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CROSSROAD: DRAGANA JURISIC. SPACES IN BETWEEN
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Dragana Jurisic (1975) è una fotografa originaria di Slavonski Brod, in Croazia (allora Yugoslavia), che attualmente vive a Dublino, Irlanda. In una conversazione avuta con lei rispetto al suo lavoro, è emerso chiaramente il bisogno - o l’urgenza - di tracciare una linea, un percorso che restituisca dignità, nell’intimo, a un’origine e una storia perduta; ma allo stesso tempo affiorano domande in merito all’esigenza umana, quasi indotta, di avere radici.

La sua pratica artistica esamina, infatti, gli effetti dell’esilio e dello spostamento sulla memoria e sull'identità, ed è prodotta dal punto di vista di un esiliato (ovvero il suo) - perfettamente distinto da quello di un espatriato, proprio per l’impossibilità di un ritorno a “casa”.

Dragana ha vinto numerosi premi e ampiamente esposto le sue opere a livello internazionale; il suo lavoro è parte dell’Irish State Art Collection, della collezione dell’Università del Michigan e di numerose collezioni private.
Da quando nel 2008 riceve un riconoscimento per il suo MFA (Università di Wales, Newport), Dragana è selezionata come Axis MAstar, nel 2009 (fra gli artisti più promettenti del MA in Gran Bretagna). Tra i molteplici premi: Arts Council of Ireland Travel and Training Award (2010, 2011, 2012), Royal Hibernian Academy’s Emerging Photographic Artist Award (2011), Culture Ireland funding (2011), Graduate Student Prize from The International Rebecca West Society (2011). Nel 2012, Jurisic ottiene un finanziamento dalla Belfast Exposed per lo sviluppo del suo progetto Blood flows. Nel 2013, completa il dottorato presso lo European Centre for Photographic Research e vince il Bursary Award (2013, 2014). Nel Settembre 2014 si aggiudica il prestigioso Dorothea Lange & Paul Taylor Prize - Special Recognition dalla Duke University, oltre al Project Award da parte dell’Arts Council Ireland e l’Emerging Visual Artist Award.
Carla Capodimonti: Ho potuto osservare il tuo lavoro fotografico dal titolo “YU: The Lost Country” che parla di luoghi specifici - i quali, in una certa maniera, non esistono più - da dove tu stessa provieni. Al centro di questo progetto c’è il libro della scrittrice anglo-irlandese Rebecca West, dal titolo “Black Lamb and Grey Falcon” (1941), che racconta di un viaggio in Yugoslavia. Puoi parlarmene?
Dragana Jurisic: La Yugoslavia è crollata nel 1991. Con la scomparsa del paese, almeno 1.500.000 yugoslavi sono svaniti, come i cittadini di Atlantide, nel regno dei luoghi e delle persone immaginarie. Oggi, nei paesi che sono nati dopo la sua disintegrazione, vi è una totale negazione dell'identità yugoslava.
YU: The Lost Country è stata originariamente concepita come una sorta di ri-creazione di una patria persa, un viaggio in cui vorrei in qualche modo tracciare un cerchio magico (stavo seguendo l’affermazione di Roland Barthes, e cioè che la fotografia è più simile alla magia che all'arte) intorno al paese che una volta era la mia nazione, e resuscitarlo. Invece, è stato un viaggio di rifiuto, di spostamento ed esilio così intenso che ho trovato più strano tornare a “casa” piuttosto che nel paese straniero dove ho deciso di vivere.

CC: In che modo il tuo background culturale plasma e influenza i tuoi lavori? Qual è la relazione che in questo senso hai con la tua patria?
DJ: Il mio paese, come già detto, non esiste più. Penso a me stessa come a un’esiliata. La risposta alla tua domanda potrebbe ricercarsi nella citazione di Edward Said: "La maggior parte delle persone è principalmente a conoscenza di una cultura, un ambiente, una casa: gli esuli sono a conoscenza di almeno due, e questa pluralità di visione dà luogo a una coscienza di dimensioni simultanee, una consapevolezza che - per prendere in prestito una frase dalla musica - è contrappuntistica." (Traduzione a cura dell’autore)
Il rapporto che ho con il mio paese “casa” è simile a quello eventuale con un parente morto in circostanze tragiche.
CC: Che cosa significa per un artista visivo provenire da una situazione di confine, un luogo che è stato da sempre influenzato da culture diverse?
DJ: Questa è un'osservazione molto soggettiva, ma credo che le frontiere creino una certa mentalità nei suoi abitanti. Il mio background nazionale è misto. La famiglia di mia madre proviene da un contesto agricolo, all'interno del paese, relativamente risparmiato dalle peggiori atrocità commesse durante le varie guerre combattute nei Balcani nel corso della storia. Gli antenati di mio padre hanno vissuto invece al confine per un lungo periodo. Trovo la parte di mia madre molto più gioviale, le persone sono più leggere. La famiglia di mio padre è al contrario più grave, più vigile mentalmente. Il modo di vivere sul confine - molto difficile in questo caso, tra la Croazia e la Bosnia, e storicamente tra l'Occidente e l'Oriente - ha influenzato il mio lavoro, è evidente. Le questioni d’identità e radici nazionali, in generale, sono i temi prevalenti in esso. Credo, dopo un lungo periodo di ricerca su questi argomenti, che gli esseri umani non sono alberi. Abbiamo davvero bisogno di radici?

CC: So che ora vivi a Dublino. In che maniera riesci a integrare te stessa e il tuo linguaggio artistico in un luogo diverso da quello d'origine?
DJ: Il mio linguaggio artistico si forma in uno spazio tra il mio paese “casa” e l'Irlanda. Mi sento davvero molto parte della comunità artistica irlandese. La mia formazione ha avuto luogo in Gran Bretagna: lì ho completato sia il MFA che il dottorato. La vita che ho vissuto prima di arrivare in Irlanda era molto diversa.
Al seguente link potete trovare un’intervista all’artista Dragana Jurisic, riguardo al suo lavoro “YU: The Lost Country”, in mostra nei mesi passati presso la RHA Royal Hibernian Academy, una delle maggiori istituzioni irlandesi d’arte a Dublino: https://www.kickstarter.com/projects/901722210/journey-to-yu-in-the-footsteps-of-rebecca-west
www.draganajurisic.com
Carla Capodimonti
CROSSROAD è una rubrica sul tema della trans-nazionalità che descrive le giovani generazioni di artisti provenienti dall'area del Mediterraneo. La trasversalità di certi linguaggi è testimone d’influssi differenti che provengono dall’esperienza di luoghi di confine, di limite - altresì intesi come crocevia culturali dall’identità continuamente dibattuta - zone di conflitto e di crisi. La ricerca analizza in che modo i nuovi protagonisti dell’arte contemporanea si inseriscono all'interno del complesso contesto d'appartenenza o trasferiscono il proprio background culturale lontano dalla madre patria.
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Boris Glamočanin. Everything is yet to happen.
Boris Glamočanin nasce a Zagabria (Croazia) nel 1980 e si laurea in Pittura presso l’Accademia d’arte di Banja Luka (Bosnia ed Erzegovina). Espone in diverse occasioni in Europa. Ultimamente viene selezionato, insieme alla sua collega croata Sandra Dukić, per una residenza d’artista presso The International Studio & Curatorial Program (ISCP) di New York, città dove attualmente vive.

Il lavoro di Boris si concentra sull’analisi delle dinamiche di discriminazione di genere e sull’esplorazione della dimensione pubblica e del ruolo dell’audience nel processo creativo.
Il suo linguaggio visivo, del tutto innovativo, crea uno strappo completo con il proprio contesto d’origine, e gli permette di assumere una visione costantemente lucida della realtà intorno a se. “La Nuova Bosnia è pronta ad essere un luogo dove tutto deve ancora accadere, e in questo senso dobbiamo cambiare molto” aggiunge durante un’intervista; “l’arte è un buon modo per prendere una posizione”.

Un progetto di attivismo e arte pubblica di forte impatto, realizzato insieme a Sandra Dukić, è sicuramente Ljubija Kills (2010), emerso dallo studio e dalla partecipazione come attivisti al lavoro umanitario con le donne della comunità locale.
Ljubija è una piccola cittadina della Bosnia ed Erzegovina a 12 km da Prijedor, che in passato era costituita da due parti: l'Islam Ljubija (Bassa Ljubija) e Latin Ljubija (Alta Ljubija o Ljubija miniera). La città si trovava, al tempo, in una delle regioni più altamente sviluppate: la miniera di ferro di Ljubija ad esempio, costruita durante l'impero austro-ungarico, era una delle più grandi nella ex Jugoslavia. Dall’inizio del ‘900 la maggior parte delle abitazioni furono costruite per i lavoratori della miniera, fonte di benessere economico e sociale del luogo.
All'inizio dell'estate 1992 la popolazione non serba di Ljubija venne arrestata e portata nei campi di detenzione a Omarska e Keraterm. Dopo la guerra, il comune di Prijedor decise di reinsediare i rifugiati negli edifici di Ljubija.
Oggi la cittadina ha un tasso di disoccupazione pari all’80%, ciò rende i suoi residenti uno dei gruppi socialmente più vulnerabili del paese, per abuso di alcol, prostituzione e altre forme devianti di comportamento in costante espansione. Ljubija è diventata una “riserva” di persone dimenticate di cui nessuno parla. Proprio fino a poco tempo fa, tutti i testi che comparivano sul sito web ufficiale del luogo erano coniugati al verbo passato: una città laddove il tempo si è fermato, un ritratto corrente di privazione e miseria.

Nel loro intervento, Boris Glamočanin e Sandra Dukić usano la città di Ljubija in quanto metafora di come la società produce un preciso stile di vita e di come le persone si trasformano in rifiuti indesiderati: “l’identità come risultato della finzione, di un complesso processo performativo che è in atto nel mondo, l’identità che è il frutto del nostro egoismo”, afferma l’artista sull’analisi di tale concetto.
Per concretizzare l’idea, i due autori sfruttano il fatto che le fonderie di Ljubija, famose in tutto il paese, producevano al tempo tombini fognari, gli stessi che proteggono le nostre strade dalla sporcizia. Boris e Sandra scelgono questo oggetto reale come simbolo della ripresa di Ljubija - segno di “depurazione sociale” - marcando la superficie di quelli situati nel centro città di Banja Luka, capoluogo della regione. Un progetto che mira a sensibilizzare l’opinione pubblica sul presente e il futuro del posto, individuandone la rinascita nella ripartenza della miniera.

Da un atteggiamento artistico può nascere una piattaforma sociale di scambio e discussione sul destino di un luogo che attualmente appare senza prospettive. L’intera ricerca viene approfondita durante il periodo di residenza presso l’ISCP di New York, dove Boris si trasferisce dal 2012.
Il contesto che ospita il lavoro dell’artista è decisamente diverso dal luogo di provenienza: “questo è il posto dove essere, dove puoi esplorare te stesso” - rispondendo ad una mia domanda - “non si ha più a che fare con il tradizionale modo di costruzione della società, qui tutto è semplicemente organizzato per funzionare da buona piattaforma per ognuno. L’unica domanda da porsi è: Cosa stai cercando?. New York in particolare rappresenta un tipo di società fortemente orientata al business, un grande mercato per l’arte, ma anche un luogo con degli spazi molto “aperti” verso la nuova arte dell’est Europa. Essere riconoscibile qui è un buon inizio, ed è per questo che sono rimasto.”
Questa nuova esperienza permette a Glamočanin di focalizzare la sua attenzione sul rapporto con il pubblico.
“Oggi l’artista non lavora più in solitudine, ma come parte di un gruppo funzionale composto da varie figure: artista, curatore, designer, istituzioni.. pubblico. Ciò che mi interessa è connetterli insieme”.

Nell’opera Ode To the Revolutionaries & Myself (2012), realizzata in occasione della doppia personale dal titolo All in a day’s work con Sandra Dukić presso la Splatterpool Gallery di Brooklyn NYC, Boris cerca di inserire l’audience nel processo creativo e di porsi nella stessa posizione del pubblico. Per l’occasione egli scrive sui muri dello spazio espositivo una serie di piccoli numeri disposti secondo un ordine predefinito che i presenti possono collegare tra di loro tracciando delle linee. Il risultato, ovvero l’opera completa, sarà un grande disegno: “seguire l’ordine, avere un metodo, prendere una posizione è qualcosa da fare per poter davvero cambiare le cose.“
Il progetto presenta allo stesso tempo anche il fulcro della ricerca dell’artista, ossia il riferimento costante al concetto di identità, di individuo, e il lavoro su se stessi: “questo è un momento ideale per parlare di cosa significa oggi la Bosnia per me, dopo tre anni sono capace di vedere cosa mi stavo trascinando dietro durante tutto questo tempo. Sono in qualche modo sollevato, in maniera positiva. La paura è qualcosa che ci portiamo dentro, nel profondo. E tutto ciò è una sfida.”
Carla Capodimonti
CROSSROAD è una rubrica sul tema della trans-nazionalità che descrive le giovani generazioni di artisti provenienti dall'area del Mediterraneo. La trasversalità di certi linguaggi è testimone d’influssi differenti che provengono dall’esperienza di luoghi di confine, di limite - altresì intesi come crocevia culturali dall’identità continuamente dibattuta - zone di conflitto e di crisi. La ricerca analizza in che modo i nuovi protagonisti dell’arte contemporanea si inseriscono all'interno del complesso contesto d'appartenenza o trasferiscono il proprio background culturale lontano dalla madre patria.
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The rain will not erase it. Interview with Mladen Alexiev, by Carla Capodimonti and Richard Pettifer
Mladen Alexiev (1980) is a theatre maker from Bulgaria. He partecipated to the Terni Festival 2014 (www.ternifestival.it) with two different works called “Standing Body” and “A Poem”, giving the name “The rain will not erase it” to the entire Festival.
Carla Capodimonti: I found your works about “walking” very interesting. In the history of art we can find a lot of examples and inspirations about walking: in 1921, Dada organized a series of guided tours to various trivial places in the city, in the 50’s, the Letterist International began the 'theory of drift' which turned into situations experiencing creative and playful behaviours and unitary urbanism. Constant reworked Situationist theory to

"A POEM" (Concept and text: Mladen Alexiev Visual concept, foto & graphic design: Eleonora Anzini)
develop the idea of a nomadic city (“New Babylon”) introducing the theme of nomadism into architecture. From mid-century, artists started to use walking in nature as art. In 1966 the magazine Artforum published the journey of Tony Smith on a highway under construction. In 1967, Richard Long produced “A Line Made by Walking”, a line drawn by trampling the grass of a lawn. Since 1995 the group Stalker conducted readings of the cities in different parts of Europe from the point of view of wandering, to investigate the urban areas and the contemporary transformations of a changing society.[1]
Did you find some kinds of inspirations from the history of art for your work called “A poem”? What is your definition for “walking poem”?
Mladen Alexiev: Actually, the starting point for the intervention “The rain will not erase it” is that I did in Amsterdam in the Autumn of 2013 and its follow up – the photographic project “A poem”, developed in collaboration with the Italian photographer Eleonora Anzini (www.eleonoraanzini.com) and presented in the frame of the last edition of Terni Festival - originate from quite opposite interests of mine. For quite some time my fascination has been not with the act of walking but, instead, with the act of standing. At one point in my practice I wanted to strip down everything I know about theatre-making. I was thinking – what is the minimum physical expression an individual can do without any special preparations, what is the minimum (political) statement a single body can make? And I have chosen a simple entry point – a body enters a space, its appearance is already a statement – inevitably.
It is not about the walking but rather for taking a stand. Literally. To hold yourself back. To make your body visible through imposed discipline. To leave it somewhere. To deny the body the right to move, to make an attempt to put it into halt. I am touched by the state of emergency that this simple act suggests.
So I am not interested in the history of art in the first place. At one point in the process, links and references naturally occur. But I find it quite suffocating to have it as a starting point. In the end, the history of art is a graveyard in which we find ourselves aspiring or ascribed to certain lineages, attempts and illusions. Our loves make it alive.
Richard Pettifer: This 'urban art' phenomenon. There is a kind of obsession at the moment about fusing art with architecture and urban planning in order to make it (art) functional again. In the words and images of “A Poem” we see perhaps something different, something more useless and futile, placed against the perceived progress of movement through different spaces of Terni. But these are just locals holding the signs of protest - there is no real activism (and no real action) here. Are there?
MA: Of course, not! In the photographic project “A Poem” we are using the protest signs, but with them we head towards something else. I have been busy with cultural activism in my country for quite some time and I am absolutely fed up with it. Why should we justify art in order to please some psychopathic bankers and short-sighted politicians? It is really fascinating how the entire cultural sector is ready to offer itself immediately, literally, to submit in front of its financial masters, giving up the very dignity of art-making.

"A POEM" (Concept and text: Mladen Alexiev Visual concept, foto & graphic design: Eleonora Anzini)
So – no, I am not interested in reshaping the city in order to make the everyday environment more entertaining for the people, and to prove that art matters. Because it matters anyway. My entire feeling towards the so called “creative industries” is that they are offering to the population cake when this very population does not have bread to eat. I don’t see any point of concentrating on “creative solitions” within certain cases of misery when the real question should be – how come this misery got produced, how the present mode of governance has produced this misery, and how come it keeps going?
Our step is very very simple: Let’s take a stand for things that are out of sight, and maybe for things that even don’t exist. Not to protest against something but rather to underline our need to affirm things out of the actuality of the personal, social or political context.
CC: Regarding “A poem”, you wrote a sort of “status” for people who wanted to take part in the project. It had some questions to answer, such as “What would you like your life to be example for?” “What would you die for?” and “What is the most important thing in life for you?”
How was your experience in Terni, and did you find some differences between Italy and others countries in terms of expectations of life?
MA: Down there, are our expectations from life so different? I don’t think so. These questions are just triggers. The difference or the similarity in the responses is something that the group action of the poem is not concerned with. In the end, the responses are for the person to open for him/herself a space and (eventually) to connect to the suggested action of holding a sign in a public place. On the side of the participants, the importance lies in finding personal reason for making the action, and not so much in the words themselves. The people taking part have been asked to find a reason, but not to disclose it to us. It is important that part of the action stays only for the doer and we don’t use it directly as material.
RP: You created this work as part of a student program for Das Arts in the Netherlands. The organisers from Terni found it, and told you it fitted perfectly for the festival. Now it's on posters and T-Shirts everywhere, giving you a cult hero status on a local level. Were you worried throughout the process about your work being appropriated like this? Do you sense a contradiction between the work’s philosophy, and how it's being employed here in Terni?
MA: I did the intervention “The rain will not erase it” and yes, it suddenly got picked up by the team of Terni Festival as a slogan and an image of the edition this year. In general I navigate carefully with institutions since I know from experience how blind and harmful creatures they can be. In the case with Terni Festival I took it more as an experiment – how a single action could be taken from a structure and multiplied, how this other context will influence the project for further development, how I can revisit my initial drive for the action and open it up even more? Such questions. And I don’t mind to let them do that because I find their effort meaningful – the effort to bring contemporary performing arts to certain community which otherwise will most likely not know that they exist.
CC: During the workshop with the Mobile Academy in Terni we spoke a lot about the role of the public, discussing about its position in the creative process, if it’s involved in the performance or not. We saw your work “Standing body” (a lecture performance resulting from a specific work for Terni Festival) in which the public was involved in the preparation and the execution of a non-protest walk along the city. What is your relationship with the audience?
MA: Good question. At the moment I can say it is complicated. I am in a process of revisiting my own drives – for art-making and communication. What I can say is that I am busy with providing and facilitating for the audience a particular perspective or atmosphere. This is where my current interest lies.
RP: And what is your relationship with your self?
MA: Well, we are fighting a lot, I guess.
Special thanks to: CAOS - Centro Arti Opificio Siri - Terni (www.caos.museum), Mladen Alexiev, Eleonora Anzini, Mobile Academy.
FOR THE ITALIAN VERSION, CLICK HERE: http://fattiditeatro.it/the-rain-will-not-erase-it-intervista-mladen-alexiev/
[1] See Francesco Careri (2009), Walkscapes: Walking as an Aesthetic Practice
#Mladen Alexiev#Carla Capodimonti#Richard Pettifer#Caos Terni#Terni Festival#Mobile Academy#Eleonora Anzini#fattiditeatro.it#Simone Pacini#therainwillnoteraseit
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“L’arte è uno stato d’incontro”[1] Spazio pubblico relazionale: gli interventi partecipati di (Come) Achille, di Carla Capodimonti
All’interno di un sistema in cui si stabiliscono delle relazioni, nasce e si codifica l’intera opera di (Come) Achille: un lavoro di arte condivisa e necessariamente in divenire.
La sua ricerca parte dalla “strada”, che egli identifica come luogo fisico dove poter comunicare il suo pensiero su grandi superfici a un pubblico esteso, per evolvere nel tempo sulle relazioni che si stabiliscono tra individui in quel determinato ambiente.
Individuando lo spazio pubblico come contesto ideale nel quale interagire e creare uno scambio costruttivo sempre stimolante, l’artista dà vita a un processo creativo - o opera condivisa - che supera ogni pretesa di monumentalità. Avvalendosi delle metodologie partecipative, egli chiama “il pubblico all’azione e attraverso l’arte alla presa di coscienza delle logiche a cui è sottoposto lo spazio in cui vive.”[2]
L’opera d’arte elude la tradizionale musealizzazione, e diventa una creazione condivisa tra più attori, un lavoro responsabile di partecipazione che instaura relazioni nuove; essa diviene atto di resistenza a regole sociali ingiuste, che non rispecchiano i bisogni dei cittadini, immettendo all’interno del contesto urbano una sorta di messaggio condiviso, che contribuisce ad attivare una coscienza critica civile. “L’opera d’arte non è uno strumento di comunicazione. Non ha niente a che fare con la comunicazione. Non contiene in senso stretto la benché minima informazione. In compenso, c’è una fondamentale affinità tra l’opera d’arte e l’atto di resistenza. Questo si. Essa ha qualcosa a che fare con l’informazione e con la comunicazione solo in quanto atto di resistenza.”[3]
Luogo ideale di produzione di una partecipazione sociale specifica, l’arte suggerisce possibilità alternative a quelle in vigore: una rivoluzione silenziosa, che pone l’accento sul processo piuttosto che sull’oggetto e origina una rilettura critica delle tematiche collettive.
“Quei magnifici monumenti al valore civile, ai caduti delle guerre, agli eroi della patria, agli uomini di cultura che popolano le nostre piazze attraversate da cittadini distratti e residenti, in gran parte non nativi dei luoghi, sono diventati invisibili e quando ci accorgiamo della loro presenza i loro nomi, le loro vicende ci appaiono un opaco ricordo di un mondo che fu.”[4] Non solo: gli interventi condivisi di (Come) Achille determinano nuovi modi d’azione all’interno della realtà vigente, mirando a modificare non esclusivamente la percezione dei luoghi ma piuttosto delle dinamiche e dei rapporti che in questi spazi da sempre e inconsapevolmente si creano. L’incontro e il dialogo con il pubblico diventano così il passaggio fondamentale per la nascita di un confronto attivo e di nuove narrative che rifiutano la contemplazione passiva:
“le opere non si danno più come finalità quella di formare realtà immaginarie o utopiche, ma di costituire modi d’esistenza o modelli d’azione all’interno del reale esistente, quale che sia la scala scelta dall’artista.”[5]
[1] Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale, 2010, Milano, Postmedia Books, p. 17.
[2] Maria Giovanna Mancini, L’arte nello spazio pubblico. Una prospettiva critica, 2011, Salerno, Plectica Editrice, p. 71.
[3] Gilles Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995, 2010, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, p. 265.
[4] Anna Detheridge, Arte e rigenerazione urbana in quattro città italiane, in Carlo Birrozzi e Marina Pugliese (a cura di), L’arte pubblica nello spazio urbano”, 2007, Milano, Bruno Mondadori Editori, p. 39.
[5] Nicolas Bourriaud, op. cit., p. 13.
#L’arte è uno stato d’incontro#(Come) Achille#testo critico#Cantina Di Filippo#carla capodimonti#spazio pubblico relazionale
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Jose Iglesias Gª-Arenal, Facebook’s Pavilion, a cura di Carla Capodimonti (Galleria Cinica - Trevi PG)

Il progetto Facebook’s Pavilion nasce dal workshop “Nuevos monocromos” realizzato nell’appartamento privato dell’artista a Siviglia (Spagna), Calle Banos n° 4, nel mese di giugno 2014. In quell’occasione - la seconda delle tre tappe di un programma espositivo dal titolo “Un asunto triste” - i partecipanti dovevano rispondere al quesito: “è possibile avere un atteggiamento artistico nel web 2.0?”
Il workshop si proponeva, infatti, come un laboratorio di azioni artistiche nella rete sociale - in ricordo dell’arte partecipativa (in quanto bene comune sociale) degli anni ’60 e successivamente dell’arte relazionale, e il concetto di creatività collettiva, degli anni ’70: “spazi-tempo relazionali, esperienze interpersonali che tentano di liberarsi dalle costrizioni dell’ideologia della comunicazione di massa; in qualche modo, producono luoghi in cui si elaborano modelli di partecipazione sociale alterativi, modelli critici, momenti di convivialità costruita.”[1]
Preciso era tuttavia il riferimento allo spazio virtuale, che ha ormai assunto l’identità di “specchio” della vita reale. Se l’arte è un atteggiamento nella realtà effettiva e il social network è il riflesso di quest’ultima, possiamo considerare la possibilità di assumere un atteggiamento artistico anche nel web.
Il titolo “Nuevos monocromos” nasce dalla riflessione sul processo di monocromatizzazione della rete sociale 2.0, che va assumendo sempre di più caratteristiche falsamente divine: ci sembra che essa sia ovunque, atemporale (ovvero che i dati rimangano memorizzati per sempre) eterea e intangibile, onnisciente e onnipresente; qualità quasi ultraterrene. Nel video FILM MONOCROME, l’artista gioca con diverse sfumature nella ridefinizione cromatica dello sfondo del più conosciuto tra i social networks, contrastando ironicamente l’identità spirituale attribuita al colore blu.
La riflessione si affina, per l’occasione, in un’architettura temporale, un padiglione appunto provvisorio, dove l’artista espone la raccolta dei dati del suo profilo virtuale dal titolo Desvanecerse: archivio Facebook, accumulata negli ultimi cinque anni. Tomi di carta disposti su vari piani che ridefiniscono in chiave inedita l’identità della veloce consultazione sul web: non più rapide ricerche ma il lento sfogliare delle pagine.
L’intera raccolta di “archeologia digitale” si colloca all’interno di uno spazio transitorio creato dall’artista, composto da singoli elementi - come ad esempio Facebook's Pavilion, installazione a griglia di nastri blu in tutto l’ambiente, corredata da Columna (Lost File), che riporta una conversazione privata in chat disponibile su carta - i quali contribuiscono a creare una mostra temporale che si adatta a un luogo fisico, ovvero il museo.
Quello di Jose è uno sguardo sottile sul mondo digitalizzato, e in particolare sulla creazione del nostro spazio di intimità all’interno di esso; una zona riservata, la nostra stanza connessa che ci garantisce riservatezza senza un totale isolamento: “ci ripara, e ci serviamo di questa sensazione per sentire che qui sì, qui siamo soli sentendo che non lo siamo del tutto; che possiamo finalmente «concentrarci» e riposare dalla dispersione del fuori, ma anche accedere in modo ordinato al mondo e agli altri. [..] l’intimità della nostra stanza connessa ci mette nella situazione di rilassamento propria di un contatto sempre profilattico, lontano dai pericoli materiali, dall’inquinamento, dalle malattie, dalla procreazione, dai compromessi, dalla riproduzione della vita quotidiana e delle sue regole collettive, benché più che mai retta dal desiderio (mossa dalla sottrazione).”[2]
Il tentativo di un ordine atemporale è concretizzato nell’opera Small Glass, che crea una relazione fra spazio pubblico e privato e contemporaneamente tra tempo passato e presente nel video in loop trasmesso tramite lo schermo di uno smartphone, i quale mostra la scena di una coppia che si bacia, ripresa in precedenza. Aspetti, questi, suggeriti anche dall’opera sonora Sin título (4'33'') che diffonde nelle stanze il rumore della vibrazione di un cellulare, di una chiamata a cui nessuno risponderà.
Carla Capodimonti
[1] Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale, 2010, Postmedia Books, Milano, p. 46.
[2] Remedios Zafra, Sempre connessi, 2012, Giunti Editore, Milano, pp. 29-30.
#Jose Iglesias Gª-Arenal#Facebook’s Pavilion#carla capodimonti#Galleria Cinica#palazzo lucarini#flash art#testo critico
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Federica Di Carlo_Riflessione diffusa, a cura di Carla Capodimonti / Galleria Cinica - Trevi PG

"Ognuno prende i limiti del suo campo visivo per i confini del mondo." (Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena, 1851)
La percezione della luce diffusa dalla superficie degli oggetti è il nostro più importante meccanismo di osservazione visiva. Se ci guardiamo intorno, scopriamo che quello che permette al nostro occhio di formare un'immagine di quasi tutte le cose che ci circondano è la loro riflessione diffusa.
A tal proposito, Federica Di Carlo sviluppa un’analisi sull’idea di limite visivo umano e sulla percezione dei confini del mondo. Riflessione diffusa nasce dall’osservazione scientifica di tali concetti; essa non è altro che una riflessione non speculare, in cui cioè un raggio di luce che incide sulla superficie non viene rimandato indietro ad un angolo determinato, ma viene diffuso su molte direzioni definibili come casuali.
“Da un corpo reale, che era là, sono partiti dei raggi che raggiungono me, che sono qui; la durata dell’emissione ha poca importanza; la foto dell’essere scomparso viene a toccarmi come i raggi differiti di una stella.” (Roland Barthes, La camera chiara, Piccola Biblioteca Einaudi, 2003, Torino, pp. 81-82.)
Tale reazione fisica permette all’occhio umano di percepire non solamente la forma finita degli oggetti: la luce diffusa che ci ritorna dalla materia non proviene solo dalla sua superficie, ma anche e soprattutto dal suo interno, dai primi strati al dì sotto di essa.
Cosa succederebbe se mettessimo in discussione tutto ciò e ci aprissimo all’indefinitezza e alle mille possibilità del mondo?
Leopardi recitava ne l’Infinito: “Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. [..] E il naufragar m'è dolce in questo mare.” La consapevolezza del finito, del limite affianca la voglia di immaginarne le infinite possibilità.
Nuove visioni sono concepibili modificando la realtà concreta; l’artista, attraverso l’utilizzo di immagini archetipe, cambia la prospettiva degli oggetti e cerca di restituire una lettura inedita degli eventi, oltre i limiti visivi umani. I confini mentali, fisici, immaginari, diventano per l’autrice stimoli e metafore tramite le quali costruire un nuovo discorso.
L’uomo è abituato ad adattare il suo punto di vista riguardo agli oggetti, agli spazi, inconsapevole di altri sguardi possibili. L’arcobaleno ne è un esempio: la sua forma mai completa - non possibile diversamente - proietta i confini della terra sul nostro spazio solo in condizioni di pioggia.
Questa immagine primordiale contenuta nell’inconscio collettivo diviene un confine visibile e allo stesso tempo inafferrabile, ed è da sempre rappresentato dall'uomo come simbolo divino: lo troviamo ad esempio nella Genesi (9:13-16), nella promessa di Dio a Noè di non inondare mai più l’intera Terra.
Durante i secoli acquisisce inoltre significati legati ai concetti di “dualità” e “creazione”, agli spazi tra i mondi: nella mitologia nordica l'arcobaleno era il ponte che univa la terra alla dimora degli dei. Annullando i punti di riferimento, questa sua dualità crea uno spaesamento e una nuova visione, ed evidenza l'unione fra la realtà concreta e quella degli archetipi.
Carla Capodimonti
Federica Di Carlo




Pics by: Federica Di Carlo
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Federica Di Carlo_Riflessione diffusa, a cura di Carla Capodimonti
Il quarto appuntamento della stagione 2014 della programmazione riservata ai giovani artisti e giovani curatori di Palazzo Lucarini Contemporary di Trevi, apre le porte all’artista Federica Di Carlo con la personale dal titolo Riflessione diffusa, a cura di Carla Capodimonti.

Per l’occasione Federica Di Carlo propone due lavori dalla serie “Ogni cosa è illuminata”, sviluppata nel corso degli ultimi mesi, nella quale alcuni fenomeni naturali vengono esaminati dall’artista in chiave emozionale mettendo in evidenza i limiti visivi dell’uomo.
In tal senso, l'arcobaleno, da sempre rappresentato come simbolo divino e immagine primordiale contenuta nell’inconscio collettivo, diviene un confine visibile ma allo stesso tempo inafferrabile.
Contemporaneamente, la luce, altra protagonista del lavoro, svela i nostri sottosistemi costruiti tramite archetipi; tutto ciò attraverso ritratti di Barcellona in precisi momenti della giornata.
L’artista dimostra il suo forte interesse nell’esplorare il cambiamento, nel visualizzare il punto di vista umano che palesa la dualità di ogni cosa. L’unitarietà originaria della natura viene dichiarata per mezzo della frammentarietà del mondo, condizione visiva e confine imprescindibile per ogni individuo.
Federica Di Carlo (classe ’84), ha studiato presso le Accademie di belle arti di Roma, Bologna e Barcellona. Lavora da tempo sul concetto di dislocazione dell'identità umana in rapporto all’idea di confine, in maniera trasversale e utilizzando diversi mezzi: disegno, installazione, scultura, suoni, performance e video. I limiti mentali, fisici, immaginari, diventano per l’artista stimoli e metafore tramite le quali costruire un discorso. Lavori sospesi che conservano simboli provenienti da una approfondita ricerca storico-culturale, capaci di riferirsi direttamente alla memoria ancestrale dello spettatore. La dualità è una caratteristica ricorrente degli elementi utilizzati; la vita e la morte, il sonno e la veglia, si relazionano sempre con momenti, aree, e luoghi di transizione. Continuamente ricorrente nella sua indagine è il rapporto con l'elemento della luce: primo confine visibile-invisibile che passa attraverso di noi. Tra le ultime mostre personali e collettive: Jump Across the Universe©, Sala Santa Rita, con il patrocinio di Roma Capitale; I Saltatori, Museo di San Salvatore in Lauro; Art is Real, una collezione impermanente, Palazzo Pasquino; Bang, Video art Festival, Centre d'Art Santa Monica, Barcellona.
#federicadicarlo#galleriacinica#carlacapodimonti#riflessionediffusa#palazzolucarini#exflashartmuseum#trevi#umbria#italy
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S-WATCH, a cura di Carla Capodimonti e Emanuela Campo. Collaboration with SWARM FESTIVAL 2014
Il Castello di Donnafugata (RG), location di SWARM FESTIVAL 2014 (12 agosto 2014) ospita la mostra collettiva S-WATCH che coinvolge sette artisti siciliani attivi sul territorio e quindi partecipi della vita del luogo.

La forte identità locale si mescola ai linguaggi contemporanei globali, dallo sguardo ampio, espressione dei tempi che cambiano; un’esperienza che si inserisce trasversalmente in un contesto legato alla tradizione e alla storia.
Le opere selezionate diventano testimoni di un rapporto umano-sociale dal carattere storico e antropologico indipendente - per connotazione geografica - e di un incontro sperimentale in un luogo di attesa, di passaggio tra un continente e l’altro, testimone di un passato che è alla base della civiltà occidentale.
Gli artisti, tramite la sperimentazione di vari medium, restituiscono un nuovo sguardo su tematiche ampie che caratterizzano la nostra epoca.
Una giuria di esperti, dopo aver consultato i vari lavori, decreterà il primo artista classificato che avrà la possibilità di esporre presso Galleria Cinica (Palazzo Lucarini Contemporary - Ex Flash Art Museum di Trevi PG), progetto rivolto a giovani artisti e curatori emergenti.
Artisti: Melissa Carnemolla, Piero Consentino, Marco Guè, Maddalena Migliore, Alessandro Morana, Alessandro Ribaldo, Antonio Sortino.
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Online su www.wetransfer.com il progetto vincitore della DANCITY//WETRANSFER//OPEN CALL
Da oggi è online - come background sul sito www.wetransfer.com - il progetto vincitore della DANCITY//WETRANSFER//OPEN CALL, in collaborazione con roBOt Festival!
Loro sono il collettivo V O I D con il progetto Magnetic Field (2014). http://www.collectivevoid.com/
Photo by lucapetrucci.com
https://www.wetransfer.com/wallpaper/537315758#

"Tramite dei piccoli motori, l’installazione - composta da comuni spugne metalliche e magneti - riproduce un movimento minimale. L’intera superficie sembra respirare, diffondendo un delicato suono prodotto dall’interazione tra le parti, e creando un movimento, non facile da intercettare ad un primo sguardo, che quasi restituisce una sensazione visiva ipnotica." (Carla Capodimonti)
#www.wetransfer.com#wetransfer#DANCITY // WETRANSFER // OPEN CALL#Dancity#Dancity Festival 2014#Carla Capodimonti#Palazzo Candiotti#robot festival#void#magnetic field
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“GALLERIA CINICA” E LE NUOVE LEVE DELL’ARTE, Intervista di Angela De Gregorio
Intervista pubblicata su Cosebelle Magazine, 15 Gennaio 2014.
Si chiama Galleria Cinica il progetto di cui vi parliamo oggi, ma di cinico in senso comune ha ben poco. Nasce infatti da un’idea bella e ambiziosa, che ha dato vita a un percorso di approfondimento, conoscenza e istruzione ai linguaggi dell’arte contemporanea. Galleria Cinica è un progetto espositivo rivolto a giovani artisti e a curatori emergenti, che accompagna la programmazione del museo di Palazzo Lucarini Contemporary – ex Flash Art Museum di Trevi (Perugia) con un vero e proprio calendario collaterale interamente dedicato all’arte emergente, puntando tutto su artisti giovani e promettenti. Tra gli obiettivi principali quello di dare spazio e visibilità alla produzione artistica più recente, che spesso si scontra inevitabilmente con i canali istituzionali. Il risultato è stato una stagione espositiva che ha percorso tutto il 2013 con sette mostre dedicate ad altrettanti artisti esordienti affiancati da giovani curatori, e che ha accolto la sfida audace e necessaria di aguzzare lo sguardo sui linguaggi e sulle proposte che animano il panorama nazionale contemporaneo. Galleria Cinica ha incontrato l’interesse di molti e ha raccolto un pubblico spesso trasversale ed eterogeneo. Ve ne parliamo meglio attraverso le parole di Carla Capodimonti, curatrice del progetto, a cui abbiamo fatto qualche domanda.
Francesco Ciavaglioli
CB Come ha preso vita l’idea di dedicare uno spazio espositivo ad artisti e curatori esordienti?
Carla: Il progetto nasce da un’idea di Maurizio Coccia e Mara Predicatori, rispettivamente direttore artistico e responsabile della didattica. Alla fine del 2012 mi era stato proposto di utilizzare una parte del museo per sviluppare un programma annuale rivolto alle nuove leve.
CB “Galleria Cinica”, come mai questo nome?
Carla: “Galleria Cinica” è un gioco di parole che parte dalla comune “Galleria Civica” presente in ogni città. L’autonomia e l’indifferenza nei confronti del rigore morale auspicati dalla filosofia cinica si riflettono in questo progetto, intesi come autonomia dell’arte dai sistemi e dalle sovrastrutture che la canalizzano. Un richiamo all’arte disinteressata, che si esprime attraverso il linguaggio dei giovani protagonisti del presente, il rifiuto delle convenzioni per un ritorno alla verità e lo sguardo cosciente sul nostro tempo.
Diego Petroso
CB Raccontaci qualcosa del tuo percorso personale e professionale, di cosa ti ha portato ad avvicinarti all’arte e farne il tuo lavoro, del tuo impegno attuale come curatrice per “Galleria Cinica”.
Carla: Sono una curatrice indipendente e vivo tra Roma e l’Umbria. Dopo la laurea triennale a Perugia, decido di trasferirmi a Roma per proseguire gli studi. Questa volta però scelgo di specializzarmi in arte contemporanea. Credo sia stata una svolta abbastanza automatica. Ho sempre cercato un approccio sperimentale e creativo totalizzante. L’arte contemporanea rende possibile tale orientamento, e permette uno sguardo trasversale anche nella quotidianità. Mi specializzo poi in Storia dell’Arte con curriculum in “Curatore di arte contemporanea” presso l’Università La Sapienza, con una tesi specialistica sull’Arte Pubblica di Alberto Garutti. Attualmente collaboro da diversi anni con Palazzo Lucarini Contemporary in progetti che riguardano la didattica museale e l’alfabetizzazione all’arte contemporanea, e nella pianificazione espositiva. Palazzo Lucarini è sempre stata un’ottima palestra dove poter arricchire le mie conoscenze e sviluppare le mie attitudini. Proprio lì, assecondando un’inclinazione personale, ho iniziato a dedicarmi alla curatela di mostre. Il progetto “Galleria Cinica” mi ha permesso di creare una rete e di estendere i confini regionali verso altre realtà. Le difficoltà sono molteplici, dalla mancanza di fondi alla comunicazione in un territorio chiuso e abbastanza estraneo a certi linguaggi. Tutto ciò è stato possibile grazie alla dedizione e all’appoggio incondizionato dei miei colleghi, che via via si sono susseguiti durante il primo anno di attività. L’esperienza sarà prolungata anche nel 2014, con una ricca programmazione, per la quale abbiamo ricevuto numerose richieste di partecipazione e che vedrà protagonisti artisti e curatori provenienti da tutta Italia. E non solo.
CB L’idea di “Galleria Cinica” nasce dunque nel 2012. Quando e in che modo si è poi materializzata?
Carla: Il progetto è partito a gennaio 2013, si è sviluppato durante il primo anno di esistenza attraverso sette mostre, e sarà riproposto per tutto il 2014.
CB Parlaci un po’ di quest’anno appena concluso, delle mostre che avete ospitato nel 2013 e dei differenti linguaggi espressivi che avete proposto al vostro pubblico.
Carla: Il nostro obiettivo è stato quello di fornire un piccolo specchio della situazione attuale riguardante la nuova arte contemporanea. Abbiamo cercato di proporre linguaggi figurativi differenti, dalla pittura al video mapping, passando per installazioni ambientali, performance e fotografia. Un’esperienza sicuramente intensa, che non nasconde tutte le difficoltà del caso. L’idea generale, da parte mia e dei curatori che vi hanno collaborato finora, è stata quella di dare spazio e massima libertà di espressione ad artisti che si trovano a fare i conti con le limitazioni del sistema ufficiale. Creare una sorta di rete e linea alternativa è stato alla base della nostra attività, con una forte attenzione all’approccio didattico e mediatico in un contesto lontano dalle grandi realtà metropolitane. Gli artisti e i curatori, provenienti da varie zone della penisola, hanno reso possibile uno sguardo ampio sulla condizione odierna. L’intera programmazione è consultabile sul nostro sito internet e sulla pagina facebook.
Nicole Voltan
CB Per quanto riguarda gli artisti che hanno collaborato quest’anno con “Galleria Cinica”, pensi che ci siano in qualche modo dei tratti che li accomunano, anche a prescindere dalle peculiarità dei singoli linguaggi?
Carla: Più che di tratti che li accomunano, penso a una situazione collettiva. Ognuno di loro si muove tra le difficoltà del momento, cercando delle possibilità per poter comunicare e farsi apprezzare. Provenendo da diversi luoghi della penisola, ciascuno porta con se un pezzo dello specifico contesto d’origine. Ogni linguaggio è in parte espressione del proprio vissuto.
CB Prima hai parlato di limitazioni del sistema ufficiale. Quali potremmo dire sono le difficoltà più comuni che trova oggi davanti a sé un artista che tenta di far conoscere il proprio lavoro?
Carla: Abitualmente difficoltà di tipo economico, organizzativo e il dover giungere a compromessi: purtroppo nella maggior parte dei casi non c’è molta libertà espressiva. Spesso esistono anche problemi di comunicazione e difficoltà nell’individuare i canali giusti verso i quali indirizzarsi. Probabilmente il ruolo del curatore è anche quello di veicolare il messaggio e stimolare interesse verso un dato linguaggio.
CB Ci dicevi che le attività di “Galleria Cinica” continueranno anche per tutto il 2014, vuoi darci qualche anticipazione sul programma espositivo del nuovo anno?
Carla: Il 21 Dicembre abbiamo concluso il 2013 con l’inaugurazione della mostra “Legami deboli” che ha presentato le opere di Amedeo Abello e Cinzia Delnevo, a cura di Celeste Ricci. La programmazione per il 2014 invece è in fase di definizione, anche se ormai abbastanza delineata, viste le numerose richieste di collaborazione che abbiamo accolto. Gli artisti che si divideranno gli spazi di “Galleria Cinica” durante l’anno presenteranno progetti molto diversi fra loro. La nuova stagione si inaugurerà a febbraio con la personale di Lara Pacilio. Non vi anticipo altro, ma vi aspetto!
Mirabella-Vitturini
CB Siamo ormai a gennaio, momento dell’anno in cui i buoni propositi per il futuro si alternano agli ultimi bilanci generali sull’anno appena passato. Se volessi fare un bilancio di questo 2013 per “Galleria Cinica”, come sarebbe?
Carla: Sicuramente positivo. Siamo riusciti a uscire dai confini regionali, da un contesto molto stretto, suscitando attenzione. Abbiamo ricevuto molti pareri favorevoli da chi è del mestiere, siamo riusciti ad attrarre anche chi al museo non è solito entrare.
CB Per concludere, dicci una tua personale Cosabella.
Carla: Una città: Sarajevo.
#cosebelle magazine#angela de gregorio#Carla Capodimonti#interview#Galleria Cinica#“GALLERIA CINICA” E LE NUOVE LEVE DELL’ARTE#palazzo lucarini
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Aurélien Mauplot. Intervista all’artista, di Maila Buglioni. Traduzione di Carla Capodimonti
Intervista pubblicata su art a part of (cult)ure (13/07/2014):
http://www.artapartofculture.net/2014/05/13/aurelien-mauplot-intervista-allartista-reduce-da-desillusions-per-galleria-cinica-a-palazzo-lucarini/
Sottili segni grafici tracciati su bianche pareti, pagine di testi filosofici e scientifici appese e rigorosamente annerite per evidenziare parole anticamente trascritte. Piccole sale in cui regna il silenzio ed in cui il tempo sembra fermarsi, invitando lo spettatore a riflettere su concetti remoti, noti a chiunque ma, in realtà, non acquisiti o compresi dalla società contemporanea. Nozioni e meditazioni su cui ruotava la personale del francese Aurélien Mauplot (Aurélien Mauplot - Desillusions, a cura di Carla Capodimonti, da poco conclusasi a Palazzo Lucarini di Trevi nell’ambito di Galleria Cinica di cui abbiamo dato conto seguendone gli appuntamenti) per la quale il Palazzo ha aperto per la prima volta le porte ad un artista d’oltralpe.
Ci rivela Carla Capodimonti, curatrice e responsabile del progetto Galleria Cinica:
“L’idea di coinvolgere artisti stranieri in realtà c’era fin dall’inizio. Abbiamo solo atteso il momento giusto. Dopo il primo anno di “rodaggio”, visto il riscontro positivo che ha avuto Galleria Cinica, ci siamo decisi ad estendere il progetto oltre l’ambiente nazionale, proprio perché è inutile riflettere sui temi affrontati dalla giovane arte considerando tuttora i limiti geografici. E proprio per questo motivo la mostra di Aurélien Mauplot cade a pennello, poiché – con la sua ricerca – l’artista mette in discussione concetti come margine, soglia e confine ed apre la stagione a linguaggi transnazionali.”
Teoria scientifico-filosofica e pratica artistica si armonizzando all’interno dello spazio dedicato alle giovani leve dell’arte contemporanea, dando vita ad un percorso espositivo affatto scontato, dove ragionamenti platonici sono messi a confronto con i ‘limiti’ della percezione umana. Aurélien Mauplot, classe 1983, ha esposto in varie occasioni in Francia e collabora da anni con l’associazione Appelboom – La Pommerie (Saint Setiers – FR), centro di residenze d’artista nell’entroterra francese che ospita progetti interdisciplinari e linguaggi eterogenei.
Per approfondire abbiamo intervistato l’artista, Aurélien Mauplot.
Il tuo progetto è basato su riflessioni di carattere filosofico e scientifico. Per quanto riguarda l’aspetto filosofico la ricerca presentata a Galleria Cinica parte dall’approfondimento dell’opera La Repubblica (in greco Πολιτεία, Politéia) scritta da Platone tra il 390-360 a.C. Perché hai scelto proprio questo filosofo?
Credo che il “mito della caverna” rappresenti una conoscenza filosofica di fama mondiale, entrata praticamente nella cultura popolare, nonostante siano di norma rari i concetti filosofici conosciuti. Tuttavia, dire che un pensiero è noto, non significa che sia di certo compreso e acquisito. Del mito della caverna se ne conosce maggiormente l’immagine piuttosto che il significato. In realtà, la scelta non è ricaduta sulla Repubblica di Platone per il filosofo o per Socrate, ma per l’immagine che essi trasmettono attraverso un’idea. Ed è forse questo orientamento alla percezione che mi è sembrato rilevante. Si tratta di valorizzare un approccio sensibile e sensoriale, piuttosto che intellettuale e riflessivo, al fine di cogliere il senso dell’idea. Precisamente, questo capitolo della Repubblica è una sollecitazione fatta al lettore in modo tale da creare una certa immagine mentale, originare della sensibilità, al fine di comprendere e tollerare la situazione di una persona che non ha assolutamente accesso alla conoscenza. Forse, questo libro è un invito a fare un passo indietro riguardo al “sapere” che controlliamo ed esaminare la nostra ignoranza come una questione significativa, qualcosa che potrebbe rivelarsi una risorsa vitale, permettendo di palesare – in certe situazioni – un comportamento più prossimo all’istinto, alla reazione immediata e improvvisa. Di conseguenza, questa condizione di “ignoranza” permette una comparsa di significato, nonché di sincerità.
All’interno de La Repubblica l’autore greco analizza il celebre “mito della caverna”. Prendendo spunto dall’opera del filosofo, hai rimodellato il contenuto del testo mettendo alla prova lo sguardo e la percezione che l’uomo ha del mondo circostante. In cosa consiste questo processo di “messa alla prova dello sguardo e di percezione del mondo” da parte dello spettatore?
Il “mito della caverna” introduce le pagine del Libro VII. L’insieme del testo stampato su questi fogli è ricoperto di pittura nera che lascia intravedere esclusivamente la parola “caverna”. Per rimanere nell’ambiente della grotta, la pittura nera potrebbe ricordare l’utilizzo del manganese, usato dai Cro-Magnon nelle caverne per realizzare le loro pitture rupestri. Oltre a questo leggero riferimento decorativo, il frammento offre un altro modo di avvicinarsi alla famosa allegoria cavernosa. Dopo spiegazioni e riferimenti filosofici inaccessibili, la Caverna propone di concentrarsi solamente sul concetto di grotta, e dell’immagine che ognuno ha di essa. Cosa si riesce a vedere all’interno di una caverna? Nulla, nero soltanto. A volte la luce dell’esterno all’estremità del tunnel ci assicura di essere ancora vicini alla fine, cioè alla luce del giorno. In caso contrario, non vediamo altro che il buio più profondo. Pertanto, bisogna avere degli strumenti di percezione accessibili al momento: l’udito, il tatto e, per estensione, l’odore. Al di fuori di ciò, la voce e la vista sono strumenti inutili; contrariamente, in pieno giorno lo sguardo permette di dare un nome agli oggetti, di creare il significato dell’esistente, e in fine dell’essere. Naturalmente, potremmo continuare, complicare di nuovo il processo di accessibilità e di comprensione del concetto. Per me è importante demistificare i metodi di titolarità e di accessibilità alla conoscenza; una prima base sensibile sufficiente che spesso invita lo studente a immaginare e a costruire la propria idea, sviluppare finalmente il suo proprio concetto, padroneggiare una materia a partire dai suoi dati personali.
Nelle opere proposte inerenti l’opera filosofica citata, c’è anche un riferimento alla teoria percettiva elaborata dai filosofi contemporanei come ad esempio Wittgenstein?
Assolutamente no.
L’attenzione verso la scienza ed i limiti fisici ti ha portato a imbattersi nel libro di Maurice Herzog, Annamura. Il primo 800, primo individuo – insieme a Louis Lachenal – a scalare l’Annapurna, il primo monte oltre gli ottomila metri asceso dall’uomo e sito sulla catena dell’Himalaya. Hai così restituito alle pagine del libro le cime e/o i confini del mondo avvalendoti della linea di Karman, fisico ungherese scomparso nel 1963, la quale definisce il profilo della terra e dello spazio. Come e quando nasce il tuo interesse nei confronti dell’ambito scientifico?
Ho dovuto scrivere una storia quella notte. Ho immaginato che la terra non fosse altro che una sola nazione e che essa intrattenesse delle relazioni con altri pianeti. Super originale..poi la domanda è arrivata: fino a che punto io mi trovo sulla terra e, dove comincia la zona interstellare, cioè lo Spazio? Ho ricercato per qualche minuto, poi ho scoperto la linea di Karman, che definisce il confine tra la terra e lo spazio a 100 chilometri di distanza sopra il livello del mare. Ho anche scoperto che questa idea è oggi riconosciuta dalla comunità aerospaziale internazionale.
Il concetto di “limite”, da te indagato, abbraccia sia l’ambito scientifico sia quello filosofico. Il primo settore s’incentra sia sui confini reali – come quelli geografiche – sia su demarcazioni più concettuali, come nel caso dei limiti matematici. Lo stesso accade in filosofia, disciplina che si pone una serie di domande sul limite analizzandolo sia come concetto reale sia come idea astratta. Attraverso questa mostra hai posto la tua attenzione solo verso il ‘limite scientifico’ oppure a questo è sottinteso un avvicinamento verso riflessioni di tipo più filosofico?
La mia pratica si concentra sul contorno: rivelare il profilo di un oggetto (naturale o artificiale), fare emergere la forma astratta di un territorio (Les Possessions, 2013) o provocare dei contrasti percettivi (Extension du renversement du monde, 2014). Il concetto di limite non si circoscrive all’enunciazione della linea di Karman, che è un riferimento pratico ed efficace. Si tratta di un’immagine che rimette in discussione la legittimità di una forma ancora universalmente riconosciuta (un paese per esempio) o innegabilmente naturale (cime di montagne). Ma alla fine, tutte queste rappresentazioni che siamo abituati a vedere sono solo richiami al concetto di stabilità ed immutabilità di un oggetto nel tempo. Al contrario, il limite trascende a causa dell’astrazione causata e determinata.
In che modo si conciliano questi due campi – filosofico e scientifico – nella mostra Desillusions?
Credo che i due approcci analitici del mondo siano uniti nei loro fondamenti. La disillusione è un fatto politico e storico; mentre il mondo gira davanti ai nostri occhi, ci dimostriamo incapaci di sollevare le braccia per sostenerlo. Più che di cercare un legame con la scienza o la filosofia, personalmente dissacro queste conoscenze, il loro approccio e il loro insegnamento, nonché la loro legittimità sociale, costruita nella persuasione di una necessariamente pragmatica visione empirica del mondo.
#Aurélien Mauplot. Intervista all’artista di Maila Buglioni. Traduzione di Carla Capodimonti#Galleria Cinica#palazzo lucarini#maila buglioni#aurelien mauplot#interview#art a part of (cult)ure
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Carla Capodimonti in occasione di “CREOLO”, terzo appuntamento di Galleria Cinica, intervista di Daniela Cotimbo
Intervista pubblicata su ARTNOISE, 31 maggio 2013.
Arrivata ormai al terzo appuntamento, Galleria Cinica, progetto curatoriale di Carla Capodimonti per Palazzo Lucarini Contemporary, si ascrive a tutta una serie di fenomeni che negli ultimi tempi si occupano di tracciare una mappa delle esperienze artistiche emergenti in Italia.
Due sale dell’interessante spazio del palazzo di Trevi sono destinate all’avvicendarsi di progetti espositivi presentati da giovani curatori e riservati ad altrettanti giovani artisti. Dopo i primi due episodi che hanno visto protagonisti Diego Petroso, Mauro Vitturini e Diego Miguel Mirabella, è ora la volta di Cloro cloro & lelimane con Creolo, intervento curato dalla stessa Carla.
Gli artisti, operanti sul territorio marchigiano, portano avanti da tempo una interessante ricerca che si serve del video-mapping come strumento per interventi nel contesto urbano. Attraverso l’ausilio della proiezione, essi sono in grado di trasformare l’aspetto dello spazio pubblico con interferenze performative e transitorie.
In questo caso l’operazione viene traslata nell’ambiente istituzionale del museo attraverso un processo inverso: sono infatti i manifesti pubblicitari prelevati dalle strade della provincia marchigiana ad essere ricontestualizzati nello spazio del museo dove, con una serie di interazioni visuali, se ne ridefinisce la natura iconica.
Carla ci parla della sua esperienza e di questo suo ultimo ambizioso evento che è stato inaugurato lo scorso 25 maggio e sarà visibile fino al 30 giugno.
Come sei entrata in contatto con questi artisti?
Conosco Cloro cloro da una vita. Siamo amici e quindi ho sempre seguito quello che ha fatto in questi anni, dai suoi studi, alla ricerca, ai turbamenti… Qualche mese fa lui era ospite da me a Roma e gli ho proposto di presentare un progetto per Galleria Cinica. Mi incuriosiva dar vita, non ad una vera e propria mostra, ma a un esperimento, con un linguaggio nuovo e persone che hanno poco a che fare con il mondo istituzionale. Lui ha accettato, dicendomi che voleva coinvolgere anche questo collettivo, Lelimane, e mi ha messo in contatto con loro.
Trovo molto stimolante l’idea di allargare l’interesse museale a sperimentazioni di diversa natura. Come sei riuscita in questo caso a coniugare le due istanze?
Questo aspetto si lega molto al tipo di intervento che hanno realizzato i ragazzi: il video-mapping solitamente si sviluppa in spazi aperti, realtà urbane metropolitane, o luoghi dedicati alla musica, soprattutto elettronica. In realtà è il primo intervento di video-mapping che viene fatto all’interno di uno spazio chiuso e soprattutto “istituzionale”, la sfida è stata doppia. L’idea di base è stata proprio quella di utilizzare uno spazio che fosse riconosciuto come istituzionale e metterlo alla prova, farlo uscire dalle sue quattro mura attraverso metodologie artistiche nuove, giovani. Tutto questo è alla base di Galleria Cinica. Nel caso di questa mostra l’abbiamo fatto con l’utilizzo di un linguaggio sperimentale e rimodellando lo spazio (come ti dicevo abbiamo chiuso una stanza e creato una parete dove abbiamo proiettato).
In cosa consiste nello specifico Creolo?
Creolo è un’installazione in cui cartelloni kitsch di serate danzanti al ritmo del liscio sono rielaborati con la tecnica del video-mapping. Essa permette di ottenere effetti spettacolari di proiezione su superfici reali. I cartelloni, che caratterizzano le strade della provincia marchigiana (e non solo) vengono reinterpretati: dalla loro forte connotazione locale, passano ad un aspetto del tutto nuovo che li avvicina alle grandi realtà. Con Creolo, il collettivo riflette sulla costante condizione dell’artista interno/esterno alla realtà in cui vive: uno status che ognuno di noi porta con sé per sempre e che spesso non riesce ad abbandonare; per questo i ragazzi decidono di appropriarsene fino in fondo e di rivisitarlo attraverso un medium contemporaneo. Creolo, inoltre, significa “derivato” o “nuova costituzione”. Il creolo è il meticcio, che proviene da diversi incroci etnici e quindi l’installazione ha anche questo forte aspetto antropologico; ciò che ne viene fuori è inevitabilmente un ibrido.
Qual è stata la ricezione del pubblico del museo a questo esperimento?
Le reazioni sono state strane, insolite. La gente entrava nella stanza e rimaneva sbalordita, sorpresa. Una volta usciti, l’espressione nei volti cambiava: era come se tutti trattenessero l’entusiasmo o ciò che l’installazione aveva suscitato in loro perché si ritrovavano di nuovo catapultati nella realtà istituzionale del museo, come se il resto delle sale richiedesse un diverso tipo di atteggiamento. Quella tenda nera divideva due mondi! Le reazioni sono state diverse anche a seconda dell’età: i giovani sono sicuramente più vicini a questo tipo di linguaggio. Abbiamo scoperto che molta gente è fan di Joselito, ed è come se finora si fosse vergognata di dirlo. Vederlo appeso così ad una parete ha legittimato in qualche modo quel loro giudizio positivo.
Galleria Cinica si è dimostrata da subito una realtà aperta a vari ambiti territoriali, ma tante volte mi hai fatto presente la volontà che diventasse una vetrina di visibilità anche, e soprattutto, per le ricerche locali. Mi chiedo, dunque, se in questo tuo periodo di esplorazione hai avuto modo di rilevare fenomeni interessanti in tal senso.
Sì, conoscendo bene la realtà locale, ho avuto modo di scoprire iniziative interessanti. La prossima mostra che inaugureremo a luglio vedrà protagonisti proprio dei giovani umbri che collaborano con prolifiche associazioni locali. Cloro cloro & lelimane non sono umbri, ma sono molto vicini a noi; anche loro provengono da una realtà provinciale, quella marchigiana, molto simile alla nostra. L’espressione che hanno utilizzato caratterizza anche i modi della nostra regione. Qui c’è un forte associazionismo giovanile che deve costantemente fare i conti con amministrazioni comunali che danno pochissimo spazio a certe iniziative. Peccato, perché ci sono delle veramente realtà interessanti.
Gli interventi di video mapping sono generalmente pensati come performativi e transitori. Cosa ha comportato il convogliare questo modo di operare nella dimensione museale?
Questo è uno dei motivi che ha reso l’installazione ancora più insolita e sperimentale. Gli artisti, per l’occasione (e non potevano fare diversamente perché la mostra dura più di un mese) hanno realizzato il progetto, lo hanno messo sul pc e hanno regolato in loop la proiezione. Di solito il video-mapping non si protrae così tanto nel tempo, è stato “riadattato” ai tempi del museo… Un vero e proprio ibrido, come dicevo.
Alla luce di questi tre episodi di Galleria Cinica e in vista dei prossimi si può dire che tu sia riuscita, grazie anche alla disponibilità di Maurizio Coccia e Mara Predicatori, a ritagliarti uno spazio di libertà assoluta dove gli artisti possono sperimentare pur in dialogo con una realtà istituzionale. Quali sono le forze e le debolezze di questo sistema?
Le forze sono i giovani: la nostra voglia di fare, di scoprire, sperimentare e sacrificarsi per fare tutto ciò. La debolezza più grande è la mancanza di fondi che potrebbero permettere un lavoro ancora migliore.
Pensi che questo progetto stia smuovendo l’ambiente circostante stimolandone l’ interesse e favorendone la crescita?
Lo spero. Ho visto persone che non vi erano mai entrate prima. Ragazzi che si interessano a linguaggi nuovi, che si meravigliano di quanto l’arte è in realtà vicina alla vita di tutti i giorni, alle riflessioni e ai pensieri che ognuno di noi fa.
#Carla Capodimonti in occasione di “CREOLO” terzo appuntamento di Galleria Cinica intervista di Daniela Cotimbo#daniela cotimbo#Galleria Cinica#palazzo lucarini#interview#artnoise
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cloro cloro cloro & lelimane. Talking about ‘Creolo’ with the curator Carla Capodimonti, di Maila Buglioni
Intervista pubblicata su “art a part of cult(ure)”, 23 giugno 2013.
Il terzo appuntamento di Galleria Cinica, progetto inserito all’interno della programmazione di Palazzo Lucarini Contemporary, è dedicato alle innovazioni tecnologiche digitali, sempre più impiegate nell’arte contemporanea.
Protagonisti dell’intervento denominato Creolo, a cura di Carla Capodimonti, sono CLORO CLORO CLORO & LELIMANE. Un giovane collettivo marchigiano che ha realizzato un’opera di video mapping – una tecnica che consente di proiettare immagini digitali su superfici reali – il cui contenuto è strettamente connesso con il loro background culturale. Il lavoro, infatti, è ideato partendo dalla rielaborazione digitale di icone provenienti dalla realtà urbana regionale, fortemente iconicizzate e tipiche del folklore locale come i cartelloni dei manifesti pubblicitari. Come afferma la curatrice, gli artisti sono partiti ”dalla rappresentazione cartellonistica kitsch di serate danzanti al ritmo del liscio’, per poi sviluppare ‘linguaggi prettamente contemporanei con l’utilizzo della tecnica del video mapping che rende possibile una sorta di animazione reale su un’apparente piattezza formale”.
Generalmente tale pratica espressiva è utilizzata in spazi aperti e molto grandi delle città e legata all’ambiente musicale, in particolare all’elettronica. Tuttavia, per l’occasione è stato elaborato un intervento site-specific, studiato per essere immesso in uno spazio chiuso e istituzionale come quello di un museo, ovviando ad eventuali criticità ed inserendosi perfettamente nel contesto che rispecchia quello originario ovvero l’ambiente provinciale.
Il titolo Creolo significa “derivato” o “nuova costruzione”. Il creolo è il meticcio, che proviene da diversi incroci etnici. Ci spiega Carla che: ‘L’installazione ha un forte aspetto antropologico ed in questo senso è inevitabilmente un ibrido perché contiene in se una forte connotazione provinciale a causa dell’utilizzo di manifesti pubblicitari di ballo liscio, fortemente locali, ma nello stesso tempo è caratterizzata da una forte riproposizione e ri-contestualizzazione in chiave contemporanea che dà al lavoro un aspetto più ampio e metropolitano. Un concetto ambivalente che si riferisce anche all’aspetto tecnico: il video mapping, diversamente dal solito, è stato riadattato ai tempi del museo, procedendo in loop.’
L’esito finale è la creazione di una singolare opera in cui arte e tecnologia si sposano alla perfezione e dove è possibile cogliere l’affinità esistente tra CLORO CLORO CLORO & LELIMANE. Un’intesa nata grazie ad un incontro fortuito: si sono conosciuti nel 2008 ad Urbino divenendo coinquilini della stessa casa. Tuttavia, fin dal primo momento hanno compreso che c’era qualcosa che andava oltre la condivisione degli stessi spazi abitativi. Riporto le loro parole:
“Credo che il primo caffè che abbiamo preso insieme è stato il punto di partenza della collaborazione al tempo ancora ufficiosa, poi quella ufficiale è arrivata cinque anni dopo con CREOLO, che è un po’ il punto di arrivo delle nostre visioni e delle nostre esperienze fatte assieme. Ogni Gesto fatto assieme ogni parola, colore, visione etc… erano una buona scusa per fare arte!’
Scopo ultimo del loro lavoro è generare immagini decontestualizzate, lontane dall’ambito da cui sono state prelevate, al fine di attuare un disorientamento creativo e un successivo ri-orientamento. In questo modo si vuole favorire una riflessione sulla posizione dell’autore ovvero sul suo essere al contempo interno ed esterno rispetto alla comunità e alla realtà in cui vive. Da qui l’intendo di coinvolgere e condurre il pubblico verso una visione altra della realtà, lontana da ciò che ognuno di noi quotidianamente vive, rimanendo contemporaneamente ben ancorati a quest’ultima. Ne deriva un’interpretazione divertente ed ironica molto vicina allo spettatore, il quale immediatamente percepisce l’installazione come concreta e tangibile, ricordandoci di ‘non prendersi troppo sul serio’ – come afferma la stessa Carla Capodimonti.
L’utilizzo del video mapping in uno spazio museale e provinciale, come quello di Palazzo Lucarini a Trevi, ha registrato un’eterogenea e insolita risposta negli utenti, che incuriositi, accedevano nelle sale in cui era contenuta l’opera. Come afferma Carla ‘La gente entrava nella stanza e rimaneva sbalordita, sorpresa. Poi una volta usciti, l’espressione nei volti cambiava: era come se tutti trattenevano l’entusiasmo o ciò che l’installazione aveva loro suscitato perché, ritrovandosi di nuovo catapultati nella realtà “istituzionale” del museo, era come se il resto delle stanze richiedesse loro un diverso tipo di atteggiamento.’ Era come se ‘quella tenda nera’, posta all’apertura del vano, ‘dividesse due mondi’. Inoltre, occorre sottolineare il netto contrasto tra le reazioni degli adulti, sopra descritte, e quelle dei giovani spettatori, quest’ultimi maggiormente vicini a tale tipo di linguaggio.
#cloro cloro cloro & lelimane. Talking about ‘Creolo’ with the curator Carla Capodimonti#maila buglioni#art a part of cult(ure)#Galleria Cinica#palazzo lucarini#interview
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Galleria Cinica. Intervista alla curatrice Carla Capodimonti, di Maila Buglioni
Intervista pubblicata su “art a part of cult(ure)”, 10 marzo 2013.
Con l’iniziativa GALLERIA CINICA si conferma la congenita vocazione verso la ricerca sperimentale del settore artistico contemporaneo di Palazzo Lucarini Contemporary.
Il ciclo di eventi, che consta di ben sei mostre scandite nell’arco del 2013, è stato inaugurato sabato 26 gennaio con l’esposizione di Diego Petroso (Napoli, classe 1983), a cura di Carla Capodimonti. L’artista propone una serie di lavori pittorici che muovono da una personale riflessione circa la pratica stessa del fare pittura. Il linguaggio pittorico, primordiale espressione artistica umana, si caratterizza per la facilità di esprimere quell’avvicinamento fisico e spirituale esistente tra il pittore ed la sua tela: fine ultimo di tale prassi è questa spinta verso il supporto. Il napoletano medita su tale movimento per sperimentare un capovolgimento dello stesso da cui successivamente nasceranno una serie di nuovi idiomi.
I successivi interventi espositivi vedranno l’avvicendarsi di altri giovani esponenti della recente generazione artistica.
In primavera sarà allestita la mostra di Mauro Vitturini e Diego Miguel Mirabella, la cui curatela è affidata a Daniela Cotimbo. Successivamente, sarà la volta del duo cloroclorocloro, nuovamente a cura della Capodimonti che cura anche il progetto di Melissa Giacchi OPERARI lavoro di forme, contributi audiovisivi dell’Associazione Culturale Dancity. Un tocco di colore vivacizzerà l’atmosfera autunnale umbra grazie alla mostra di Francesco Ciavaglioli, curata da Simona Merra e Saverio Verini. Infine, i festeggiamenti del ventennio della sede umbra si concluderanno con la personale di Nicole Voltan curata da Carla Capodimonti e Simona Merra.
Lasciamo la parola proprio a Carla Capodimonti, curatrice della mostra di Diego Petroso e di molte delle successive proposte al Lucarini, approfondendo con lei la sua politica culturale, le scelte critiche e i suoi intendimenti curatoriali.
La prima delle sei mostre del ciclo proposto dalla Galleria Cinica ha come protagonista Diego Petroso, giovane artista napoletano, classe 1983. Puoi dettagliarci meglio la sua poetica pittorica e parlarci delle opere esposte?
“Diego Petroso presenta per Galleria Cinica un lavoro di natura pittorica composto da una serie di 14 pezzi di piccolo formato dal nome Ballade Frenesia, tre opere singole (Nauli, Jivha Bandha, Karnapirasana) e la tela Maniaca Melodia che dà il titolo alla mostra. L’intero ciclo estende materialmente una riflessione sulla pratica stessa del fare pittura nel corso della storia dell’arte e rappresenta l’ultimo lavoro dell’artista e la base della ricerca che svilupperà durante il periodo di tre mesi di residenza presso Viafarini – Milano.
L’opera rappresenta, per questo motivo, un vero e proprio work in progress, un esperimento continuo che ribalta il tradizionale rapporto artista/tela sviluppando meccaniche inesplorate. Nell’intero corso della storia dell’arte, infatti, il linguaggio pittorico è da sempre stato espressione dell’avvicinamento, fisico e spirituale, dell’artista verso il supporto al fine stesso della prassi. Petroso riflette sulla questione proponendo un’inversione di rotta volta verso una serie di nuovi linguaggi proposti dai contorni prettamente sperimentali. Ne risulta un dialogo evolutivo tra artista, supporto, materia; un processo sovrapposto, susseguito da un’operazione di natura sottrattiva che pure rende l’azione ed il gesto del tutto compiuti.”
Il linguaggio pittorico di Diego vuole essere una riflessione sull’intrinseco movimento oscillatorio che pone in contatto fisico e spirituale il pittore, in quanto esecutore, ed il materiale su cui si appresta a dipingere ovvero il supporto. Una ricerca molto interessante che pone in primo piano il fare pittorico, per anni snobbato sia dagli artisti sia dalle gallerie che hanno preferito dare maggior spazio alla pratica concettuale. Perché avete scelto di aprire il ciclo espositivo della Galleria Cinica con una mostra che pone in primo piano la questione tanto dibattuta della pittura?
“Galleria Cinica inaugura il nuovo anno e l’intero ciclo di mostre che si svilupperà nel 2013 simbolicamente con un’opera pittorica per riportare l’attenzione su un linguaggio considerato da molti obsoleto. La scelta vuole essere la dimostrazione che ancora è possibile portare una riflessione valida su determinate pratiche. Nel caso specifico, l’intero ciclo di Petroso, ispirato alle partizioni musicali, acquisisce una dimensione installativa ambientale che avvicina l’opera ad un’esperienza totale e le attribuisce un peso specifico simile a quello della scultura.”
Scorrendo i nomi dei prossimi artisti che esporranno nel corso dell’anno alla Galleria Cinica ho notato che ognuno proviene da realtà territoriali molto differenti. Inoltre, ciascuno si esprime attraverso i molteplici linguaggi che oggi caratterizzano la scena artistica nazionale: dalla pittura all’installazione sonora, dalla fotografia alla performance…
“Sì. Abbiamo voluto dare spazio ad ogni tipologia di espressione artistica, per proporre all’eventuale pubblico una visione quanto più possibile completa della realtà artistica contemporanea. L’obiettivo è quello di dare spazio a giovani artisti e curatori che molto spesso si muovono con difficoltà all’interno di un sistema dalle meccaniche complesse.”
Ogni artista si esprime attraverso una differente prassi artistica dando vita ad idiomi molto personali su cui sicuramente avrà influito anche il suo background culturale e territoriale. Scopo ultimo delle differenti esposizioni in programma è far emergere le loro differenze ed affinità sia linguistiche sia regionali?
“Al di là delle differenze linguistiche e regionali, ciò che si vuole far emergere è in primo luogo la volontà espressiva di ogni artista e la validità di giovani curatori che in un momento critico come quello in cui viviamo difficilmente dispongono della possibilità di esprimere la propria professionalità.”
In questo primo evento avete riscontrato un buon interesse di pubblico? Che tipo di utenza avete registrato? Siete rimasti soddisfatti? Quali sono le vostre aspettative circa le prossime esposizioni?
“Siamo rimasti molto soddisfatti della risposta che abbiamo ricevuto. Ciò che ci ha più positivamente sorpreso, in una piccola realtà come l’Umbria, è stata l’attenzione e la presenza di un pubblico giovane. Per il futuro, continueremo ad operare cercando di non deludere le aspettative di chi fruirà di tali esperienze.”
Lei è supervisore della curatela delle mostre in programma; alcune esposizioni, come quella attuale, sono curate direttamente da lei mentre altre sono a cura di altri giovani curatori. Quale è il motivo di questa differenziazione? Perché?
“Per ragioni programmatiche e scelte di linearità. In un contesto difficile come quello provinciale, abbiamo pensato fosse importante fornire dei punti di riferimento grossomodo continui al pubblico; delle figure a cui attribuire una sorta di responsabilità. Inoltre, per scelte curatoriali: abbiamo cercato di dare spazio anche alla nostra realtà territoriale e a chi vi lavora, creando così un contatto con il contesto. Donare un’identità riconoscibile allo spazio, percepito passivamente da chi non frequenta il museo, è uno degli obiettivi del nostro progetto.”
#intervista a carla capodimonti#interview#Galleria Cinica#palazzo lucarini#Diego Petroso#maila buglioni
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DANCITY // WETRANSFER // OPEN CALL, a cura dell'Associazione Culturale Dancity

26/27/28 Giugno 2014
Palazzo Candiotti, Largo Frezzi, Foligno (PG).
BREVE TESTO INTRODUTTIVO
La presente mostra, risultato finale della selezione di dieci progetti che hanno partecipato alla Open Call di Dancity in collaborazione con Wetransfer, approfondisce il concetto labile di Gateway, o passaggio.
La transitorietà del contemporaneo prende forma all’interno di un contesto storico, che è quello di Palazzo Candiotti. Le opere sono come sospese nella riservatezza di un contenitore inviolabile, ricco di storia, di testimonianze del passaggio nel tempo garantito dai ricchi affreschi che scandiscono gli spazi.
L’immaterialità dei linguaggi coevi è la condizione che permette proprio di usufruire di una situazione di transito, di indefinitezza che consente di muoversi nella realtà - spazio-temporale - e di cambiare, di mutare attraverso le espressioni della sperimentazione.
Carla Capodimonti
Artisti: Davide Calvaresi, Federica Di Carlo, V O I D, Martin Romeo, Nicole Voltan, Another Studio, htcos (how to cure our soul), Marco Morandi, Daria Baiocchi, Davide Fasolo.

htcos (how to cure our soul), Conversations, 2011-2014, Installation view.

Another Studio, Sulla soglia, 2014, Installation view.

Davide Calvaresi, Tombo, 2014, Installation view.

Nicole Voltan, In Fluxus, 2014, Installation view.

Federica Di Carlo, Ogni cosa è illuminata #3, 2014, Installation view.

Marco Morandi, Progetto Lucina, 2014, Installation view.

Martin Romeo, Label, 2011, performance.

V O I D (Arnaud Eeckhout + Mauro Vitturini), Magnetic field, 2014, opera vincitrice visibile dal mese di Luglio 2014 su www.wetransfer.com. Photo by Luca Petrucci.
#DANCITY // WETRANSFER // OPEN CALL#wetransfer#Dancity#Dancity Festival 2014#Gateway#Carla Capodimonti#Palazzo Candiotti
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(Come) Achille_The worst way in the worst place. Il modo peggiore sul terreno peggiore., a cura di Carla Capodimonti
17/05 - 06/07/2014 (prorogata)
Galleria Cinica (Palazzo Lucarini Contemporary - Ex Flash Art museum), Trevi PG (Italy).
Testo critico a cura di Carla Capodimonti
“La galleria è un luogo come un altro, uno spazio che è parte di un meccanismo globale, un campo base senza il quale nessuna spedizione è possibile; un club, la scuola o la strada non sono luoghi migliori, ma semplicemente altri luoghi dove è possibile mostrare l’arte.”[1]
La mostra non è il risultato finale di una ricerca ma una zona di produzione, di incontro con il pubblico al quale vengono messi a disposizione gli strumenti necessari per sviluppare un pensiero critico sulla società. Il museo, luogo di creazione, funge in questo caso da spazio generatore di un nuovo movimento di critica d’arte partecipata. Un atto di protesta contro l’ufficialità, un manifesto nato per sviluppare una rete partecipativa con potere decisionale: “d’altro canto, adottando una nuova grammatica fatta non tanto di moduli d’ordine quanto di un progetto permanente di disordine, [l’artista] ha accettato proprio il mondo in cui vive nei termini di crisi in cui esso si trova.”[2]
All’interno di un sistema nel quale si stabiliscono delle relazioni, nasce e si codifica l’intera opera di (Come) Achille: un lavoro di arte condivisa e in divenire. Ognuno è libero di esprimere la propria opinione riguardo l’opera dell’autore, il quale si espone per la prima volta, scegliendo di farlo sul terreno peggiore: il sistema dell’arte.
Nel rispetto della coscienza critica di ognuno, egli ci invita a rivedere l’intero apparato, lasciando decidere ad un pubblico eterogeneo la validità o meno del proprio lavoro. Lo spirito fortemente sociale dal quale nasce il progetto favorisce l’opinione di critici “non ufficiali” al sistema artistico dominante, strettamente influenzato dal mercato.
[1] Nicolas Bourriaud, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, 2004, Postmediabooks, Milano, p. 67.
[2] Umberto Eco, Opera aperta, 2009, Bompiani, Milano, p. 263.
(Come) Achille, Be my Peggy, 2014, pics from around the world.
(Come) Achille, Be my Peggy, 2014, flyer.


(Come) Achille_The worst way in the worst place. Il modo peggiore sul terreno peggiore., 2014, installation views.
(Come) Achille_The worst way in the worst place. Il modo peggiore sul terreno peggiore., 2014, video (1'20''): https://vimeo.com/100221837
#(Come) Achille_The worst way in the worst place. Il modo peggiore sul terreno peggiore.#Carla Capodimonti#Galleria Cinica#critica d'arte partecipata#partecipated art criticism#bemypeggy#nicolas bourriaud#umberto eco
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Aurélien Mauplot_Desillusions, a cura di Carla Capodimonti
05/04 - 04/05/2014
Galleria Cinica (Palazzo Lucarini Contemporary - Ex Flash Art museum), Trevi PG (Italy).
Aurélien Mauplot, classe ’83, presenta un progetto basato su riflessioni di carattere filosofico e scientifico riguardo ai limiti della percezione umana in relazione al proprio ambiente naturale e sociale.
L’artista francese sviluppa la sua ricerca partendo dall’approfondimento dell’opera La Repubblica di Platone – nella quale l’autore analizza il celebre “mito della caverna” – rimodellandone il contenuto e mettendo alla prova lo sguardo e la percezione che l’uomo ha del mondo circostante.
I limiti fisici vengono inoltre esplorati e svelati – nello scalare la vetta più alta della terra – nel libro di Maurice Herzog, Annapurna. Il primo 8000, al quale l’artista fa riferimento per rivelarne un altro punto di vista, o identificare la parte superiore, in direzione inversa. Mauplot restituisce alle pagine del libro le cime, o i confini, del mondo utilizzando la linea di Karman, fisico ungherese, scomparso nel 1963, che definisce il profilo della terra dallo spazio.
Renversement du Monde
Renversement du Monde, extension heliograttées 2014. Fotocalcografia grattata e rivoltata (tratto da: Annapurna, premier 8000 de Maurice Herzog, ed. Arthaud, 1952), particolare.
Nel 1951, una compagine francese si inoltra nelle terre sconosciute del cuore del Nepal, all’estremità del mondo, al confine con il cielo. I membri della spedizione, entusiasti e determinati, non hanno in testa null’altro che quei novantuno metri che li condurranno alla volta degli 8000, distanza che li separerà dal mare, vasta terra liquida, indomabile, come il suo opposto celeste. Per la prima volta, l’Uomo (per lo meno quello occidentale), scopre l’ebbrezza assoluta, sotto il tetto del mondo.
Renversement du Monde, extension heliograttées 2014. Fotocalcografia grattata e rivoltata (tratto da: Annapurna, premier 8000 de Maurice Herzog, ed. Arthaud, 1952), Installation view.
Nel 1953, scompare Theodore Von Karman, fisico ungherese, padre della Linea di Karman. Essa materializza, tramite analisi fisiche, una dimensione assolutamente astratta e indica che lo Spazio si trova 100 km al di sopra del livello del mare. Karman definisce, dunque, il confine tra terra e Spazio, tracciando una frontiera tra il territorio dell’umanità e l’ignoto, l’impalpabile, l’inafferrabile: quella massa nera che non si riflette ai nostri occhi se non attraverso lo stordimento provocato dal suo infinito vuoto.
Le Renversement du monde confonde due volontà prodigiose, eccessive e tuttavia essenziali per lo sviluppo dell’essere: il superamento di se stessi e la relativizzazione del mondo. Corsa verso l’ignoto, rischio di perdersi in esso e di individuarvi ciò che esiste, per arrivare a concepire un mondo possibile, nel quale il sogno trova la sua realizzazione.
Platon – Caverne
L’origine di questo nuovo approccio è la scomparsa del testo del libro VII della Repubblica di Platone, sino a far vedere solo l’elemento più rilevante e conosciuto: la caverna. E’ così che appare il solo termine “caverna” sulla pagina del testo originale.
Questo mito pone la problematica (qui volgarmente riassunta) di come l’uomo percepisce il suo mondo. Così, si è sviluppata l’idea che l’individuo può acquisire conoscenza solo attraverso ciò che vede e ciò che può fisicamente osservare e percepire.
Esso definisce quindi tale attitudine come una capacità fisica dovuta unicamente alla posizione della luce nello spazio. L’Uomo non vede quindi, se non in presenza di luce. Egli non discerne, perciò non conosce nulla. La luce forma il nostro mondo e la vita sulla Terra. Prima dell’acqua, elemento necessario allo sviluppo della vita, c’è la luce che permette di vedere, di sapere, o più profondamente: la Luce che permette di essere… E’ probabile che noi tendiamo ad accettare la luce come fonte della realtà.
Platon – Caverne – Décembre 2010, Installation view.
Sulla base di tali principi c’è l’utilizzo del nero come colore inverso ad essa e di conseguenza come elemento di inaccessibilità alla conoscenza; il testo si trasforma in un blocco nero, opaco, che rende inaccessibile il suo significato (la sua lettura, comprensione), la sua materia e soprattutto, la sua esistenza. Solo la caverna resta disponibile, come rappresentazione di un luogo e di uno spazio che ognuno può immaginarsi o ricordare (esperienza). Termine emblematico di questo testo conosciuto in tutto il mondo, e idea accessibile per il mondo intero. E’ ugualmente un luogo nel quale non vi è alcuna fonte di luce.
Platon – Caverne – Décembre 2010, Installation view.
Così, veniamo alla realizzazione dell’idea della grotta. Di uno spazio nero, noi vogliamo la sua rappresentazione. Del nero, dell’oscuro e del nulla, percepiamo solo ciò che è il nostro posizionamento nella sua tana, la nostra tana immaginaria che mette in evidenza un luogo invisibile. Appaiono allora di fronte a queste pagine, pietre di grotte preistoriche conosciute in tutto il mondo. Di queste grotte non è generalmente ricordata la loro forma né la loro materia, ma piuttosto il loro contenuto. Sono pitture rupestri come immagini della caverna. Sono pietre utilizzate come il collegamento tra la materia naturale e gli spazi, come l’immagine che ciascuno ha delle grotte preistoriche e la materializzazione immaginata della caverna.
Testi: Aurélien Mauplot
Traduzioni: Laura Campus, Carla Capodimonti

Aurélien Mauplot_Desillusions, Installation view, 2014.

Aurélien Mauplot_Desillusions, Installation view, 2014.

Aurélien Mauplot_Desillusions, particolare, 2014.
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