito l’album “un ponte tra il punk e il metal, un disco che ha cambiato le regole del gioco”.
La stagione funk metal
Negli anni ’90, i Suicidal Tendencies hanno dimostrato ancora una volta la loro capacità di reinventarsi. Con album come Lights… Camera… Revolution! (1990) e The Art of Rebellion (1992), hanno incorporato elementi funk e groove, anticipando l’esplosione del nu-metal e influenzando band come Korn e Deftones.
Il contributo del bassista Robert Trujillo, entrato nella band nel 1989, è stato fondamentale. Il suo stile dinamico e innovativo ha portato i Suicidal a esplorare nuove frontiere sonore, rendendo brani come “You Can’t Bring Me Down” dei classici senza tempo.
Un’eredità indelebile
L’impatto dei Suicidal Tendencies non si limita alla musica. La loro estetica, dai cappellini “flip-up” alle bandane, ha contribuito a creare uno stile unico che ha influenzato sottoculture come lo skate punk e la scena hardcore californiana. La loro presenza sui palchi, energica e magnetica, ha ispirato band in tutto il mondo a osare e a sperimentare.
Come ha sottolineato Mike Muir, carismatico frontman della band, “Non ci siamo mai sentiti parte di un solo genere. Abbiamo sempre fatto ciò che ci sembrava giusto, ed è questo che ci ha permesso di sopravvivere.”
Riconoscimenti e influenze
I Suicidal Tendencies sono stati citati come ispirazione da artisti di ogni genere, dai System of a Down ai Foo Fighters. Dave Grohl, in un’intervista del 2008, li ha definiti “la quintessenza della libertà musicale”, mentre Jonathan Davis dei Korn ha dichiarato che “senza di loro, il nu-metal non sarebbe mai esistito”.
Ad oggi, la band continua a suonare e a pubblicare musica, dimostrando una longevità rara nel panorama alternativo. La loro capacità di adattarsi ai cambiamenti, mantenendo intatta la propria identità, è una testimonianza della loro grandezza.
Con i Suicidal Tendencies, non si parla solo di musica, ma di una filosofia: quella di abbattere le barriere, sia sonore che culturali. Un messaggio che, a oltre quarant’anni dalla loro nascita, risuona ancora potente e attuale.
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tempi-dispari · 7 months ago
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La favola della fratellanza nel metal e nella scena underground.
Praticamente da sempre si è sbandierata ai quattro venti la mitologica leggenda che nel metal esiste una compattezza, un’unione che non si trova in nessun altro movimento, o quasi. Ma davvero è così? Veramente i metallari sono talmente compatti da formare un corpo unico, indissolubile e fortissimo? Davvero non ci sono spaccature dissidi, competizioni di sorta? Sul serio l’underground è così fortemente unito?
La risposta è no. Non è vero. Sono fandonie che si raccontano da una vita. Il bello è che le divisioni interne, le lotte intestine, si sono verificate fin da subito. Tu ascolti glam quindi non capisci nulla di musica. Quelle sono band per ragazzine. Oppure, se ascolti thrash ti piace il rumore. O ancora, se senti black sei satanista e un disadattato e così via. E sono guerre che sono continuare per anni. Fino a quando il mondo metal ha iniziato a collassare commercialmente e ci si è resi conto che forse certe distinzioni erano inutili. Tuttavia la fratellanza tanto diffusa, non si è ugualmente creata.
Sono emersi i defenders, ossia quelli che difendono a spada tratta tutto ciò che fa parte del mondo metal. A prescindere. Se si tratta di classici, chiunque è diventato intoccabile. Che si parli di Cannibale Corpse o di Kiss, dei Death o dei van Halen, non sono criticabili. Quantomeno da chi lo fa esternamente al panorama di riferimento. Tuttavia la mentalità non si è modificata.
Anzi, si è incancrenita trasformandosi in una inutile quanto stucchevole gara a chi ne sa di più, chi ascolta le band più complesse, solo quelle fanno vera musica, per finire con chi conosce il gruppo più sconosciuto del mondo che se solo emergesse farebbe sfaceli. E si combatte a suon di critiche, post, risposte caustiche, commenti al vetriolo. Dov’è finita la fratellanza, la compattezza, il rispetto per le opinioni altrui? Nella lotta al celodurismo.
Non va poi dimenticato tutto il sottobosco underground dove queste guerre sono all’ordine del giorno. Soprattutto sono inasprite da scontri diretti, boicottaggi. Sono alimentate da invidie e inutili paragoni. Se il gruppo x di persone che conosco diventa famoso più del gruppo y in cui suono, non è per merito, ma è per fortuna. Chi sa chi hanno pagato per arrivare fin o a lì. Si sono commercializzati e quindi fanno musica di poco valore. Diversamente non sarebbero mai riusciti ad emergere. Noi si che siamo puri. Non ci venderemo mai alla commercializzazione. Siamo coerenti, noi.
O, ancora: perché dovrei andare a sentire la band tal dei tali e far crescere il loro pubblico quando alle mie serate ci viene poco pubblico? Non ci vado. Siamo tutti nella stessa barca. Poco pubblico noi, poco pubblico loro. E poi sono degli sfigati venduti. Proseguendo: perché dovrei collaborare con tizio? Solo perché è più bravo di me? Se ci lavoro assieme poi vengo sminuito. Poi: ma hai visto il gruppo Caio? Si sono messi a fare i video sui social.
Che sfigati. Invece di pensare a suonare e a promuovere la propria musica fanno i finti creator. Tanto lo sanno tutti che è inutile e che il fenomeno web prima o poi si sgonfia. I loro brani così girano? Si ma tanto poi non se li cagherà nessuno nei live. Salgono gli ascolti sulle piattaforme di diffusione musicale? Hanno gonfiato i numeri di sicuro. Oggi si possono comprare i like e gli apprezzamenti. E così via. Che fratellanza è? Dove sta il supporto? Dove la compattezza? Per fortuna non tutti sono così.
Ma la maggior parte si. Eppure, consci di ciò, in ogni caso ci si fregia della favoletta dell’essere uniti sotto un’unica bandiera. In verità esiste un caso in cui ciò accade. Quando si deve difendere il mondo rock e metal dagli attacchi esterni. In quel caso tutti compatti, o quasi. Tutti pronti ad issare barricate bucherellate e traballanti contro il nemico comune. La verità è che il ‘pericolo’ non arriva da fuori. Non è un fenomeno esterno a star distruggendo mondo metal.
Come Cripton, mondo metal sta implodendo a causa delle guerre intestine. L’aspetto peggiore è che nessuno fa nulla. Va tutto bene. Siamo una grande famiglia… con i coltelli in mano. Una famiglia pronta ad affogare chi sta annegando o a tirare giù a forza chi sta prendendo il volo. Sarebbe ora di smetterla di raccontarci frottole, di attaccarci ad una realtà che ci piacerebbe esistesse ma che non c’è e non c’è mai stata.
Si dovrebbe prendere atto che per fare il bene della musica che tanto si ama, o si dice di amare, si deve invertire la tendenza. Il problema è che questo modo di fare è talmente incancrenito, solidificato, che smontarlo senza un’azione congiunta è impossibile. E un’azione congiunta non si può fare perché, alla fin dei conti, a pochi interessa davvero della musica. Meglio inutili lotte.
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tempi-dispari · 7 months ago
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Nick McBrain ha lasciato i Maiden: era ora
Da più parti l’abbandono di Nicko McBrain ha suscitato stupore, dolore, tristezza. Io dico, meno male che ha lasciato. Meno male perché dopo tutti i problemi di salute che lo hanno coinvolto, non avrebbe certo proseguire. Meno male perché, a 72 anni, 72, reggere un intero tour non deve essere facile. Se non lo è per gli altri musicisti, ancor peggio è per un batterista. Meno male perché ha dato tutto quello che doveva e poteva e anche di più.
Meno male perché il tempo passa per tutti e conoscere i propri limiti è fondamentale. Da dove quindi la tristezza? Umanamente non si può essere tristi per un uomo che pensa prima alla propria salute. Artisticamente neppure. A 72 anni, cosa potrebbe ancora dare alla musica? Sembra un discorso cinico, ma non lo è. Oggettivamente, cosa avrebbe mai potuto aggiungere al mondo Maiden? Poco o nulla. Non foss’altro che per sopraggiunti limiti fisici anche se non avesse avuto problemi di salute.
Oggi la musica va in altre direzioni. Lui sarebbe stato il vessillo imperituro dei nostalgici. Dal mio punto di vista la tristezza e il dispiacere arrivano da un mero discorso egoistico da parte di chi lo segue. Non si deve ritirare perché io voglio ancora ascoltare la sua musica. Deve rimanere in attività fino alla morte perché se lui smette devo ammettere che il tempo è passato e passa anche per me. Devo fare i conti con quello che sono adesso. Non deve smettere perché vorrebbe dire che è finita la mia giovinezza.
Si sono persi per sempre i miei vent’anni. Ma i vent’anni si sono persi da un pezzo. Cercare di tenerli in vita in maniera artificiale non porta da nessuna parte. Anzi. Ci fa perdere ciò che di buono c’è anche oggi. Aggrapparsi con le unghie e con i denti a ciò che è stato non fermerà il tempo. La vita scorrerà lo stesso. E mentre noi siamo ancorati ad un tempo che non c’è più accanto passerà ottima musica che non riusciremo ad ascoltare.
Posso capire il dispiacere per dipartite premature di artisti che oggettivamente avrebbero potuto dare ancora molto. Per chi ha deciso di farla finita nonostante tutto. Il dolore del vuoto lasciato. Non capisco tanto rumore per un meritato pensionamento. Un esempio ed una strada che dovrebbero prendere anche gli altri elementi della band. E non solo di questa. Avete fatto la storia, questo nessuno lo può cancellare, ma adesso siete altro. ‘Ma così toglieresti la possibilità alle nuove generazioni di vedere dal vivo un pezzo fondamentale del metal!’.
No, si eviterebbe solo ai giovani di assistere allo spettacolo patetico di vedere live una tribute band. Inutile girarci attorno, per moltissimi gruppi storici la musica non è più espressione di se stessi. È diventato solo un lavoro. Un modo per guadagnarsi da vivere. Campano dei fasti una volta. Sull’onda lunghissima di ciò che sono stati. Le nuove generazioni cosa potranno mai apprezzare di un manipolo di pensionati che cerca di suonare come se gli anni non fossero trascorsi? Con quali occhi vedrebbero questo spettacolo?
Con uno sguardo di ammirazione o, piuttosto, di compassione e simpatia? I giovani sono abituati ad altro. Come lo eravamo noi quando avevamo vent’anni. Ai nostri tempi giudicavamo la musica dei nostri genitori vecchia e mai ci saremmo sognati di andare a vedere un concerto dei loro beniamini. Lo avremmo fatto per accontentarli. Ma non saremmo mai riusciti ad apprezzarli a dovere. Perché per i giovani d’oggi dovrebbe essere diverso? Solo perché, questa volta, i beniamini sono i nostri? Non credo sia un discorso che possa reggere.
A vederla oggettivamente, noi ancora ascoltiamo dischi di 30, 40 anni fa. È tantissimo tempo. Troppe cose sono cambiate perché si possa pretendere che le nuove leve possano capire quella musica. Per noi sono note ancora validissime. Per loro possono essere semplicemente noiose. A Nick McBrain possiamo solo fare i nostri migliori auguri, ringraziarlo per quanto fatto per noi e per la storia della musica. Non possiamo impedire che il tempo passi. Possiamo solo godere di ciò che ci ha lasciato.
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tempi-dispari · 7 months ago
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Monsters of rock 2025: è davvero necessario?
Scorpions, Judas Priest, Europe, Opeth, Queensrÿche, Stratovarius, Savatage. Questo il bill per l’edizione 2025 del Monsters of rock che si terrà in Brasile il prossimo 19 aprile. Lo spazio dove si svolgerà il concerto ha la capacità di 55mila persone. Parliamone. Quando ho letto il manifesto la prima cosa che mi è venuta in mente è stata: gli organizzatori sono alla frutta.
Ma come, nessun nome che abbia una carriera con meno di 30 anni di età? Come è possibile? Secondo chi ha predisposto l’evento tra le band mainstream attuali non c’è nessuno che abbia un’importanza tale da essere invitata a partecipare? Soprattutto il quesito è stato: perché? Per quale motivo programmare un evento con questi nomi. A chi giova? Ai nostalgici? Alle nuove generazioni? Anche se fosse una mera mossa commerciale, sono così sicuri che funzionerà? Hanno la certezza assoluta di riuscire a raccogliere 55mila persone? Le risposte a queste domande non sono positive.
È un concerto che non fa bene a nessuno. In primo luogo alle stesse band. Saliranno sul palco persone con una media di 65 anni a testa. Che tipologia di spettacolo potranno mai offrire? Chi ha comprato il biglietto a cosa prenderà parte? Alla ricreazione del reparto geriatrico dell’ospizio del metal? Certo, sono nomi storici, tuttavia hanno anche un’età per cui potrebbero, o, meglio, dovrebbero anche smettere. Non foss’altro che per salvaguardare ciò che di buono hanno fatto nella loro carriera. Onestamente andare a vedere gruppi di quasi settantenni che cercano di sembrare giovani è uno spettacolo a dir poco patetico. Addirittura i Savatage torneranno in attività pur di prendere parte al concerto.
Ma perché? Con tutta la nuovo musica che c’è, c’era davvero bisogno di concerto di soli dinosauri? Nessun giovane andrà mai a vedere suo nonno che suona metal. E anche per i nostalgici, quale patetico spettacolo si prospetta? Tanto si prendono in giro i nomi storici della musica italiana quanto vengono accettate reunion di tal fatta. Non è la stessa cosa? Vedere suonare i Cugini di campagna non è la stessa cosa che vedere suonare i Judas? A ben vedere il combo di Alford si è formato anche prima della band italiana. Eppure i Cugini di campagna li vediamo nelle balere, mentre la band inglese dovrebbe suonare davanti a 55mila persone. Qual è l’ultimo disco buono di tutti i gruppi in cartellone?
Soprattutto, le persone cosa vorranno ascoltare, le ultime produzioni o i brani storici? Forse sarebbe stato meglio programmare una giornata meglio articolata che inframezzasse band più recenti a vecchie cariatidi. Anche se non credo sarebbe cambiato molto. Ripeto, vedere sul palco personaggio della stessa dei miei genitori, se non di mio nonno, non credo sia uno spettacolo con grande appeal. Soprattutto se i gruppi sono anni che non incidono nulla di nuovo. E da qui si torna alla domanda originale: perché? Che scopo ha tutto ciò? Forse il fatto di aver organizzato in Brasile e non in Europa o negli Stati Uniti è una scelta ben precisa. Probabilmente nello stato sudamericano poche volte hanno avuto la possibilità di vedere dal vivo quei nomi. Eppure non si scappa dal dubbio.
Perché presentarglieli ora, alla fine della loro carriera? Il canto del cigno? Probabilmente gli organizzatori sanno perfettamente che se dovessero proporre lo stesso concerto altrove non avrebbero certo lo stesso riscontro. Se lo avessero fatto in Italia credo che lo spazio riservato all’evento sarebbe potuto essere al massimo un palazzetto, non certo uno stadio. Nomi più blasonati e meglio in arnese sono passati su suolo italico esibendosi in posti piccoli. Tuttavia la domanda torna.
Perché? Non me ne capacito. È come rimettere un ciclista di settantanni sulla bici, agghindato di tutto punto, nella speranza che possa ripetere i tempi di quando era giovane, di quando ha fatto la storia. È impossibile. Diventerebbe uno spettacolo orribile, patetico, ripugnante. Eppure, a quanto pare, c’è chi è disposto ad assistere ad uno scempio simile. Da più parti si sono letti commenti entusiastici. Ma come si fa? Come si fa ad essere felici per una cosa del genere?
Sono gruppi che non devono dimostrare nulla a nessuno. Ormai quello che dovevano dire lo hanno detto. Soprattutto, non fanno più parte del mondo musicale attuale. Senza dimenticare che sono anni, per non dire decenni, che ripetono, musicalmente, sempre le stesse cose. Ora, organizzare un evento del genere sarà costato soldi, parecchi soldi. Credo il cachet di queste band non sia proprio a buon mercato. Non sarebbe stato meglio investire quei soldi in una manifestazione con un senso? Forse con lo stesso investimento si sarebbe potuto organizzare un festival anche di più giorni, con molte più band, maggio gettito di pubblico e anche un rientro più sicuro delle spese. Tuttavia il quesito che più attanaglia è: come si fa ad accogliere in maniera entusiastica un evento del genere?
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tempi-dispari · 7 months ago
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Harry Styles, il David Bowie della GenZ
Esiste il modo per determinare perché le band classiche sono diventate tali? Perché un certo disco è considerato fondamentale nella crescita di un determinato genere? Per quale motivo, quel disco e non un altro, se non del medesimo gruppo, del medesimo filone musicale? La risposta è si. C’è il modo per determinare se una band, un disco o una canzone possano essere definiti classici o meno. Almeno secondo l’intelligenza artificiale.
Dal punto di vista dell’assistente virtuale ci sono alcune caratteristiche ricorrenti. Queste sono riassumibili in: Universalità dei temi: i classici spesso affrontano temi universali come l’amore, la perdita, la ribellione, la crescita e la ricerca di sé stessi. Questi temi risuonano con un pubblico vasto e variegato, superando le barriere culturali e generazionali. Melodie indimenticabili: le melodie sono semplici, orecchiabili e memorabili. Si incastrano nella mente e rimangono lì, anche dopo anni. E questo è innegabile.
Ritmi coinvolgenti: questi sono spesso potenti e trascinanti, invitando il pubblico a ballare, cantare e muoversi. Testo significativo: i testi sono spesso poetici, evocativi e ricchi di significato. Possono essere semplici o complessi, ma hanno sempre qualcosa da dire. Innovazione: molti classici del rock hanno introdotto nuovi suoni, strumenti o tecniche musicali, spingendo i confini del genere e influenzando le generazioni successive.
Qualità della produzione: la produzione è spesso di alta qualità, con un suono ricco e dettagliato che resiste alla prova del tempo. Impatto culturale: i classici del rock hanno spesso avuto un impatto significativo sulla cultura popolare, diventando inni di generazioni e simboli di un’epoca. Esecuzione magistrale: l’interpretazione dei musicisti è fondamentale. La passione, l’energia e l’abilità con cui un brano viene eseguito contribuiscono in modo determinante al suo successo.
Dando per buoni tali parametri, qualcuno più o meno discutibile, possiamo riportarli alla musica contemporanea? La risposta è ancora si. La capacità di un brano di emozionare, di creare un legame con l’ascoltatore e di lasciare un segno duraturo nel tempo è ciò che rende un classico, sia esso del passato o del presente. Questo è un ragionamento che cerca di rimanere nei limiti dell’oggettività. Certo non possono essere presi in considerazione i gusti musicali soggettivi e la capacità di ogni individuo di emozionarsi.
Stando così le cose, che piaccia o meno, esistono, allo stato attuale brani, band e dischi che sono destinati a diventare dei classici. Alcune canzoni lo sono già diventate. Basti pensare a certi inni di Ed Sheeran. È quindi possibile disquisire sulla validità o meno dei parametri, ma non su quella della musica proposta oggi. E il motivo è semplice. Ogni generazione, ogni tempo, ha la propria colonna sonora che la rappresenta. Stare a discutere su è meglio un certo approccio rispetto ad un altro, lascia il tempo che trova.
Un determinato modo di intendere l’arte è valido solo nel contesto in cui è stato presentato. Trascorsi anni, se non decenni, deve per forza cambiare qualcosa. Quell’approccio potrà cristallizzarsi diventando un classico, ma ciò che arriva dopo non può essere da meno. La generazione X ha come riferimento Bowie, ad esempio, per mille motivi. Eclettico, dissacrante, istrionico, icona generazionale. I giovani della generazione Z invece hanno davanti a sé Harry Styles, che, per loro, non è da meno.
Su che base possiamo dire che Styles è meno valido di Bowie? Perché è più commerciale? Vogliamo parlare delle hit del duca bianco? Ovvio, io, esponente della generazione X non potrò mai capire appieno Styles perché parla di qualcosa che non mi appartiene. Parla un linguaggio che non è più il mio. Il sordo, però, sono io, perché non ho la giusta chiave di lettura. Non sono i ragazzi di oggi che non sentono. Anche perché il ragionamento, fatto in maniera inversa, porta alla stessa conclusione.
Cioè, non avere la giusta chiave di lettura per poter apprezzare i classici. Il periodo cubista di Picasso non è compreso da tutti nello stesso modo. Guernica non è apprezzato da chiunque, pur essendo un vero capolavoro. La domanda quindi è: perché accusare chi non lo capisce di essere un idiota e di preferire Keith Haring, e non spiegargli come fare per interpretare Picasso?
Magari non lo interiorizzerà in toto, ma almeno potrà comprenderne l’importanza storica. Perché questo atteggiamento non viene messo in pratica anche nella musica? Perché ci si concentra sulla iterazione di ambienti sonori obsoleti? Tanto, che piaccia o no, le cose sono cambiate. Il non rendersene conto provoca semplicemente chiusura. I classici ci piacciono ci piaceranno sempre, ma questo non ci autorizza ad etichettare ciò che esce oggi come immondizia solo perché non lo comprendiamo.
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tempi-dispari · 7 months ago
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Fenomeni: Pete&Bas, settantenni da cui imparare
Un milione duecentomila followers su Facebook. Due milioni su Instagram. Centotrentamila iscritti e quasi dieci milioni di visualizzazioni su youtube. Duemilioni quattrocentomila followers su TikTok. Ottocentomila ascolti mensili su Spotify.
Non sono i numeri di un nuovo artista spinto da chi sa chi. Sono quelli di un duo di settantenni che fa hip hop. Pete & Bas. Ma chi sono Pete & Bas? Sono due settantenni, meglio ripeterlo, che nel 2017 hanno deciso di creare un duo rap. Da allora hanno inciso un disco, Mugshot nel 2024, e collaborato con moltissime star. Il loro primo singolo, Shut Ya Mouth del 2017, è andato virale. Eppure non sono fermati li. Sono sbarcati praticamente su tutti i social raggiungendo numeri impressionanti di cui sopra.
A questo punto la domanda è più che lecita: qual è il problema degli artisti underground di mezza età? Qual è? Che difficoltà hanno nell’utilizzare le moderne tecnologie per farsi conoscere? Se lo hanno fatto due settantenni, perché non loro? Chi con un po’ di materia grigia farebbe mai un investimento in termini di tempo e soldi per poi non farlo fruttare? È un po’ come comprare una Ferrari con mille sacrifici e poi lasciarla in garage perché non si ha voglia di mettere la benzina.
Eppure è quello che molte band, molti artisti fanno. Spendono migliaia di euro, decine di ore per incidere musica che poi lasciano li, nel cassetto. Pete & Bas non solo i soli ad utilizzare i social. Se, nel tempo perso, si desse un occhio in giro, ci si accorgerebbe come tutti, proprio tutti, stanno cercando di sfruttare i nuovi canali di comunicazione. E gli artisti underground? No, loro no. Non gli interessa. Meglio affidarsi ai soliti metodi. Eppure sono sempre di più i big che sbarcano sulle piattaforme.
A dare il buon esempio è il buon Marco Arata, aka Mark the Hammer. In un suo recente video ha dato la giusta dimensione di quello che un musicista oggi dovrebbe fare con i social. Dovendo pubblicizzare una sua serata, si è inventato una clip in cui spiega cosa vuol dire essere un artista ai giorni nostri. Sul finale svela che tutto il montaggio è servito solo a portare le persone alla pubblicità dell’evento. Emblematica la chiusura: se avessi fatto solo la promozione della serata non mi avreste cagato di striscio.
E si torna alla domanda principale: qual è la difficoltà delle band underground nel fare la medesima cosa? Il tempo? Non credo. Quello necessario a scrivere canzoni, arrangiarle, inciderle, scegliere la copertina, fare le foto, è stato trovato. Ed è molto di più di quello necessario a fare un video o scrivere un post per qualsiasi social. Non ci vogliono mettere la faccia? Se non sbaglio fai l’artista, la faccia ce l’hai già messa.
Mancanza di fondi? Di certo l’investimento è decisamente minore rispetto a quello necessario per registrare un disco. Quindi? Che problema hanno? L’imbarazzo? Perché stare su un palco davanti a decine di persone è facile? Non hanno nulla da dire? Che cosa lo avete inciso a fare un disco se non avete nulla da dire? La sola ‘scusa’, virgolette obbligatorie, plausibile potrebbe essere, non sappiamo come si fa.
Neppure quando avete scritto il primo brano sapevate come si faceva. Eppure ci avete provato. Ergo? Poco importa che la propria musica vada in giro. Una delle idiozie più gettonate a giustificare il mancato impegno è: si ma i social sono una cosa di giovani. Noi ormai… Ebbene, Pete & Bas smontano anche questa idea. Una obiezione potrebbe essere: si ma loro sono stati costruiti a tavolino.
Vuoi mettere due vecchietti che rappano quanta curiosità richiamano? Vero, verissimo, ma intanto i due vecchietti si sono prestati. Senza contare che nessuno ha l’assoluta sicurezza che un’operazione, per quanto commerciale, funzionerà davvero come previsto. E la domanda resta ancora senza una risposta: che problemi hanno le band e gli artisti underground con le nuove strategie di comunicazione?
Davvero, mi piacerebbe saperlo. Perché questo rifiuto, questo odio verso quella che è oggi la nostra realtà? Come si può pensare di sopravvivere se non ci si adatta, si sperimenta, o almeno non ci si prova? Se non sono gli stessi artisti a voler emergere, nessuno gli può dare una mano. Ma il discorso non vale solo per loro. Vale anche per gli addetti ai lavori che li circondano.
Etichette e uffici stampa troppo spesso sottovalutano l’aspetto social fermandosi alla classica comunicazione. Peccato che non funziona più. Non bastano le interviste, le recensioni a farsi conoscere. È finita l’era delle fanzine. E lo si deve capire, ci deve entrare in testa. Diversamente siamo solo degli zombie, tutti, che aspettano solo di essere uccisi.
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tempi-dispari · 7 months ago
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I Doors come i Black Sabbath, padri del Doom
I Doors pionieri del doom metal alla pari dei Black Sabbath. Prima di urlare allo scandalo per un accostamento che potrebbe sembrare azzardato, analizziamo il ragionamento che ha portato a questa conclusione. Potremmo partire da una semplice considerazione. Se i Beatles sono stati decretati come inventori dello scream grazie alla sola introduzione di Helterskelter, i Doors possono serenamente essere considerati pionieri del doom metal grazie ad interi brani.
Ma quali sono i tratti caratteristici del doom che coinvolgono la band di Morrison? Atmosfere cupe, ritmo lento, pesante, testi che riguardano la morte, l’alienazione, la decadenza della società. Sono tutti aspetti che i Doors presentano in diverse canzoni e ben prima dell’arrivo dei Black Sabbath. Tant’è che lo stesso Tony Iommi ha indicato gli stessi Doors tra le sue influenze. E non solo lui. Lee Dorrian, ex cantante dei Napalm Death e fondatore dei Cathedral, ha dichiarato che “la teatralità e il misticismo dei Doors erano elementi fondamentali che molti gruppi doom hanno cercato di replicare”.
Anche Wino Weinrich dei Saint Vitus ha sottolineato come i Doors abbiano introdotto un senso di malinconia e introspezione nel rock, aprendo la strada a un approccio più meditativo e pesante. La domanda quindi è: perché i Doors non vengono nominati, se non alla stessa stregua dei Black Sabbath, almeno tra gli ispiratori del genere? Anzi, in verità, quando si parla di doom, non sono per nulla presi in considerazione. Eppure il loro apporto per lo sviluppo di questo stile è innegabile.
Al di là dei brani proto doom come The End o Riders on the storm, la canzone più indicativa è sicuramente L’America, presente su L.A. Woman. Una canzone doom a tutti gli effetti e con tutti i crismi. Eppure rarissimamente, per non dire mai, mi è capitato che venisse citata come fonte di ispirazione o influenza. Per quale motivo? Stilisticamente entrambe le band sapevano creare tensione attraverso il contrasto tra momenti di calma e improvvise esplosioni di suono. Tecnica che la fa da padrona nel doom metal, dove i cambi di tempo e le pause drammatiche amplificano il senso di disperazione e urgenza.
Eppure Morrison e compagni paiono essere ignorati. Tuttavia, da un certo punto di vista, potremmo addirittura dire che se i Black Sabbath hanno canonicizzato il genere, i Doors hanno ‘creato’ i Black Sabbath. Come tutti i generi musicali, anche il doom non ha una sola origine. È piuttosto la summa di influenze diverse che attraversano la psichedelia e l’hard rock, fino a convergere in una musica che celebra l’oscurità in tutte le sue forme.
Ed entrambe le band hanno sviluppato questo aspetto. Viene da sé che le analogie non possono essere eseguite sui suoni. I Sabbath avevano sonorità decisamente più dure rispetto ai Doors. Ciò non diminuisce i numeri punti di contatto. Volendo ampliare lo spettro di ciò che può riportare all’estetica musicale doom, potremmo anche fa rientrare alcune composizioni dei Pink Floyd e Obscured by coud è di certo un buon riferimento, con tutti i limiti del paragone.
Tirando le somme. Parlare esclusivamente di Balck Sabbath come padri del doom è inesatto, limitante e limitativo. Sono molteplici ed eterogenee le influenze e le contaminazioni che ha subito. In primis, appunto, quella dei Doors sotto più punti di vista.
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tempi-dispari · 7 months ago
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È Elio e le Storie Tese: il Frank Zappa italiano?
Frank Zappa un mito della musica, Elio e le storie tese, una band che crea musica demenziale. Perché questa differenza? Eppure i due hanno molto, moltissimo in comune. Tuttavia l’Elio nazionale è troppo spesso relegato al ruolo di giullare. Dal mio punto di vista è un errore. Zappa è sempre stato visto come un dissacratore, un elemento di rottura verso il mercato musicale. Una scelta che non gli ha impedito di diventare una vera propria star. Elio e le storie tese non sono da meno. Il problema sta forse nella percezione che si ha dei due gruppi. O, probabilmente, nel fatto che i testi di Zappa non vengono colti perché in inglese risultando più ‘intellettuali’. D’altra parte quelli di EELST, essendo in italiano, sono immediatamente fruibili anche se ciò che rimane impresso è l’aspetto più superficiale. Da tenere bene in considerazione, poi, un altro aspetto. La preparazione dei musicisti. Zappa era un maestro non solo della chitarra ma della composizione. Elio, sul secondo aspetto, non essendo un chitarrista, non è da meno. Quindi resta la domanda: perché non è considerato allo stesso modo di Zappa?
Entrambe sono accomunati da una incredibile capacità di mescolare generi, linguaggi e ironia in maniera dissacrante e geniale. Ma cosa rende davvero questo confronto pertinente?
Questa l’ide di Elio:
‘Quel che è certo è che non ho mai detto che siamo discepoli di Zappa, come si legge da qualche parte. Di espressamente zappiano nel nostro repertorio non c’è molto se non, volendo, lo spirito: certe robe complicate che facevamo all’inizio, con storie che non avevano senso come Cateto o Piattaforma. Di Zappa ho casomai cercato di fare mie alcune lezioni, la principale delle quali potrebbe essere sintetizzata in un principio: il massimo impegno per fare delle cose inutili”.
Un eclettismo musicale senza confini
Frank Zappa è noto per la sua abilità nel fondere rock, jazz, blues, classica e avanguardia, creando opere dal sapore unico e spesso spiazzante. Allo stesso modo, Elio e le Storie Tese (EELST) hanno costruito una carriera decennale mescolando pop, prog, funky, e perfino sigle televisive, senza mai perdere la loro vena ironica e surreale. Basti pensare a brani come La terra dei cachi, che passa con disinvoltura da melodie pop orecchiabili a virtuosismi strumentali degni dei migliori musicisti prog.
Zappa e Elio condividono anche un’attitudine sperimentale che li ha portati a non avere mai paura di osare. Se Zappa poteva passare da un’orchestra sinfonica a una band di rock psichedelico, EELST hanno saputo esplorare territori musicali sempre nuovi, dal rock di Servi della gleba al jazz swing inframezzato al prog di Il vitello dai piedi di balsa.
Ironia e satira: l’arte del dissacrante
Un altro elemento fondamentale che li accomuna è la satira pungente e l’ironia dissacrante. Zappa, attraverso testi spesso grotteschi e provocatori, ha messo alla berlina il sistema americano, il perbenismo e i cliché della società. Elio e le Storie Tese hanno fatto lo stesso in Italia, affrontando temi come il conformismo, la politica e le ipocrisie della cultura popolare.
Brani come Parco Sempione e Complesso del primo maggio sono esempi lampanti di come EELST abbiano saputo usare la musica per riflettere, sempre con il sorriso sulle labbra, su problematiche sociali e culturali. Anche l’utilizzo del dialetto e di giochi di parole è un elemento che li avvicina a Zappa, noto per i suoi testi pieni di riferimenti criptici e doppi sensi.
Il rapporto con il pubblico: tra culto e nicchia
Sia Zappa che EELST hanno sempre goduto di una fama particolare: da un lato, artisti di culto per un pubblico appassionato e fedele; dall’altro, figure difficili da incasellare nei circuiti mainstream. Nonostante il successo commerciale di alcuni brani, come La terra dei cachi al Festival di Sanremo del 1996, EELST sono rimasti fedeli a un’attitudine “indipendente”, molto simile a quella di Zappa, che non ha mai cercato il compromesso con il mercato discografico.
L’importanza dei musicisti: tecnica e virtuosismo
Un’altra analogia significativa riguarda la qualità tecnica dei musicisti. Zappa ha sempre lavorato con artisti di altissimo livello, richiedendo loro una precisione e una versatilità eccezionali. Allo stesso modo, Elio e le Storie Tese sono composti da musicisti straordinari, come Rocco Tanica alle tastiere e Faso al basso, capaci di eseguire brani complessi e pieni di cambi di tempo, di stile e di atmosfera.
Quindi esiste un’eredità condivisa
In definitiva, definire Elio e le Storie Tese come i “Frank Zappa italiani” non è solo una questione di provocazione, ma un riconoscimento di come entrambe le realtà abbiano saputo trasformare la musica in qualcosa di più di un semplice intrattenimento. Hanno creato un mondo sonoro unico, dove l’intelligenza e l’ironia convivono con la tecnica e la creatività più sfrenata.
Se Zappa ha lasciato un segno indelebile nella cultura musicale americana e mondiale, Elio e le Storie Tese hanno fatto lo stesso in Italia, dimostrando che anche la musica “leggera” può essere profonda, intelligente e soprattutto libera.
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tempi-dispari · 8 months ago
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AI Groove: l’Influenza e l’Innovazione dei Deep Purple
Nati nel 1968, i Deep Purple hanno lasciato un’impronta indelebile nella storia del rock, incarnando una combinazione di virtuosismo, sperimentazione e un’energia ribelle che ha contribuito a plasmare il genere hard rock e a gettare le basi per l’heavy metal. La loro musica si è distinta per l’uso intensivo della distorsione e della velocità, un elemento all’epoca rivoluzionario che ha creato un terreno fertile per i gruppi successivi. Con l’unione di chitarra elettrica e tastiere in assoli epici, i Deep Purple hanno introdotto un approccio tecnico e complesso che ha catturato l’attenzione di milioni di fan, pur mantenendo una grande accessibilità.
Stile Musicale e Innovazione
La vera essenza dei Deep Purple risiede nel loro approccio unico alla musica. Sin dall’inizio, i membri fondatori — Ritchie Blackmore, Jon Lord, Ian Paice e gli altri — hanno creato un sound che miscelava il blues con influenze classiche e rock psichedelico. Ritchie Blackmore, chitarrista virtuoso, ha integrato elementi classici nella sua tecnica, utilizzando scale minori e modalità inusuali che hanno definito uno stile chitarristico inconfondibile. Il tastierista Jon Lord ha apportato un contributo altrettanto fondamentale, rendendo l’organo Hammond un elemento centrale, quasi “distorto” e aggressivo, che dava profondità e ampiezza al suono della band. Questa combinazione di elementi ha generato uno stile musicale riconoscibile e complesso che ha influenzato innumerevoli gruppi rock e metal.
L’album In Rock (1970) rappresenta uno dei lavori più influenti della band e dell’hard rock in generale. È considerato un pilastro per la potenza espressiva dei riff e per l’innovazione stilistica, con tracce come “Speed King” e “Child in Time” che combinano liriche cariche di pathos a progressioni armoniche dense e complesse. Con In Rock, i Deep Purple hanno abbandonato le influenze psichedeliche per abbracciare un sound duro e deciso, caratterizzato da una velocità e da un’intensità che hanno posto le basi per l’heavy metal moderno.
I Testi e il Significato
Pur non essendo principalmente noti per testi filosofici o profondi, i Deep Purple hanno spesso affrontato tematiche rilevanti per l’epoca, utilizzando liriche che spaziano dall’introspezione alle esperienze di vita rock’n’roll. “Smoke on the Water,” ad esempio, ispirata a un reale incidente durante un concerto di Frank Zappa a Montreux, racconta una storia di caos e pericolo, diventando un’icona culturale. Questo brano non solo racchiude il simbolo di un’esperienza reale e drammatica, ma ha anche dato vita a uno dei riff più celebri e riconoscibili della storia del rock.
Nei loro testi, la band esprimeva uno stile di vita ribelle e anticonformista che risuonava con la gioventù dell’epoca. In “Highway Star,” ad esempio, il testo celebra la velocità e la libertà, in perfetta sintonia con il riff serrato e l’assolo mozzafiato di Blackmore. Le parole della canzone, seppur semplici, trasmettono un senso di liberazione che ha fortemente attratto gli ascoltatori.
Album e Brani Fondamentali
Dopo In Rock, altri album hanno consolidato la statura dei Deep Purple come pionieri. Machine Head (1972) contiene alcuni dei loro brani più noti, come “Smoke on the Water” e “Space Truckin’,” quest’ultimo un esempio di psichedelia spaziale che incorpora tematiche fantascientifiche in un brano rock, anticipando il movimento space rock. Machine Head è riconosciuto come uno degli album fondamentali per comprendere l’evoluzione del rock verso un suono più duro e pesante, arricchito da ritmi serrati e strutture complesse.
Successivamente, album come Burn (1974) con l’inclusione di David Coverdale e Glenn Hughes, hanno dimostrato la capacità della band di reinventarsi. Con brani come “Burn” e “Mistreated,” i Deep Purple hanno esplorato sonorità più blues e soul, creando una miscela potente che li ha resi ancora più versatili e imprevedibili.
Lascito e Influenza
L’influenza dei Deep Purple è evidente non solo nel rock, ma anche in generi più estremi come l’heavy metal e il progressive rock. Le loro innovazioni tecniche e sonore hanno ispirato band iconiche come Led Zeppelin e Black Sabbath, contribuendo a creare un intero genere musicale. Le capacità tecniche e l’originalità di Blackmore, Lord e Paice hanno fatto scuola e ispirato generazioni di musicisti. Gli assoli di chitarra e tastiera, la struttura complessa delle canzoni e l’intensità della loro musica continuano a risuonare tra le nuove generazioni di appassionati di musica rock.
In conclusione, i Deep Purple hanno segnato la storia del rock con una combinazione di innovazione musicale e un’energia che ha ridefinito il genere. La loro musica rimane un punto di riferimento fondamentale, e il loro contributo alla musica è stato, ed è tuttora, inestimabile.
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tempi-dispari · 8 months ago
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Blynch: un abbraccio sonoro tra fragilità e memorie
Bravo Blynch. In questo suo ultimo lavoro è riuscito a condensare buona parte della nuova generazione di cantautori nostrani. Li ha amalgamati in uno stile personale e riconoscibile con testi in italiano non banali ma allo stesso tempo fruibili.
“Bordibianchi”, l’ultimo lavoro di Blynch, è molto più di un album; è un rifugio emotivo dove si fondono nostalgia, semplicità e introspezione. Definito dallo stesso cantautore come una raccolta di “storie del tempo fermo”, il disco esplora i ricordi dell’adolescenza e il loro riverbero nel presente, offrendo una narrazione che si muove tra passato e futuro. Questo progetto si pone come un gesto di riconciliazione con il sé di ieri, abbracciando le complessità e le vulnerabilità che lo hanno caratterizzato.
La musica di Blynch racchiude quella delicatezza che porta l’ascoltatore a riflettere, ma allo stesso tempo lo avvolge in un’atmosfera intima e accogliente. L’influenza di artisti come i primi Coldplay, Elliott Smith e Nick Drake è evidente nelle sonorità eteree, costruite su trame acustiche che sembrano quasi fluttuare. C’è una grazia rarefatta nel modo in cui le melodie accompagnano testi che approfondiscono l’incomprensibilità dell’animo umano, trasformando la fragilità in una forza universale. Ogni traccia si fa portavoce di un messaggio capace di parlare non solo dell’artista, ma anche dell’ascoltatore, con una sensibilità disarmante.
L’album è un viaggio nel quale l’artista invita l’ascoltatore a confrontarsi con le proprie paure, i propri ricordi irrisolti e quel senso di spaesamento che spesso ci accompagna nella transizione tra le fasi della vita. Esplorare se stessi attraverso la musica, come suggerisce Blynch, diventa un modo per rielaborare ciò che è stato e guardare con occhi nuovi ciò che può ancora venire. Le tematiche trattate abbracciano l’amore, la perdita, l’accettazione e la rinascita, toccando corde profonde senza mai risultare artificiose o forzate. C’è un equilibrio sottile tra la malinconia di ciò che si è perso e il dolce conforto della memoria. Le canzoni di “Bordibianchi” non si limitano a descrivere uno stato d’animo, ma offrono attivamente una via d’uscita o, almeno, un nuovo modo di vedere le cose. Anche i momenti più cupi vengono trattati con una leggerezza pensata per alleggerire, non minimizzare, il peso che portano.
Con “Bordibianchi”, Blynch crea un universo sonoro in cui la fragilità umana trova la propria bellezza, dimostrando che anche dai momenti più complessi possono nascere opere capaci di generare empatia e trasformazione. È un album che ascolti con il cuore e con l’anima prima ancora che con le orecchie, lasciandoti cambiato.
Ascolta l’album
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tempi-dispari · 8 months ago
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IMO: le band affossano i propri componenti
La bravura dei musicisti non è proporzionale a quella delle band.
Un aspetto su cui non mi era ancora di riflettere è che, spesso, la bravura e la preparazione tecnica dei singoli musicisti non coincide con quello che la band di cui fanno parte propone. Mi spiego meglio. Ho sempre pensato che studiare uno strumento fosse un metodo per andare oltre i cliche, oltre l’ovvio e non solo un sistema per autocelebrarsi.
Moltissimi bravi musicisti, di disco in disco, sperimentano, ricercano, superano confini di genere. Per molti strumentisti nostrani, soprattutto appartenenti all’underground, questa regola non vale. Ci si prepara tecnicamente solo per far vedere quanto si è bravi a proporre sempre la solita musica. Sono molto pochi quelli che, con la propria band, sperimentano, cercano altre soluzioni.
E lo posso dire a raigon veduta, dopo anni di recensioni e di ascolti. Dischi che davvero varrebbe la pena ascoltare si contano, in un anno, sulle dita di una sola mano. Questo è contraddittorio se si pensa alla preparazione degli strumentisti. Quindi la domanda sorge da sé: perché i gruppi italiani si vogliono autolimitare? Perché ci si impegna di più nel cercare di ricreare ciò che è stato invece di pensare a ciò che potrebbe essere?
Onestamente i dischi italiani sono tra quelli più stagnanti e ripetitivi mi sia capitato di ascoltare. Questo a discapito delle capacità dei singoli musicisti. Di che cosa si ha paura? Del resto lo si fa per gioco, per diletto, per passatempo. Perché quindi non ‘rischiare’ come si deve cercando soluzioni diverse? Certo, oggi è stato suonato tutto il suonabile e inventare cose nuove non è possibile.
Eppure c’è chi prova quantomeno a mischiare la carte in tavola. Perché noi no? Dischi underground che stupiscono sono rarissimi. Quando escono invece di essere osannati come tali, vengono dileggiati e criticati. Ci sono band che meriterebbero molto di più, soprattutto dal loro stesso ambiente indipendente. E invece ristagnano oppure si arrendono.
Per quale motivo? La risposta potrebbe riportare al solito disco rotto di come è messa la musica sommersa nostrana. Ma purtroppo non vedo altre possibilità. Siamo ancorati a cliche talmente vetusti, desueti e logori da non riuscire neppure più a renderci conto di non stare producendo nulla, o quasi, di buono. Molti prodotti discografici sono saltati all’orecchio perché ricordano altro.
Quelli invece che vanno oltre, sono stati lasciati a pochi eletti. Una mentalità che deve cambiare. Un blocco che deve cadere. E, credo, sia inevitabile. Così come i dinosauri si sono estinti, anche l’undeground italiano sparirà seppellito da nuova musica e tendenze di cui non si rende neanche conto.
A sopravvivere saranno solo gli ultimi, quelli dimenticati, chi, nonostante tutto, è andato andati avanti per la propria strada. Eppure, non rischiando nulla perché la maggior parte delle band e degli artisti non rischia nulla, perché non cercare una propria strada?
Continuando così le cose centinaia di ottimi musicisti rimarranno continuamente schiacciati da un mare di mediocrità assoluto dove l’unico fine continuerà ad essere il voler suonare come qualcun altro. Che triste situazione. Eppure, pare, piace così.
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tempi-dispari · 8 months ago
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Sono solo parole in rock: Big Balls degli Ac/Dc
Big balls fa parte di Dirty Deeds Done Dirt Cheap, ovvero “lavori sporchi a basso prezzo”, uscito nel settembre del 1976 in Australia ed Europa. Di Jailbreak è stato fatto anche un video (presente ora nella doppia raccolta DVD Family Jewels), in cui si vedono Bon Scott ed Angus Young travestiti da carcerati, inseguiti e trucidati da due spietati poliziotti (ossia Malcolm Young ed il bassista Evans).
Nel 1976 viene pubblicata anche la versione dell’album per il resto del mondo. La differenza tra le due versioni sta nella diversa grafica della copertina che nella versione per il resto del mondo è realizzata dallo studio Hipgnosis, e nella lista tracce: nella versione europea è inclusa Love At First Feel, che non compare in quella australiana, dove sono invece presenti Jailbreak ripubblicata nell’album in studio ’74 Jailbreak contenente brani provenienti dai primi due album pubblicati in Australia e mai pubblicati nel resto del mondo, e R.I.P. (Rock In Peace) che si trova nel disco 1 del box set Backtracks pubblicato nel 2009 e contenente varie rarità live e studio della band.
Big balls
I’m ever upper class high society, God’s gift to ballroom notoriety, I always fill my ballroom (The event is never small) The social pages say I’ve got The biggest balls of all
Oh I’ve got big balls I’ve got big balls And they’re such big balls Dirty big balls And he’s got big balls And she’s got big balls But we’ve got the biggest balls of them all
And my balls are always bouncing My ballroom always full And everybody cums and cums again If your name is on the guest list No-one can take you higher Everybody says I’ve got Great balls of fire
Oh I’ve got big balls I’ve got big balls And they’re such big balls Dirty big balls And he’s got big balls And she’s got big balls But we’ve got the biggest balls of them all
Some balls are held for charity And some for fancy dress But when they’re held for pleasure They’re the balls that I like best. My balls are always bouncing To the left and to the right It’s my belief that my big balls Should be held every night
Oh I’ve got big balls I’ve got big balls And they’re such big balls Dirty big balls And he’s got big balls And she’s got big balls But we’ve got the biggest balls of them all
And I’m just itching to tell you about them Oh we had such wonderful fun Seafood cocktail, crabs, crayfish… Ball sucker
Grandi palle
Sono uno dell’alta società, Dio mi ha donato una fama da sala da ballo Riempio sempre la mia sala da ballo e l’evento non è mai piccolo Si dice in giro che io possegga Le palle più grosse del mondo
Oh, io ho grandi palle io ho grandi palle E sono palle grandi così Grandi palle sporche Anche lui ha grandi palle Anche lei ha grandi palle Ma noi abbiamo le palle più grosse di tutti
E le mie palle rimbalzano sempre, la mia sala da ballo è sempre piena E tutti vengono e vengono di nuovo Se il tuo nome è sulla lista degli invitati, nessuno ti potrà portare più in alto Tutti dicono che ho grandi palle di fuoco
Oh, io ho grandi palle io ho grandi palle E sono palle grandi così Grandi palle sporche Anche lui ha grandi palle Anche lei ha grandi palle Ma noi abbiamo le palle più grosse di tutti
Certe palle si mostrano per carità e certe altre per costume Ma quando si mostrano per il piacere, quelle sono le palle che preferisco Le mie palle rimbalzano sempre, a sinistra e a destra È mia opinione che le mie grandi palle dovrebbero essere mostrate ogni notte
Oh, io ho grandi palle io ho grandi palle E sono palle grandi così Grandi palle sporche Anche lui ha grandi palle Anche lei ha grandi palle Ma noi abbiamo le palle più grosse di tutti
E muoio dalla voglia di dirtelo Oh ci siamo divertiti così tanto Cocktail di frutti di mare, granchi, astice… Succhia palle
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tempi-dispari · 8 months ago
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AI Groove: King Diamond, il Gran Sacerdote del Metal
Quando si parla di King Diamond, si evoca una figura mitica del metal, una combinazione unica di teatralità, oscurità, e una maestria vocale che lo ha reso un’icona inconfondibile. Nato Kim Bendix Petersen a Copenaghen nel 1956, King Diamond non è solo un cantante straordinario, ma anche un architetto del terrore musicale, capace di costruire interi mondi narrativi che fondono horror, esoterismo e musica heavy metal.
I primi anni: Mercyful Fate e l’alba di un’epoca
King Diamond iniziò la sua carriera nei primi anni ’80 come leader dei Mercyful Fate, una delle band più influenti della scena heavy metal. Con album come Melissa (1983) e Don’t Break the Oath (1984), i Mercyful Fate tracciarono le coordinate di un sound oscuro e teatrale, radicato nel satanismo letterario e nella mitologia esoterica. L’inconfondibile falsetto di King Diamond, una voce capace di passare da toni angelici a grida demoniache, divenne il tratto distintivo della band.
“King Diamond è stato una delle mie principali ispirazioni,” ha dichiarato Lars Ulrich dei Metallica. “Crescendo in Danimarca, vedere qualcuno come lui affermarsi a livello internazionale era incredibile. E poi c’era quella voce: nessuno cantava come lui.”
La nascita del solista: Un horror teatrale
Dopo la separazione dai Mercyful Fate nel 1985, King Diamond intraprese una carriera solista che gli permise di ampliare ulteriormente il suo universo creativo. Album come Abigail (1987), Them (1988) e Conspiracy (1989) non sono semplicemente raccolte di canzoni, ma opere concettuali che raccontano storie dell’orrore degne di un film di Dario Argento o di un racconto di H.P. Lovecraft.
La teatralità dei suoi live show, con croci rovesciate, scenografie gotiche e costumi elaborati, ha contribuito a creare l’immagine di King Diamond come una figura a metà tra un occultista e un cantastorie demoniaco.
“King Diamond ha portato il teatro nel metal,” ha affermato Rob Halford dei Judas Priest. “Non si tratta solo della musica: è l’esperienza completa. Ogni suo concerto è un viaggio in un altro mondo.”
Il personaggio e l’occulto
Una delle chiavi del successo di King Diamond è stata la sua capacità di costruire un personaggio coerente. Il suo trucco distintivo – una maschera facciale che combina croci rovesciate e figure geometriche – è diventato iconico tanto quanto il suo falsetto. Ma dietro l’estetica c’è un’autentica passione per l’esoterismo.
In diverse interviste, King Diamond ha dichiarato di essere un credente nel satanismo laveyano, un sistema filosofico che si distanzia dall’adorazione letterale di Satana e si concentra invece sull’individualismo e sull’esaltazione del libero arbitrio.
“Non si tratta di sacrificare capre o cose del genere,” ha spiegato in un’intervista con Metal Hammer. “È una filosofia di vita che mette l’uomo al centro del suo universo.”
Questa prospettiva ha informato non solo i testi delle sue canzoni, ma anche il modo in cui ha costruito il suo personaggio pubblico, rendendolo un’icona per chi cerca nel metal una forma di ribellione intellettuale e spirituale.
L’eredità e le influenze
King Diamond ha influenzato generazioni di musicisti, dai black metaller norvegesi alle nuove leve del progressive e del power metal. Dani Filth dei Cradle of Filth, ad esempio, ha spesso citato King Diamond come una delle sue principali influenze:
“La sua capacità di raccontare storie attraverso la musica e il modo in cui ha reso ogni performance un rituale hanno avuto un impatto enorme su di me.”
Anche Tobias Forge dei Ghost ha riconosciuto il debito verso King Diamond:
“Le nostre maschere, i temi occulti e l’idea di un personaggio centrale nello show? Molte di queste cose vengono da King Diamond e dai Mercyful Fate.”
Conclusioni: Il Re del Metal Oscuro
King Diamond è più di un cantante. È una forza creativa, un innovatore, e una figura centrale nell’evoluzione dell’heavy metal. La sua abilità nel fondere musica, narrativa e immaginario esoterico ha creato un mondo in cui i fan non sono semplici ascoltatori, ma partecipanti di un’esperienza multisensoriale.
Come lui stesso ha detto:
“Il mio obiettivo non è solo spaventare la gente. Voglio trasportarla in un altro mondo, dove la realtà e il mito si confondono.”
E ci è riuscito, costruendo un impero di oscurità che continua a ispirare e incantare milioni di fan in tutto il mondo.
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tempi-dispari · 8 months ago
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Luca Amoroso: l'oscurità degli anni '90 portata nel 2024
Pensate a tutto ciò che di lento, oscuro e pesante hanno portato gli anni ’90. Ora aggiungete un azzeccato cantato in italiano e suoni a metà strada tra il lisergico, l’acustico e il caustico. Il tutto senza dimenticare la tradizione nostrana guidata dai Diaframma.
Ecco, siete quasi riusciti a visualizzare l’ultima fatico di Luca Amoroso.
Con il suo nuovo album “Gli Angeli Torneranno A Prenderci”, Luca Amoroso trasforma profondi dilemmi esistenziali in arte, guidando l’ascoltatore attraverso un viaggio musicale che esplora il delicato rapporto tra gli esseri umani, la religione e la loro stessa spiritualità. Attraverso undici tracce, Luca Amoroso intreccia testi complessi e significativi con arrangiamenti musicali che sanno essere tanto evocativi quanto emotivamente potenti. Ogni brano è costruito con una cura straordinaria per i dettagli, bilanciando perfettamente melodia e tematiche. 
La traccia di apertura, “Crocifiggetemi”, pone le fondamenta di questo viaggio spirituale. Partendo dalla sofferenza della crocifissione per arrivare alla rinascita, la musica riflette questa dualità con un arrangiamento intenso, alternando momenti cupi a impennate di luce sonora simboleggiando la liberazione. Con “Gli stessi giorni”, Luca Amoroso utilizza un arrangiamento ipnotico di chitarre acustiche amplificando il senso di monotonia e appartenenza a cicli ripetitivi. Questa atmosfera condensa l’alienazione descritta nel testo, rendendo palpabile il desiderio di una guida per spezzare quelle catene invisibili per esplodere in un ritornello dai toni grunge d’altri tempi.
L’apice emotivo arriva con “Dolore, Comprensione e Sangue”. Qui si evoca l’agonia e la speranza dell’episodio biblico a cui si ispira. Il mix è profondo e avvolgente, con un uso sentito e profondo della voce dell’artista che sa passare da accenti drammatici a toni quasi sussurrati, coinvolgendo l’ascoltatore in una sorta di cine-sonoro spirituale.
Canzoni come “Il tuo rossetto sul parabrezza” e “La lamentela delle quattro e un quarto” aggiungono una vena più intima e personale, affrontando temi universali come l’amore tossico e il tradimento. Gli arrangiamenti, in questo caso, si fanno più essenziali, enfatizzando i testi e creando un dialogo diretto con chi ascolta. L’album termina con “Apocalisse 18:33”, una traccia conclusiva che unisce tutti i fili tematici in una catarsi sonora. La chitarra elettrica torna protagonista e si mescola a una ritmica quasi mistica, evocando una fine che è al tempo stesso distruttiva e rivelatrice.
Con “Gli Angeli Torneranno A Prenderci”, Luca Amoroso offre non solo un’esperienza musicale stratificata, ma anche un invito all’introspezione e alla riflessione. Un album che colpisce l’anima con la stessa forza con cui accarezza l’orecchio.
Ascolta l’album
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tempi-dispari · 8 months ago
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Sono solo parole in rock: i Rolling Stones
Tanto si criticano i testi dei musicisti contemporanei. Soprattutto i trapper e alcune stelle pop. In questa rubrica andremo ad analizzare testi dei mostri sacri del rock. I nostri sacrissimi classici, erano poi così diversi dai gruppi di oggi? Non regge neppure la scusa del ‘e ma ai tempi erano provocatori’.
Non regge perché lo si potrebbe dire anche dei testi che oggi tanto vengono criticati. La differenza sta nella quantità di volgarità e nefandezze necessarie per provocare le persone. Se un tempo era sufficiente la descrizione di un bacio troppo appassionato, di un rapporto sessuale, oggi questo non basta più.
Si deve essere più espliciti. Segno dei tempi. Esiste tuttavia un aspetto che troppo spesso trascuriamo. I nostri beniamini erano decisamente più irriverenti e amorali dei ragazzi di oggi. Nello specifico mi riferisco ad una canzone dei Rolling Stones, Stray Cat Blues.
Un brano del 1968 contenuto nell’ottavi disco degli Stones Beggars Banquet. È una canzone che ai giorni nostri non avrebbero potuto scrivere. E, se lo avessero fatto, probabilmente sarebbero andati in contro a problemi più che seri. Il testo infatti parla di una notte trascorsa con una ragazzina di 15 anni. Non è da evincere, no no. È tutto esplicito, compresa l’età della ragazza.
Questa è solo il primo di una serie di brani che fanno diventare pallidi i riferimenti ai testi attuali.
Leggere per credere:
Testo e traduzione
Ah, hey Hey, I got some tail
Hear the click-clack of your feet on the stairs I know you’re no scare-eyed honey There’ll be a feast if you just come upstairs But it’s no hanging matter It’s no capital crime
I can see that you’re 15 years old No, I don’t want your ID And I can see that you’re so far from home But that’s no hanging matter It’s no capital crime
Oh yeah, you’re a strange stray cat Oh yeah, don’t you scratch like that Oh yeah, you’re a strange stray cat I bet, bet your mama don’t know you scream like that I bet your mother don’t know you do spit like that
You look so weird, I sense you’re far from home But you don’t really miss your mother You look so scared, I’m not a mad-brained bear But, but it’s no hanging matter It’s no capital crime
Oh, yeah Whoa!
I bet your mama don’t know that you scratch like that I bet she don’t know you can bite like that
You say you got a friend, and she’s wilder than you Why don’t you bring her upstairs? If she’s so wild, then she can join in too It’s no hanging matter It’s no capital crime
Oh yeah, you’re a strange stray cat Oh yeah, don’t you scratch like that Oh yeah, you’re a strange stray cat I bet your mama don’t know you can bite like that I’ll bet she never saw you scratch my back
Ah… ehi Sì, ho un po’ di coda
Sento il click-clack dei tuoi piedi sulle scale So che non sei un tesoro con gli occhi spaventati Ci sarà un banchetto se vieni di sopra, ma… Non è una questione di impiccagione Non è un crimine capitale
Vedo che hai quindici anni. No, non voglio la tua carta d’identità. E vedo che sei così lontano da casa, ma… Non è una questione di impiccagione Non è un crimine capitale
Oh sì, sei uno strano gatto randagio Oh sì, non graffiare cosìOh sì, sei uno strano gatto randagio Scommetto che tua madre non sa che urli cosìScommetto che tua madre non sa che sputi così
Sembri così strano, e sei così lontano da casa Ma non ti manca davvero tua madre Sembri così spaventato, non sono un orso pazzo. Ma, ma non è una questione di impiccagione Non è un crimine capitale Oh, sì Woo! Scommetto che tua madre non sa che graffi così. Scommetto che non sa che puoi mordere così.
Dici di avere un’amica, e lei è più selvaggia di te Perché non la porti di sopra? Se è così selvaggia, allora può partecipare anche lei. Non è una questione di impiccagione Non è un crimine capitale
Oh sì, sei uno strano gatto randagio Oh sì, non graffiare così Oh sì, sei uno strano gatto randagio Scommetto che tua madre non sa che puoi mordere in quel modo Scommetto che non ti ha mai visto grattarmi la schiena
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tempi-dispari · 8 months ago
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Alex Van Halen: un pilastro nascosto del rock
Nel vasto panorama del rock, i Van Halen rappresentano uno dei fenomeni più influenti e innovativi. Fondato a Pasadena nel 1972 dai fratelli Eddie e Alex Van Halen, il gruppo ha impresso un segno indelebile nella musica rock, tanto da ridefinire gli standard sonori e tecnici di un intero genere. Molti riconoscono il talento di Eddie Van Halen, chitarrista di punta del gruppo e inventore di un suono inimitabile, ma un elemento altrettanto essenziale nel DNA della band è stato il fratello maggiore, Alex Van Halen, la cui tecnica, potenza e creatività hanno contribuito a costruire il suono iconico dei Van Halen.
L’Inconfondibile Stile di Alex Van Halen
Per comprendere l’importanza dei Van Halen, occorre partire proprio da Alex. Meno celebrato rispetto al più carismatico Eddie, Alex è uno dei batteristi più innovativi e potenti della scena rock. Il suo stile mescola un’aggressività tipica del rock con una precisione tecnica che rende il suo drumming unico. Brani come Hot for Teacher sono emblematici del suo talento: in quel pezzo, la batteria di Alex apre la canzone con un rullo rapido e furioso che ha quasi un effetto “mitragliatrice”. Questo approccio spigoloso e quasi tribale lo distingue dai batteristi più lineari dell’epoca, dandogli un ruolo attivo e in primo piano nella struttura dei brani.
Alex si distingue anche per il suo uso della doppia cassa, elemento che, negli anni ’70 e ’80, era ancora una rarità. Questo gli permette di costruire un suono intenso, che non fa solo da tappeto ritmico, ma quasi dialoga con la chitarra di Eddie, creando una sorta di sfida musicale all’interno di ogni pezzo. La sua batteria è in realtà una seconda voce, che sottolinea i momenti salienti e li riempie di energia, una capacità che ha influenzato molti dei suoi contemporanei e che, in parte, ha contribuito a plasmare il modo di intendere la batteria rock degli anni a venire.
Un Successo “Limitato” in Italia
Nonostante il loro impatto globale, i Van Halen non sono mai riusciti a sfondare in Italia con la stessa forza di altri artisti rock e hard rock. Ci sono diversi motivi per questo fenomeno, molti dei quali legati a fattori culturali e storici.
Negli anni ’70 e ’80, l’Italia viveva una situazione culturale diversa rispetto agli Stati Uniti e persino rispetto ad altri paesi europei. La scena musicale era dominata principalmente dal cantautorato, con artisti come Fabrizio De André e Lucio Battisti che incarnavano un filone intimista e narrativo. L’hard rock, nella sua accezione più pura, aveva un pubblico molto di nicchia.
Inoltre, i Van Halen proponevano uno stile musicale – spesso irriverente e festaiolo – che contrastava con la sensibilità culturale italiana del periodo. Il loro immaginario glam, eccessivo e incline all’intrattenimento puro, si allontanava dalle tematiche sociali e intimiste che spesso dominavano il mercato musicale italiano. Se pensiamo a gruppi hard rock come i Deep Purple e i Led Zeppelin, che sono riusciti a trovare un pubblico fedele in Italia, notiamo che avevano un approccio più vicino al blues e alle radici rock europee, elementi che, storicamente, hanno sempre trovato una buona accoglienza in Italia.
Un altro motivo è legato alla barriera linguistica e alla mancanza di grandi tour europei della band negli anni del loro massimo successo, che li hanno tenuti in parte distanti dall’Italia. Negli anni ’80, l’accesso alla musica straniera in Italia era più limitato, e per molti artisti stranieri il mercato italiano era difficile da penetrare.
Eredità e Influenze
Oggi, a distanza di anni, l’influenza dei Van Halen e, in particolare, di Alex è innegabile. Molti batteristi hard rock e metal, tra cui Lars Ulrich dei Metallica, hanno dichiarato di essere stati ispirati dal suono potente e articolato di Alex Van Halen. E anche se i Van Halen non sono diventati un fenomeno di massa in Italia, rimangono un punto di riferimento per chiunque ami il rock. La loro energia, il loro virtuosismo e la loro capacità di creare un sound unico e immediatamente riconoscibile continuano ad ispirare le nuove generazioni di musicisti.
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tempi-dispari · 8 months ago
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"The Cold Summer of the Dead" Junkfood
L’album The Cold Summer of the Dead dei Junkfood, uscito nel 2012, rappresenta uno degli esperimenti più originali della scena musicale strumentale italiana. Con un sound cupo e viscerale, questo lavoro si inserisce tra rock, jazz, e post-rock, mostrando l’attitudine di Junkfood per una musica che si muove tra atmosfere cinematografiche e toni da thriller psicologico. La sua ricchezza sonora crea scenari immaginifici e quasi palpabili, un’esperienza per chi ascolta che non lascia indifferenti. Di seguito, un approfondimento traccia per traccia.
Track by Track
The Cold Summer of the Dead L’album si apre con una traccia che definisce subito il tono del progetto: un’atmosfera glaciale e solenne, supportata da suoni oscuri che trasportano l’ascoltatore in un luogo desolato. Le linee di basso sono profonde e danno un senso di gravità, mentre la batteria e la chitarra si fondono in un crescendo che non esplode mai completamente, lasciando una tensione sospesa.
The Maze The Maze si muove su un ritmo ipnotico e circolare, portando chi ascolta in una spirale che ricorda un labirinto senza via d’uscita. Le percussioni sono ossessive, e gli strati di synth e chitarra creano un senso di disorientamento. È un pezzo potente che colpisce per la sua capacità di evocare immagini di inquietudine e mistero. Perfetto per chi cerca una colonna sonora che lo catturi e lo lasci con il fiato sospeso.
Only Shadows Move Questa traccia è il cuore malinconico dell’album, con un mood che si potrebbe quasi definire blues. Le chitarre lamentose e il ritmo rallentato creano un senso di perdita e desolazione. Only Shadows Move è uno di quei brani che trasmette un’immagine di silenzio post-apocalittico, come una città deserta dopo un temporale.
The Last Drop of Water Intenso e atmosferico, The Last Drop of Water porta una ventata di sperimentazione sonora. Con l’uso di riverberi profondi e suoni filtrati, i Junkfood riescono a costruire una dimensione sonora quasi acquatica, suggerendo una sete emotiva inappagata. La traccia ha una struttura libera, senza una direzione chiara, che rispecchia forse un messaggio di incertezza.
A Room with No Air Questa traccia è una lenta costruzione di ansia, dove il silenzio tra le note ha un peso fondamentale. Qui la band gioca con le pause e i vuoti, dando spazio ai suoni di chitarra e basso che si espandono come respiri trattenuti. È una delle tracce più minimaliste dell’album, ma è anche una delle più potenti, evocando la sensazione claustrofobica di essere intrappolati in una stanza senza aria.
Ashes La chiusura dell’album arriva con Ashes, una traccia che funziona quasi come un epilogo, con un sound etereo e riflessivo. Qui, i toni si fanno più lievi, come se i Junkfood stessero concedendo una tregua a chi ascolta. Questo brano chiude l’album come una liberazione, un’uscita da quel “labirinto” inquietante e profondo che l’intero lavoro ha rappresentato.
Conclusioni
The Cold Summer of the Dead è un’opera intensa che conferma la capacità dei Junkfood di esplorare territori musicali poco battuti. La loro capacità di evocare immagini forti e ricche di significato senza fare uso della parola è uno dei tratti più distintivi del loro stile. L’album, per quanto non di facile ascolto, è un viaggio sonoro che cattura e trattiene in una dimensione parallela. Un lavoro che non solo si ascolta, ma si vive.
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