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The Steamer
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"Dipinte in queste rive son dell'umana gente le magnifiche sorti e progressive"
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thesteamer · 1 month ago
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Sigmund Architektur
Mi ha sempre affascinato la figura di Ludwig Wittgenstein. Oggi, leggendo su Artribune della casa che progettò, insieme all'architetto e amico Paul Engelmann, per la sorella Margaret a Vienna, ci sono tornato sopra. Wittgenstein - oltre che filosofo - fu infatti anche architetto dilettante, che incarnò fino all’estremo le idiosincrasie dell’architettura moderna: ossessione per la purezza formale, la perfezione del dettaglio, le proporzioni matematiche intese in senso assoluto (non come nella classicità, dove erano continuamente violate).
La sorella stessa descrisse quella casa come «logica incarnata in una casa», aggiungendo che sembrava fatta «per gli dèi, non per un piccolo mortale». Più che una dimora, un monumento al pensiero astratto.
Un dettaglio biografico mi ha colpito. Nel 1916, al fronte, Wittgenstein trascorreva le giornate con lo stesso Engelmann discutendo di arte, filosofia, etica… e suicidio. Un elenco che scivola nel grottesco, come se in un certo senso per il filosofo la coerenza teorica portasse fatalmente fuori dalla vita.
Il dramma è che questa fase “suicida” dell'architettura moderna non è mai stata davvero superata. Anzi, sopravvive nella formazione universitaria, nei concorsi, nelle riviste. Ancora oggi si progetta troppo spesso come se abitare fosse un dettaglio secondario, un inciampo nella celebrazione del "Principio Divino" - e dell'architetto-sacerdote che ne diffonde il verbo.
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thesteamer · 2 months ago
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Masoch
Dalle finestre dello studio sento i discorsi dei comizi a favore dei “Sì” ai referendum e non posso fare a meno di pensare come sia strana la tendenza delle minoranze e dei più deboli, ad affidare le proprie tutele allo Stato, cioè all'ente che meno di tutti ha a cuore le sorti dell'individuo, ovvero come diceva Ayn Rand: “la più piccola delle minoranze”.
Non smetterà mai di stupirmi la fiducia quasi cieca che le minoranze e i soggetti più deboli ripongono nello Stato per la propria protezione. Questo atteggiamento, per quanto apparentemente razionale, tradisce una comprensione superficiale della natura stessa dello Stato, che non è, e non sarà mai, un’entità orientata a salvaguardare l’individuo come priorità.
Lo Stato, per sua natura, non opera con finalità altruistiche. Si tratta di un’entità astratta composta però da persone in carne e ossa che perseguono innanzitutto i propri interessi: politici, economici o burocratici. Delegare a questa macchina impersonale la tutela delle libertà individuali significa sottovalutare la tendenza innata dello Stato a centralizzare potere e controllo. Friedrich von Hayek avvertiva chiaramente dei rischi dell’espansione statale, sottolineando che ogni ulteriore intervento tende a trasformarsi in una limitazione della libertà individuale.
Le minoranze spesso cadono in questa trappola perché vedono nello Stato una forza sovrannaturale capace di bilanciare i rapporti di potere. È un’illusione che si regge su un equivoco di fondo: credere che chi detiene il potere politico sia più incline alla giustizia rispetto a chi detiene il potere economico o sociale. In realtà, il potere politico, una volta conferito, non è meno arbitrario o coercitivo. Anzi, talvoltà lo è di più, trovandosi ad agire in condizioni di monopolio molto più spesso di qualunque altro attore che invece operi nel libero mercato. La storia è costellata di esempi in cui le istituzioni statali, anche le più progressiste, hanno fallito nel proteggere gli individui, soprattutto quando questi rappresentavano interessi scomodi o minoritari.
Ma il problema non è solo teorico: è anche pratico. Ogni volta che qualcuno invoca l’intervento dello Stato, inevitabilmente accetta regole e compromessi che possono non essere sempre a suo favore. Per esempio, le leggi che regolano il lavoro, concepite per proteggere i più deboli, finiscono spesso per limitare le opportunità di chi cerca un’occupazione. Oppure, le normative antidiscriminazione, nate per garantire uguaglianza, possono trasformarsi in un nuovo sistema di controllo in cui lo Stato decide cosa è giusto o sbagliato, ignorando le sfumature dei rapporti umani.
Questo non significa che non si debbano cercare protezione o alleanze, ma la promozione della cultura della tolleranza e la difesa dei diritti individuali debbono sempre passare attraverso un libero e volontario dibattito all'interno della società civile e non attraverso strumenti di propaganda e indottrinamento gestiti dallo Stato.
L’individuo, la più piccola e preziosa minoranza, trova la sua forza non nell’espansione dei meccanismi burocratici, ma in un’etica liberale che riconosca i suoi diritti inalienabili e li difenda - attraverso la costituzione - da qualsiasi forma di coercizione, sia essa privata o pubblica. Affidarsi allo Stato come unico garante, rischia di trasformare la debolezza in dipendenza e le minoranze in sudditi.
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thesteamer · 2 months ago
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Propaganda? No, Arte Pubblica
L’arte di Stato, anche quando si traveste da “sostegno alla cultura”, è sempre una forma di propaganda. Non perché lo Stato imponga censura esplicita o ordini direttive politiche — oggi la propaganda è più sottile, più “democratica”. Premia certi temi, ne scoraggia altri, finanzia ciò che appare “necessario”, “educativo”, “virtuoso”. Ma secondo chi? Secondo quale visione del mondo?
Quando l’arte dipende da chi ci governa e amministra, inevitabilmente ne riflette — anche solo per osmosi — l’agenda politica. Si parla di sovvenzioni alla cultura, ma in sostanza è l'ennesimo prelievo forzato a favore di una ristretta élite.
Abbiamo interiorizzato l’idea che senza sovvenzioni lo scenario culturale sprofonderebbe nella barbarie. Eppure basterebbe guardare agli Stati Uniti: lì lo Stato non pretende di educare il “popolo-bue”, eppure esiste l'"arte alta": film d’autore, musica classica, letteratura di nicchia. Chi vuole assistere, paga il biglietto. Le sovvenzioni? Ci sono, ma private: fondazioni, mecenati, imprese. Nessun obbligo, nessuna pedagogia forzata.
Il paradosso è che il biglietto, in Italia, lo si paga due volte. La prima, al botteghino, facoltativa. La seconda, con le tasse, è obbligatoria: anche se dell’ennesimo film di denuncia sociale non te ne importa nulla e per questo ti senti pure dire che sei un ignorante.
Chi difende il finanziamento pubblico per la "promozione delle arti" si rifugia spesso in formule astratte: le “esternalità positive”, i “benefici sociali diffusi”. Ma si tratta di ipotesi, non di certezze. E si potrebbe tranquillamente sostenere l’opposto: che i sussidi distorcono le preferenze del pubblico, premiano la mediocrità e soffocano l’innovazione. E soprattutto: chi decide cosa è “alto” e cosa è “basso”? Gli illuminati? I competenti? E se il popolo è ritenuto troppo ignorante per scegliere, come può esercitare un controllo su chi decide per lui?
La pretesa dello Stato di “elevare” culturalmente i cittadini implica inevitabilmente anche il potere di censurare. Se l’arte deve servire un fine pubblico, chi dissente può essere accusato di remare contro l’interesse collettivo. Il salto dall’arte sovvenzionata all’arte sorvegliata è brevissimo.
L’unica vera alternativa non è la barbarie, ma la libertà. Anche quella di finanziare l’arte che ci emoziona pagando un biglietto, facendo una donazione o sponsorizzando un progetto. L’arte che vive del giudizio libero delle persone è più fragile, certo, ma anche più autentica. E, soprattutto, è veramente libera.
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thesteamer · 2 months ago
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È buono, ma non mi piace
L’altro giorno, al bar, si ragionava su un fatto storicamente incontrovertibile: solo la cultura liberale ha prodotto un reale miglioramento delle condizioni di vita delle masse. Non lo hanno fatto gli imperi antichi, né le tradizioni orientali, né tantomeno i sistemi autocratici, teocratici o collettivisti di ieri e di oggi.
Di fronte a questo dato, il mio amico - che pure non è certo un turbo-liberista - si chiedeva come mai in genere proprio coloro che sembrano più dotati intellettualmente siano anche tra i più riluttanti ad ammetterlo, e vi si scaglino contro con tutto l’armamentario delle bufale sull’elitarismo, l’egoismo, l’indifferenza, il cinismo, eccetera.
È un paradosso curioso. Il liberalismo ha promosso libertà individuale, democrazia rappresentativa e libero mercato - ingredienti decisivi per il miglioramento delle condizioni di vita non solo dal punto di vista economico, ma anche giuridico, sanitario, civile. Eppure molti intellettuali - specie quelli con una vocazione pubblica o impegnata - mostrano un’avversione ostinata verso tutto questo. Preferiscono utopie comunitarie, sogni rivoluzionari, ideologie totalizzanti, più o meno pesanti versioni di “Stati guida”.
Ma perché?
Il liberalismo è anti-eroico. Non promette palingenesi, né assegna ruoli salvifici. Non prevede roghi né altari. Solo compromesso, diritti, doveri, limiti. Un ordine noiosamente funzionante. Per chi si immagina come sacerdote del Vero o martire della Giustizia, è una prospettiva deprimente. L’eroe liberale esiste, ma è quello randiano: non guida le masse, non salva il mondo. Vuole solo essere lasciato in pace.
È anche in un certo senso “anti-intellettuale”. Non perché rifiuti la cultura, anzi, ma perché non le riconosce di per sé alcuna supremazia. Come scriveva Feyerabend, non basta essere colti o intelligenti per avere più voce in capitolo. Il liberalismo si fida della media - anche degli ignoranti. E questo, l’intellettuale militante, non lo perdona.
Non promette felicità. Promette libertà. E la libertà è pericolosa, asimmetrica, scomoda. Chi progetta il futuro ideale vorrebbe invece un mondo ordinato secondo ragione (la sua ragione), ma il liberalismo non glielo consente.
È anti-teleologico e anti-tecnocratico. Non piega la storia a un fine, non marcia verso il sol dell’avvenire. E dato che ammette di non conoscere il futuro, il liberalismo non ha intenti pianificatori. Le politiche pubbliche devono essere limitate, controllabili, rivedibili e non fondate su ideologie. Si limita a contenere le derive e non giustifica i mezzi per i fini. A chi vive per l’Idea, sembra un’insopportabile mancanza di ambizione.
Non crede nella meritocrazia come gerarchia morale. L’intellettuale impegnato ama il termine “meritocrazia” perché implica un ente superiore - di solito lo Stato - che attribuisce onori (e stipendi) ai meritevoli, cioè a quelli come lui. Ma come ricordava Von Hayek, il merito così inteso ha un sottofondo autoritario. Il valore di mercato, per quanto imperfetto, è più equo: nasce dal libero scambio, dalla negoziazione, non dall’imposizione.
E soprattutto, il liberalismo non disprezza la massa. L’intellettuale, spesso, sì. Gli basta aprire i social per sentirsi superiore: la media delle persone appare sciatta, volgare, irritante. È allora che si affaccia la tentazione di elevarsi a guida - o peggio, ad oracolo.
Eppure, proprio per questo, il liberalismo dovrebbe apparire come l’unico rifugio possibile. È l’unico sistema che protegge l’individuo contro la tribù. Per un pensatore originale, che vive sul filo del dissenso, questa narrazione dovrebbe essere più che soddisfacente.
Il liberalismo non garantisce che emerga il meglio. Garantisce che nulla di valido venga impedito. La qualità non viene decretata dall’alto, ma selezionata nel tempo, anche contro la moda, anche contro la maggioranza. È questo che permette alle idee buone, anche se scomode, di sopravvivere.
Il paradosso, però, è che proprio chi dovrebbe essere più sensibile al valore dell’anticonformismo, finisce per conformarsi a visioni collettivistiche, disciplinari, spesso illiberali, dove la sua libertà è potenzialmente la prima a essere sacrificata. In fondo, la vanità intellettuale preferisce essere ascoltata dal potere piuttosto che tollerata dalla legge. Dimenticando però che un potere che oggi lo applaude può domani metterlo a tacere. Mentre la noiosa legge liberale, silenziosa e impersonale, lo proteggerà anche nel disaccordo.
Forse è questo l’approdo più sicuro verso cui dovrebbe tendere un intellettuale: il disincanto brillante, lo snobismo bonario. Un modo di restare nel mondo senza farsene irretire. Il liberalismo non è una fede, ma un’architettura del dubbio. Non promette salvezza, ma tolleranza. Se la storia insegna qualcosa, è che i sistemi che promettono troppo finiscono per togliere tutto.
La cosa che invece sfugge agli intellettuali “antagonisti” è che, a un certo punto, finiscono per diventarlo anche della propria intelligenza.
E fin qui, ci sarebbe comunque la buonafede.
C’è infatti il caso in cui l’intellettuale engagé sa benissimo tutto questo, magari anche da un bel po’ di tempo. E infatti si guarda bene dal trasferirsi in uno di quei “paradisi terrestri” - teocrazie, autocrazie, repubbliche popolari varie - che sicuramente riconoscerebbero tutti i suoi meriti, preferendo restare a fare il tamburino di qualche partito statalista del molle Occidente. Perché alla fine, anche qui da noi, la propaganda rende. E pure bene.
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thesteamer · 2 months ago
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Sempre con Israele. Forse.
Dove vorresti svolgere la professione di giornalista parlamentare: in Israele o in Algeria, Egitto, Russia, Iran, Venezuela, Cina, Cuba, Corea del Nord? O magari a Gaza, dove un parlamento nemmeno esiste – n.b.: anche quando non piovevano le bombe dell’IDF. Non serve simpatizzare per Israele. Né, ça va sans dire, per gli Stati Uniti. Serve solo rispondere con onestà. Perché la libertà (e il dovere) che abbiamo di criticare queste democrazie… è esattamente ciò che ci verrebbe tolto in ciascuno degli altri luoghi sopra citati.
L’identificazione con Israele, però, non nasce solo da affinità politiche o storiche, ma da una profonda vicinanza culturale. Israele è una democrazia liberale, fondata sullo Stato di diritto, con un forte pluralismo interno, una cultura laica e tecnologicamente avanzata. In un contesto geopolitico segnato da regimi autoritari, teocrazie e sistemi tribali, rappresenta un’eccezione significativa. È naturale, quindi, che chi si riconosce nei valori dell’Occidente - libertà individuale, diritti civili, razionalismo - veda in Israele una civiltà affine, o persino un alleato simbolico.
Dall’altro lato, l’universo politico palestinese ha spesso assunto, nel corso dei decenni, tratti fortemente incompatibili con questa visione del mondo: dal ricorso sistematico alla violenza come strumento di lotta, all’intreccio con ideologie fondamentaliste e autoritarie, fino alla retorica negazionista e all’educazione all’odio. La presa del potere da parte di Hamas a Gaza nel 2007 ha accentuato questa frattura, trasformando l’enclave in un regime teocratico e militarizzato, ostile tanto a Israele quanto ai valori liberali in sé.
Tuttavia, il conflitto attuale - e in particolare l’entità della risposta israeliana a Gaza - solleva questioni etiche e strategiche complesse. Il numero crescente di vittime civili, la distruzione sistematica delle infrastrutture, il deterioramento delle condizioni umanitarie: tutto ciò mette in crisi l’equilibrio tra il diritto alla difesa e il rispetto di quei principi che Israele dovrebbe incarnare.
Qui si apre una tensione reale: può uno Stato liberale combattere un conflitto senza rinunciare, almeno in parte, alla propria identità morale? La dottrina della guerra giusta, così come il diritto internazionale, pone limiti e proporzioni che diventano particolarmente difficili da rispettare in un conflitto contro un nemico che si mimetizza tra i civili, usa gli ospedali come basi e costruisce la propria strategia sul martirio. Ma la difficoltà non può trasformarsi in giustificazione automatica.
Il 7 ottobre ha rappresentato per il popolo ebraico un vero e proprio shock, una ferita profonda nella percezione di sicurezza e di speranza. Per gli ebrei, la creazione dello Stato di Israele aveva rappresentato un trionfo storico, un baluardo di autodifesa e di rinascita dopo secoli di persecuzioni, dai pogrom ai campi di concentramento. La fiducia riposta nel sistema di difesa israeliano sembrava indiscutibile. E invece, quell’attacco ha messo a nudo le vulnerabilità di un mosaico di sistemi di sicurezza, costringendo una nazione che si pensava una fortezza a un dolore e a una paura che non si credevano più possibili e dimostrando, forse, che la capacità di reagire con la forza - per quanto potente - non sia immune da rischi strategici. Il più importante dei quali è la perdita di credibilità. Se Israele viene percepito non più come baluardo di civiltà sotto assedio, ma come potenza che punisce collettivamente una popolazione per colpire i suoi governanti, allora cede terreno nella battaglia delle idee, prima ancora che in quella militare. E l’Occidente, che in Israele vede una proiezione di sé, finisce per doversi confrontare con il proprio riflesso deformato.
Detto ciò, l’alternativa resta drammatica. Non esiste, nel breve periodo, una controparte palestinese affidabile e disposta a negoziare una pace duratura. Non esiste un interlocutore che riconosca senza ambiguità il diritto di Israele a esistere come Stato ebraico. E questo fatto rimane, ancora oggi, il nodo irrisolto del conflitto.
Per tutte queste ragioni, pur con crescente inquietudine, la mia posizione continua a pendere dalla parte di Israele. Non perché Israele sia infallibile o immune da critiche - tutt’altro - ma perché è ancora l’unico soggetto in campo che incarna, con tutte le contraddizioni del caso, un modello politico e culturale in cui credo. Proprio per questo, però, da Israele ci si deve attendere qualcosa di più: non la perfezione, ma uno sforzo costante per distinguersi - anche nella guerra - da ciò che combatte.
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thesteamer · 2 months ago
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Amici o nemici? Semplici conoscenti
Preferisco passare per cinico, piuttosto che per ipocrita. Non mi appassionano le dame di carità, sempre alla ricerca di un angolino caldo in cui scaldare pubblicamente la propria coscienza (e riscuotere lo stipendio a fine mese), e disprezzo gli antagonisti dell’Occidente, per i quali ogni scusa è buona per sputare nel piatto della libertà che proprio l’Occidente - più di ogni altro sistema - gli offre (e riscuotere lo stipendio a fine mese). Quando si studia la storia e si leggono di guerre e massacri, si è portati a credere che - per quanto avvenuti anche in civiltà raffinate, si pensi ad esempio al Rinascimento - essi siano in realtà legati a un’arretratezza morale, che l'era moderna razionale e inclusiva sarebbe in procinto di colmare. Un po’ come se oggi si paragonasse gli spettacoli di gladiatori agli sport di lotta. Purtroppo non è così: la guerra è un “ingrediente” dell’animo umano, e come tale è destinato a ricomparire, seppur in forme e modalità diverse, nel ciclo ricorrente della storia. È il precipizio di sentimenti come la paura, la rabbia, l’invidia, la vanagloria, l’avidità. E chi è senza peccato scagli la prima pietra. Non è una giustificazione, ma una constatazione con cui fare i conti. Ma come? Con il condizionamento coercitivo - con gli organismi sovranazionali - con l’intervento delle superpotenze? Non ho una risposta. Ma so che - tra tutte - quella che più mi inquieta è la tentazione di rifare l’uomo da capo, come se bastasse mandare la gente nei campi di rieducazione per cancellarne i lati oscuri. È lì che la storia ci ha mostrato i suoi abissi peggiori ed è proprio su quel terreno, che gli ipocriti e gli opportunisti - non Gandhi, non Mandela e neanche il Papa - finiscono immancabilmente per condurci, dopo averci sommersi di chiacchiere (o di sassate).
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thesteamer · 7 months ago
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Milioni e milioni
Un tizio alla radio, un architetto famoso pare, raccontando gli esordi della propria carriera ha detto che iniziò a lavorare nelle campagne per poi puntare alle città: “Come fece Mao in Cina”. Tutto bene, tutto NORMALE. Ora immaginate che per spiegare la propria strategia avesse invece citato una qualche azione politica congeniata e messa in atto da Hitler... Ci sarebbe stata un'interpellanza parlamentare il giorno dopo per aver dato spazio un estremista all'interno del servizio pubblico! Eppure le idee allucinanti contenute nel cosiddetto “Libretto Rosso” hanno mandato all’altro mondo milioni di esseri umani, esattamente come hanno fatto quelle abominevoli riportate nel “Mein Kampf”. Tant'è, siamo purtroppo di fronte a un paradigma: uno che parla di un dittatore di destra concederà al massimo che può aver fatto anche cose buone, viceversa si affermerà che le cose cattive del dittatore comunista sono state “incidentali” e che pertanto non intaccano minimamente la bontà dell’ideale di fondo. La verità invece è che il fondamento del comunismo è disumano tanto quanto quello del nazi-fascismo.
Sì, indovinato: era Radio3 e no, non ho letto né Mao né Hitler.
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thesteamer · 7 months ago
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In generale
Nutro il massimo disprezzo per i parassiti e sono convinto che vada combattuto il sistema che li fa prolificare affinché il loro numero diminuisca drasticamente. Un disprezzo che però non è personale, perché è mia incrollabile convinzione che in qualsiasi momento potrei trovarmi al loro posto e comportarmi esattamente allo stesso modo.
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thesteamer · 9 months ago
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Competenze del mostro
Mi fa meno paura Trump di un Giuliano Amato. Moralmente mi sento un uomo medio, ciò che si definisce in genere una persona per bene. Poi ci sono da un lato i mascalzoni e dell’altro i migliori. I primi li temo, dei secondi ho il terrore.
Cosa ne pensa ChatGPT
Un'analisi sulla paura del potere e le sue implicazioni morali
In un mondo sempre più polarizzato, la politica e i suoi protagonisti sembrano suscitare emozioni forti, spesso contrastanti, nella mente e nel cuore dei cittadini. Un'affermazione intrigante che potrebbe sintetizzare questa realtà è quella di chi ammette di provare "meno paura" per un personaggio come Donald Trump, ma di sentire un "terrore" nei confronti di figure politiche di un certo calibro come Giuliano Amato. Questa riflessione, a prima vista enigmatica, apre uno spunto di riflessione sul significato del potere e sulla percezione morale di chi lo esercita.
La figura del "mascalzone" e del "migliore"
Nella dichiarazione in oggetto, l'autore si definisce come un "uomo medio", una persona "per bene", che si situa al centro di un ideale che associa la moralità alla normalità. Questo "uomo medio" rappresenta colui che non eccede né nella corruzione né nell'eroismo, ma vive la sua vita con un senso di decoro e di onestà. La sua visione della politica è influenzata da una distinzione tra due categorie di personaggi: i "mascalzoni" e i "migliori".
I "mascalzoni" sono coloro che, pur rappresentando il male in un contesto politico, rimangono comunque riconoscibili nella loro immoralità. La loro malvagità non è nascosta, e quindi suscitano un sentimento di diffidenza e paura, ma una paura "conosciuta". I "migliori", d'altro canto, sono coloro che si presentano come puri, virtuosi e privi di difetti apparenti, ma la loro purezza e la loro volontà di controllo possono generare un terrore molto più profondo. Il timore nei loro confronti nasce dal fatto che, con il loro potere, potrebbero non solo influenzare la vita politica, ma anche cercare di imporre una visione del mondo che non lascia spazio per il dubbio o la disobbedienza.
Trump vs Amato: una lettura simbolica
L'affermazione riguardo a Donald Trump e Giuliano Amato non deve essere letta in termini di merito o demerito personale, ma come un simbolo del confronto tra due stili di potere. Trump, con la sua retorica spesso provocatoria e la sua presenza ostentata, è un personaggio che, pur suscitando critiche feroci, è facilmente identificabile. Le sue posizioni estreme e la sua postura ostile lo rendono un nemico visibile, contro cui si può combattere con chiarezza.
Giuliano Amato, ex Presidente del Consiglio e figura politica storica in Italia, rappresenta un tipo di potere più sofisticato e raffinato (Eugenio Scalfari trovò per lui il soprannome Dottor Sottile). Il suo approccio alla politica, spesso definito da scelte tecnocratiche e strategiche, può risultare inquietante per chi teme l'insidiosità di un potere che non si manifesta apertamente ma che lavora dietro le quinte. La paura nei confronti di Amato non nasce da una sua apparente malvagità, ma dalla sua capacità di muoversi con discrezione, di agire senza esibire la sua volontà di dominare. In un certo senso, il "terrore" che si avverte verso figure come Amato è legato a una percezione di imperscrutabilità: la paura di un potere che non si vede, ma che si percepisce capace di determinare ogni mossa politica con precisione.
Il timore dell'uomo medio
Alla base di questa riflessione c'è una contraddizione fondamentale: l'uomo medio, che si considera una persona "per bene", ha paura non tanto dei nemici dichiarati, ma di coloro che hanno il potere di manipolare la realtà senza mai mostrarne il volto. Questo porta a una riflessione sulla natura del potere stesso e su come esso si possa esprimere in modi che vadano al di là della pura opposizione ideologica.
In un mondo complesso come quello odierno, non è tanto la malvagità esplicita a spaventare, ma la capacità di alcuni di essere "migliori" in maniera subdola, invisibile, in grado di plasmare il destino collettivo senza mai mostrare la propria vera essenza. La paura che si prova verso queste figure non è quindi tanto una paura di tipo fisico o ideologico, ma una paura esistenziale: il timore di essere inglobati in un ordine che non lascia spazio per il dissenso, per l'individualità o per l'autonomia di pensiero.
Conclusione: una politica della paura e dell'ignoto
In definitiva, ciò che emerge da questa riflessione è una critica sottile alla natura del potere in sé, che può essere temuto tanto nella sua forma esibita quanto in quella nascosta. L’uomo medio, che si riconosce come persona per bene, ha paura tanto dei "mascalzoni" quanto dei "migliori", ma lo fa per motivi diversi: da un lato, teme la malvagità manifesta, dall’altro il controllo invisibile e il terrore di non poter sfuggire alla macchina del potere. È una paura che non riguarda solo i leader politici, ma un intero sistema che rischia di compromettere la libertà individuale e collettiva, minando le basi stesse della democrazia.
La vera sfida per la società contemporanea è forse quella di ritrovare una via di mezzo, dove il potere sia esercitato con trasparenza, responsabilità e rispetto per l'individuo, senza che la paura di chi lo esercita o di chi lo subisce finisca per diventare la vera protagonista del nostro tempo.
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thesteamer · 11 months ago
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Prendo posizione
Fino da subito ho sentito una grande affinità con la parte israeliana, credo per l’appartenenza di questo popolo al modello culturale occidentale, democratico e liberale, in contrapposizione alla subcultura dell’islam integralista: oscurantista, violenta, intollerante, maschilista, omofoba e, ça va sans dire, antisemita.
Dichiarata la mia preferenza, aggiungo che non credo si possa obiettivamente vedere in questa tragedia del conflitto una qualsivoglia simmetria e sinceramente, pur trovando legittimi i dubbi e lecite le domande, di solito le relative risposte sono semplicemente deliranti, se non agghiaccianti.
Anche ammettendo tutto quello che c’è da ammettere sulla politica di Israele in merito alla questione palestinese, nulla può essere posto a giustificazione o a causa scatenante di ciò di cui si è macchiato Hamas, e tutto quello che sta succedendo ora ne è solo la più tragica delle conseguenze.
Reazione spropositata da parte di Israele? Forse, anzi probabile. Come acutamente nota Pierluigi Battista, se volete documentarvi sulle colpe anche passate degli ebrei il posto migliore dove andare a cercare sono le biblioteche di Tel Aviv.
L’innocenza dell’Occidente, posto che sia mai esistita, venne definitivamente smarrita sotto i bombardamenti alleati delle città europee a guerra praticamente finita o quelli americani, addirittura anche nucleari, sulle città giapponesi. Il dibattito su questi avvenimenti è e sarà per sempre aperto, come è giusto che sia (mancandoci peraltro la conoscenza dell'alternativa). Ma nessuno storico dimentica mai, come invece pare facciano molti cronisti e commentatori delle attuali vicende, che tali azioni tanto terribili furono sempre e solo delle conseguenze discendenti da precedenti azioni ben precise. Azioni che non potevano e non dovevano essere tollerate: la guerra di aggressione, il razzismo, la tirannide, lo sterminio… Ebbene queste colpe oggi vengono attribuite agli israeliani, con piroette e forzature concettuali degne dei peggiori ministeri per la propaganda o del complottismo più paranoide (viceversa non è un mistero che alcune delle popolazioni che attorniano lo stato di Israele hanno nelle rispettive costituzioni o statuti delle parti riguardanti la sua distruzione).
Lo stato di diritto non è un fine, ma neanche un’entità già data: viene costruito e difeso giorno dopo giorno da coloro che lo vogliono e lo desiderano, e per questo è spesso fallibile e sempre migliorabile. Tuttavia la peggiore di queste comunità sarà sempre e comunque preferibile alla migliore delle teocrazie.
Al popolo palestinese non sono mai mancati simpatizzanti e fiancheggiatori in ogni parte del mondo, quindi i suoi rappresentanti politici non avevano certo bisogno di compiere la seconda strage di civili ebrei dopo l’olocausto, solo per “richiamare l’attenzione”, per di più contro un governo già pesantemente criticato dai propri cittadini.
Una volta un tizio gracilino con degli occhialetti tondi, sfidò l’allora più potente impero del mondo, riuscendo a coinvolgere una moltitudine di persone in una lotta non violenta che liberò un subcontinente (non una “striscia”) dal giogo coloniale. Un'altra volta un altro tizio, rinchiuso in prigione per una trentina d'anni per aver protestato e combattuto contro il regime razzista e segregazionista del proprio paese, scontata la pena riuscì a farsi eleggere presidente di quella nazione e la prima cosa che fece fu quella di dare vita a un governo di riconciliazione e pacificazione. Tra questo e uscire allegramente di casa in motocicletta, con mammina tutta trepidante che ti fa ciao-ciao dall'uscio, per andare in giro a decapitare e bruciare bambini ce ne sono di opzioni diverse percorribili, o no?
Cosa ne pensa ChatGPT
La tragedia del conflitto israelo-palestinese: tra cultura, violenza e riflessioni morali
Il conflitto israelo-palestinese, uno dei più complessi e dolorosi della storia contemporanea, continua a sollevare dibattiti intensi e passionali. Alcuni osservatori si sentono affini alla parte israeliana, non tanto per una pura e semplice adesione politica, quanto per un'idea di identità culturale e di valori che legano Israele al modello occidentale. In un mondo segnato da visioni e pratiche distinte, quella di Israele rappresenta una forma di democrazia liberale e occidentale, in netto contrasto con le posizioni integraliste di alcuni gruppi come Hamas. Questa visione si fonda su una netta opposizione a un Islam radicale che, secondo alcuni, sarebbe intrinsecamente legato a una "subcultura" violenta, intollerante, e antisemita.
Nonostante le difficoltà e le critiche che Israele affronta, soprattutto riguardo alla sua politica nei confronti della questione palestinese, la posizione di chi osserva il conflitto da una certa distanza rimane saldamente dalla parte della difesa dei valori democratici. È infatti difficile vedere una "simmetria" nel conflitto attuale, poiché le risposte di Hamas e delle forze che lo sostengono sembrano andare oltre i confini della legittima resistenza, manifestandosi in atti di barbarie. Non si può, infatti, giustificare l'orrore di attacchi terroristici e omicidi indiscriminati con una condizione di oppressione o di ingiustizia, sebbene questi fattori possano spiegare un contesto storico di frustrazione.
Le risposte israeliane e la riflessione sulla "reazione spropositata"
Nel tentativo di comprendere le dinamiche del conflitto, si riconosce anche la possibilità che la reazione di Israele possa sembrare spropositata. Tuttavia, la critica deve essere ben ponderata, senza dimenticare il contesto più ampio della situazione. Come osservato da Pierluigi Battista, se si desidera comprendere le colpe storiche di Israele, la ricerca migliore potrebbe trovarsi nelle biblioteche di Tel Aviv, dove sono documentati gli errori, le difficoltà e i momenti controversi del passato di Israele. Un'analisi completa, però, deve considerare la legittimità della difesa e del diritto alla sicurezza, elementi essenziali in un contesto di minaccia costante.
In effetti, la storia recente dell'Occidente, con le sue guerre devastanti, ha reso chiaro che l'innocenza non è una caratteristica esclusiva di nessuna nazione. Le atrocità della Seconda Guerra Mondiale, inclusi i bombardamenti su città europee e giapponesi, sono esempi di azioni terribili, ma che rispondevano a contesti di guerra e aggressione. Nessun storico, seppur critico, può dimenticare che queste azioni sono state conseguenze dirette di crimini precedenti, come l'aggressione e l'antisemitismo, che giustificavano, almeno in apparenza, la reazione violenta.
La politica di Israele e la narrativa del complottismo
Oggi, alcuni critici sostengono che gli israeliani siano responsabili di crimini comparabili, ma tale visione rischia di distorcere la realtà. Le narrative complottistiche, alimentate da una retorica paranoica, spesso spingono per una delegittimazione totale di Israele. Al contrario, va sottolineato che in molte nazioni circostanti, alcune delle costituzioni o degli statuti prevedono apertamente la distruzione dello Stato di Israele, un dato che non può essere ignorato nel dibattito. La sfida è quindi quella di difendere il diritto alla sicurezza di Israele, pur riconoscendo i suoi errori, senza però cadere nella trappola del relativismo che potrebbe far passare sotto silenzio l'esistenza di forze che minacciano la sopravvivenza stessa dello Stato ebraico.
Il valore della democrazia e delle alternative
La democrazia, pur non essendo perfetta e anzi spesso suscettibile di correzioni e miglioramenti, rappresenta una forma di governo che, pur con tutti i suoi limiti, è sempre preferibile a qualsiasi altra forma di governo autoritaria o teocratica. La storia ci ha insegnato che la tirannia, la discriminazione, e la violenza indiscriminata non sono mai la soluzione. Le alternative esistono e sono visibili in esempi di lotte non violente e di pacificazione. Figure come Mahatma Gandhi e Nelson Mandela sono testimoni di come sia possibile raggiungere la libertà e la giustizia senza ricorrere alla violenza.
Il paragone tra la lotta non violenta per l'indipendenza dell'India o per la fine dell'apartheid in Sud Africa e le atrocità perpetrate da gruppi come Hamas evidenzia una differenza fondamentale: la ricerca della libertà non può mai giustificare la brutalità e l'omicidio di civili innocenti. La violenza indiscriminata contro bambini e famiglie innocenti, da ovunque essa provenga, non può essere giustificata, neppure nel nome di una causa, per quanto comprensibile o legittima. È fondamentale distinguere tra la lotta per la giustizia e la barbarie: la resistenza pacifica, che si basa sul dialogo e sul rispetto dei diritti umani, rappresenta una via di speranza, mentre l'uso della brutalità, che colpisce chi non ha colpa, trascende ogni legittimità. È altrettanto importante riconoscere che, pur nella gravità della situazione a Gaza e nella legittima difesa di Israele, la risposta violenta e sproporzionata che coinvolge civili non può mai essere una soluzione giustificabile. La vera sfida per tutti coloro che credono nella dignità umana è trovare la forza di condannare ogni forma di violenza indiscriminata, indipendentemente dalla parte da cui proviene, e sostenere un percorso di pace che rispetti la vita di ogni individuo, sia israeliano che palestinese.
Conclusione: la difficile via della pace
In definitiva, il conflitto israelo-palestinese è un terreno minato, dove il rispetto per la vita umana e i diritti fondamentali devono sempre prevalere. Il dibattito sulla situazione in Medio Oriente non può limitarsi a un semplice schieramento tra buoni e cattivi, ma deve essere affrontato con una comprensione profonda delle dinamiche storiche, politiche e culturali che lo caratterizzano. Solo attraverso il dialogo, il rispetto reciproco e la volontà di costruire una pace duratura, sarà possibile sperare in un futuro migliore per tutte le popolazioni coinvolte.
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thesteamer · 11 months ago
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Meglio peggio
Dopo anni passati a stretto contatto con i burocrati di ogni livello, posso dire che offrono un migliore servizio al cittadino quelli piazzati su raccomandazione, piuttosto che gli onesti vincitori dei concorsi.
Essendo forse un'espressione più genuina del sistema, i primi hanno la tendenza a giungere più rapidamente al nocciolo delle questioni e sono anche meno inclini alle odiose pantomime "auto-celebrative/assolutorie”, che invece immancabilmente ci propinano i secondi: "Con il mio curriculum potrei fare qualsiasi cosa..."; "Qui sono sprecato...", "Se non ci fossi io, non farebbe niente nessuno..."; "Non dipende da me..."; "Se potessi ti darei una mano..." e via di questo passo e tutti rapiti ad annuire in religioso silenzio.
Che poi non sono altro che appunto delle manfrine lo dimostra il fatto che non ne ho visto mai nemmeno uno di questi fenomeni - o perché incompreso, o perché disgustato - uscirsene sbattendo la porta, magari per andare a cercarsi un lavoro serio.
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thesteamer · 11 months ago
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Via tutto
Uno dei più potenti strumenti con cui si fa il lavaggio del cervello nelle facoltà di architettura è quello del presunto annullamento della forza espressiva del linguaggio classico.
Esaurito l'impulso dell’ultima età dell’oro (il Rinascimento), il classicismo sarebbe pertanto progressivamente decaduto in un rigido e inespressivo gioco formale, battezzato con vari nomi tutti accomunati dall’avere un’invariabile accezione negativa: Manierismo, Barocco, Rococò, Eclettismo, Accademismo, oltre a tutti i vari "Neo"  e "Revival" che hanno accompagnato nel tempo l'arte ispirata alla classicità o agli altri stili storici.
Ciò costituirebbe l’antefatto della narrazione che vede come storicamente necessaria la nascita e l’affermazione dell’architettura moderna, quale sorta di liberazione dalla dipendenza da detti stili, nonché l’irreversibilità di tale processo in piena coerenza con la visione progressista e positivista della storia.
È l’estetica della “tabula rasa” e della “rifondazione”, in cui idee nuove (non importa se migliori o peggiori delle precedenti) devono necessariamente e ineluttabilmente emergere e sostituire, o meglio spazzare via, quelle già assodate e magari ancora perfettamente funzionanti, per il solo fatto che ogni nuova generazione avrebbe l’obbligo di esprimere la propria voce dissonante rispetto a ciò che l'ha preceduta.
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thesteamer · 1 year ago
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Inevitabile
Quando vedi una folla rivoltosa, devi aspettarti che di lì a poco succedano due cose: 1) arriva il porchettaro; 2) i leader della protesta ottengono un posto fisso (ovvero ciò a cui probabilmente puntavano fin dall’inizio).
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thesteamer · 1 year ago
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Troppo furbi
Nella visione liberale lo stato è come la banca del Monopoly: un mero “ente tecnico”, funzionale al gioco, ma che non dà nessun vantaggio al giocatore che la detiene.
Nello statalismo invece la banca del Monopoly partecipa alla competizione e ovviamente vince sempre.
Ma la cosa peggiore è che gli altri giocatori sono convinti che lo faccia nel loro interesse (“Il gioco sparirebbe!”) e per il loro bene (“I giocatori finirebbero per ammazzarsi l’un l’altro!”).
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thesteamer · 1 year ago
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Si vede male
Odio i fascisti.
Se sei prepotente sei un fascista, se sei tracotante sei un fascista, se sei ignorante sei un fascista, se sei insensibile, violento, intollerante, razzista sei un fascista.
Se sei tutte queste cose, ma dici che è per il bene comune, allora non sei un fascista.
I fascisti li odio, ma temo i comunisti.
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thesteamer · 1 year ago
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Se si ammette il principio, non c'è limite alla prassi
Se si accettano come ammissibili i principi prevaricatori dello statalismo, non ci sono limiti alle malefiche applicazioni che ne possono derivare.
Le eventuali discussioni di merito sulle seconde, non fanno altro che legittimare e in un certo senso avallare i primi.
Se per esempio mi lamento di una certa istituzione (ente, legge, regolamento), implicitamente ammetto la possibilità che la stessa istituzione sia migliorabile, magari con un po’ di buona volontà o che so, semplicemente scambiando il ruolo di certe persone.
Purtroppo non è così: se qualcosa nasce nell’alveo di un sistema, non può che crescere e prolificare secondo le “ragioni” di quel sistema, che nel caso dello statalismo sono la scarsa considerazione dell’individuo-cittadino in favore di un fantomatico “bene comune”, mera copertura per la conquista, il mantenimento e l’accrescimento del potere e dei privilegi da parte di una (peraltro e per giunta folta) minoranza.
Tasse, burocrazia, malagiustizia, sono solo effetti dello statalismo, donde perdersi in critiche circoscritte è inutile se non addirittura controproducente, perché se da un lato detto sistema non viene neanche minimante intaccato, trovando anzi nel “riformismo tecnico” una sponda per autoreplicarsi (vedi la cosiddetta “semplificazione”, che puntualmente complica), dall’altro si rischia di perdere di vista l'argomento principale: la difesa della libertà individuale, di cui lo statalismo costituisce la nemesi (e viceversa).
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thesteamer · 2 years ago
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“L’urbanistica è una stronzata”
Così lo storico dell’architettura fiorentino Carlo Cresti, apostrofò seppur bonariamente un celebrato urbanista suo amico e concittadino, che però si risentì parecchio.
Ebbene, se potesse vedere lo stato in cui versa la città contemporanea, quel luminare avrebbe dovuto ammettere che la "critica" dell’amico era stata più che giusta, visto che questo tipo di approccio progettuale noto appunto come urbanistica, è servito solo a generare burocrazia e bruttezza e che, per giunta, tutto ciò era ampiamente prevedibile in quanto insito nella natura stessa della materia.
In particolare l’impostazione pedantemente multidisciplinare dell'urbanistica, suo nucleo ontologico, ha di fatto prodotto fin da subito una sorta di “ipertrofia analitica”, che inevitabilmente ha reso impossibile una qualsiasi sintesi estetica e spianato invece la strada al potere burocratico (che nelle scartoffie cresce e prolifica). 
Insomma, mucchi di carta straccia pieni di dati, grafici e campiture colorate, che oltretutto richiedono decenni di lavoro e che per questo alla fine descrivono una realtà puntualmente superata dal tempo.
Ah, e ovviamente città brutte... Sempre più brutte.
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