Boh alla fine sta tutto sul mio sito yomer.itFaccio musica, scrivo storie, ho un podcast chiamato Diari dell’orso, sono eccessivamente attratto dai piccioni, in genere quando mi annoio dico stronzate e io mi annoio molto.
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Ho fatto da babysitter al figlio del vicino di casa e doveva andare a letto alle 21:00 e lui non voleva, si lamentava “Non voglio andare a letto!” ha urlato. “Tesoro mio,” gli ho detto, “un giorno la possibilità di andare a letto alle 21:00 senza un pensiero, un lavoro da finire, una casa da pulire, un messaggio da mandare, una bolletta da pagare, una visita medica da prenotare, sarà un miraggio, il ricordo di un’epoca in cui tutto era più semplice, non ti rendi conto di quello che stai dicendo, guarda me, io sogno di andare a letto alle 21:00 tutti i giorni, sai quanti chilometri di occhiaie in meno avrei se potessi andare a letto alle 21:00, magari senza svegliarmi per andare in bagno grazie alla vescica che collabora sempre meno e la schiena che non mi dà tregua, ascoltami, vai a dormire, fallo per me.” Ho spento la luce, gli ho augurato buonanotte, ha risposto “Notte e puoi dire al babbo che prossima volta preferisco stare da solo”. Che cucciolo.
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Inizia finalmente a fare meno male la schiena. Negli ultimi tempi ho esagerato con gli esercizi, volevo diventare più forte per poter tenere in braccio il nuovo nipote appena nato e il vecchio nipote e il mio gatto. Ci ho creduto davvero, di non soffrire di questa orribile condizione chiamata: sono oramai un vecchio di merda. Il nuovo arrivato è minuscolo, lo riesco a tenere su con un braccio solo, pesa di più il mio telefono. Emana calore peggio di una patata estratta dal forno senza guanti. Avevo paura di non emozionarmi questa volta, di aver esaurito tutta la commozione quando è nato il primo e infatti ero calmo non appena me l'hanno dato e piangeva. È successo dopo, quando mi sono steso sul divano e l'ho poggiato sulla mia pancia e l'ho visto addormentarsi quando mi sono messo a cantare una canzone in napoletano, che ho iniziato a piangere. Era giusto per fargli capire che, anche se è nato a Vienna, pure lui non potrà scappare dalla malinconia che noi tutti ci portiamo nel sangue. Ho pensato alle persone che non ce l'hanno fatta a conoscerlo, alla nonna che ok, il primo l'ha potuto toccare anche se lei era solo un involucro e la testa se ne era andata anni prima. Ho pensato al coraggio che ha mio fratello a voler mettere al mondo delle creature così minuscole. Sono terrorizzato da questo pianeta. Ieri in una scuola di una città nel sud dell'Austria c'è stata una sparatoria. Ovviamente ho subito pensato all'altro nipote, quello grande, a quando anche lui andrà a scuola. Sono il solito ipocrita che si preoccupa delle cose solamente quando lo colpiscono da vicino. Muoiono migliaia di bambini dall'altra parte del Mediterraneo e io soffro perché è accaduto qualcosa di molto forte incredibilmente poco distante. Così stamattina sono tornato a fare gli esercizi con più dedizione, perché devo mettere su altri muscoli altrimenti come li abbraccio tutti questi piccolini. Specialmente Ernesto, gatto ciccione e sempre arrabbiato, come cavolo lo posso portare via mentre scappiamo chissà dove alla ricerca di un futuro meno spaventoso se a me viene il fiatone.
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Non so se sono le oramai tre settimane senza bere un goccio d'alcol oppure dipenda da altri fattori, ma la mia pazienza ha raggiunto i minimi storici. La vita sociale, senza birra, è una noia mortale. Finisce che capisco davvero i discorsi che fa la gente e io argomento, dico la mia, porto avanti il dialogo cercando di inserire parole interessanti e invece mi ritrovo davanti esseri ubriachi o alterati o, peggio ancora, noiosi. Quindi me ne vado a casa, che è meglio. Non so perché ma sono sempre più stanco. Prima pensavo fosse l'alcol a farmi stancare e invece vai a scoprire che è proprio perché sono un vecchio di merda.
Torno a casa e da sobrio sopportare Ernesto è molto più difficile. Lui non parla ok, ma i suoi discorsi sono sempre gli stessi, sempre cibo e dammi più cibo e perché non mi dai ancora da mangiare. Sempre piangendo come se lo avessi maltrattato. Come fosse capitato in passato di lasciarlo a digiuno per un mese intero. Un po' lo capisco però. Sono l'unico legame che ha con il mondo esterno. Lui vive in 50 metri quadri scarsi e questo è tutto. Vede sempre e solo dalle stesse finestre lo stesso paesaggio che non è tra i migliori (c'è un palazzo di fronte a pochi metri di distanza). E poi regolarmente io lo lascio da solo. Ovvio che vada nel panico. Sarebbe come per noi essere confinati in uno spazio definito, costretti a rapportarci per sempre con una creatura gigantesca che entra e esce da questo spazio e che ha accesso, miracolosamente, inspiegabilmente, a infinite quantità di cibo. È come se questa creatura mastodontica fosse dotata di poteri assoluti. Può uscire ed entrare dalle porte. Può aprire il frigorifero e far apparire del formaggio. Quanto formaggio vuole. Sempre. Non sa che sono costretto a lavorare e ad andare a fare la spesa. Eh no, Ernesto si ferma alla natura miracolosa dei miei interventi e mi prega, costantemente. Quelli non sono miagolii, sono preghiere. "Ti prego enorme divinità bipede, dammi da mangiare", sarebbe bello dicesse così. Invece è consapevole di essere amato dalla sua divinità personale e non si pone la domanda basilare, ovvero "Merito io questo amore?". Certo che no, perché Ernesto è infame e non fa altro che chiedere e pretendere. Lui ha fame e tu sei il gigante al suo servizio e basta. Un po' come facciamo noi umani con Dio. Sempre a chiedergli qualcosa. Sempre a dire "fammi sto miracolo qua, fammi guarire qui" e lui però è uscito di casa un paio di millenni fa e mica si è più fatto sentire. Ha detto che passava a prendere le sigarette e poi tornava e noi siamo come otto miliardi di Ernesto ad aspettare e nel frattempo miagoliamo tutti insieme a vuoto.
Vedi che riesci a scrivere cazzate di questa caratura anche senza bere? Bravo Matteo bravo.
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Potessi tornare indietro nel tempo andrei dal me sedicenne pieno di rabbia e paure verso il futuro a dirgli che un giorno lontanissimo starà facendo la spesa in un supermercato in una città distantissima da casa, dove vive da solo da dodici anni, dove tutti parlano una lingua che non è la sua, la città ritenuta meno amichevole del pianeta e sarà ancora pieno di rabbia e paure verso il futuro e quasi niente delle cose che lo paralizzavano mentalmente sono andate via nemmeno con la terapia, nemmeno grazie a tutto l'amore ricevuto ma che, piano piano, dal nulla, nelle cuffiette inizieranno a suonare gli ABBA e lui si metterà a ballare nel reparto yogurt vegani e se ne sbatterà di tutto perché avrà imparato a lasciar andare le cose e il conto in banca sarà misero e a casa lo aspetterà solo un gatto ingrato e qualche pianta e poco più ma, mentre farà piroette su se stesso al ritmo di super trouper, tutto gli scivolerà di dosso, anche gli sguardi giudicanti degli altri clienti e si avvicinerà al banco frutta in offerta e un profumo violento di fragole fresche gli entrerà nel naso e tutte le emozioni trattenute in un periodo difficilissimo strariperanno dagli occhi in fiumi di mancanze ma lui continuerà a ballare e lasciar andare le cose e allora il me sedicenne dirà "Ma come gli ABBA, quindi abbiamo smesso di ascoltare solo metal?" e gli risponderò "Sì, abbiamo smesso di fare un sacco di cose che ci facevano male, tipo vivere nel passato" e allora lui dirà "Beh bene. Abbiamo almeno scopato un casino durante questi anni?" e io dolcemente dirò "Magari nella prossima vita".
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Lista di cose che spaventano la piccola Majbelline:
- i ciclisti
- i clacson
- le foglie mosse dal vento
- quando mi alzo di scatto per andare in cucina
- una busta di chips vuota per strada
- un qualunque tipo di sacchetto
- Ernesto quando mi rincorre per superarmi verso la cucina
- i piccioni
- i cani più piccoli di lei (difficilmente ne esistono)
- quando qualcuno si soffia il naso
- le donne delle pulizie degli hotel
- le gocce di pioggia più grandi del normale
- la pioggia
- il biliardo
- l’aspirapolvere
- l’asciugacapelli
- quando mi metto i calzini
- quando mi metto le scarpe
- quando le metto la pettorina
- quando apro la porta di casa
Lista di cose che spaventano il grande Ernesto:
- le carestie
- la remota possibilità di non ricevere cibo
- non poter mangiare ogni dodici minuti
- non trovarmi per chiedermi di dargli da mangiare
Lista di cose che spaventato il buffo Matteo:
- stare bene
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Ho dovuto aprire la finestra ieri sera, un po' perché volevo far entrare la bella stagione e un po' perché avevo bruciato la cena. Ogni volta che apro la finestra puntualmente cade una cimice in casa. Quella di ieri era di modeste dimensioni, sufficienti per attirare l'attenzione di Ernesto che è entrato subito in azione. Dopo un paio di annusate e colpi ben assestati però ha deciso che non era di sua competenza e l'ha lasciata a me. Sono andato a prendere il barattolo adibito a trasporto di insetti (perché in casa non li ammazziamo) (cioè Ernesto li ammazza ma io no) (tranne ieri, ecco, forse sto cambiando la natura selvaggia del mio gatto) (o forse ha solo capito che non era granché come snack) e l'ho rinchiusa dentro. Onde evitare di bruciare ulteriormente la cena però, invece di liberarla immediatamente, ho poggiato il barattolo sul davanzale davanti alla finestra e mi sono occupato d'altro. Ultimamente sto avendo difficoltà a parlare. A trovare le parole. A spiegarmi. Non so se è stanchezza mentale, non avere molto da dire oppure il costante cambiare lingua in cui esprimersi. Sento di avere fatto dei passi indietro con il tedesco. Vorrei avere la stessa confidenza che ho con l'inglese e invece niente. Mi fermo a metà strada nel bel mezzo di una frase. Faccio dei passi indietro e la riformulo. Mangio di proposito dei pezzi di parole per evitare di far capire che non so cosa sto dicendo. Sono stanco. Quando interagisco con i madrelingua austriaci mi domando chissà cosa penseranno di me e prima almeno, qualche tempo fa, mi dicevo vabbé che me ne importa in italiano spacco e quando parlo riesco a dire tutto quello che mi passa per la testa ma ora boh, ho come la sensazione che mi si sia accartocciato pure l'italiano. Non so da dove arrivi questa stanchezza ma credo sia frutto del bisogno di silenzio. La vita sociale prosciuga. Non ho più neanche il tempo per finire qualche videogioco. Così ieri mi sono messo a fare una cosa che non facevo da tanto: parlare ad alta voce in casa da solo. Ho fatto dei discorsi bellissimi, lunghi, filosofici. Poi tristi, malinconici, disperati. Ho affrontato la lista dei cambiamenti da effettuare che avevo stillato a gennaio e su dieci punti ben nove li ho attuati. Me ne manca uno: smettere di bere alcolici. Dopo un acceso dibattito con me medisimo siamo giunti a un accordo e abbiamo unanimamente deciso di smettere di acquistare alcolici. Esatto, non li comprerò più. Ma se me li offrono chi sono io per dire di no? Un po' paraculo devo sempre esserlo. Sono andato a letto dopo una serata in giro a bere solo bevande gassose, soddisfatto di questa decisione. Stamattina era un uomo nuovo, fresco, lucido. Ho pulito casa ascoltando gli ABBA e ballando e ho fatto gli esercizi davanti allo specchio indossando ancora i guanti in lattice rosa, ero davvero uno spettacolo per pochi (per la vicina guardona). Poi ho tagliato nuovamente la barba, lasciato i baffi e sono tornato a ridere del mio volto da ispettore di un film poliziottesco italiano anni 70. Vado a bere il secondo caffè davanti alla finestra quando mi rendo conto del barattolo con la cimice prigioniera dalla sera precedente e mi sono sentito uno schifo. Poverina. Per fortuna era ancora in vita e l'ho liberata ma penso a quello che ha dovuto sopportare. Non tanto la prigionia, ma tutti i discorsi che ho fatto. Che cazzo quello non se lo meritava, cioè è peggio di una tortura a Guantanamo. La convenzione di Ginevra dice esplicitamente in non ricordo quale paragrafo che "Nessun essere vivente dovrebbe essere soggetto al sentire le paranoie di Matteo perché trattasi di crimine violento". Una sofferenza che nessuno merita, forse solo chi arriva alla fine di questo post di sua volontà ecco.
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Una parte di me è molto felice dei progressi ottenuti, mi guardo allo specchio dopo gli esercizi che faccio ogni giorno e dico ecco cazzo, sta facendo effetto tutta questa fatica. Guardo le giornate scorrere con una velocità quasi eccessiva da quanto sono piene di impegni che porto a termine grazie al potere della caffeina. Alcuni traguardi vengono raggiunti, altri rimandati, ma resto stranamente calmo. Ho tagliato la barba e per la prima volta lasciato solo i baffi. Mio padre ha detto che sembro Wario, il nemico di Super Mario e ha ragione. Rido ogni volta che incrocio il mio nuovo volto su una superficie riflettente. Invecchiare con i baffi mi fa meno paura, se qualcuno chiedesse a una ai di generare l'immagine di un italiano standard e stereotipato ecco, creerebbe un mio ritratto perché sono proprio questo: uno stereotipo. Mia madre mi ha persino mandato una pastiera d'emergenza visto che non sono riuscito a tornare a casa per Pasqua. Comunque, tutte queste cose che accadono e mi distraggono, la primavera, poter uscire in maglietta a maniche corte, c'è la parte di me che sto tralasciando e che interpello solo quando sono dalla psicologa, quella che volentieri rinuncerebbe a tutto per starsene sul divano. A finire tutti i fantastici videogiochi che stanno uscendo, mangiare ogni tipo di prodotto industriale di scarsa fattura, guardare tutte le serie tv che non sto riuscendo a guardare tranne proprio un paio, fumare delle infinite canne e perché no, ritornare a prendere i funghetti, parlare di libri e film che si dovrebbe guardare perché il mondo fuori non esiste, esiste solo il divano, solo Ernesto che viene a reclamare il suo cibo e distrae dalle cose importanti, un corpo nudo che così dovrebbe restare perché ci sono certe regole sul divano, ovvero che i vestiti sono banditi, esistono le coperte se fa freddino, altrimenti niente. Ci fantastico mentre mi preparo alla prossima call, così non devo pensarci sul serio. Quella parte tornerà sicuramente, ha fatto troppi danni in passato per questo ora sta buona e aspetta. Una cosa ho imparato, devi cavalcare l'energia quando ne hai un poco a disposizione ed era da tanto che non avevo energia reale e forse sono gli esercizi o il ritorno del sole o perché no, magari sono i baffi. Ma c'è e la sto cavalcando e chissà dove andremo a finire, probabilmente contro un muro.
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Sai quando aspetti il bus e non arriva ma tu non fumi perché tieni alla tua salute e c’è solo un bambino alla fermata con te e allora vai e gli compri un pacchetto di sigarette e gliene accendi una e gli insegni a fare un tiro bello forte a pieni polmoni ed ecco che finalmente il bus spunta all’orizzonte e la deve spegnere subito.
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Poco fa ero in riva al mare a pochi metri dalla casa del nonno. Vicino ai bidoni dell'immondizia c'era una numerosa famiglia di gatti, alcuni piccolissimi, altri già segnati dalle lotte a cui mancavano pezzi di orecchie o interi occhi, tutti accomunati dalla passione per il sole e i rifiuti commestibili. Mi sono avvicinato nonostante il forte odore di pipì felina, perché erano belli da morire e non mi importava del rifiuto, volevo solo adorarli, studiarne le abitudini, fare tutto in silenzio. Il conflitto con il mio corpo e con l'invecchiamento lo sto affrontando in terapia. Ci sono parti del mio volto che non riconosco più, ma ci vedo mio padre. Non è un volto estraneo quindi, è solo un volto che sono stato abituato a vedere su di un'altra persona. Ho le sembianze di mio padre ma non sono padre e mi va bene così. Qualcuno mi ha detto "trust the process" e io non è che non mi fido, è che non so dove stia andando a parare 'sto processo. Prima diventerò mio padre e poi mio nonno temo, cosa non orribile dato che il nonno vive a pochi metri dal mare e potrebbe (se solo lo volesse) andare a osservare questa famigliola di gatti tutti i giorni. Si è sbloccato non so cosa nel mio modo di percepire l'altro sesso e i giovani in generale. Sono in giro, spesso nei locali, a lavorare o a bere, e vedo persone molto attraenti. Vedo ragazze bellissime che fino a qualche anno fa mi avrebbero fatto venire voglia di avvicinarmi, attaccare bottone e anche se non si concludeva era lo stesso, almeno avevo scambiato due parole. Ora mi sembra di vedere tantissimi bambini che hanno scoperto i trucchi della mamma e si riempiono il volto di fondotinta, il rossetto sbavato, eyeliner colante, indossano scarpe di qualche taglia più grande e ci provano un sacco a sembrare adulti e anche se so che sanno parlare, mi fa strano perché non sarebbe la mia stessa lingua. Finalmente questo momento è arrivato. Mi vedo per quello che sono, per l'età che ho, e il bisogno di attirare è passato. Cioè, non del tutto, vorrei funzionasse ancora ma solo per i gatti randagi. Vorrei essere il signore dei gatti che quando scende in spiaggia viene assalito da amore e fusa e forte odore di pipì felina. Forse dovrei andare in giro con scatolette di cibo, ecco. O dormirci dentro. O offrirmi io come sacrificio e farmi divorare dai randagi e diventare ossa in spiaggia, nascoste sotto la sabbia, insieme agli avanzi dei falò e alle conchiglie.
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sono diventato quel vecchio rompicoglioni che ascolta le compilation dei giovani rap contemporanei e gli corregge i congiuntivi.
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Phil mi raggiunge alla fermata del bus. Ci eravamo salutati poco prima e non pensavo ci saremmo rivisti ma ha ricevuto una telefonata inaspettata dalla compagna. "Nicholas vuole le fragole". Dove le trova un padre di famiglia delle fragole fresche di notte? Anche se viviamo in una grande capitale Europea non è una missione facile ma ora siamo insieme e la sua missione diventa la mia missione. Entriamo in tutte le birrerie. Nei pub. Nei ristoranti. Nei locali da cocktail. Roviniamo la serata alle coppiette. "Avete delle fragole? Sono per suo figlio!" dico sentendomi parte della sua famiglia. Che la paternità sia davvero questo? Accontentare richieste assurde e tornare a casa a mani vuote, probabilmente dovendo implorare perdono inventando scuse? Non so come sarebbe la mia vita se ricevessi chiamate da Ernesto che mi dice di avere oglie particolari. Però Ernesto è un gatto, che voglie potrà mai avere: più crocchette, più pesce e distruggere l'umanità. Queste le voglie principali di ogni felino. Phil ha smesso di bere sette anni fa e da allora lo vedi solo con svariati cappuccini in mano. Anche di notte. Io lo seguo e lui è carico di caffeina. I suoi occhi sono palline di un flipper alla ricerca del frutto impossibile. Troviamo una pasticceria aperta, non so come mai, non so perché ma hanno avanzato un pezzo di torta alle fragole ricoperto di gelatina. Phil lo compra e poi ci mettiamo in un parco poco distante e lo vedo scavare con le mani per liberare le fragole dalla gelatina, riporle accuratamente in un tovagliolo, pulirle e prepararle per Nicholas. Io suo figlio l'ho conosciuto, non mi sembra un essere così pericoloso, un mostro che se non viene accontentato si trasforma e uccide l'umanità (peggio dei felini). Credo che sia qualcosa che ha a che fare con il passato di Phil, qualcosa che deve farsi perdonare per gli anni di alcolismo. O forse vuole solo rendere felice il piccolo. L'ho sempre visto come un tipo strano a Phil ma da stanotte lo vedo come un padre. Un padre strano certamente, ma pur sempre un padre.
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Spesso cammino per strada guardando verso l’alto e osservando i palazzi e il loro evolversi. Quando un palazzo che mi piace finisce ricoperto da impalcature, per rimetterlo apposto o ristrutturarlo, lo vedo un po’ come del tempo che decide di dedicarsi al prendersi cura di sé. Una spa. Un ritiro spirituale. Mi piace tornare e guardare il proseguire dei lavori (sto invecchiando precipitosamente).
Per quanto ancora il mio caro amico palazzo si farà sistemare? È un po’ simile a me che torno in terapia forse. O forse è l’equivalente del volare in Turchia per farsi ridisporre i capelli nelle zone mancanti (quando dico che sto invecchiando è anche dovuto al fatto che una volta nelle pubblicità mi suggerivano hot single girls around me invece adesso promuovono viaggi a poco per salvare il salvabile).
Passano i mesi e poi le impalcature vengono rimosse. Il palazzo torna a essere se stesso, libero, una nuova versione di sé così simile alla vecchia. Magari una versione migliorata, che ha superato determinati traumi, che ha dato una rinfrescata al colore e una ringiovanita alla copertura isolante.
Però io, misero umano alto molto meno di un suo piano, guardo e non è che ci vedo chissà che cosa. Ok, mi pare che le tue mura ora siano un pelo più pulite, qualche pomello è stato lucidato e la facciata dimostra un paio di anni in meno. Ma davvero, tutto sto casino, tutti sti mesi di lavori e impalcature per questo risultato?
Ho paura di pensare lo stesso di me tra un po’, quando la dieta e la terapia e lo sport e il prendersi cura di sé dovranno aver dato i loro frutti e invece niente, ma io lo dico sempre che se non rovino le cose non sono felice.
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Ogni tanto capita che delle storie mi rimangano incastrate in testa finché non trovo il tempo per scriverle. Sto provando a cambiare il mio approccio alla scrittura. Più diretta. Meno costruita. Essenziale. La forma del diario, quella che ho utilizzato per anni, mi inizia a stare stretta o forse non ho voglia di trovare la morale in ogni periodo storico della mia esistenza dove sto da cani. Specialmente ora che pago lautamente qualcuno per ascoltarmi. Ero in enoteca, non ricordo come ci ero finito, ricordo solo che il locale pullulava di vecchi austriaci, anziani che si ritrovano con il comune interesse della sbronza. Le enoteche a Vienna sono diverse da quelle in Italia perché c'è molto silenzio. I commensali parlano ma non alzano mai la voce, c'è quasi una innaturale calma che l'alcol dovrebbe compromettere ma non lo fa. Si apre la porta ed entra una anziana coppia. Lui è vestito bene, un distinto signore e lei è sulla sedia a rotelle e ha lo stesso sorriso che aveva mia nonna prima di diventare un guscio di essere umano, quando la malattia era appena all'inizio. I suoi occhi brillavano di gioia mentre veniva spinta nel locale. Lui sposta una sedia con le gambe da un tavolo per avvicinare la sedia a rotelle, controlla che i piedi abbiano abbastanza spazio, la aiuta a togliere la giacca, poi le si siede davanti e le afferra la mano. Lei non ha mai smesso di sorridere, si guardava attorno e tutto era nuovo, una sorpresa. I capelli argento erano soffici e la pelle chiara a tal punto da notare le vene sottostanti. Ho incominciato a sovrapporre i ricordi. In questa anziana ho visto mia nonna e mi sono messo a piangere. Lui ordina da bere, due bicchieri di vino bianco. Quando vengono poggiati sul tavolo la aiuta a sollevare il suo per fare un brindisi, poi continua nel farle vedere come si avvicina il bicchiere alla bocca. Lei riesce a fare un piccolo sorso, manda giù e torna a sorridere. Lui le prende di nuovo la mano e non dice niente. La guarda negli occhi, quegli occhi pieni di vita e cancellati di ricordi di cosa hanno vissuto assieme. Gli stessi occhi che aveva mia nonna quando è diventata bambina. Che strano pensare a questo, che certe volte abbiamo la fortuna di vedere i nostri anziani tornare a essere bambini. Chissà se coincidono le esistenze e davvero erano così. Mi sono dovuto nascondere perché non facevo altro che piangere e disturbavo il silenzio del locale. Questa scena, ho pensato, quanto sarebbe stato bello veder fare così anche a mio nonno, che non ama uscire di casa e che ha sempre detto che sul terrazzo ha tutto quello di cui ha bisogno. Sapere che in quel periodo doloroso la portava in giro e le faceva rivivere banali esperienze, per lei sempre nuove. Un aperitivo con Alzheimer come ospite a sorpresa. Non so cosa mi abbia trattenuto dall'andare ad abbracciarla e stringerla forte. Avessi bevuto un paio di bicchieri in più sicuramente l'avrei fatto. Scrivo per non dimenticare perché ho il terrore di perdere pezzi della mia memoria e di non sapere più chi sono le persone che sogno, cosa vogliono dire i disegni che ho sulla mia pelle, i testi delle canzoni, le poesie. Anche se, forse, rivivere tutto da capo perché qualcosa sta facendo tabula rasa, tornare a dare il primo bacio ogni giorno a qualcuno che mi ama alla follia e mi porta fuori a fare aperitivo mentre sono comodamente seduto nel mio pannolone a rotelle, non è così spaventoso. Fa solo male, male a pensarci.
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Sul bus di ritorno verso casa sento voci di italiani provenire dal fondo, sono una coppia, è principalmente lei quella attiva nella comunicazione e sta elencando tutti i posti che le piacerebbe visitare, dice Barcellona, dice Parigi, dice il Giappone. Non mi piace incontrare italiani da quando vivo a Vienna ma talvolta capita di beccare qualcosa, un dialetto, una cadenza, che cattura la mia attenzione e mi fa sentire a mio agio. Scendiamo dal bus insieme e sono costretto a seguirli perché vanno nella mia stessa direzione. A questo punto mi interessa, voglio sentire. Lei è stanca del silenzio di lui, della mancanza di partecipazione e sbotta: “Eh vedi, tu non dici mai niente, fai solo parlare a me!”. Lui sospira, emette un lamento e un “Ma che devo dire…” con un filo di voce. Lei riparte alla carica piena di energia: “Boh, dici qualcosa, dimmi cosa ti piacerebbe vedere!” e in quel momento qualcosa si impossessa di lui, un lampo vitale, si volta e urla: “A FESS’ E SORETA!!!”. Io scoppio a ridere, accelero e gli stringo la mano, mi complimento, mai in dodici anni di vita a Vienna mi sarei aspettato di sentire il napoletano sotto casa ed è per questo che noi italiani siamo il popolo migliore del pianeta e ci meritiamo di conquistare ogni quartiere e non accetto opinioni diverse.
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Di recente ho fatto delle analisi del sangue, giusto per controllare che il disfacimento totale prosegua alla giusta velocità, senza accelerazioni. Le mie analisi del sangue mi ricordano molto quel film di Al Gore di inizio anni 2000, quando parlava della catastrofe che avrebbe stravolto il pianeta ma noi l’abbiamo guardato pensando fosse fantascienza e più di vent’anni dopo viene da dire “Ah cazzo, ma si poteva fare qualcosa allora!”. Da un certo punto di vista sì ma non guardate me, io in generale non ho voglia di fare un cazzo, figuriamoci salvare un pianeta. Di simile le mie analisi hanno la parte finale. Aspetto il giorno in cui le guarderò ed esclamerò sorpreso “Ah cazzo, ma si poteva fare qualcosa allora!” e invece sarà troppo tardi e tirerò i remi in barca e via verso l’inevitabile. Quello che è emerso dalle analisi è che ho il colesterolo alto. Io. A parte che oramai controllo tutto quello che ingerisco (falso, mi do arie da uno che controlla tutto e basta) e questo ha portato alla luce un grande problema: non ho idea di cosa sia il colesterolo. Cioè ma devo davvero mettermi a imparare un’altra roba che mi potrebbe fare del male? Con che voglia? Armato di questi risultati sono andato a parlare con gli amici. Quando ho una novità in genere ne parlo con un po’ di persone, giusto per capire se anche gli altri sono vittime del mio stesso atroce destino. Così entro nell’osteria del mio amico che ogni anno metto nella mia lista totomorti (lui lo sa e condivide, date le sue abitudine ludiche e alimentari, droga e alcol, si domanda spesso come sia possibile arrivare al panettone ogni anno) ed esclamo in una sala gremita di conoscenze decennali “Mi devo dare un contegno! Ho fatto le analisi del sangue e ho il colesterolo alto!”. Nessuno mi ha cagato più di tanto, solo un paio di persone si sono prima confrontate e poi mi hanno chiesto all’unisono: “Scusa, ma perché tu fai le analisi del sangue?”. Non c’era malizia in questa domanda. Si tratta di personalità da bar, che diluiscono ogni giornata in litri di vino, che se c’è un problema non lo affrontano, lo ignorano, sperando vada via o che li uccida senza fare troppo rumore. Un po’ come abbiamo fatto con il film di Al Gore. Me lo sono domandato sul serio. Ma perché faccio le analisi del sangue? A che proposito? Per eliminare ancora qualcosa? Per togliermi un altro svago durante la giornata? Così ho iniziato a guardarmi attorno e ho notato chi si lascia andare. Ho notato i loro nasi rossi e le mani gonfie e i ventri esplosi. Ho notato e non mi hanno fatto né caldo né freddo. E se per una volta, anche io mi lasciassi andare? Cioè che male può fare. Vivere ogni giorno ubriaco. Abbandonare le cintura e osservare i pantaloni stare su da soli. Eviterei di guardare nello specchio. Forse dormirei la notte. Eviterei di andare dalla psicologa. Eviterei di preoccuparmi del futuro perché tanto sarebbe già segnato. Metterei il mio stesso nome sulla lista del totomorti sotto a quello del mio migliore amico e via. Invece non lo faccio perché sono un cazzo di codardo e voglio allungare un po’ l’esistenza senza alcun motivo. Forse per dare lavoro alle signore che fanno le analisi del sangue. Quella dannata sottospecie di infermiera mi ha devastato il braccio l’ultima volta. Tolgo lo zucchero. Il pane e la pasta. I dolci e i carboidrati e il sesso e i baci. Tolgo tutto per ripartire da zero e spero che le mie prossime analisi siano così limpide da far esclamare al dottore che posso tornare a godermi la vita e offre lui droga e alcol.
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Voglio scrivere una storia d’amore ambientata nel mondo del calcio. C’è questo arbitro che è molto bravo nel suo mestiere. Cerca sempre di essere il più corretto possibile ed è inflessibile e le sue decisioni vengono rispettate. Si è costruito una fama durante gli anni per il suo sguardo attento e la capacità di comprendere ogni situazione in pochissimi istanti. Durante una partita succede che un promettente giovane attaccante di una squadra in lizza per il primo posto subisca un fallo molto grave, però questa volta l’arbitro non è convinto subito. Non è riuscito a guardare con precisione cosa è accaduto, era distratto, dalla bellezza del giovane attaccante. Gli si avvicina e gli chiede se si sia fatto male. Il giovane si contorce per terra e i suoi occhi sembrano sinceri, è prossimo alle lacrime. L’arbitro dice “Non stai fingendo, vero?”. Il giovane dice di no. “Mi sono fatto male sul serio. Forse si è rotto qualcosa”. L’arbitro decide di credere a quegli occhi così espressivi. La sua mano si ferma sul polso del giovane, lo stringe. Gli sussurra “Voglio crederti” e concede un calcio di rigore importantissimo alla sua squadra. Tra le urla di dissenso dello stadio il giovane attaccante viene portato fuori in barella. La partita si conclude con la vittoria della sua squadra proprio grazie a quel calcio di rigore. L’arbitro rimane ossessionato da quello sguardo, da quel frangente in cui i due si sono sfiorati, dalla voce sincera del giovane talento. Decide di fare qualcosa di non professionale, ma deve capire se anche il giovane ha sentito la stessa scintilla. Deve averla sentita, si ripete. Si apposta in macchina sotto casa del talento e aspetta. Passano ore, l’arbitro si spazientisce, ma poi lo vede arrivare. Sono passati pochi giorni dalla partita, chissà cosa gli è stato diagnosticato, forse una rottura o una lacerazione di un tendine. Invece il giovane arriva camminando senza nessun problema, anzi, saltella dalla felicità. L’arbitro si sente tradito, esce dalla macchina urlando “Tu mi hai mentito! Volevi solo un rigore!!!” il giovane non capisce, si sente messo alle strette, non sa come difendersi e decide di fare l’unica cosa sensata in quel momento. Afferra la testa dell’arbitro e lo bacia. L’arbitro si calma, smette di parlare. Il giovane non lo molla, il bacio è sincero tanto quanto i suoi occhi. “È vero, non mi sono fatto male come pensavo, ma quello che provo per te, potrebbe farci molto più male…” l’arbitro non sa cosa dire. Allora anche lui non è riuscito a smettere di pensare a quel momento! Ma può credergli? Potrà mai davvero fidarsi di un calciatore, o questo amore è maledetto e sarà sempre condizionato dal dubbio? Si pone tutte queste domande. L’istinto cerca di metterlo in guardia per prevenire ogni errore, ma il suo corpo vuole solo lasciarsi andare e fidarsi. Guarda il giovane talento e dice “Andiamo via da qui, non ci possono vedere insieme”. Poi insomma non so quello che sarà ma mi piacerebbe parlare degli spogliatoi e farne un film dove si capisce quanto ogni sport sarebbe più interessante se la gente la smettesse di competere e ci si desse più bacini.
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Zona Zero Zucchero
Aver tolto lo zucchero non mi ha reso una persona migliore. Avevo grandi aspettative. Davvero ero convinto che in brevissimo tempo la mia vita sarebbe stata rivoluzionata. Invece ho solo fermato una dipendenza, la più accesa diciamo. Ora però ho adottato un atteggiamento giudicante verso gli altri, un po’ come avevo fatto quando avevo smesso di mangiare carne. Mi sento migliore. Dall’alto di cosa poi non mi è chiaro, odio le competizioni eppure mi ritrovo a dare consigli su come potenziare la propria esistenza cambiando la colazione.
Sono un campione di incoerenza capace di saltare al comando quando compie un piccolo passo in avanti. Ieri ho cercato di convincere mio padre a cambiare le sue abitudini dopo settant’anni di vita sul pianeta, dicendo che tutto quel pane e quella marmellata gli fanno male e che oramai è diventato così soffice e morbido da assomigliare a me, che si è lasciato andare.
Io non dovrei dispensare consigli. Dovrei fare le mie cose e non venire interpellato. Però quando scopro qualcosa di nuovo ho bisogno di condividerlo e se vedo in mio padre la mia stessa pancetta mi sento in dovere di pensare che sia problematica anche per lui senza capire che lui può fare quello che vuole e mangiare quanta marmellata gli pare.
A me stanno sul cazzo i sanissimi. Quelli che fanno sport. Quelli che fanno le gare. Quelli con le scarpetta da arrampicata. Quelli che hanno i vestiti tecnici e li indossano in ogni occasione per farti vedere che loro fanno sport, che i loro muscoli sono attivi. Che puzzano di sudore o di deodorante che copre il sudore. Quelli con il telefono intasato da foto davanti allo specchio in palestra. Con slogan ovunque nei loro profili e nei loro video. Viene demonizzata la comfort zone. È il male e bisogna uscirne perché la vita inizia non appena abbandoni i tuoi comfort. Odio queste persone e odio anche me per aver tolto lo zucchero e aver provato a migliorare. O forse cambiare.
Che c’è di male nel tergiversare e onorare sempre le medesime abitudini? Mio padre può fare colazione oggi uguale a come quando era un bambino e stessa cosa io. Non fosse che, un po’, ogni tanto, magari, si può variare. Si può non mangiare biscotti mulino bianco. Si può non spalmare una crema cioccolatosa. Si può (e qui lo dico sentendomi male) (ho già dei conati) mangiare un’insalata. Ok l’ho detto.
Io non voglio vivere per sempre. Nemmeno più a lungo. Io so che in famiglia moriamo giovani lamentandoci tantissimo. È così, siamo stelle filanti e urlanti che bruciano diffondendo quanto tutto ci faccia schifo. Ogni giorno diventa un’agonia. Ogni cambio governo. Ogni stagione. Ogni moda. Ma se c’è una cosa che odio sono le dipendenze. Odio ammettere di avere qualcosa a cui non riesco a rinunciare. Sia il sesso, lo zucchero, le carte Pokémon, l’alcol, le persone, gli affetti, i biscotti, la sicurezza in sé che deriva dal numero di like ricevuti online. Odio sapere di dipendere da queste cose. Per questo forse allontano la dolcezza, per non sentirmi debole. Perduto. Ed è un conflitto costante.
Non sono diventato una persona migliore da quando ho tolto lo zucchero. Ho solo più energia che sto destinando nel ripulire tutto quello che si era calcificato in altre zone, soprattutto nella testa. Odio dipendere dal cellulare. Odio dipendere però ho capito una cosa. Non devo togliere tutte queste dipendenze per sentirmi migliore, ma per tornare ad accettare la mia vulnerabilità. Le mie imperfezioni. Concedermi di fare schifo e sbagliare. Perdonarmi, perché non posso essere sempre geniale e produttivo e quando mi perdonerò sarà come farmi un regalo. Come andare al bar e bere un caffè senza metterci lo zucchero (cioè capito che sfigato mi vanto di ste cose) e poi guardare la vetrina dei dolci e non vietarmelo, sceglierne uno piccino e quello sarà un premio. Ma dovrà essere meritato.
Ecco, credo di voler tornare a sentirmi di meritare le cose. Solo quelle belle però, perché tanto quelle brutte so di meritarmele sempre. Quante cose brutte mi merito ancora, quante ho cercato di espiarle senza riuscirci. Però è più facile accettare le cose brutte. Inarchi le spalle ed esclami “Eh sì, in effetti me lo merito”. Le cose belle invece si fa una fatica assurda. Sembrano quasi una candid camera con qualcuno pronto a burlarsi di te dietro l’angolo.
Che bello, quanto materiale per le mie prossime sessioni dalla psicologa! Sono sicuro che non si annoierà neanche un secondo.
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