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bianciardi · 5 years
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Sotto il segno dello scorpione 
Le strade di Concord sembrano rincorrersi tutte uguali, battute da auto di grossa cilindrata, braccia sinistre che sporgono dal finestrino mentre la stazione radio locale, la KWUN AM 1480, trasmette vecchi classici blues. Concord pullula di palme, parchi – il più famoso intitolato al padre di Take Five, Dave Brubeck, originario della cittadina – e grandi parcheggi. Ogni anno si tiene un festival jazz che raduna famiglie e appassionati delle città vicine; la gente si riversa nella Todos Santos Plaza, culla di negozi, cinema, e fontane pastello che sembrano uscite da Disneyland. Il 13 novembre 1977, in un ospedale molto grande e molto bianco («I was born in a hospital that was very big and white», da Lion Killer) di questa cittadina della California più assolata, nasce Cass McCombs, profondi occhi blu, segno zodiacale scorpione. Custode di una morbida ruvidezza, è intorno ai quattordici anni che il californiano inizia a suonare la chitarra e a scrivere canzoni, per scherzo, per riempire le giornate un po’ vuote di una vita nomade sempre in giro per l’America. Brani senza una struttura vera e propria che si ispirano ai protagonisti dei cartoni animati, una raccolta di storie, di vite e facce che per lui, accanito collezionista di oggetti – siano stampe, figurine del baseball, tappi di bottiglia – a mano a mano si trasformeranno in canzoni e atti di onestà verso se stesso. A ventitré anni parte per la costa orientale iniziando a esibirsi nelle serate open-mic vicino a New York e Baltimora. Il gitano Cass viaggia ovunque, dorme in macchina, alloggia a casa di amici, evita i beni materiali traendo così ispirazione per i primi testi musicali, stravaganti e talvolta criptici, che riescono comunque a spingere il pubblico ad un ascolto attento. In questi anni di vagabondaggio e scoperte musicali, il cantautore salta da un impiego all’altro: lavora come bidello, venditore di soda, camionista, proiezionista nei cinema, in una scuderia, in un negozio di specialità gastronomiche, e infine come libraio, prima di lasciarsi tentare seriamente dal mondo della musica. Dalle svariate esperienze lavorative, impara ad ascoltare le storie di persone di diversa estrazione sociale, e ne fa la sua istruzione, saltando l’idea di andare all’università. Quello che più affascina di Cass McCombs è la moderazione che ha dimostrato nella composizione, un equilibrio potente che regala alle canzoni un’intensità perfettamente circolare dall’inizio alla fine dell’ascolto. L’ascoltatore rimane spesso sorpreso dalla piega che prendono i suoi brani, poiché dietro quell’apparente semplicità, si ritrovano accordi sottili e intelligenti, dal fare avanguardista e bislacco. Profondamente diffidente verso il mondo della pubblicità e del business, avverso alla fama, McCombs è l’antidivo che non ama parlare di sé né della propria musica: vorrebbe non rilasciare più interviste da quando un giornalista di MTV ha citato erroneamente alcuni suoi pensieri sulla politica americana. Sebbene abbia poi ceduto lasciandosi intervistare altre volte, spesso via mail, viene anche da domandarsi se ci sia realmente bisogno di parlare quando si dice così tanto con una chitarra. Se McCombs non ama parlare degli artisti che lo hanno influenzato, è comunque possibile notare una forte presenza del folk americano, unito all’art-pop e a un gusto da crooner sfaticato, nelle sue produzioni Invece di soddisfare lo stereotipo del cantautore confessionale, il ragazzo di Concord descrive le vite e i sentimenti di coloro che lo circondano, più con amore che con giudizio, senza mai suggerire all’ascoltatore cosa pensare dei suoi personaggi. La sua musica è generosa, e le melodie sempre infettive – come la puntura di uno scorpione – in una produzione dove la musicalità è sempre in primo piano. McCombs parla con le persone, gli sconosciuti incontrati al bar, interessato sinceramente a sapere cosa pensino. È un figlio degli anni Settanta, la sua generazione è cresciuta ascoltando le storie del Killer dello Zodiaco, della setta di Charles Manson, delle Pantere Nere, degli effetti dell’LSD, delle rivolte di People’s Park: tutto ciò diventa la base per la sua immaginazione e per quel suo cantautorato narrativo, che dagli esordi non rinnega mai se stesso attraverso l’uso artistico della gente comune. Le storie di McCombs si rivolgono a tutti, amici e sconosciuti, parlano la loro lingua, sono ricche di dettagli e colori in cui ognuno può o meno riconoscere qualcun’altro. Se McCombs non ama parlare degli artisti che lo hanno influenzato, è comunque possibile notare una forte presenza del folk americano, unito all’art-pop e a un gusto da crooner sfaticato, nelle sue produzioni. E quel modo di portare la voce un po’ à la John Lennon, un po’ à la Morrissey, fino alle geometrie spezzate dei Velvet Underground, passando per il west coast jazz di Charlie Hunter. Nel 2017, a trentotto anni e con otto dischi pubblicati, Cass McCombs ha ormai consolidato l’idea di essere davvero «uno dei cantautori più importanti della nostra generazione», come ha detto Chris Taylor dei Grizzly Bear. 
Un uomo onesto, un uomo probo 
Le sue coinvolgenti ballad su vite tormentate e occhi oppressi, uniscono guizzi rock a magie sadcore al limite della disperazione, dando così vita a un fragile e atmosferico folk-pop. La lettera scarlatta del suo primo album A uscito per Monitor nel 2003, firma un debutto artisticamente maturo che con le sue undici ballate, a cavallo fra folk tradizionale e pop, svela tutto il carisma di uno sconosciuto ventiseienne. McCombs è alle prese con una blanda fama, una piccola schiera di devoti fan che lo segue a ogni concerto. Ma i piedi scalciano e la voglia di cambiare orizzonte torna prepotente. Per il musicista è la volta di volare in Inghilterra a cercare nuova ispirazione: nel 2005 pubblica per 4AD il nevrotico e barocco PREfection, una frenesia di chitarre, rumorismi, e propulsioni orchestrali che sfiorano il campo dell’hard-rock. La sua voce scivola con grazia e umorismo leggero nell’energia ruvida e selvaggia di un disco registrato in meno di una settimana. Il fischio noise con cui si conclude l’album apre, due anni dopo, il più cantautorale Dropping The Writ, album in cui il Nostro sembra volersi spogliare delle sperimentazioni precedenti in favore di un approccio nudo alla forma canzone. Con il successivo Catacombs del 2009 per McCombs sembra profilarsi una svolta pop, foriera di maggiori attenzioni da parte di critica e pubblico, cosa che quasi sembra infastidire il ragazzo di Concord. In mezzo all’elegia di Harmonia, il valzer di You saved my life e il fraseggio blues della splendida Dreams-come-true-girl in coppia con Karen Black, i ritmi si dilatano in un malinconico sguardo che scava nel subconscio. Il pianoforte è lo strumento dominante nel chamber-pop di Wit’s End uscito nel 2011 e in cui si nota un ritorno allo stile di A: il cantautore ha trascorso l’ultimo decennio vagando tra la California e New York in cerca di ispirazione per la sua lenta ruminazione malinconia: «Empty houses and family plots/So why is my stomach all in knots?», si chiede nella struggente Saturday Song. Ai limiti dello slowcore, i brani del disco si confrontano con il dolore e la perdita, ricchi di nuovi strumenti come il clavicembalo della funerea Buried Alive, il clarinetto e la firsarmonica dei sette minuti di Memory’s Stain o ancora il banjo e l’organo sconnesso di A Knock Upon The Door. A pochi mesi di distanza, McCombs sorprende tutti pubblicando un nuovo album, l’eclettico Humor Risk, grazie al quale il cantautore sviscera un rock quasi lo-fi, violento e trascinante. Due anni dopo è la volta di un tentacolare doppio album, Big Wheel and Others, in cui ritroviamo la voce dell’attrice Karen Black e contributi di musicisti come Mike Gordon, Joe Russo e Joan as Police Woman, per un disco che scava nelle viscere dell’America esplorando una vasta gamma di suoni e stili. Le sue canzoni di strada sposano il rock col canto popolare, il blues con il country e la poesia; con questo disco McCombs evoca narrazioni introspettive attraverso un velo di mistero e romanticismo. Prolifico e geniale, la sua musica ha assunto le sembianze più diverse – dal country al pop alla psichedelia – mantenendo alla base una disperata onestà d’intenti Alla fine del 2015 Domino Records pubblica un’antologia di rarità e B-sides di McCombs chiamata A Folk Set Apart. Un pastiche che oscilla fra pop e smooth jazz, e racconta le vertigini di un’America disordinata e complessa, nelle diciannove tracce raccolte in ben undici anni. Istantanee di un artista in continuo movimento che, come scrive il nostro Stefano Solventi nella recensione del disco, «mette in mostra la gioielleria meno appariscente, anche quella più spigolosa e stramba». Con il suo ottavo lavoro, uscito ad agosto 2016, McCombs balza agli onori della critica musicale che riconosce nel suo Mangy Love il famoso disco della maturità, nonché la quintessenza del cantautorato alt-folk del californiano più sottovalutato di sempre. Il giovane uomo ha affinato la sua poesia un po’ rude e sporca nel corso dei tredici anni che lo separano da A, continuando a combinarla con umorismo, immagini surreali e melodie alt-folk. Vuole esporre la bruttezza del genere umano, il suo Mangy Love, e come molti grandi album è allo stesso tempo in grado di lenire le ferite e disturbare i cuori. McCombs non è solo l’artista folk che racconta le storie della sua terra natale con un linguaggio moderno e sarcastico, ma è anche uno dei nomi meno facilmente inquadrabili emersi nell’ultimo decennio nella scena cantautorale americana: prolifico e geniale, la sua musica ha assunto le sembianze più diverse – dal country al pop alla psichedelia – mantenendo alla base una disperata onestà d’intenti. In un’intervista del 2016 rilasciata al magazine Flaunt, il cantautore ha rivelato: «Molte delle mie canzoni sono create per avere una specifica reazione magica. Se funziona, si perfora un buco nella realtà. È un universo alternativo attraverso il quale puoi sbirciare»· Oltre al modo in cui scivola con grazia furiosa sopra le corde della chitarra, ciò che rende così speciale McCombs è quel suo modo schietto di esporre la magia della vita come bolla dolorosa, sgradevole e sorprendente al tempo stesso, pur restando sempre attaccato alla filosofia della strada, alla voglia di salire in macchina e andare lontano, con la sensazione conturbante di go on and cry.
Articolo pubblicato su Sentireascoltare (https://sentireascoltare.com/artisti/cass-mccombs/)
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bianciardi · 5 years
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Terra terra, anzi luna luna.
Cerchiamo di immaginare come sarebbe stato un telegiornale della fine del secolo decimoquinto. Dunque, Fornovo: le truppe del generale Gonzaga restano padrone del terreno e Carlo VIII, re di Francia, è costretto a riparare oltralpe. Firenze: larga e commossa partecipazione di popolo ai funerali del granduca Lorenzo de’ Medici, definito dalla stampa “ago della politica italiana”. Molti i messaggi di cordoglio da tutte le capitali europee. Roma: esposta al pubblico La Pietà, gruppo marmoreo dello scultore fiorentino Buonarroti. Lisbona: il nostro corrispondente ci informa che il capitano di mare Cristobal Colon, di nazionalità spagnola, dopo tre mesi di navigazione, avrebbe raggiunto le coste orientali del continente asiatico. Verrebbe in tal modo smentita la geografia ufficiale, secondo la quale l’oceano sarebbe troppo vasto per poterlo traversare coi i mezzi nautici oggi disponibili. Il comandante Colon sarebbe di lontana origine genovese. Nella capitale ligure abbiamo appunto intervistato i signori Colombo, che tuttavia non rammentano di alcun ascendente emigrato in Spagna.
Nessuno, cinquecento anni or sono, avrebbe capito a volo che l’importante notizia era quella data per ultima, e a titolo di pura curiosità. Allo stesso modo, la settimana scorsa, non molti avranno inteso la crisi del terzo governo Moro, la sfilata della moda fiorentina, e addirittura la ripresa dei bombardamenti nel Vietnam diventano quisquilie, se paragonate all’arrivo delle prime fotografie del suolo lunare. Certo, la notizia a suscitato curiosità, ed entusiasmi del tipo tecnico sportivo, ma non di più. Ormai non è lontano il giorno dello sbarco di un uomo sul satellite: entro il 1970. Alla fine del secolo esisteranno già colonie terrestri, lassù, e anzi sarà già nata una generazione che avrà visto la terra, sì, ma al massimo col telescopio.
Se dall’America ci sono venute tante belle cose, tra cui il tabacco, il pomodoro, la patata e la bomba atomica, che cosa ci verrà dalla Luna? La rivoluzione non sarà solamente politica, ma anche filosofica, teologica e linguistica. Già se ne avvertono gli effetti, si parla di “allunaggio”, morbido e duro, dolce e amarognolo.
La sonda sovietica è allunata, poi alluneranno gli uomini in tuta spaziale, fonderanno le loro colonie, in grado di vivere, mangiare, bere, dormire, riprodursi. Favoriti dalla minore attrazione lunare, e dalla mancanza di atmosfera, i fidanzati voleranno tenendosi per mano, al lume della terra.
Le sere d’estate le famigliole prenderanno il fresco sui lunazzi delle loro dimore. Ci saranno fabbriche, negozi, uffici, mezzi di trasporto, confusione, malattie mentali, e perciò anche ospedali e case di cura per terratici. Ci saranno periodi di espansione economica, tutti pretenderanno sempre di più (“ma cosa volete, la Terra?”) e quindi di periodi di ristagno, di recessione e addirittura di crisi.  A questi lumi di Terra, brontoleranno i seleniti. Siamo a luna, economicamente parlando, e ci saranno gli scioperi, dei metallurgici, dei ferrovieri e dei lunazzieri. Che fai tu Terra in ciel, dimmi che fai silenziosa Terra, canterà il poeta. E non si conteranno le canzoni ispirate al lontano pianeta. Terra marinara, Terra rossa, Ho appuntamento sulla Terra, Verde Terra, Earth-Light and the showdown, e così via discorrendo.
Ma sono, come si vede, discorsi approssimativi e abbastanza ovvii. Forse torneremo un’altra volta, sugli aspetti più seri e più gravi del problema. Per oggi contentiamoci di quattro chiacchiere, così alla buona. Quattro chiacchiere, diciamo pure, terra terra. Anzi, luna luna.
Questo articolo di Luciano Bianciardi uscì su ABC, Telebianciardi del 20 febbraio 1966, presente nella raccolta “Il convitato di vetro“, ExCogita edizioni.
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bianciardi · 5 years
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Se nemmeno lo conoscevi
‘’Ma cosa ti importa, perché dispiacerti così tanto, e poi per cosa. Ma se nemmeno lo conoscevi, dai...’’ è un po’ il mantra che mi perseguita da quando la notizia della morte di Lorenzo Orsetti ha raggiunto la mia bacheca facebook. Un’indifferenza arrogante e cattiva che oltre a impaurirmi mi stupisce perché proviene da giovanissimi uomini e giovanissime donne, il futuro direbbero gli anziani, un futuro nerissimo. Da quel giorno, da quel 18 marzo, mossa da una curiosità colpevole di ignoranza, ho iniziato a chiedere, a fare domande, a interrogare gli altri; mi sono interessata alla Siria del Nord, dove Lorenzo era andato a combattere le mostruosità dell’ISIS, alla causa curda, al fenomeno dei nostri ‘’foreign fighters’’ che stanchi di subire continui attacchi di morte al cuore dell’essere liberi (ed europeei), fanno pochi discorsi, prendono uno zaino e partono. Sì, per combatterlo quell’ISIS, in guerra.
Tentare di comprendere la questione siriana, oggi, appare più difficile di quanto si pensi e la responsabilità maggiore di questo vulnus è della mala informazione (che talvolta si trasforma in disinformazione) fatta da tv e giornali. Una narrazione in cui si confondono i confini geografici, le sigle, le date, i nomi. Se non vi fossero sottese maestose ragioni politiche ed economiche, verrebbe ingenuamente da pensare che oggi, i giornalisti si trovano al posto sbagliato, svogliati e disattenti come studenti all’ultima ora del sabato mattina. O, con più lucidità, che si fanno complici di un’ipocrisia che vorrebbe render neutro il parametro con si analizza il nemico.
Lorenzo ‘’Orso’’, la Siria, una guerra lontana: è vero, non lo conoscevo. E allora, mi chiedo, abbiamo il diritto di empatizzare con le scelte altrui solo quando chi le compie è un nostro amico, un nostro parente? Mi sono chiesta più volte perché mai un ragazzo di trentatré anni, cuoco e sommelier, dovrebbe allontanarsi da casa, dagli affetti, per combattere l’ISIS quando gli stessi politici dei nostri giorni, si limitano a condannare la brutalità dello Stato Islamico riuscendo a malapena a combatterlo a parole. Perché, Lorenzo? Perché, Têkoşher, stavi in Siria da un anno e mezzo, arruolato nell’Ypg, l’Unità di Protezione del Popolo? Forse perché la lotta per la libertà non ha confini né latitudini? Perché forse per difendere la società dai suoi pericoli occorre provare un'identificazione che sappia svilupparsi anche nei confronti di chi non conosciamo, di chi è lontano km e km da noi? Mi faccio tutte questo domande e concludo, senza una risposta vera e propria, che siamo diventati una generazione di mostri. Pur non avendo visto la guerra.
Partiamo dai nostro difetti, dal nostro imbarbarimento, dal nostro umanesimo destrutturato: viviamo un'epoca in cui l'individualismo e la soggettività hanno una prevalenza culturale che ha portato allo sgretolamento dei valori di comunità, collaborazione. Arrendersi al presente è il modo peggiore per costruire il futuro. Soprattutto se distruggiamo la particella segreta delle comunità: quel co. Cooperare, confrontarsi, conoscersi, condividere, coprogettare. Imparare a collaborare è la chiave per uscire dal buio. Noi ci siamo dimenticati come si fa. Dovremo guardare ai campi profughi di tutto il mondo, a quelli vicini ad Afrin, dove manca l’acqua pulita e elettricità, dove le malattie si diffondono facilmente e l’ospedale è solo uno in cui i dottori scarseggiano. Per poter sopravvivere qui si collabora, si resiste assieme.
Le comunità più resilienti sono quelle che “ce la fanno” perché nei momenti di crisi si rimodellano ai cambiamenti. La disillusione in cui molto sono caduti, le risposte facili al disagio economico e sociale, lo spaesamento generale ha permesso ad alcuni poteri di far leva sulle fragilità delle persone manipolando ad hoc l'informazione, semplificando, omettendo.
Chi non semplifica, approfondisce, cerca, legge, non si ferma al primo livello di conoscenza. Chi non delega ad altri le proprie scelte, chi non ce la fa più, a sopportare, a subire. La misura già satura di insofferenza è diventata ingestibile, la necessità di un gesto, di una scelta sembrano l’unica strada percorribile. Immagino che Lorenzo Orsetti abbia vissuto sulla propria pelle questa sensazione di insofferenza, di incompatibilità con luoghi e tempi; e abbia deciso che l'unico modo per cambiare le cose fosse partire, scegliere di stare dalla loro parte, di farlo con loro. Le ragioni della rivoluzione socialista del Rojava, la zona del nord della Siria a maggioranza curda, avevano convinto Lorenzo per gli ideali che la ispiravano: una società più giusta più equa, una società per le donne e con le donne, un mondo in cui la cooperazione sociale, l’ecologia sociale e la democrazia potessero essere le basi da cui partire e non gli obiettivi da raggiungere.
Ma Lorenzo Orsetti è tornato a Firenze in una bara avvolta dalla bandiera dell’YPG. Un partigiano trentatreenne, un partigiano del 2019. Il valore della scelta di Lorenzo oltre al dovere della memoria, porta con sè l'amara consapevolezza che determinate storie non arriveranno mai alla massa, non riempiranno mai i quotidiani nazionali, non diventeranno mai titoli dei tg. A meno che.
A meno che la rivoluzione non parta da noi, dall'oralità, un'arma potente quanto un kalashnikov, affilata quanto un pugnale. L'obbligo morale di non far mai calare l'attenzione dovrà formare una catena di testimoni, pronti ad alzarsi di fronte al gruppo, più o meno numeroso, e iniziare a raccontare una storia. La storia di Lorenzo, la storia dei combattenti italiani in Siria che rischiano la misura della sorveglianza speciale, le storie delle donne curde che combattono un sistema patriarcale nelle file dell’YPJ, le parole di chi è tornato sulle proprie gambe, anche se l'animo lacerato non troverà facilmente posto nell'anatomia dei sopravvissuti. Non smettere mai di dare voce a una rivoluzione che è qui e ora, che ci riguarda da vicino. 
Quanta paura può fare un morto? Quanto timore – quale imbarazzo – scaturisce dalle domande sulla morte di Lorenzo? Perché il corpo di Lorenzo ha impiegato così tanto a tornare in Italia? Perché la salma, una volta arrivata all'aeroporto di Fiumicino, è stata fatta uscire da un passaggio diverso rispetto a quello comunicato agli amici che volevano accoglierla? Perché la notizia del rientro del suo corpo a Firenze non passa da alcun tg se non quello regionale? Un pubblico momento di ricordo, il prossimo 24 giugno, si terrà di fronte al piazzale del cimitero delle Porte Sante, dove sarà poi sepolto, una scelta approvata dalla famiglia di Lorenzo suggerita dal Sindaco Nardella. Quello è il cimitero dei partigiani fiorentini, dei giusti. Anche di Lorenzo, d'ora in poi, dopo tutto il limbo che ha dovuto attraversare, anche da morto.
Un limbo dantesco infatti è quello che è toccato a cinque ragazzi italiani che rischiano la sorveglianza speciale, una misura che affonda le radici nel mussoliniano Codice Rocco, e che non ha bisogno di reati, accuse o processi: come Lorenzo, Paolo, Eddi, Jak, Davide e Jacopo sono andati in Siria a combattere, a fianco dei curdi, l'ISIS. Una volta tornati in Italia si sono visti notificare la richiesta di sorveglianza speciale. Perché loro sanno usare le armi, perché sono andati a guerra, dalla parte giusta – ma questo evidentemente non interessa alla Procura. Impostata senza accuse e senza processo, la sorveglianza speciale sottopone a una dura restrizione la libertà individuale dei cinque ex-combattenti sulla base di quella che la Digos ritiene «pericolosità sociale». Se si riflette un attimo sui milioni di uomini che hanno partecipato al servizio di leva obbligatoria o a quelli che ancora fanno parte dei corpi militari, per finire con i detentori di porto d'armi – penso a mio padre, cacciatore di tordi e colombacci da generazioni – dobbiamo seriamente preoccuparci della quantità di soggetti socialmente pericolosi che ci girano attorno.
Quella della sorveglianza speciale è una misura restrittiva di epoca fascista, introdotta dal Codice Rocco e poi rivista nel tempo (l’ultimo «aggiornamento» risale al 2011), che avalla un’inquietante deriva: la limitazione della libertà, da un minimo di un anno a un massimo di cinque, senza un reato, senza un’accusa, senza un processo. In prigione fuori dalla prigione.
In concreto si ha: ritiro di patente e passaporto, divieto di iscrizione ad ogni albo professionale, divieto di incontrare più di tre persone per volta, divieto di uscire dopo le 19 fino alle 7 del mattino seguente,divieto di incontrare persone con condanne (valgono anche occupazioni, picchetti, blocchi stradali…) e infine alcuni obblighi, come quello di presentarsi alle autorità di sorveglianza nei giorni stabiliti e ogni qualvolta venga richiesto.
Tutto ciò, oltre a minare pesantemente l'equilibrio privato e personale di giovani donne e uomini, andrebbe a bloccare la grande opera d'informazione che i cinque stanno facendo in giro per lo stivale con incontri nelle facoltà, nella associazioni culturali, nelle librerie. Tutto ciò strizza l'occhio a una valutazione politica che sa di bipolarismo visto che l’Italia considera l’ISIS un gruppo terroristico che porta morte anche in Europa ma colpisce chi è andato a combatterlo, chi ha rischiato la vita.
Entro il 24 giugno, data dell'ultimo saluto al compagno Lorenzo, si avrà una risposta: qualora la richiesta venisse accolta, sarà necessario attivare una mobilitazione nazionale per tutelare tanto la libertà personale di questi partigiani della Mesopotamia che studiavamo alle medie, quanto la reputazione delle forze siriane democratiche. Meno di un mese fa, in una piccola libreria di provincia, in un venerdì qualsiasi, ho sentito dire, dalla voce ferma e calma di Davide Grasso che per lui la cosa più grave sarebbe proprio mancare di rispetto ai caduti, ai combattenti, ai civili che sono ancora là e cercano di portare avanti questa Resistenza. L’altruismo, la quieta fermezza di chi è andato oltre le parole, mi ha portato, a scrivere una mail a un noto programma tv che solitamente informa, denuncia, racconta in modo obiettivo, insomma quando vuole fa giornalismo senza paura. La mia richiesta riguardava la mancanza di informazione sulla situazione degli ex-combattenti, che poteva peraltro tramutarsi in occasione perfetta per una narrazione sulla Siria, da parte di chi è andato là. Ho chiesto di raccontare una storia che rischia di scomparire, e con essa, un bel pezzo della nostra democrazia. Nessuna risposta, nessun servizio. Una delusione. Anche perché il 24 giugno è dietro l’angolo e la copertura mediatica degli eventi arriverà tardi, se arriverà. 
Resistere a tutto questo silenzio, trasformarlo in suono: ritrovare la cultura dell’oralità, trasformando noi stessi in rapsodi della memoria, un ingranaggio collettivo, che gira se ciascuno continua a farlo girare. L'unica scelta in grado di offrire la possibilità di immaginare che le cose, la società che c’è intorno a noi - il futuro - cambi a partire dalle nostre scelte, dal nostro scegliersi la parte. Come aveva fatto Lorenzo. 
Cosa è accaduto in questo paese perché possa essersi ridotto allo sfacelo che è sotto gli occhi di tutti? Perché ci si è lasciati andare ai sentimenti più infimi inserendo una retromarcia degna del masochismo più efferato? Perché tutto d'un tratto la solidarietà, l'umanesimo, il sentimento di giustizia, addirittura la cristiana carità sembrano valori di un'altro pianeta che sembrano non contare più nulla?
Niente è per caso e quello che oggi avviene nel proscenio della vita sociale e politica è il risultato diretto degli ultimi trenta anni di storia. Un paese che dopo la caduta del muro di Berlino doveva riposizionarsi nello scacchiere geopolitico del mondo, che doveva liberarsi di Cosa Nostra quale agente politico negli equilibri criminali e con cui ha intrattenuto allegri rapporti di scambi di potere. Un paese che non disdegna di mettere a repentaglio la sua storia, il suo patrimonio culturale in nome del "chi arriva primo vince".
Siamo diventati un paese che odia le persone serie e quelle buone, perché sono noiose e ci inducono a pensare e a ragionare. Un paese che ama il potere, anche quando lo esercitano le persone sbagliate, perché rappresenta il nostro desiderio di contare qualcosa, di esercitare una superiorità cafona.
Un paese che ama il capitalismo più sfrenato perché nel suo cuore anche la plebe ha la chance di diventare borghesia, e la borghesia di diventare lussuosa nobiltà, a sua volta cafona.
Ci siamo fatti togliere gli strumenti della critica e dell'analisi. E non siamo più in grado di discernere i cattivi di prima da quelli di oggi, pigri oppositori figli di una social democrazia deviata e affascinati dalle poltrone di comando. Rimestando una debole difesa dei valori costituzionali, lasciano che i privilegi della politica rimangano un caposaldo delle loro intenzioni ultime.
Mi fermo un attimo, osservo tutte queste macerie truccate e imparruccate a festa e penso a Lorenzo, alla sua partenza convinta, piena di fiducia e gioia, verso una speranza chiamata Rojava, verso un lembo di terra che sperimenta il confederalismo democratico in modo brillante, forse utopistico per qualcuno. E capisco la sua scelta, ammirandone la concretezza. Penso anche che se Lorenzo fosse tornato vivo in Italia, oggi sarebbe il sesto in attesa di conoscere il verdetto sulla propria pericolosità sociale. Ci siamo riempiti di parole, frasi fatte, slogan, senza pesarne più il significato. Lorenzo, tutti i combattenti, ci riportano lì, al peso delle parole, che sottendono una scelta, un'idea che si fa tempesta.
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“Orso non muore se le sue idee continueranno a vivere nei nostri corpi”. Con il dovere di provare - non è facile, e noi siamo così deboli, così piccoli - a dare un senso alla scelta di chi ha testimoniato che le conquiste sono sempre possibili per chi crede nella loro urgenza, di chi era a pronto a morire «con il sorriso sulle labbra», come scrive Lorenzo nella sua lettera di addio, per trasmettersi di goccia in goccia. E trasformarsi in tempesta.
Con eterna gratitudine.
- Ma perché, tu lo conoscevi Orso? - No purtroppo no…ma lo capisco.
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bianciardi · 5 years
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Chissà perché a sedici anni ci si convince che si può fare la rivoluzione in lustrini, pailettes, abiti in pizzo, in plastica e in seta sul palco dell'Hammersmith Odeon o nei club più stronzi d'Inghilterra. Una rivoluziona capitanata da un giovane con una riccia zazzera elettrica, le guance cosparse di lustrini, una giacca che pareva di metallo. Sembrava un guerriero venuto dallo spazio. Colui che innescò la miccia nella bomba glam.
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bianciardi · 5 years
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Un santino.
Lucio Fontano, i fratelli Pomodoro, Luciano Bianciardi e Giangiacomo Feltrinelli.
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bianciardi · 5 years
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Due giorni fa, su La7, ho avuto il piacere di trovare La vita agra di Lizzani in orario normale. Erano le 14 di una domenica cocente, che vedeva in molti comuni italiani un balletto drammatico di croci e piegature chiamato ballottaggio.
Piroette e pas de bourrée fra candidati sindaci che si sono risolte in vittorie non vittorie definite da qualche centinaio di voti in più. Città spaccate in due, in cui si scongiura l’avanzata leghista per un pugno di voti, e dove un centro-sinistra ormai stantio e poltronaro si salva per quella che appare sempre più essere l’ultima volta. L’ultima fiducia concessa, l’ultima occasione di cambiare qualcosa, in primis se stessi. Ha vinto un male piccolo, chiamiamolo minore, di fronte alla forza bruta e abominevole di un partito che celebra la propria vittoria - storica, va detto - in una città come Ferrara, coprendo lo striscione dedicato a Giulio Regeni con la bandiera della Lega. Nella città di Federico Aldrovandi tuona il sintomo di chi, mai cresciuto, si comporta come un bimbo che gioca alla guerra, distruggendo il più possibile gli avamposti degli altri, i nemici, gli oppositori, e nel farlo, finge di non accorgersi di tutta l’erba viva che calpesta, dei fiori, delle piante. Giulio Regeni è quell’erba, che resiste e rinasce sotto le impronte degli scarponi leghisti, sotto bandiere non richieste, quantomeno non in quel preciso luogo, non in quel preciso momento.
Da un eccesso ingiustificabile a uno incomprensibile. Stavolta nella città di Modigliani, quella Livorno che dopo un lustro pentastellato torna nelle mani del centro-sinistra a trazione PD, quella bella Livorno cantata da Rondelli che nell’impeto post vittoria vede i suoi cittadini - una buona parte visto che il candidato sindaco ha vinto con il 63,32% - intonare Bella ciao come se fosse la cosa più normale del mondo. E in effetti lo è, o dovrebbe esserlo. Perché Salvetti, giornalista e telereporter, non si lascia trascinare dal coro. Lo shock della vittoria, la stanchezza, diranno i suoi. Rilascia le primissime interviste, i lunghi abbracci con i colleghi (chiamarli compagni potrebbe suonare strano), ma le labbra del neo sindaco non seguono il canto partigiano mentre quel gruppetto di rumoristi resistenti continua a credere che quello sia il modo giusto di festeggiare, di rivendicare una parte. 
Strana, bipolare l’Italia del ballottaggi. C’è chi esagera in guerra e chi nemmeno si immagina di farlo in amore. Un far west nebbioso, senza buoni e cattivi, ma dove tutti, anche quelli migliori, appaiono brutti. E tristi, e fuori luogo. Uomini dalla vita agra. Anzi no, insapore. Che è pure peggio.
(Lo scatto ritrae Bianciardi e Tognazzi sul set del film di Lizzani. Era il 1963.)
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bianciardi · 5 years
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Questo corto, questa vita, questa isola. Un necroforo e un sommozzatore a Lampedusa: un balletto fra la vita e la morte, l'innocenza e la sua perdita.
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bianciardi · 5 years
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Alla frontiera
Lo scorso 20 maggio Alessandro Leogrande avrebbe compiuto 42 anni. Mai come in questo momento sarebbero necessarie le analisi di questo scrittore, giornalista, studioso dei fenomeni dello sfruttamento, delle migrazioni, del razzismo. L’Italia che ancora crede nella Costituzione dovrebbe ricordarlo in modo adeguato. Parecchi temi su cui aveva lavorato - le rotte dei migranti, le schiavitù contemporanee, i muri, le nuove forme di cittadinanza - restano sempre drammaticamente centrali. Ma non c'è più la sua voce - mai strepitante, la più rigorosa, la meno approssimativa, la meno semplificatoria. E adesso che sui "suoi" temi urla anche chi dovrebbe evitarlo, chi dovrebbe fare lo sforzo di non semplificare, di non irridere, di non ghignare, di non aggiungere confusione a confusione, tenere viva la voce di Leogrande, e renderla udibile, non è facile, no, ma diviene sempre più necessario. Il progetto che aveva in mente voleva mettere in discussione le descrizioni e le narrazioni prevalenti sull'immigrazione. Un tentativo di dare parole nuove all’informazione e alla politica, per innescare una discussione diversa. 
Nel 2015 Leogrande pubblicò La frontiera, un libro pieno di un dolore vivo, che può far germogliare. Un testo che dovrebbe entrare nelle scuole, radicarsi nella memoria recente dei più giovani. Quella frontiera che si fa una costruzione culturale, un colpo di tosse nella storia dell’umanità; è qualcosa di complesso, che uccide com'è innegabile e persistente nella storia atroce di ogni giorno.
Una storia vicina a noi, anche geograficamente: tra l'inferno africano e il paradiso europeo c'è la scogliera di Ponte San Ludovico, a Ventimiglia. Una sorta di limbo dove per quattro giorni vennero bloccati oltre 200 migranti in attesa di attraversare la frontiera con la Francia e proseguire il loro viaggio della speranza verso il Nord Europa. “Frontiere? Non ne ho mai viste, ma ho sentito che esistono nella mente di alcune persone” diceva Thor Heyerdahl, esploratore norvegese di casa da queste parti. Ma lui evidentemente non conosceva il limbo di San Ludovico e i cavilli di Schengen.
La terra che ci ha lasciato Leogrande, che non vorremo mai vedere arida, analizzava intrinsecamente il fascismo dei nostri giorni, del nostro linguaggio, del nostro porci con malcelata insofferenza verso il dolore di chi non vogliamo percepire come vicino.
Ed è vero - ce ne accorgiamo sempre più negli ultimi mesi - come alle volte il fascismo non abbia bisogno di una maggioranza - di solito arriva al potere con circa il 40% di supporto e poi usa il controllo e l'intimidazione per consolidarlo. Non importa se la maggior parte della gente ti odia, a patto che il 40% ti supporti in modo fanatico. E naturalmente il fascismo ha bisogno di una macchina di propaganda così efficace da creare, per i suoi seguaci, un universo di "fatti alternativi", impenetrabili alle realtà indesiderate. Poi c'è un passo successivo cruciale, di solito il più difficile di tutti: indebolire i confini morali, portare le persone all'accettazione di atti di estrema crudeltà. Come i segugi, le persone devono annusare il sangue, si deve istillar loro il gusto per la ferocia. Il fascismo fa questo costruendo un senso di minaccia, facendolo provenire da un gruppo esterno, meglio se già disprezzato. Ciò consente ai membri di quel gruppo di essere disumanizzati. Una volta raggiunto questo obiettivo, si può gradualmente alzare la posta, passando per tutti gli stadi, dalla rottura delle finestre fino allo sterminio. E questo potrebbe già essere il prossimo passo da testare sul mercato. Viene fatto in Italia da Matteo Salvini. E paga. Ed è stato testato da Trump: vediamo come reagiscono i miei fan ai bambini che piangono nelle gabbie, vediamo come reagirà Rupert Murdoch. Vedere, come hanno fatto la maggior parte dei commentatori, la traumatizzazione deliberata dei bambini messicani come "errore" da parte di Trump è un'ingenuità colpevole. È un periodo di prova - e la sperimentazione è stata un enorme successo. Quando Trump affermò che gli immigrati "infestano" gli Stati Uniti, sperimentò un test di marketing per vedere se i suoi fan fossero o meno pronti per il prossimo passo nel linguaggio, che è ovviamente "parassiti". Imparando a pensare l'impensabile, crescono così i razzisti di oggi. Varcando i confini della moralità, sono, come nel Macbeth, "non altro che principianti, nel crimine". Alessandro Leogrande sosteneva che per combattere la disumanizzazione tipica del razzismo fosse necessario “raccontare le storie di vita e raccontare chi sono le persone in carne e ossa”. Proteggiamo la nostra libertà con tutto il potere delle nostre democrazie e non facciamoci mai mancare il coraggio e la forza dell'indignazione per tutto lo schifo che dovremo affrontare. 
Dobbiamo farlo senza la voce di Leogrande ma possiamo armarci con i suoi libri, con la lucida esattezza delle sue parole, costruendo una prospettiva, capace di farci guardare gli orrori del mondo. Là, dove non c’è la luce di Dippold a trasformare il mondo in un giocattolo, là, dove resteremo senza occhiali, finché vergogna non ci accechi. 
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bianciardi · 5 years
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Pirati, tutti.
Di questi tempi metterei una benda da pirata sull’occhio pensando a Luciano Bianciardi, un po’ anarchico, un po’ comico, insofferente, un riottoso dolcissimo che nel suo romanzo più noto aveva progettato di far saltare in aria col tritolo il mitico Pirellone, simbolo del capitalismo che fu e che ancora persiste.
Quando aprii questo spazio, ben cinque anni fa, pensai che il tutto, o il poco, dovesse orbitare attorno alla rabbia, all’intelligenza, all’onestà intellettuale di Bianciardi, provando a salvaguardare - in un minuscolo luogo come un blog sconosciuto - la maestosità della sua figura. Lui, che aveva intuito e descritto la deriva della nostra società, con trent’anni di anticipo. 
Oggi questo spazio si apre al mondo, all’attualità, un po’ sorda, molto cieca e lo fa sperando di non venir mai meno a quel patto, a quella benda da pirata precario e insofferente. Siamo precari, siamo insofferenti ma non scriveremo mai pagine che possano valere un solo grammo de La vita agra. E non perché alcuni di noi non ne abbiano le capacità ma perché abbiamo perduto ogni spirito rivoluzionario, e se ne è rimasta qualche briciola, l’abbiamo usata male, limitandoci ad azioni guerrigliere senza uno scopo, senza la volontà di costruire dopo aver distrutto. 
Cosa direbbe oggi Bianciardi? Cosa siamo diventati ai suoi occhi? Come si porrebbe nei confronti di una classe politica sempre più improntata all'individualismo e alla soggettività? Cosa scriverebbe della miseria che mangiamo a pranzo e a cena, schiavi completi di tubi catodici e smartphone?  Ah, i social! Dove si fa politica, dove si accresce il consenso, dove si perde la faccia, dove si racconta il nostro più intimo privato. Ah, chissà come li chiameresti tu! Tu che demonizzavi la televisione, tu che sbeffeggiavi la pubblicità.
Luciano, fuma una sigaretta con me, cazzo, dammi una parola, una bestemmia, qualcosa che smuova questa stasi fatta di paura e aggressività. Quant’è brutto questo paese che ama il potere, anche quando lo esercitano le persone sbagliate, solo perché rappresenta il nostro desiderio di contare, di esercitare la superiorità e di marcare la distanze che ci sono sempre state fra l'aristocrazia e la plebe. 
Nel tentativo di portare avanti la memoria di Bianciardi, i suoi demoni, e quel modo di fare autodistruttivo, da oggi qui si parla di tutto, soprattutto di tutto quello che non va. Dell’ansia, della paura che ci divora come la sveglia delle 6, delle mancanze incolmabili, del futuro che si avvicina troppo presto e troppo male. 
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Io, nata dopo la caduta del muro, mi attacco con i denti a te Luciano, io che non sono figlia della guerra, che non ho marciato con gli operai, io che non mi sono sporcata le mani con i volantini ciclostilati, che non ho riempito le piazze dei referendum, oggi mi sento più che mai figlia illegittima di una Storia incompleta e incompresa. Come me, in tanti, fanno il "lavoro culturale", altri si limano le impronte digitali per inviare curriculum differenziati, altri attraversano la Città in sella a fiammanti biciclette per consegnare una pizza e forse anche un rene. Altri ancora sono già morti nelle loro divise eleganti di giovani donne e uomini in carriera. Non siamo più niente, e domani nessuno saprà che siamo passati in quelle strade, in quelle piazze, meno entusiasti, più depressi, indeboliti e incapaci di forgiare il nostro disprezzo. Forse dovremmo ricominciare a esserci. 
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bianciardi · 9 years
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Mr. Newman è un uomo dallo sguardo sincero, indossa un maglione consumato e sorride sereno alla vita, nudo di preoccupazioni, leggero di bellezza. “È come tornare nella città dove si è vissuto per così tanto tempo. Sembra tutto cambiato. Nelle profondità metropolitane, specialmente durante le notti d’inverno, oppure nell’attesa dei primi pleniluni, non cambia invece nulla. Il medesimo profumo di lenzuola pulite, sapone verginale sugli abissi. Quando si ritorna, è per essere invisibili a se stessi. Perché si è finalmente capaci di sorridere a tutto.”Sono gli stessi Scisma a descrivere così il loro ritorno sulle scene dopo più di un decennio di silenzio, per una delle band più talentuose e innovative delle scena italiana, scioltasi per ”troppo amore”. Uscito il 9 ottobre per la sempre brillante Woodworm, il nuovo ep della band si intitola Mr. Newman e regala sei brani dal sapore ironico e leggiadro, che ne fanno un ep ben calibrato, a metà fra leggerezza e passione creativa.
La band chiuse il proprio percorso con un album unico, Armstrong (del 1999, ndr), l’uomo che ha cancellato la magia della luna, e tornano con Mr. Newman, l’uomo nuovo e postcontemporaneo, che fa della frustazione la propria bandiera. ”Siamo tornati per riprenderci un finale”, ha confessato la band lombarda, quel finale che aveva visto un punto sospeso nel concerto alla Flog del maggio 2003, una festa di lacrime e distacco, un arrivederci sussurrato e onesto, per una band che decide di fermarsi per ”troppo amore”. Ed è quell’amore grandissimo che ha fatto tornare gli Scisma, per se stessi e per le persone che in questo lungo periodo hanno continuato a tenere la loro musica nelle proprie vite. Se c’è un elemento che ha da sempre contraddistinto il lavoro degli Scisma è l’anima, quel sentire l’umano che nessun altra realtà musicale ha saputo tradurre in musica.
“Mr. Newman” ha abbandonato le giacche di pelle scura, i capelli che coprono il volto, e una certa oscurità seppur sensualissima nel muoversi, nel parlare. Mr. Newman oggi sorride, lo fa con i piedi piantati per terra ma sono piedi leggerissimi, alati. Mr. Newman vola nello spazio circostante, si prende gioco della nostra società, ama senza dolore, e, oggi come allora, incanta per quell’eccesso di bellezza e talento che per anni ci è parso irrintracciabile. Se le sinestesie poetiche e new wave della tracklist ci provocano un senso di surreale convulsione à la Benvegnù, è con la delicatezza soffice di una ballad sfocata e loureediana come ‘‘Neve e resina’‘ che capiamo una volta per tutte che in Italia nessuno può arrivare dove arriva l’anima degli Scisma, un misto di eleganza innata, tensione amorosa e magia onirica. Con la boutade violinistica e vagamente funky di ”Darling darling!” ritroviamo quel gusto teatrale e fisico à la Talking Heads di “Houses in motion”. Non c’è limite spaziale che non si possa attraversare quando ci si abbandona sconsideratamente in questa miriade selvaggia di colori lampeggianti. La ”Musica elementare” delle fasi della vita scandisce il nostro tempo, dentro una società sempre più liquida, come un metronomo umano che si apre magnificamente al pop più alto, quello dei bassi corposi e struggenti dei migliori anni novanta. La creatività non è come l’interruttore della luce che puoi attivare e disattivare quando vuoi. Non è un oggetto tangibile, concreto: è intrinsecamente astratta ed effimera; è possibile tentare di essere chiari e matematici, ma la si può veramente catturare solo quando siamo in grado di cogliere l’animo che vi sta dietro. Gli Scisma no, non smetteranno mai di peccare di creatività: così il revolver di ”Metafisici” si trasforma in una batteria martellante che fa l’amore con le chitarre più sinuose dell’universo intimististico della band. Avete presente le strutture implose di “Armstrong”? Ecco, chiudete gli occhi e indossate quella giacca di pelle ma fatelo col sorriso sulle labbra perché sono finiti i tempi delle buie sottomissioni polverose. È un salto nel vuoto bellissimo e sincero, fidarsi dell’altro mentre si cade in un mondo nuovo, in un sogno infinito. Una corrente sotterranea di tensione naviga alla ricerca di risposte: ‘‘Stelle, stelle, stelle” è la ballata Yorkeiana che si snoda telefonicamente, a una distanza di ben quindici anni dall’ultimo incontro, una confessione con le lacrime alla bocca dello stomaco e l’entusiasmo che trabocca dagli occhi. Non so perché, ma gli Scisma riescono sempre a smuovere qualcosa di atavico, cementificato in fondo alle viscere. Non so cos’è ma vorrei chiamarlo espressionismo sonoro, speranza e clamore. I raggi del sole che saturano la vista fino a un’aurora boreale, fino al silenzio più assoluto, che è là dove c’è più musica.
(È stato bellissimo, grazie)
Mr. Newman rispetta la fila al bar, osserva muoversi gli avventori attorno ai tavolini dell’autogrill, ordina due caffè, due croissant e una bottiglietta di acqua da mezzo litro. La vita scorre, come un carosello. Mr. Newman sorride per primo, perché sa che se esiste davvero un mondo che non finisce mai, quello è il mondo degli Scisma. Comunque sia, questo mondo è per noi.
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bianciardi · 9 years
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Le cose perfette
Le cose perfette ovvero Peter Capaldi che recita Dylan Thomas nell'unico modo in cui tutti gli attori di questo mondo dovrebbero recitarlo: in un bar fumoso, da ubriaco fradicio, tra avventori che se ne fregano di te, malato marcio meraviglioso.
Dead mean naked they shall be one with the man in the wind and the west moon when their bones are picked clean and the clean bones gone  they shall have stars at elbow and foot  though they go mad they shall be sane  though they sink through the sea they shall rise again  though lovers be lost love shall not  and death shall have no dominion.
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bianciardi · 10 years
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La giunta del Comune di Montemurlo ha deciso di dedicare allo scrittore e intellettuale grossetano, Luciano Bianciardi (Grosseto 14 dicembre 1922 – Milano 14 novembre 1971), una strada nella zona di via Barzano, dove sta sorgendo un nuovo insediamento di edilizia residenziale e sociale. Con questa intitolazione l’amministrazione ha voluto ricordare un uomo di grande […]
Buone nuove per l'anno nuovo
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bianciardi · 10 years
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Sono le tre di notte e Pino Corrias parla di Bianciardi. Grazie mamma Rai 
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bianciardi · 10 years
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Grosseto come Kansas City
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bianciardi · 10 years
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Eccolo, l'inizio de I sessuofili, l'esilarante racconto (bollato come erotico) che apre la raccolta del '76 Il peripatetico e altre storie. Bianciardi sta qui, nel prenderci per il culo, nel mostrarsi mentre lo fa, con quel ghignetto da selvatico burlone. Nell'analizzare chirurgicamente e con maestria le nostre radici culturali, i nostri tabù, le nostre piccolezze. Si ride di gusto, ci si ritrova la bocca impastata di amaro, ci si osserva con queste letture che potrei definire una parafarmacia per animi turbati, corpi intorpiditi, pensatori censurati. 
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bianciardi · 10 years
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Entrato in famiglia stamattina. Copertina lievemente ammaccata ma godibilissimo, un gioiellino. Prima edizione, maggio '76. Siano benedetti i mercatini dell'usato e i loro sagaci venditori. 
Vostra felicissima.
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bianciardi · 11 years
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''..ma la gente non protesta per il fragore dei martelli vibratili. La gente protesta semmai se nella casa di fronte tengono il grammofono troppo alto e arrivano a cascata le note di Vivaldi''
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