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Portare fuori il cane mi ha sempre dato sollievo. Faceva bene al mio umore e mi distraeva da pensieri distruttivi e controproducenti. Una bella passeggiata in giro per le campagne: più mi allontanavo dal centro abitato, più mettevo distanza tra me e le mie abitudini tossiche.
La vera passeggiata di salute. Respiravo a pieni polmoni, osservavo la lotta delle nuvole in stop motion e nel frattempo mi meravigliavo dell'avvicendarsi delle stagioni, notando ogni singolo cambiamento nella natura e sentendomi un po' Darwin alle Galapagos.
Tutto perfetto, finché ognuna di queste cose ha iniziato ad incanalarsi su una via strana creando un ingorgo emozionale e finendo con l'intasare un metaforico imbuto fatto di monotonia e abitudini metodiche, quasi rituali: ogni giorno, la stessa ora, la stessa strada, le stesse persone che fingi di non vedere, ma che ti fermano per appiopparti la lamentela del giorno.
Ecco, tutto questo ha inquinato le mie passeggiate, rendendomi insopportabile il momento quotidiano in cui il mio santo cane si avvicina con garbo per attirare la mia attenzione, affinché l'accompagni a farsi una sacrosanta pisciata mattutina. Ma stringo i denti e mi tuffo immancabilmente in questo Truman Show suburbano in stile provincia Milano sud, per accontentare la mia adorata bestiola e allo stesso tempo saggiare quanto amaro sia amare. E vivere al contempo.
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L'altro giorno al mercato ho comprato una borsa nera usata. Me la sono quasi litigata con una tizia che me l'ha notata in mano, dopo aver rivoltato controvoglia una gigantesca zolla di altre borse colorate, che mandava un forte odore di solai polverosi e stanze vuote.
Voleva una borsa nera, questo è il fatto. Ce n'erano altre di quel colore nel mucchio e gliele ho mostrate, ma lei le ha scartate una per una: non ne voleva una qualunque, voleva quella che tenevo in mano e che avevo scovato, come un tesoro sepolto sotto la sabbia in mezzo a tutte le altre borse.
"La volevo come quella", dice sconsolata indicando quella, che ormai cominciavo a considerare come roba mia, "con la tracolla".
"Ma questa ha i manici, non la tracolla", le faccio notare. Lei non si convince e replica: "Sì, ma è nera". Anche se non ha alcun senso, dal momento che, come ho detto, c'era una valanga di borse dello stesso colore sul banco, il suo disappunto mi faceva sentire colpevole. Colpevole di aver già sfilato una banconota da cinque euro e di brandirla come una spada, pronta ad allungarla all'ambulante. Lui però non c'era. Avrei voluto passargli i miei cinque euro e andarmene, per scappare da quegli occhi delusi che mi seguivano da lontano, ma lui non lo vedevo. Fremo. Arriva saltellando. "Mi scusi" aggiunge al suo ballonzolare. Ricambio e gli mostro mentendo che non ha importanza, anche se lo aspetto già col braccio teso a reggere la banconota. La prende e gli dico che ho già un sacchetto mio di stoffa. Lui mi passa la borsa nera, che a questo punto sembra un delicato reperto archeologico, reduce da duemila anni trascorsi al buio di uno scantinato profondo. Scappo e mi sento una brutta persona, perché so che quella borsa la voleva anche lei, la tizia, che si volta e si allontana delusa e forse un po' triste.
Non saprei spiegarne il motivo, ma percorro i pochi metri fino a casa mia a passo svelto, quasi l'avessi rubata quella dannata borsa nera.
Una volta a casa mi sento finalmente al sicuro e, senza perdere un secondo, mi metto ad ispezionarla e lavarla.
Meno di un'ora dopo la borsa è davanti alla finestra ad asciugare, scaldata da un timido sole.
Poi sono sul divano e guardo una serie. Il sole oramai ha infilzato le nuvole e la ha tagliuzzate in minuscoli brandelli di ombre passeggere. La mia borsa è sempre lì. Ora che la luce la illumina e ne proietta un'ombra informe sulle piastrelle, la vedo meglio di prima e mi piace un sacco: è bella, capiente, vintage. Ed è blu.
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Un tempo immobile
Strisciava lungo il piccolo corridoio buio
Battevo le mani lungo le pareti
Facendo risuonare il perlinato finto legno
Nella stanza in fondo sonnecchiava sbuffando nuvole di polvere
Il letto di ottone su cui infilava la sua fede nuziale tutte le sere
Una piccola stanza affollata
Persiane blu sempre abbassate
Veniva dal bagno coperto di piastrelline verdi
Una nuvola balsamica al profumo di pino Silvestre. La cucina scassata col tavolo dalle gambe sottili di ferro al centro e un grande lavatoio in marmo grigio, dove ci facevamo il bagno da piccoli, dopo aver chiuso gli scuri di legno bianco dell' unica finestrella.
Sul mobile di fronte una zuccheriera d'argento annerita, che sembrava la lampada di Aladino e un enorme pentolone di stagno sui fornelli che attendeva di ingollarsi una ad una le pannocchie a cui avevamo strappato le foglie e la barba fulva.
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Roger waters. Era lui. Mi ha appena tagliato la strada a bordo di una berlina nera che sembrava appena uscita da un auto lavaggio. Era proprio lui. Sul sedile del passeggero c'era una donna di poco più giovane. Le ho visto il viso, mentre lui lo strattonava con la sua frenata da autista di formula uno.
Tutti e due mi hanno lanciato un'occhiataccia, ma io ho tenuto botta: non ho abbassato gli occhi come faccio di solito, no. Ho sostenuto il loro sguardo severo. In fondo, era lui che stava correndo su una strada secondaria in prossimità di un attraversamento pedonale. Ho dovuto scansarmi e tirare il guinzaglio alla mia cagnolina, cosa che faccio parecchio di rado, perché lei sa come comportarsi in giro.
Di recente ho perso alcune cose: un paio di amiche, la voglia di fare, la mia motivazione. Ho preso anche mio padre, ma quello credevo di essermelo lasciato alle spalle. Le cose sono sempre più complicate di così.
Roger waters. Ancora lui. Oggi sembra essere dappertutto. Stavolta sta su una bicicletta e gira sulla pista ciclabile. Appena torno a casa mi ascolto qualcosa dei Pink Floyd. Loro mi ricordano lui. La copertina di Ummagumma sul CD nuovo di pacca. Salutavamo insieme con stupore quella meraviglia tecnologica al costo di un suono di qualità nettamente inferiore rispetto a quei vecchi e bellissimi vinili che i miei conservavano sotto al giradischi. Ma noi ancora non lo sapevamo questo.
La mia motivazione, sì. Ma almeno sto scrivendo e non è così scontato.
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