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Echocide in the box
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Fanwriter. Italian. Fangirl. My obsession? Miraculous Ladybug! I created the Quantum Universe from S1 of Miraculous Ladybug... And I'm sorry but I'm writing in Italian.Is there anybody who wants to translate my fanfiction? Ask me? Here Theme @ Yukoki
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echocideinthebox-blog · 8 years ago
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La bella e la bestia - capitolo 3
Indice dei capitoli: La bella e la bestia
«Dov’è Plagg?» Wayzz sussultò, osservando l’ombra del giovane padrone mentre si aggirava furioso per la stanza, senza sapere cosa dire: era compito di quell’idiota di Plagg calmare l’ira del loro signore e lui… Lui l’aveva detto che era una pessima idea, insomma. Ma quell’idiota patentato l’aveva ascoltato? Nossignore, no. Aveva fatto sistemare il carro ad alcuni servitori e poi era partito, con una lettera scritta di suo pugno ma firmata con il nome del loro padrone. La fanciulla verrà qui, manderà via il padre e prenderà il suo posto!, aveva dichiarato allegro mentre balzava in cassetta: Succederà così! Fidati! L’ho letto in un libro. Wayzz sospirò, sentendosi vicino a perdere qualche rotella: quell’idiota di Plagg non poteva pensare che la realtà sarebbe stata uguale a quella di un romanzo che aveva letto, non.. «Wayzz!» tuonò il signore del castello, facendolo sobbalzare e il servitore tremò, vedendo la figura scura che incombeva su di lui: «Dov’è Plagg?» ripeté nuovamente, quasi ringhiando quelle due parole. «Ecco, lui…come dire…» «Wayzz!» «E’ andato a prendere la figlia del vostro ospite, sempre se così si può definire un uomo tenuto in cella.» «Cos’ha fatto?» «Lui crede che…» biascicò, osservando la figura balzare lontano da lui e avvicinarsi al piccolo tavolo a tre gambe, scaraventandolo da una parte: «Signore…ecco…» «Quel…quel…» Un ruggito potente si levò dalle labbra del padrone e Wayzz tremò, ben sapendo quanto poteva essere distruttiva la sua rabbia e Plagg, stavolta, l’aveva combinata davvero grossa: «Signore?» «Cosa c’è?» «Che cosa devo fare con la ragazza quando arriverà?» Un nuovo ringhio, più basso e sinistro, fu la risposta del padrone mentre questi si accucciava a terra e balzava, colpendo la pesante porta della stanza con una spalla e uscì fuori, dio solo sapeva, diretto dove. Wayzz sospirò, guardando la stanza padronale immersa nel caos e nella distruzione tranne per la nicchia ove, una cupola di vetro, proteggeva una rosa: i petali si erano ammassati attorno allo stelo e solo pochi resistevano ancora: «Fra non molto compirà ventuno anni…» mormorò, fissando un petalo tremare leggermente, sinonimo che presto sarebbe caduto come tanti altri compagni. Marinette sospirò, mentre gettava un po’ di vestiti alla rinfusa nella sacca, venendo ostacolata a ogni passo dalla madre, che la seguiva per tutta casa: «Cosa c’è?» domandò, mentre si calcava in testa il berretto e la fissava, le mani poggiate sui fianchi e lo sguardo di chi era pronto a dar battaglia pur di aver ragione. «Non dovresti partire.» «Cosa? Ma papà…» «Tuo padre sarebbe d’accordo con me» dichiarò Sabine, incrociando le braccia e alzando il mento con aria di sfida: «E poi non sta bene che una signorina viaggi da sola…» «Ci sarà il candelabro con me.» «Oh per l’amor del cielo, Marinette!» La ragazza gettò una maglia nella sacca, stringendo i lacci e voltandosi verso la madre: «Qualsiasi cosa mi dirai, io non cambierò idea» sentenziò, fissando seria la donna: «Prenderò il carro e andrò da papà, che tu lo voglia o no.» «Perché non puoi essere come le altre ragazze?» sospirò Sabine, scuotendo il capo sconsolata: «E’ colpa di tuo padre, lo so. Invece di incoraggiarti con quell’assurda idea della meccanica, doveva portarti vestiti e accessori, così che tu…» «Mi pavoneggiassi come Chloé Bourgeois per le strade di Parigi? Mamma, sii seria.» «E’ così grave se voglio vedere la mia bambina sposata – possibilmente con qualcuno di ricco – e soprattutto vestita a modo e senza la presenza fissa di olio e macchie?» Marinette sorrise, chinandosi e baciando le guance della madre: «Tornerò presto. E con papà, te lo prometto» dichiarò, afferrando la sacca e uscendo velocemente dalla stanza, diretta verso l’esterno e il carro che l’attendeva; sentì i passi svelti della donna che la seguivano e, quando si fermò davanti il barroccio, sentì il fiato ansante di sua madre: «Tornerò, mamma.» «Beh, non potresti trovarmi qui. Me ne andrò.» La ragazza sorrise, salendo a cassetta: «A presto, mamma» dichiarò, chinandosi in avanti e prendendo le redini dei cavalli e dando un sonoro schiocco, sentendosi pervadere da un brivido di eccitazione: non era la prima volta che viaggiava, ma era la prima in cui si avventurava da sola oltre i confini di Parigi. Si voltò verso il candelabro, che aveva comodamente sistemato di fianco a lei: «Beh, signor Candelabro. E’ ora di fare le presentazioni, io mi chiamo Marinette Dupain-Cheng» dichiarò, allungando una mano e carezzando il metallo freddo: «Spero che tu sia un compagno di viaggio simpatico, sarebbe veramente scocciante fare tutta quella strada con un noioso a fianco.» continuò, voltandosi poi verso la strada e dedicando a questa tutta la sua attenzione, non notando che l’oggetto piegò le labbra in un sorriso convinto. Wayzz sbuffò, mentre saliva i gradini della scala di pietra e raggiungeva la cella ove era tenuto il loro ospite: non sapeva dove era andato il padrone, ma era certo di conoscere il luogo che avrebbe visitato una volta tornato al castello. E non voleva davvero essere nei panni di quel poveretto, la cui unica colpa era stata quella di trovare un riparo durante una tempesta e aver visto il padrone in volto. Osservò la porta davanti a lui e sospirò: sarebbe stato complicato, ma ce l’avrebbe fatta. Avrebbe fatto evadere Tom Dupain poi, una volta che la figlia fosse giunta lì, l’avrebbe rispedita a casa. Si fermò, inspirando profondamente e osservando le chiavi che teneva in mano: e se Plagg avesse avuto ragione? E se la ragazza che stava portando lì era colei che avrebbe posto fine a tutto? Alzò di nuovo la testa, annuendo fra sé: avrebbe liberato il padre e poi avrebbe aiutato Plagg a tenere la ragazza lì. Se voleva che qualcosa succedesse serviva che il padrone e la ragazza dovessero rimanere il più tempo possibile da soli. E quel piano non contemplava Tom Dupain. Marinette si strinse nella giacca, scendendo dal carro e osservandosi attorno, sospirando pesantemente: «Mi sono persa…» mormorò, guardando la vegetazione e la strada che si diramava; rimase ferma a osservare la strada per una manciata buona di secondi, prima di abbassare lo sguardo sul foglio che teneva in mano e rileggere le note di viaggio che erano state spedite con la lettera, non sapendo che fare. Le aveva seguite alla lettera, eppure si era persa. Si strinse nelle braccia, rabbrividendo quando sentì un ululato fin troppo vicino per i suoi gusti e si affrettò a tornare sul carro: «Che devo fare?» pigolò, togliendosi il berretto di testa e osservando sconsolata ciò che la circondava: la notte stava rapidamente scendendo e lei non aveva la più pallida idea di dove era. E questo comportava un bel problema. «Si può essere più imbranati e sfortunati di me?» «Beh, io conosco una persona che è veramente sfortunata.» dichiarò un’allegra voce maschile al suo fianco, facendola rabbrividire di più: lei era sola, completamente sola. Aveva solo un candelabro con sé e quindi… Briganti! Erano giunti lì senza che se ne accorgesse e ora sarebbe stata alla loro mercé. Oh, ma perché non ascoltava mai sua madre? «Chi sei?» «Plagg.» le rispose la voce dell’uomo ed era così fastidiosamente vicina, che quasi le sembrava provenisse dal suo fianco: «Per servirvi, madamoiselle.» «Sono armata.» «E di cosa?» «Di un candelabro?» «E perché vorreste usarmi come arma?» Marinette sussultò, inspirando profondamente e voltandosi lentamente verso la sua destra: rimase a bocca aperta, osservando il candelabro muoversi e sorriderle, facendole un cenno con uno dei bracci che sosteneva una candela. Rimase immobile per un secondo, poi qualcosa scattò dentro di lei e si affrettò a scendere dal calesse, allontanandosi il più possibile e osservando il pezzo di metallo salire sul parapetto e fissarla: «Madamoiselle…» Un ruggito si levò nell’aria, facendo tremare ancora di più Marinette, mentre il candelabro sbuffò: «Fantastico. Siamo vicini a casa e il padrone ha sentito il mio odore.» bofonchiò, voltandosi verso la ragazza: «Madamoiselle Marinette, la prego di non farsi prendere dal panico per ciò che vedrà da adesso in poi.» La ragazza rimase fece un passo indietro, addossandosi contro uno degli alberi e portandosi le mani al volto: doveva scappare? Poteva un candelabro correre più velocemente di lei? Doveva… Un qualcosa di nero atterrò vicino al carro e i cavalli s’impennarono, nitrendo imbizzarriti, partendo poi a tutta velocità e facendo sobbalzare fuori il candelabro di nome Plagg mentre Marinette rimase immobile, osservando la cosa che era giunta: «Plagg!» «Padrone! Qual buon vento?» La cosa si avvicinò all’oggetto e lo prese fra le sue dita, mentre la ragazza scivolò a terra, osservando la scena e cercando di non fare rumore: se nessuno l’avesse notata, lei sarebbe potuta fuggire via e recuperare il carro e… E non lo sapeva neanche lei cos’altro fare. «Cos’hai fatto?» ringhiò la cosa, alzandosi in tutta la sua statura e notando quando Plagg non fosse per nulla intimorito: «Ti avevo detto…» «Padron Adrien! E’ quella giusta! Me lo sento!» Padron Adrien ringhiò e Marinette lo vide voltarsi verso di lei: la cosa rimase immobile, poi aprì la mano e il candelabro cadde a terra, rialzandosi subito e ricomponendosi: «Madamoiselle Marinette, non abbiate paura.» le disse, rimanendo immobile mentre la cosa si avvicinava. Aveva il passo lento e pesante, mentre alle sue orecchie giungeva il rumore familiare di ingranaggi che giravano: rimase ferma al suo posto, troppo impaurita per muovere un muscolo, e osservò Padron Adrien chinarsi davanti a lei e portare le mani – una sembrava una zampa animale, l’altra era qualcosa simile a un arto di metallo – al cappuccio che teneva in capo, tirandolo via: due orecchie feline si muovevano a scatti su una testa bionda, mentre metà volto era attraversato da filamenti neri, quasi come se fossero tatuaggi, e l’altra metà era rugosa e increspata. Solo gli occhi verdi, che la fissavano, erano umani. Tutto il resto era.. Era… Un mostro. Marinette inspirò profondamente, osservando la bestia che aveva davanti, fatta di carne e metallo, alzarsi in tutta la sua statura e fissandola dall’alto e, per la prima volta in vita sua, la ragazza fece ciò che sua madre desiderava tanto: si comportò da comune ragazza, urlando con tutto il fiato che aveva in corpo.
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echocideinthebox-blog · 8 years ago
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La bella e la bestia - capitolo 2
Indice dei capitoli: La bella e la bestia
Tom Dupain gemette, aprendo gli occhi avvertendo immediatamente una fitta di dolore che gli attraversò la testa, costringendo a serrare nuovamente le palpebre: cosa era successo? Dove si trovava? Ignorando il dolore più persistente, con fatica si issò a sedere e osservò l’ambiente in cui si trovava: le mura scure erano composte da mattoni grezzi e una lieve patina di umido le ricopriva, in vero l’intero posto sembrava aver ceduto al tempo e alla vegetazione, visto che alcuni rampicanti entravano dalla finestra e si allungavano all’interno della stanza: «Dove mi trovo?» si domandò l’uomo, alzandosi e barcollando leggermente. Ricordava la tempesta, che aveva fatto imbizzarrire i cavalli e lo aveva condotto su una strada diversa, lontano dal suo percorso abituale per tornare a casa. Ricordava di aver intravisto un’abitazione e di aver cercato un qualche accesso e poi… Poi il nulla. La sua mente era totalmente oscura. Come era finito lì? Perché era lì? Chi ce lo aveva portato? Erano tutte domande senza risposta e che lo agitavano: il cuore batteva veloce e il respiro era affannato, mentre continuava a guardarsi attorno, alla ricerca di un qualche indizio che spiegasse la sua presenza in quella stanza. Cella, si corresse immediatamente, osservando la porta di legno e che aveva una piccola apertura in alto, attraversata da sbarre di metallo: chi lo aveva catturato? Perché? Non era ricco, era un semplice mercante che faceva la spola tra Parigi e Tours, non aveva nulla da offrire a dei rapitori. Anche i suoi abiti, che avevano visto giorni migliori, erano un indice di quanto non fosse benestante… Quindi perché catturarlo? Un rumore lieve, al di là della porta, lo fece sobbalzare: «Il padrone non sarà contento di saperci qua…» mugugnò una voce metallica, che provocò in Tom un nuovo brivido: una volta, sua figlia, gli aveva mostrato un libro dove c’era la figura di un uomo che, per metà del corpo, era fatto di metallo. Possibile che, dall’altra parte, ce ne fosse uno simile? «Sai quanta paura mi fa quel ragazzino» commentò una seconda voce, con tono sbrigativo: «Cosa potrebbe farmi? Ruggirmi contro? Sgranocchiarmi un po’?» Ruggire? Sgranocchiare? Dove era finito? E se fossero stati dei cannibali? E se… «Ma perché vuoi vederlo?» «Perché sento che quell’uomo è…è…non so dirtelo, ma vedo in lui la soluzione al nostro piccolo problemino.» Lo avrebbero ucciso. Ora ne aveva la conferma. «Vi…vi…prego, n-non u-uccidetemi.» mormorò, allontanandosi dalla porta e osservandola, come se da un momento all’altro si fosse spalancata e i suoi carcerieri sarebbero entrati per portarlo verso morte certa. «Oh. E’ sveglio!» «Perché ci ha chiesto di non ucciderlo? Plagg, cosa hai combinato?» «Assolutamente niente.» «E allora…» «Forse ci ha sentiti…» mormorò l’uomo che rispondeva al nome di Plagg: «Buon uomo, stia tranquillo! Con noi può dormire sogni tranquilli…beh, per quanto si possa dormire lì dentro, l’avevo detto al nostro signore che una stanza più confortevole sarebbe stata adeguata, Tikki aveva anche preparato quella blu nell’ala est…» si fermò, lasciando andare un enorme sospiro: «Ma quel moccioso è testardo come un mulo.» «Vi, prego. Lasciatemi andare. Io non sono nessuno, sono solo un umile mercante…» mormorò Tom, sperando di far leva sull’umanità dei due: «Vi prego, mia moglie e mia figlia mi aspettano a casa.» «Lei ha una figlia?» «S-sì.» «Sentito, Wayzz! L’avevo detto che era la soluzione al nostro problema.» «Non vedo come il fatto che abbia una figlia possa aiutarci.» «Co-cosa volete fare a mia figlia?» «Assolutamente niente, buon uomo!» sentenziò Plagg, cercando di tranquillizzarlo: «Giusto una domandina innocente: che rapporto ha sua figlia con il pelo?» «Voilà!» Marinette sorrise orgogliosa, togliendo il lenzuolo dalla sua creazione e mostrandola al padrone delle bottega: «La macchina taglia e arriccia, Theo.» dichiarò, facendosi da parte e osservando il barbiere avvicinarsi per studiarla: «Ti semplificherà il lavoro: basta che la imposti, tramite questa semplice manopola qua e voilà! Taglia, arriccia e imbelletta. E per farla funzionare, devi semplicemente rifornirla di vapore…» «E’…è…» «Incredibile, vero?» esclamò la ragazza, battendo le mani e sorridendo: «Purtroppo ho potuto impostare solo quattro tagli base, i più comuni. L’ho testata su alcuni manichini, i bracci si muovono ed è stata perfetta. Beh, nella maggior parte dei casi.» «Marinette, ti ringrazio veramente…» «Ma…» «Cosa?» «Dalla tua frase sembrava che ci fosse un ma?» «Ecco, è quella ‘maggior parte dei casi’ che mi costringe a rifiutare la tua invenzione.» dichiarò Theo, posandole le mani sulle spalle e sorridendole comprensivo: «La gente viene qui per farsi tagliare la barba, non per rischiare di venire sgozzato.» «Ma funziona!» «Ne sono certo, Marinette, però mi spiace. Non posso accettarla.» «Te la faccio vedere in funzione, d’accordo?» esclamò la ragazza, sgusciando dalla presa dell’uomo, andando a recuperare il manichino che aveva lasciato fuori dalla porta del negozio: «Ti presento monsieur Mannequin!» «Perché ha un taglio sulla faccia?» «Incidente di percorso.» bofonchiò sbrigativa la mora, sistemando con un po’ di fatica il manichino sulla poltrona, sorridendo poi al barbiere: «Monsieur Mannequin vuole un taglio Chevron per i suoi baffi.» spiegò, armeggiando con la borsa che teneva in vita e recuperando un paio di baffi posticci, appiccicandoli in faccia al fantoccio: «Quindi, giro questa manopola qua, apro il vapore e…» la ragazza si allontanò, osservando soddisfatta i bracci della macchina avvicinarsi al volto del manichino e iniziando a tagliare: «…voilà! Mentre ti occupi di un altro cliente, la macchina…» Un fischio lungo e acuto zittì Marinette che, riportando l’attenzione, sulla macchina notò come questa stava tremando e aveva iniziato a muovere i bracci in maniera sconclusionata, sfregiando il volto di monsieur Mannequin e portandolo alla prematura morte per decapitazione: «Ah…» «L’ha…l’ha…» «Succede quando è fredda, deve solo riscaldarsi. Sistemo la testa a…» «Marinette, domani viene a prendila e riportala a casa tua.» «Sì, d’accordo.» mormorò mesta la ragazza, osservando l’uomo, togliere il tubo del vapore e spingere la sedia in un angolo del suo negozio: «Theo, io…» «Domani, Marinette.» La giovane annuì, uscendo dal negozio e sospirando, calcandosi poi il berretto sulla testa: «Anche stavolta è stato uno schifo» borbottò, osservando alcune ragazze camminare dalla parte opposta della strada: i vestiti lindi e femminili erano l’esatto opposto della maglia logora e della corta gonne a balze che indossava lei. Era stata contenta quando, dall’odiata Inghilterra, era giunta la moda delle gonne corte: le permettevano un’ampia mobilità e non facevano gridare sua madre, come succedeva ogni volta che provava a indossare dei pantaloni. Si portò una mano all’altezza del petto, giocherellando con il ciondolo a forma di coccinella, l’ultimo regalo che suo padre le aveva portato da Tours e incamminandosi verso casa. La data del ritorno del genitore era passata da una settimana, eppure dell’uomo non c’era ancora segno, non che questo la preoccupasse, poiché capitava molto spesso che tornasse con parecchi giorni di ritardo: ecco perché voleva a tutti costi costruire un dirigibile o comunque una macchina volante che facilitasse gli spostamenti del padre, peccato che servivano parecchi soldi e le sue invenzioni… «Oh. Ma guarda un po’ chi c’è» una sgradevole voce femminile le giunse alle orecchie, facendola sbuffare: «Marinette Dupain-Cheng. Chi hai cercato di uccidere oggi?» «Chloé Bourgeois» mormorò la ragazza, voltandosi e osservare la figlia del sindaco uscire dalla pasticceria, vicina al negozio di Theo: «Ti mescoli a noi comuni mortali oggi?» domandò, cercando di ignorare l’abito giallo e carico di nastri e fiocchi. Qualcuno doveva dire a quella ragazza che l’esagerazione non significava più eleganza. Dietro di lei, come al solito, arrancava Sabrina Raincomprix con le braccia cariche di pacchetti e l’espressione sofferente di chi sta portando un peso eccessivo rispetto alla propria forza; Marinette sorrise alla giovane, venendo ricambiata da un timido piegamento delle labbra. «Come al solito puzzi, eh Marinette?» «Come al solito sembri una merceria ambulante, eh Chloé?» «Almeno io non mi vesto da stracciona. Oh, ma cosa dico: tu se una stracciona.» dichiarò la figlia del sindaco, gettandosi indietro un boccolo biondo e sorridendo divertita; Marinette ringhiò, stringendo i pugni e osservando l’altra superarla: «Ricordalo, Marinette. Tu non sarai mai nient’altro che la tipa stramba che vive in fondo a questa via. Niente di più, niente di meno.» «Beh, sempre essere la tipa stramba che quella che è odiata tutta Parigi!» sentenziò la ragazza, osservando la bocca di Chloé spalancarsi in una O perfetta; sorrise, voltandosi e andandosene velocemente, prima che l’altra si riprendesse dall’affronto e le potesse dire altro. Corse velocemente per la strada, raggiungendo il palazzo ove viveva con i genitori e sorridendo alla vista del carro del padre: era tornato! Finalmente era di nuovo a casa! Entrò velocemente nella stalla, osservando la madre accudire i due cavalli dal manto pezzato: «Dov’è, papà?» domandò, attirando l’attenzione della donna, mentre lei si guardava intorno: suo padre non avrebbe mai lasciato le due bestie senza occuparsene, erano la sua priorità appena arrivava a casa. «Tuo padre non c’è.» «Cosa?» Sabine si avvicinò alla figlia, mostrandole una lettera con un sigillo in lacca: «Il carro è arrivato con solo la merce. E in cassetta c’erano questa lettera e uno strano candelabro.» dichiarò, indicando con un cenno del mento il calesse, fuori dalla stalla: «La lettera è per te, Marinette.» La ragazza annuì, uscendo e carezzando il legno del carro, sorridendo alla vista del candelabro: aveva una figura umana e sembrava fatto di ottone; lo prese in mano, facendo scivolare un polpastrello sulle forme del viso e poi riponendolo nuovamente in cassetta, dedicando tutta la sua attenzione alla lettera, osservando la grafia ordinata con cui era stato scritto il suo nome e notando subito che non era quella di suo padre. Che cosa era successo? Ruppe il sigillo di lacca e tirò fuori il biglietto all’interno della busta, leggendo le poche righe che vi erano state scritte:
Madamoiselle Marinette Dupain-Cheng, con la presente la informo che ho soccorso vostro padre lungo la strada che da Tours va a Parigi. Purtroppo non può muoversi e così ho mandato il carro a casa, sperando che voi potreste venire a recuperare il vostro genitore e riportarlo a casa. Sempre vostro, Adrien Agreste
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echocideinthebox-blog · 8 years ago
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La bella e la bestia - capitolo 1
Indice dei capitoli: La bella e la bestia
  Tanto tempo fa, in un paese lontano lontano, un giovane principe viveva in un castello splendente. Benché avesse tutto quello che poteva desiderare, il principe era viziato, egoista e cattivo. Accadde però che una notte di inverno una vecchia mendicante arrivò al castello e offrì al principe una rosa in cambio del riparo dal freddo pungente. Lui, che provava repulsione per quella vecchia dal misero aspetto, rise del dono e la cacciò. Ma lei lo avvertì di non lasciarsi ingannare dalle apparenze, perché la vera bellezza si trova nel cuore. Il principe la respinse di nuovo e in quel momento la bruttezza della mendicante si dissolse ed apparve una bellissima fata. Il principe si scusò, ma era troppo tardi, perché lei ormai aveva visto che non c'era amore nel suo cuore e per punirlo lo tramutò in una orrenda bestia e gettò un incantesimo sul castello e su tutti i suoi abitanti. Vergognandosi del suo aspetto mostruoso la bestia si nascose nel castello con uno specchio magico come unica finestra sul mondo esterno. La rosa che gli aveva offerto la fata era davvero una rosa incantata e sarebbe rimasta fiorita fino a che il principe avesse compiuto 21 anni. Se avesse imparato ad amare e fosse riuscito a farsi amare a sua volta prima che fosse caduto l'ultimo petalo, l'incantesimo si sarebbe spezzato; in caso contrario sarebbe rimasto una bestia per sempre. Con il passare degli anni il principe cadde in preda allo sconforto e perse ogni speranza... Chi avrebbe mai potuto amare una bestia? [Incipit de La bella e la bestia - 1991]
Tom Dupain si asciugò la fronte, alzando il viso verso il cielo grigio e sospirando: mancavano molte miglia e di certo non sarebbe tornato a casa quel giorno; strinse le redini del calesse e guidò i cavalli lungo il sentiero tortuoso, sperando di essere in prossimità di una locanda. Un rumore meccanico gli fece di nuovo alzare la testa, notando un dirigibile solcare avventuroso quel cielo plumbeo: ricchi, pensò con tono di sfida l’uomo, trattenendo con più forze le cinghie dei cavalli e pregando che il suono non li spaventasse. Speranza vana, poiché lo scoppio di un tuono nelle vicinanze, li fece imbizzarrire: Tom aumentò la presa sulle redini, usando tutta la sua forza per trattenerli mentre questi correvano lungo il sentiero, reso accidentato dalla pioggia. Doveva fare qualcosa. Doveva assolutamente fare qualcosa o non sarebbe uscito vivo da tutto ciò. Strinse i denti e, con tutta la sua forza, costrinse gli animali a curvare onde evitare di finire fuori dalla strada, mentre la folla corsa continuava; l’uomo si chinò per evitare un ramo in pieno viso e, usando nuovamente le sue energie, costrinse i cavalli a lasciare la strada maestra per entrare in un piccolo sentiero che portava verso l’alto della montagna che, fino a quel momento, aveva costeggiato e sperando che, con la salita, le bestie si sarebbero stancate maggiormente. Tom respirò a fondo, sentendo la forza degli animali venir sempre meno e, alla fine, gli animali sebbene ancora spaventati fermarono la loro corsa: «Dove siamo finiti?» mormorò l’uomo, balzando a terra e, sempre tenendo le cinghie, avvicinandosi lentamente ai musi dei due cavalli, carezzandoli dolcemente in modo da calmarli. Si guardò attorno, cercando di capire dove quella corsa pazza lo avesse portato ma tutto ciò che riusciva a vedere era solo un muro, che aveva ceduto il potere alla natura selvaggia: «Dove sono finito?» ripeté Tom, mentre un lampo squarciava il cielo e illuminava la notte, mostrando la figura maestosa dell’abitazione al di là della recinzione muraria. Tom carezzò il muso ai due cavalli, stringendo le redini e facendo un passo in avanti, tirando leggermente le bestie per seguirlo: forse, più avanti, avrebbe trovato un cancello. Forse in quel castello, arroccato su quello spunzone di montagna, qualcuno lo avrebbe aiutato. Forse sarebbe riuscito a tornare a casa, da sua moglie e sua figlia. Il motore scoppiettò all’improvviso e rilasciò una nube di fumo nero direttamente in faccia alla ragazza che, tossendo, si alzò velocemente dalla sua postazione, per avvicinarsi alla finestra e spalancarla in modo che l’aria satura di fuliggine venisse in qualche modo cambiata da quella pulita esterna. Pulita. Beh, per quanto poteva essere pulita l’aria di Parigi in quel periodo. Alzò la testa, osservando alcuni dirigibili solcare il cielo: ricchi, pensò mentre si toglieva gli occhiali da saldatore e li teneva in mano, mentre studiava le linee dei mezzi che attraversavano il cielo. Le sarebbe piaciuto creare un qualcosa di simile, un giorno… Magari meno ingombrante e con una forma più elegante. Forse anche un qualcosa di più leggero, in modo che si potesse muovere più veloce e non con il passo pesante che avevano quelli. Con un sospiro si voltò, e posò gli occhiali sul ripiano lì vicino, storcendo la bocca alla vista che le rimandava lo specchio che aveva appeso sopra: il suo viso era completamente sporco di fuliggine e così anche la parte superiore della maglia chiara che indossava. I capelli? Un disastro. E presto Monsieur Bourgeois sarebbe giunto per ritirare il suo lavoro, con l’odiosa figlia al seguito che le avrebbe fatto notare quanto carente fosse in fatto di buone maniere e lato prettamente femminile. La ragazza sospirò, cercando di ripulirsi alla meglio, ma peggiorando solo il lavoro: con uno sbuffo, si tolse i guanti da lavoratore e li gettò accanto agli occhiali: «Sei fortunata che non ti interessa sposarti, Marinette Dupain-Cheng.» dichiarò al proprio riflesso, fissandolo sconsolata: «Nessun uomo ti vorrebbe in questo stato. Nessuno. Fidati.» «Marinette! Marinette!» la voce della madre la mise in allerta e la ragazza si guardò attorno, pensando velocemente a come far sparire il danno che aveva compiuto: «Marinette, cosa è…?» la porta del suo laboratorio si aprì di schianto e una donna piccola e formosa si fermò sulla soglia, osservando a bocca aperta il risultato dello scoppio del motore. Fuliggine ovunque. Un lieve segno di bruciatura sul tavolo e, ovviamente, tanto disordine. Ma quest’ultimo c’era già da prima che il motore scoppiasse. «Marinette!» «Ho dato troppo vapore.» dichiarò la ragazza, pulendosi le mani alla gonna a balze che indossava e avvicinandosi al colpevole di cotanta apprensione: «Vedi? Ho girato troppo la manopola del vapore e il motore non ha retto e…bum!» esclamò la ragazza, allargando le braccia e sorridendo timidamente: «Un incidente di percorso.» «I tuoi incidenti di percorso hanno reso il tetto peggio di un pezzo di hemmental!» bofonchiò la donna, scuotendo la testa: «Marinette, cosa devo fare con te?» «Aiutarmi a pulire prima che arrivi Monsieur Bourgeois?» buttò lì la ragazza, sorridendo allegramente e iniziando a raccattare i fogli sparsi per terra, ascoltando distrattamente il borbottio della madre che, entrata nella stanza, aveva subito messo mano alla ramazza, iniziando a spazzare il pavimento: «Mamma, attenta!» esclamò la ragazza, lasciando andare i fogli e salvando dalle ire della donna alcune viti: «Mi servono queste.» La donna sospirò, alzando gli occhi al cielo: «Io non so davvero cosa fare con te, Marinette.» sbuffò, riprendendo a spazzare e scuotendo il capo: «Se tuo padre fosse qui…» «Ma papà non c’è. E’ sempre fuori per i suoi commerci.» mormorò la ragazza, recuperando i fogli che aveva abbandonato e posandoli sul tavolo, vicino al motore: «E con quel carretto trainato da cavalli. Cavalli! Impiegherebbe molto meno tempo se potesse usare uno di questi…» «Ma non abbiamo soldi per permettercelo.» «Proprio per questo sto cercando di mettere a nuovo questo bambino.» dichiarò la ragazza, battendo una mano sul motore e ricevendo in cambio uno scoppiettio e uno sguardo scettico da parte della madre: «Beh, non sono ancora vicinissima al risultato che voglio, ma ce la farò.» Un sospiro sconsolato si levò dalle labbra della madre, mentre scuoteva il capo: «Certamente.» mormorò, riprendendo a spazzare il pavimento: «Intanto, hai finito il lavoro per Monsieur Bourgeois, vero? Lo sai come…» «E’ tutto pronto. Era solo una vite allentata e per questo il suo orologio non segnava più.» spiegò la ragazza, indicando l’oggetto dorato abbandonato in un angolo del laboratorio: «Io dovrei creare macchine volanti oppure che si spostano per terra utilizzando il vapore, non…» «Sì, sì.» mormorò la madre, spintonandola da parte: «Oh. Come vorrei che tu fossi come la figlia di Bourgeois. O anche solo come la tua amica Alya…Ah! Se tuo padre fosse qui…» Marinette sorrise dolcemente, appoggiandosi al davanzale della finestra e osservando la madre affaccendarsi per la stanza, cercando di mettere a posto il caos che lei aveva creato; la ragazza piegò la testa all’indietro, ascoltando i rumori che provenivano dalla strada sottostante e contando rapidamente i giorni che erano passati da quando il padre era andato via, per l’ennesimo viaggio: presto sarebbe tornato a casa e lei avrebbe avuto di nuovo con sé l’unica persona che la capiva veramente.
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echocideinthebox-blog · 8 years ago
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Per te
Inspirò profondamente, osservando il quadro dalle tinte dorate che aveva posto davanti il pannello della cassaforte: aveva sempre adorato Il bacio di Klimt e, quando aveva commissionato quel ritratto, aveva chiesto all’artista di ricalcare lo stile del celebre autore. Sophie lo aveva preso in giro, ma aveva accettato di posare e il risultato che era uscito era stato un’opera bellissima. La bellezza di sua moglie era messa in risalto dall’oro, senza che questo scalfisse i capelli biondi e la pelle diafana. Sophie Agreste era ritratta nel suo momento di massimo splendore. Se si voltava, poteva vedere ancora sua moglie mentre, seduta per terra e con le gambe incrociate, ammirava il suo ritratto mentre Adrien giocava accanto a lei. In vero, il fantasma di Sophie era ovunque nella casa: nella sala da pranzo, quando imboccava loro figlio; nella camera da letto, mentre si preparava per accompagnarlo a qualche evento a cui Gabriel Agreste, l’emergente stilista parigino, doveva partecipare; nell’androne della villa… Sophie era ovunque e riportava alla sua mente ricordi che gli provocavano dolore e, allo stesso tempo, a cui si attaccava come se fosse un drogato. Sua moglie, ormai, era solo nei suoi ricordi. Poco dopo la commissione del quadro, Sophie era sparita e, assieme a lei, anche la minaccia che aveva imperversato per Parigi. L’aveva cercata, aveva sperato di trovarla nella capitale francese ma così non era stato. Aveva iniziato ad avere anche paura di quel mondo, che gli aveva portato via la sua amatissima moglie, tanto che aveva piano piano interrotto ogni contatto di Adrien con quella minaccia: Sophie era sparita, ad Adrien non sarebbe successo lo stesso. Lo avrebbe tenuto al sicuro. Dentro casa. Era per questo che aveva assunto una donna come Nathalie, capace di gestire sia la sua attività che un figlio che diventava sempre più grande: l’assistente aveva assunto il ruolo di bambinaia e maestra, diventando una figura importante nella vita di Adrien. E lui… Lui aveva continuato a cercare Sophie, allargando il campo di ricerca sempre di più, finché il suo viaggio non l’aveva portato nel lontano Tibet: lì aveva appreso cosa erano i Miraculous, cosa sua moglie stava facendo ma di lei nessun indizio. Niente di niente. Dal tempio in cui si era rifugiato, apprendendo i segreti di quei sette gioielli misteriosi, aveva trafugato un libro e lo aveva divorato, mentre tornava nella sua Parigi, da suo figlio e alla sua normalità. Aveva appreso tante cose e aveva capito che  c’era solo un modo per poter riportare indietro sua moglie. Era stato proprio allora che nelle sue mani era giunta quella piccola scatolina di legno, in quel momento poggiata sulla scrivania: sapeva che, nel momento esatto in cui avrebbe sollevato il coperchio, la sua vita sarebbe cambiata inesorabilmente. Era indeciso e lo era da giorni ormai. Si voltò, osservando il piccolo contenitore e allungò titubante una mano, ritirandola: no, non poteva. Non poteva cedere a ciò che stava pensando. Lui non poteva… E se gli fosse successo qualcosa? Avrebbe lasciato solo Adrien. Adrien che presto avrebbe compiuto quattordici anni. Suo figlio non poteva ancora affrontare il mondo, per quando la sua esuberanza giovanile lo spingesse ogni giorno a tentare di scappare e a comportarsi come un ragazzo qualunque, anche se non lo era. Lui non… Ma Sophie… Poteva continuare a rimanere così? Poteva continuare a desiderare che lei tornasse a casa, che entrasse nuovamente dalla porta come se nulla fosse, con quel suo bellissimo sorriso sul volto? E se non poteva? E se qualcosa la stesse tenendo lontana da loro? Aveva bisogno di potere. Necessitava del potere che solo una cosa poteva dargli. I Miraculous. Lui… Lui ne aveva bisogno. Inspirò profondamente, prendendo il telecomando e digitando velocemente un codice: sul muro di sinistra un piccolo bip annunciò l’apertura della panic room, che aveva fatto costruire poco dopo la scomparsa di Sophie. L’ennesimo segno di quanto fosse terrorizzato da quel mondo che gli aveva portato via la moglie. Spostò nuovamente lo sguardo sul quadro, facendolo vagare sui lineamenti del volto e poi prese la scatola, dirigendosi velocemente verso la porta che aveva aperto: adesso o mai. Adesso che era deciso. Adesso che ancora non aveva ripensamenti. Entrò e salì velocemente le scale, raggiungendo velocemente la stanza circolare e completamente spoglia: non c’erano scorte di cibo, né attrezzature, né monitor collegati alle telecamere. Non c’era assolutamente niente. E così andava bene. Osservò l’enorme rosone che occupava la parte più alta del tetto, nella parte posteriore della casa, ed era l’unica fonte di luce di quel luogo. Strinse le dita attorno alla scatola, abbassando lo sguardo e inspirando profondamente. Solo per lei. Solo per Sophie stava facendo tutto questo. Se il suo piano era perfetto, se tutto ciò che aveva ideato fosse andato per il verso giusto, il Guardiano dei Miraculous avrebbe dovuto consegnare i due più potenti e lui… Lui li avrebbe presi, per esaudire il suo desiderio più grande. Per riavere Sophie al suo fianco. Per te. Sto facendo tutto questo per te, pensò mentre apriva la scatola di legno e la luce lo accecò per un attimo, facendogli socchiudere le palpebre: farfalle bianche avevano riempito la stanza, adagiandosi silenziose sul pavimento e risplendendo leggermente ai raggi che entravano dall’enorme finestra, mentre un piccolo esserino viola lo fissava in paziente attesa. Lo aveva fatto. Per Sophie. Solo per lei.
  «Voglio quel potere assoluto, Nooroo. Voglio questi due Miraculous.» «Ma, Maestro, non sappiamo dove si trovino…» «Ho trovato te, Nooroo. Questo Miraculous a cui sei legato, ricordami cosa mi permette di fare.» «La spilla della farfalla permette di donare un potere a una persona e fare di lei il suo campione.» «E per attirare dei supereroi, quale modo più efficace che creare dei supercattivi?»
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echocideinthebox-blog · 8 years ago
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Laki Maika’i - capitolo 1
Indice dei capitoli: Laki Maka’i
Marinette osservò l’uomo allo schermo, cercando di associare la parola professore al tipo che aveva davanti a sé: era abituata a un ben altro genere di esperti di pokemon e quello… Quello era certamente fuori dagli schemi. Abbronzato, con il camice bianco completamente aperto su un torace ben allenato, gli occhi verdi che la fissavano divertiti da dietro un paio di occhiali da sole sportivi e i capelli scuri spettinati: «Oops. Aspetta solo una secondo…» dichiarò l’uomo, aggiustando la telecamera e sorridendole, mentre Marinette fissava la propri attenzione sul pizzetto dell’altro: «Ohilà, buongiorno! Il gran giorno si avvicina! Voglio dire…» si fermò, storcendo le labbra in un ghigno: «…quello del tuo trasferimento ad Alola!» «Ho letto veramente tanto sulla regione!» dichiarò Marinette, chinandosi e recuperando una rivista dal cassetto della scrivania: «Alola deve essere una regione veramente incredibile!» continuò la ragazza, sfogliando il giornale e sorridendo: quando i suoi le avevano annunciato il trasferimento verso l’arcipelago non era stata per nulla felice. Amava la sua Kalos. Amava le boutique, i cafè, i vialetti graziosi che circondavano la sua città: in pratica ogni mattone della sua adorata Luminopoli. Ma poi si era informata sulla sua nuova casa e aveva iniziato ad apprezzare quell’arcipelago, immerso nell’oceano, dove la natura cresceva rigogliosa: si era informata sugli usi e i costumi della zona, apprendendo anche che era in età perfetta per intraprendere il classico giro delle isole, un’alternativa aloliana – ma esisteva poi il termine aloliano? – al classico tour delle palestre che i ragazzi svolgevano a Kalos. «Ehi, bella addormentata» il professore la richiamò, facendo riportare l’attenzione di Marinette sullo schermo: un cucciolo canino dal pelo marrone chiaro, con il muso, le zampe e le punte delle orecchie più scure, era balzato sulla spalla dell’uomo, abbaiando festoso: i grandi occhi blu la fissavano curiosi, mentre il piccoletto strofinava il collare di pelliccia grigio chiaro, sparso di punte marrone: «Rockruff! Mi fai male! Scendi!» sbottò il professore, mettendo giù il pokemon e sbuffando: «Dicevo? Ah sì, anche qui abbiamo tanti pokemon, bla, bla, bla. La solita zolfa. Immagino la sai.» «S-sì…» mormorò Marinette, abbozzando un sorriso imbarazzato, mentre l’uomo si guardava cauto attorno a sé: «Piuttosto, ti sei ricordata della cosa che ti ho chiesto, ragazzina?» La ragazza si portò dietro l’orecchio un ciuffo di capelli mori e annuì con la testa: «Sì, ho già sistemato l’ordine di camambert che…» «Sssshh!» mormorò l’uomo, portandosi un dito al naso e intimandole il silenzio: «Potremmo essere ascoltati.» «Cosa?» «L’importante è che lo porterai qua.» Marinette abbozzò un sorriso, trattenendosi dall’alzare gli occhi al cielo e sbuffare: non voleva immaginare a quanto sarebbero puzzati i loro bagagli, una volta giunti ad Alola. Ma il professor Plagg – questo il nome dell’uomo con cui stava videochiamando – era stato veramente insistente, quando aveva scoperto la regione da cui proveniva e le sembrava un prezzo adeguato come ringraziamento per l’uomo che si era diviso in quattro per trovare a lei e ai suoi genitori una casa vicina ad Hau’oli, la città principale di Mele Mele, l’isola di Alola in cui sarebbero andati a vivere. In fondo, potevano lavare e far prendere aria a tutto, una volta giunti a casa. Plagg annuì, abbassando lo sguardo e, attraverso le casse del pc, il rumore di fogli che venivano girati giunse alle orecchie di Marinette: «Allora, Marinette Dupain-Cheng. Originaria di Luminopoli a Kalos. Sedici anni. Sei giusto al limite per intraprendere il giro delle isole, l’altro ragazzo ha la tua stessa età.» «Ci sarà un altro allenatore?» «Sì, è il protetto del Kahuna di Mele Mele. Un tipo a posto. Te lo presenterò non appena sarai qui.» dichiarò Plagg, togliendosi gli occhiali e prendendosi il setto nasale fra le dita: «Ok, perfetto. Appena saprai la data di arrivo, comunicamela così organizzerò tutto» dichiarò l’uomo, incrociando le braccia, mentre un pokemon volante passò alle sue spalle: «Marinette…un nome grazioso come una Carineria!» dichiarò il professore, strappando l’ennesimo sorriso incerto alla ragazza. Era una battuta quella? Corse velocemente attraverso i corridoi candidi della struttura, ignorando il peso nello zaino e raggiungendo velocemente l’ascensore, cercando di non far caso ai passi sempre più vicini dei suoi inseguitori. Doveva muoversi. Raggiunse la piattaforma triangolare e si fermò nei pressi dei comandi, azionandolo e salendo verso l’alto, osservando con mal celata soddisfazione i due addetti, rimasti a terra; fermo al centro della pedana, lasciò andare un sospiro, mentre l’ascensore saliva e lo portava al livello successivo: doveva raggiungere velocemente i dock e prendere uno dei motoscafi, poi… Poi era un’incognita, ma doveva fare ogni cosa in suo potere per fermarlo. «Io vi proteggerò» mormorò, voltandosi appena e abbozzando un sorriso: doveva proteggerli. Doveva proteggere tutti quanti. L’ascensore si fermò al piano superiore e si guardò attorno, tenendo le mani sulle cinghie dello zaino, iniziando poi a muoversi lentamente fra la vegetazione rigogliosa del giardino: «Si fermi, signorino Adrien» dichiarò una voce femminile, facendo voltare il ragazzo: i capelli legati stretti in uno chignon, lo sguardo pieno di riprovazione dietro le lenti quadrate e un completo severo candido come la neve. Questa era Nathalie Sancoeur. «No» dichiarò Adrien, facendo un passo indietro e accorgendosi di altri due uomini, giunti alle sue spalle: «Non li lascerò a voi.» Nathalie sospirò, sistemandosi appena gli occhiali e poi si voltò, dando le spalle al ragazzo: «Catturatelo» dichiarò, camminando spedita lontano dal giovane e portandosi una mano all’orecchio, azionando l’auricolare: «Sì, lo abbiamo pres…» una luce intensa la fermò, facendola voltare e osservare Adrien sparire sotto ai suoi occhi; si avvicinò frettolosamente al punto in cui era stato il ragazzo, non trovandone nessuna traccia. Respirò a fondo, guardandosi attorno e osservando i quattro uomini, che si era portata dietro, massaggiarsi gli occhi, accecati dalla luce intensa che li aveva colpiti: «Signore? Il signorino Adrien è fuggito.» Dove era? Poteva sentire lo sciabordare delle onde del mare e l’odore di salmastro che gli inondava le narici. Dove si trovava? Allungò una mano, stringendo la sabbia nel pugno e alzando un poco la testa, osservando la file di case che si affacciavano sulla spiaggia: dove era finito? Che posto era quello? Si riscosse, recuperando lo zaino accanto a sé e controllando immediatamente le due pokeball, sorridendo quando le vide all’interno della borsa al sicuro. Stavano bene. Perfetto. Li aveva salvati entrambi. Sorrise, mentre le forze gli venivano meno e si lasciò cadere, sentendo una voce femminile in lontananza che strillava qualcosa. Era troppo stanco. Troppo. Strinse lo zaino al petto, rendendosi conto che, una volta risvegliato, avrebbe dovuto pensare a come salvare quei due ma, per il momento, si lasciò andare a un oblio senza sogni.
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echocideinthebox-blog · 8 years ago
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Bon Noël
Quando Nathalie era andata a informarlo della visita improvvisa di Marinette, Adrien aveva sentito il cuore aumentare i battiti molto velocemente: le aveva mandato un messaggio, poco prima, chiedendole come avrebbe trascorso il Natale e lei aveva risposto, dopo una buona manciata di minuti, adducendo a un pranzo con i parenti. Il biondo si alzò velocemente dalla sedia girevole, dando un’occhiata ai suoi abiti e poi guardando lo spiritello che svolazzava per la stanza, tornato allo scoperto dopo che Nathalie era uscita: «Come sto?» domandò al kwami, fermando il suo volo annoiato e attirandone l’attenzione: «Allora?» «Come ogni giorno?» chiese di rimando Plagg, scuotendo il capo sconsolato: «E’ la tua ragazza. Ti conosce.» «Sì, ma Marinette è…» «Incredibilmente imbranata?» Adrien aprì la bocca pronto a ribattere, ma la porta della sua camera si aprì nuovamente e, veloce, il ragazzo afferrò il kwami, nascondendo dietro la schiena: Nathalie fece segno a Marinette di entrare e Adrien poté osservare la figura infagottata: «C-ciao, A-adrien.» mormorò la mora, scostandosi la sciarpa rosa dal volto e sorridendo timidamente: «D-disturbo?» «No.» «Vi lascio soli.» dichiarò Nathalie, squadrandoli da dietro le lenti quadrate e uscendo velocemente dalla stanza, ignara di quanto Adrien la ringraziasse mentalmente. «Sto soffocando!» sbottò Plagg, liberandosi e volando per la stanza: «Bonjour, Marinette. E’ sempre un piacere vederti.» dichiarò il kwami, volando verso la ragazza e inchinandosi con fare galante davanti a lei: «Posso osare di dire che questo cappotto ti sta divinamente?» «Il solito marpione.» sentenziò Tikki, uscendo da sotto gli indumenti della sua Portatrice e scuotendo il capo: «Quando mai finirai di provarci con ogni essere femminile?» «Oh. Tikki.» «Come ‘Oh. Tikki.’?» «Ciao, Plagg.» lo salutò Marinette, sorridendogli e allungando una mano per carezzargli il capino: «E Buon Natale.» dichiarò, mettendo la mano in una delle tasche del giubbotto e tirando fuori un pacchetto dalla forma rotonda. Una forma che voleva dire una sola cosa. Adrien sorrise, osservando il kwami del Gatto Nero illuminarsi di gioia e prendere il suo regalo: «Per me?» domandò sorpreso, mentre il biondo si chiedeva dove era finito l’essere sarcastico e cinico che conosceva fin troppo bene. «Per te.» Plagg sorrise, volando con il suo carico fino al tavolino e scartandolo velocemente sotto gli occhi di tutti: «Camambert! E della marca migliore!» esclamò giulivo, girandosi poi verso Adrien: «Moccioso, questa ragazza è da sposare!» «Plagg!» esclamò Adrien, voltandosi verso Marinette e notando come il rossore avesse preso possesso del volto: non che gli dispiaceva pensare a Marinette e lui in quei termini, ma aveva ben imparato che con la mora doveva andarci piano… Fin troppe volte aveva fatto passi indietro per colpa della sua esuberanza. Marinette era timida, fin troppo. «Scusalo.» mormorò, grattandosi la nuca impacciato e sorridendole: «Sai com’è…» «Una lingua lunga.» sentenziò Tikki per i due umani, scuotendo il musetto: «Un qualcuno che parla sempre senza pensare.» «Tikki, c’è un regalo anche per te.» dichiarò Adrien, avvicinandosi alla scrivania e recuperando la confezione di biscotti natalizi, che aveva preso nel giro di shopping che aveva fatto con Nino, poiché entrambi disperati perché non sapevano che cosa regalare alle loro dolci metà. «Per me?» Il biondo annuì, passandole la confezione e osservando la kwami sorridergli calorosa: «Grazie mille, Adrien.» dichiarò, afferrando il proprio regalo e volando verso Plagg, sistemandosi al suo fianco e iniziando a lavorare con la plastica che teneva prigioniero il succulento regalo. «E questo è per la mia lady.» decretò Adrien, tornando alla scrivania e recuperando un pacchetto finemente incartato, passandolo alla ragazza: «Spero ti piaccia…» «Per me?» domandò Marinette, facendo vagare lo sguardo dal dono al volto del biondo: «N-non…ecco…io…» la mora scosse il capo, aprendo la borsa che teneva a tracolla e tirando fuori un altro pacchetto: «Per te.» «Oh.» Adrien sorrise, afferrando il regalo dalla carta scura e sorridendo: «Grazie.» mormorò, mentre la ragazza stringeva al petto il suo dono: «E’ un altro cappello?» domandò, ricordando il primo regalo che aveva avuto da lei e che lui aveva donato a un Babbo Natale, che lo aveva salvato dal freddo di Parigi. Preferì tralasciare il fatto che quel povero Babbo Natale fu incolpato del suo presunto rapimento da suo padre e dalla ragazza di fianco a lui, finendo poi per essere akumatizzato e seminare un po’ di caos per le strade di Parigi. Ma tutto si era risolto bene e Adrien conservava un bel ricordo di quel Natale, assieme a una lezione che aveva imparato decisamente bene: mai uscire per le strade innevate con solo una camicia. Marinette scosse il capo, districandosi con la tracolla e la sciarpa: «F-fa caldo…» mormorò, notando come Adrien stesse seguendo attentamente i suoi movimenti: «E…» «Beh, abbiamo i riscaldamenti accesi e tu sei tutta imbacuccata.» la riprese scherzosamente il ragazzo, sorridendole: «Posso aprirlo?» domandò, sedendosi sul letto e sollevando il regalo che lei gli aveva fatto. Al cenno affermativo di Marinette si mise al lavoro sulla carta e, finalmente, tirò fuori il proprio regalo: «Guanti…» mormorò, rigirandosi fra le mani il capo di abbigliamento. «H-ho notato che giri senza guanti e…beh, ecco…ho pravato…cioè volevo dire provato a farli. Non ho mai lavorato ai ferri e quindi…beh, ecco…volevo…e il colore, ho pensato al grigio perché…» Adrien scoppiò a ridere, scuotendo il capo biondo: «Apri il mio regalo, Marinette.» dichiarò, voltandosi verso di lei con una luce ilare negli occhi. La ragazza studiò il volto del giovane, portando poi lo sguardo sul dono ancora fra le mani; titubante si sedette vicino a lui e, non senza qualche difficoltà, aprì il dono: un paio di guanti rosa pastello facevano bella mostra di loro fra la carta natalizia. Marinette sorrise, facendo passare il polpastrello sui fiocchetti rossi che ornavano entrambi: «Non li ho fatti io, ti avviso.» dichiarò il ragazzo, sorridendole: «Però sono di lana, come i tuoi. Anche io ho notato che non li porti mai.» «Grezia…Ziegra….» Marinette sbuffò, chinando la testa e facendo un respiro profondo: «Grazie!» «Di niente.» rispose Adrien con un sorriso, infilando uno dei guanti: «Ehi, sono perfetti!» «Davvero?» «Sì! Guarda!» Adrien alzò la mano aperta verso di lei, facendole poi l’occhiolino e stringendo il pugno nella sua direzione: «Forza, my lady…è tanto che non lo facciamo.» «Beh, non c’è più bisogno di…» «Infila uno dei tuoi guanti.» Marinette annuì, mettendo la mano nella lana rosa e stringendo le dita, colpendo poi il pugno del ragazzo con il proprio: «Bien joue!» esclamarono in coro, ridendo poi divertiti. «Buon natale, Marinette.» «Buon natale, Adrien.»
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echocideinthebox-blog · 8 years ago
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Adrien/Marinette I
«Marinette?» «Io…» iniziò la mora, scuotendo il capo e fissandolo negli occhi, come a pregarlo di capire. E lui capì. Deglutì, trovandosi immediatamente sveglio: «I-io…» balbettò, abbozzando un sorriso, mentre le mani di Marinette prendevano l’orlo della maglia e la sollevavano: «Po-potrei non essere capace di fermarmi.» dichiarò, aiutando la ragazza a spogliarlo. «Ma io non voglio che ti fermi.» dichiarò decisa Marinette, gettando l’indumento da qualche parte della stanza e tirandolo verso di sé e verso il letto: caddero entrambi sul materasso e la ragazza gli catturò la bocca con la propria. «Davvero, non potrei…» mormorò Adrien, puntellandosi con le mani contro il materasso e guardando la ragazza sotto di lui; scosse il capo, alzandosi a sedere e sentendosi idiota: quanto aveva spinto in quella direzione? E adesso che stava succedendo… Adesso lui aveva paura? Marinette si mi a sedere anche lei, per quanto glielo permettesse il peso del ragazzo che le gravava sulle gambe, e con un respiro profondo portò le mani al bordo della maglia, togliendosela: «Adrien...» bisbigliò, poggiandogli una mano sulla guancia e distraendo un attimo l’attenzione di Adrien da ciò che gli stava mostrando: «Voglio che sia tu e solo tu.» Il biondo respirò profondamente, annuendo con la testa: «Come la mia signora comanda.» dichiarò, chinandosi in avanti e baciandola, invitandola poi a distendersi nuovamente sul letto. Adrien l’accarezzò con la punta delle dita: le spostò i capelli di lato e si chinò a lambirle la pelle del collo, succhiandola avido. «Adrien…» mormorò nuovamente Marinette, posandogli le mani sulle spalle e issandosi su, unendo al nome anche un gemito. «Ssh, Marinette» la intimò lui, scendendo con le labbra e lasciando dietro di sé una scia umida; si fermò, leccando la parte di pelle lasciata libera dal reggiseno, mentre le mani s’incontravano sulla schiena, cercando il modo di eliminare l’indumento. La ragazza sorrise, mentre lo sentiva imprecare contro il seno e poi ghignare trionfante, quando il gancetto cedette sotto le dita inesperte di Adrien; poco dopo si ritrovò nuovamente distesa sul letto, con le labbra del giovane che si dedicavano minuziosamente al loro lavoro: lambendolo, giocando con i capezzoli e poi succhiandoli voracemente. Brividi si propagarono sulla sua schiena, mentre nuove sensazioni nascevano dentro di lei. Piacere. Brivido. Desiderio di qualcos’altro. Qualcosa di più. Sentì tutto convergere in un unico punto del suo corpo, come se il suo intero essere fosse emigrato in altri lidi. Pulsava, le faceva quasi male. Inconsciamente allargò le gambe, mentre Adrien scivolava con la bocca più in basso: lasciò una scia di baci fino all’ombelico, dove giocò con la lingua e la mordicchiò leggermente, mentre le mani si adoperavano per slacciarle i pantaloncini. Marinette lo guardò, mentre lui si mordeva il labbro inferiore e  guardava, quasi spasmodico, le mutandine. L’ultima sua barriera. Si puntellò su un gomito, incurante del fatto di essere nuda, posandogli una mano su quella del ragazzo, ferma sul suo fianco; gli strinse leggermente le dita e lo guardò in volto: lui annuì, posando anche l’altra mano sul fianco opposto e afferrando i due minuscoli lembi di stoffa. Lentamente fece scivolare lungo le gambe il pizzo, tenendo lo sguardo fermo sulla zona in mezzo alle gambe e Marinette arrossì nuovamente, imbarazzata; respirò a fondo, mentre Adrien tornava a baciarle la pelle, morbido e delicato, trasmettendole scosse che si propagavano lungo il suo corpo, facendola gemere. Stava impazzendo e le andava bene così. Gli posò le mani sulle spalle, esortandolo a tornare a baciarla sulla bocca, ottenendo ciò che voleva: «Adrien.» sussurrò di nuovo, incontrando le labbra del giovane, mentre le mani scendevano ai pantaloni di lui. Strattonò la stoffa, afferrando pantaloni e boxer assieme e sentendo – finalmente – la pelle del ragazzo contro la sua; lo sentì scalciare via gli indumenti e, poi, salire di nuovo sopra il suo corpo con qualcosa di duro che le sfiorava nel punto più doloroso. L’erezione di Adrien. La prova che lui era eccitato, da lei. Lo vide allungarsi e aprire un cassetto del comodino, tirando fuori un quadratino di plastica argentata: «Prima che il tuo cervello inizi…» mormorò il ragazzo, aprendolo e trafficando con il preservativo, finché non riuscì a metterlo: «E’ stato Nino. Mi ha spiegato un po’ di cose, pensando che mi servissero.» Marinette annuì e lo strinse a sé, mentre i loro corpi scivolavano l’uno sull’altro, allargò le gambe, accogliendolo fra di esse e lasciando che entrasse. Erano animali, in fondo. Sapevano, istintivamente, cosa fare. Lo sentì. Caldo dentro di lei. Entrava lentamente, quasi timoroso, poi fu il dolore. Una fitta tremenda, che si mescolò al piacere che Marinette aveva provato fino al quel momento. Sentì Adrien immobilizzarsi, rimanere fermo, senza andare avanti. Pauroso di farle altro male. Marinette respirò a fondo, sentendo il corpo adattarsi a quella parte estranea e alzò il bacino, vogliosa di qualcosa di più. Perché doveva esserci qualcosa di più. E, come se fosse stato un segnale, Adrien si mosse, sgusciando fuori per pochi centimetri e poi ritornando dentro di lei. Dentro e fuori. Dentro e fuori. Come passi di una danza antica. Si strinsero, mentre i corpi sudati si muovevano e ogni barriera sembrava sgretolarsi: «Oddio, Marinette…» mormorò il ragazzo, spingendosi con più forza e gemendo roco. Un’altra spinta. Un’altra ancora, accompagnata dai gemiti di entrambi. «Di più» mormorò Marinette, inarcandosi e stringendo forte le spalle del giovane; lo sentì fermarsi e poi spingersi più a fondo; si mosse ancora, con un’altra spinta simile, mentre si chinava e posava le labbra sulla spalla nivea, mordendole delicatamente la pelle. Gustandola. Divorandola. La vide spalancare gli occhi celesti, osservando le labbra che si aprivano e la voce roca che urlava il suo nome. E allora esplose, strinse i denti e sentì tutta la tensione scemare, finire dentro di lei. Sentì il corpo farsi pesante e accasciarsi al fianco della giovane mentre, ansante, si girava e osservava il soffitto della camera: dunque era quello il sesso, pensò con fare stupito.
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echocideinthebox-blog · 8 years ago
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Come Adrien e Rafael si conobbero...
Adrien alzò la testa dal piatto, osservando il padre e cercando di assimilare le parole che l’uomo aveva appena pronunciato: «Un nuovo modello?» chiese, sbattendo le palpebre e tenendo lo sguardo su Gabriel Agreste. Da quanto era piccolo, da quando aveva posato per la prima volta per la marca del genitore, era sempre stato lui l’unico volto della linea. Nessun altro lo aveva affiancato. Nessun altro aveva condiviso quel ruolo con lui. Gabriel annuì, posando la tazzina di ceramica bianca sul piattino coordinato: «A breve finirai il college, no? Le superiori ti prenderanno più tempo, oltretutto adesso hai anche Marinette quindi ho pensato di assumere un secondo modello per…» l’uomo si fermò, facendo spaziare lo sguardo: «…per darti più spazio.» Uao. Suo padre stava facendo passi da giganti: dell’uomo freddo e austero, timoroso del mondo esterno e votato al possedere i Miraculous della Coccinella e del Gatto nero, stava rimanendo davvero poco, facendo riscoprire ad Adrien il padre che aveva conosciuto quando sua madre era ancora in vita. «Va bene.» dichiarò il ragazzo, abbozzando un sorriso: «Come si chiama?» «Il suo nome è Rafael Fabre, ha la tua stessa età.» gli rispose Gabriel, tornando a bere il suo caffè: «Oggi pomeriggio, verrà per qualche scatto di prova, graderei che anche tu fossi presente per presentartelo.» «Sì, certo.» assentì Adrien, allungando una mano e recuperando una brioche dal cesto di vimini posto in mezzo alla tavola: un ragazzo della sua età. Forse sarebbe stato un nuovo amico… Odiava quel tipo. A pelle, sentiva proprio che quella sarebbe stata una persona da tenere alla larga: troppo sicuro di sé, troppo sfrontato, troppo…tutto. Adrien sbuffò, osservando Rafael Fabre sorridere a due ragazze che erano venute a vedere gli scatti che avrebbero fatto ai Giardini di Lussemburgo quel giorno, e ignorò platealmente il kwami che si era affacciato dalla borsa: «Lo sai chi mi ricorda?» gli domandò Plagg, puntandogli contro lo sguardo verde e Adrien si decise a smettere di trascurare l’amico. Anche perché, era certo, Plagg l’avrebbe continuato a osservare finché lui non gli avesse dato udienza. «Chi?» «Tu.» «Cosa?» «Quando ti trasformi. Siete identici: stesso modo di flirtare, stesso modo di pavoneggiarsi…» «Io non flirto.» «Certo, dillo a Marinette e Ladybug.» «Ma sono la stessa persona!» «Fino a poco tempo fa non lo sapevi, moccioso.» sentenziò il kwami, assottigliando lo sguardo verde, mentre un sorrisetto impertinente gli si stampò sulle labbra: «Ma credere che fossero due persone differenti, non ti ha impedito di provarci con una e dichiarare amore eterno all’altra. Un po’ come il nostro galletto là, che si pavoneggia con quelle ragazze nello stesso momento.» Adrien borbottò qualcosa, tirando la zip della borsa e mettendo a tacere lo spirito felino, alzando poi lo sguardo e notando che Rafael Fabre si stava avvicinando a lui: «Adrien Agreste, vero?» gli domandò il modello, allungando una mano mentre un sorriso gli piegava le labbra. Un sorriso che non arrivava allo sguardo. Adrien era un vero esperto in quella tipologia di espressione. Allungò la propria mano e strinse quella che gli era stata offerta, iniziando un gioco di forza: attanagliava le dita dell’altro e questi ricambiava la stessa con pari forza, finché una smorfia tradì Rafael Fabre, che lasciò andare la mano del biondo: «Molto piacere. Io mi chiamo…» «Rafael Fabre.» concluse per lui Adrien, sorridendo quando lo vide massaggiarsi le dita che aveva leggermente torturato in quel gioco di forza. Una bambinata, lo sapeva bene. Quasi immaginava già come Plagg lo avrebbe preso in giro, una volta rimasti soli. «Beh, spero di lavorare bene con te.» «Anche io.» Rafael abbozzò un secondo sorriso di circostanza, poi il fotografo li chiamò entrambi al lavoro e le ore successive passarono veloci, fra uno scatto e l’altro. «Sai, ero certo che avresti tirato fuori la clava e ti saresti battuto il petto.» sentenziò Plagg, una volta che Adrien ebbe aperto la borsa nella sua stanza, mimando poi il comportamento e ricevendo uno sbuffo infastidito da Adrien: «Ti hanno mai detto che i cavernicoli si sono evoluti? Hanno avuto secoli e secoli per diventare Homo Sapiens Sapiens.» Uno sbuffò infastidito fu la risposta del ragazzo, che fece ridere maggiormente il kwami: «Pensa se conosce la tua lady e ci prova. Mi sembra un tipo che ci prova, sai?» «Piantala.» «Sarebbe veramente interessante vedere come reagiresti.» «Sarebbe veramente interessante vedere tu senza camembert, anche.» «Tu, piccolo…»
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echocideinthebox-blog · 8 years ago
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La sirena - capitolo 4
Indice dei capitoli: La sirena
Tikki sbadigliò, osservando il suo carceriere mentre, dall’altra parte della strada, stava aiutando il proprietario del negozio di fiori a sistemare i nuovi arrivi: non avendo niente da fare, aveva seguito Plagg per tutto il giorno, scoprendo che lui dava una mano a chiunque nel piccolo paese, in cambio di compenso. Che fosse denaro o altro, per lui andava sempre. Se si trattava poi di camambert… Beh, aveva visto gli occhi di quel tipo illuminarsi, quando il sindaco della città lo aveva ripagato con una forma di formaggio puzzolente, perché aveva controllato il motore della sua vettura. Formaggio che, in quel momento, era stato sistemato sulla sedia vicino alla sua e di cui le era stata intimata la salvaguardia. Quel tipo era completamente e totalmente assurdo. Tikki tamburellò le dita sul tavolo, voltandosi verso la direzione in cui sapeva c’era il mare e socchiuse gli occhi: se riusciva a concentrarsi poteva sentire il rumore delle onde e il richiamo del Padre. Avrebbe voluto fuggire dalla supervisione di Plagg, ma nelle due volte in cui aveva provato, lo sguardo verde era stato subito su di lei e, con tutta la nonchalance del mondo, le aveva fatto constatare che non stava mantenendo la sua parte di promessa. Solo che lei… Lei era una sirena e iniziava a sentire il bisogno impellente di gettarsi nell’acqua. Si voltò, notando che lui era sparito. Forse era la volta buona. Si alzò, attenta a non fare il minimo rumore e rimase ferma un attimo, osservando il negozio, quasi aspettandosi che Plagg uscisse e la fissasse, intimandole col solo sguardo di tornare seduta e aspettarlo. Ma non avvenne. Tikki sorrise, spostandosi leggermente alla sua sinistra e quasi sentendo già l’odore di libertà: non se ne sarebbe andata, gli aveva promesso che sarebbe rimasta almeno una settimana, sarebbe solo andata alla spiaggia, immersa e avrebbe parlato con il Padre, spiegandogli il perché della sua decisione di rimanere lì per un po’. Certo, omettendo la parte della tipa che la voleva quasi morta. Non l’avrebbe presa bene e voleva evitare che scatenasse la sua furia contro quel piccolo porto di mare. «Tikki!» La voce allegra di Marinette la fece voltare: «Plagg, ti ha fatto impazzire?» le domandò, fermandosi a pochi passi da lei, assieme a un’altra ragazza dalla carnagione scura: «Ah! Lei è Alya, la mia migliore amica.» Alya alzò il volto dal cellulare, sorridendole: «Piacere! Marinette non ha fatto altro che parlare di lei, oggi.» Tikki sorrise, recuperando il blocco che aveva sul tavolo e scrivendo velocemente qualcosa, mostrandolo poi alle due: «Perché si scusa?» «Perché Tikki è molto educata» dichiarò Marinette, scostando una sedia e osservando la forma di camambert poi la rossa che, girata la pagina del blocco, vergò il nome del proprietario: «Ah, lo hanno pagato di nuovo in formaggio? Poi si lamenta che non arriva a fine mese!» «Se vuoi, Marinette, ti dico anche chi l’ha pagato con quella!» esclamò Alya, alzando gli occhi al cielo e sorridendo all’altra: «Bourgeois!» esclamò, in contemporanea con la moretta, e ridacchiando poi entrambe. Tikki le osservò, sorridendo in silenzio: ridere e parlare così con qualcun altro per lei era impossibile e, anche se si fosse trattato di un’altra sirena, non avrebbe mai avuto quella complicità e quel calore che vedeva tra le due amiche davanti a lei. Era strana a desiderare quello? In fondo anche lei era una sirena. Eppure… «Marinette. Marinette» Alya ridacchiò, indicando con un cenno del capo la direzione da cui erano venute e Tikki notò Marinette voltarsi un attimo e arrossire vistosamente, tornando poi a guardare l’amica con un’espressione fra l’imbarazzato e il sofferente: «Andiamo, devi solo dire ‘Ciao, Adrien’» la prese in giro l’altra, sedendosi e poggiando il volto contro il palmo aperto: «Ripeti con me…» «Ciao, Marinette!» Tikki osservò il biondo, che stava passando in quel momento, con lo sguardo rivolto verso le due ragazze e un sorriso gentile in volto; Marinette, se possibile, diventò ancora più rossa e balbettò un qualcosa  che doveva essere un saluto, prima di sedersi e tenere lo sguardo rivolto verso il tavolo. La sirena inclinò la testa, osservando curiosa lo strano comportamento e ricordandosi che Plagg aveva preso in giro la ragazzina proprio quella mattina… Era qualcosa sul non balbettare troppo davanti qualcuno. Spostò l’attenzione sul biondo, che aveva continuato per la sua strada, e annuì: quindi quel ragazzo era quel qualcuno. Sorrise dolcemente, portandosi una mano alle labbra e osservando il blocco sul tavolo, indecisa se scrivere qualcosa: «Tu!» esclamò una voce femminile, facendole spostare l’attenzione verso la donna, che marciava verso di lei. La figlia dell’uomo che aveva ucciso. «Che cosa fai ancora qui? Stai cercando la tua prossima vittima?» le ringhiò contro, fermandosi a pochi passi da lei e fissandola astiosa: «Non ti è bastato uccidere mio padre?» «Marie, andiamo…» «Non intrometterti, Alya» sbottò Marie, voltandosi un attimo verso la ragazza e poi tornando a dedicare tutta la sua attenzione a Tikki: «Questi capelli rossi…» «Oh, dai! Non siamo nel medioevo! E questa ragazza mi sembra tutto tranne che una serial killer!» Marie la fissò astiosa, prendendole la coda e tirandola con forza: «E’ tutta colpa tua!» sputò la donna, costringendola a inginocchiarsi a terra e stringere i denti: non doveva fiatare, non doveva far uscire nessun suono altrimenti le persone attorno a lei sarebbero state condannate. Sopportare. Quello sapeva farlo bene. Sopportava quando cantava. Sopportava quando lasciava che suo Padre si prendesse una vita. Doveva sopportare anche in quel momento. Marie le tirò più forte la coda e Tikki si morse il labbro inferiore, poi qualcosa la colpì e una sensazione di bruciore le si irradiò dalla guancia destra; chiuse gli occhi, aspettando che tutto finisse e, poco dopo, sentì la presa sui suoi capelli farsi meno e qualcosa di caldo le si posò sulla guancia: «Stai bene?» le domandò la voce di Plagg. Tikki riaprì gli occhi, osservando il volto inscurito dal sole a pochi centimetri dal suo e annuì, osservando gli occhi verdi che avevano perso quella  nota scanzonata: «Toccala di nuovo, Marie, e te ne pentirai» ringhiò, voltandosi verso la donna e fissandola: «Non voglio sapere quale collegamento ha fatto il tuo cervellino, ma ti posso assicurare che questa ragazza non centra assolutamente niente con la morte di Gustav.» «Cosa c’è? Anche tu, ti sei fatto abbindolare da quel bel faccino?» «Sì, è bella. Ma puzza troppo di mare per i miei gusti.» Puzzava? Tikki abbassò il mento, odorandosi e cercando di capire se era vero: forse aveva giocato troppo con i pesci l’ultima volta e il loro odore le era rimasto addosso? «Sei come tutti gli altri, ma io…» «Andiamo, Marie. Non renderti più ridicola di quello che sei» sbuffò Plagg, alzando gli occhi al cielo: «Fu mi paga per tenerla al sicuro ed io lo faccio.» «Non pensi che sia strano che Fu ti abbia chiesto di proteggerla?» «Forse me l’ha chiesto perché c’è una decerebrata che l’accusa della morte del padre e le vuole far del male?» «Tu…» «Io adesso ti osserverò continuare per la tua strada, come se nulla fosse. Ok?» Marie strinse le labbra, facendo saettare lo sguardo da Plagg alla ragazza per terra, che si teneva la guancia lesa: «Non finisce qui» ringhiò, alzando il mento e riprendendo il suo cammino, regalando l’ennesimo sguardo d’odio a Tikki. «E’ completamente impazzita» sospirò Alya, scuotendo la testa: «Completamente andata.» «Può succedere quando perdi qualcuno che ami…» mormorò Plagg, voltandosi verso Tikki e osservandola: «Tutto ok, rossa?» Tikki annuì, dopo un momento di titubanza, poi indicò il blocco che aveva lasciato sul tavolo e osservò Plagg recuperarlo e passarglielo, chinandosi accanto a sé e aspettando che lei scrivesse; strinse la penna, mordendosi il labbro inferiore e guardando la pagina, già piena di scritte, alla ricerca di un angolino vuoto: doveva prenderne un altro, se voleva continuare a comunicare con il resto del mondo. Rimase a fissare il foglio, scrivendo le prime parole che le vennero in mente e voltando poi la pagina verso Plagg che, una volta letto, rise divertito: «Sì, grazie. Ero in pensiero per il mio camambert.» dichiarò lui, sorridendole: «Stai bene tu? Marie ti ha tirato per un bel po’ i capelli.» allungò una mano, massaggiandole la testa e scrutandola, mentre i polpastrelli scivolavano lungo il profilo della mandibola e le carezzavano il graffio: «Sei stata fortunata che non ti abbia preso bene con la borsa.» Tikki lo osservò, spostando poi l’attenzione sulle due ragazzine, che avevano assistito alla scena, e regalò loro un sorriso: «Stai bene, Tikki?» domandò Marinette, inclinando la testa e studiandola seria. La rossa annuì nuovamente e poi prese a girare i fogli del bloc notes, alla ricerca di uno spazio bianco per scrivere qualcosa: possibile che li avesse usati già tutti? Ok, Sabine l’aveva fatta scrivere per un bel po’, ma poi… Poi quasi tutti quelli da cui era passato Plagg le avevano fatto domande e lei aveva dovuto rispondere. Sorrise, carezzando le parole che aveva vergato in quella giornata e abbassando le spalle sconsolata: a quanto pareva non poteva più comunicare, se non a gesti o altro, finché non avesse preso un nuovo quaderno. «Ragazze, potete accompagnare Miss non parlo ma mi faccio intendere benissimo a prendere un nuovo quaderno?» domandò Plagg, voltandosi verso Marinette e Alya: «Io finisco di aiutare Theo con il negozio e poi vi raggiungo.» «Miss non parlo ma mi faccio intendere benissimo?» «Sì, Alya. Perché anche se sta zitta, posso sentire nella mia testa una vocina che fa: uffa! E adesso come faccio? Non ho più posto dove scrivere! Uffa! Uffa! Uffa!» Tikki alzò il capo, fulminandolo con lo sguardo e Plagg sorrise: «Adesso sta sicuramente pensando a come uccidermi. Nel modo più lento e doloroso, possibilmente» dichiarò, piegando le labbra in un sorriso innocente al segno secco di affermazione di Tikki: «Visto?» «Io devo prendere gli acquerelli» dichiarò Marinette, sorridendo a Tikki e porgendole una mano: «Tu prendi un quaderno nuovo e così puoi dirne quattro a Plagg.» «Ehi! Tu dovresti stare dalla mia parte?» «E perché?» «Perché io potrei mettere una buona parola per te con Adrien, semplice.» «E da quando in qua Adrien ti ascolta, Plagg?» dichiarò Alya, ridacchiando: «Solo perché vivi a casa loro, non è che lui ti dia retta» «Punto primo: non vivo a casa loro, sono il guardiano e ho la mia casettina. Punto secondo: conosco Adrien da quando era un moccioso e, tutto quello che sa in fatto di donne, gliel’ho insegnato io.» «Andiamo bene.» «Alya, potrei lasciarmi scappare con Nino di quando tu avevi una cotta per me e hai provato a sedurmi, sai?» «Ero una bambina» «Un dettaglio che posso facilmente togliere dal racconto.» Alya sbuffò, aiutando Tikki ad alzarsi e sospingendo lei e Marinette: «Andiamo, prima che lo uccida» dichiarò, voltandosi e facendo una linguaccia al moro: «Altrimenti, Tikki dovrà trovarsi una nuova bodyguard.» «Ci vediamo dopo, signore.»
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echocideinthebox-blog · 8 years ago
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Laki Maika’i - index
Laki Maika'i è il modo in cui ad Alola augurano 'Buona Fortuna' e sono due parole che Adrien, Marinette e Nino si sentono dire quando iniziano a il loro giro delle isole. Adrien è un ragazzo misterioso, che sembra fuggire da qualcosa. Marinette è una giovane di Kalos, trasferitasi assieme ai genitori. Nino è il protetto del Kahuna Fu, deciso a dimostrare il suo valore. Tre ragazzi. Tre destini che si uniscono in una regione piena di misteri. Capitoli: 1 | 2 |
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echocideinthebox-blog · 8 years ago
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La bella e la bestia - index
Tanto tempo fa, in un paese lontano lontano, un giovane principe viveva in un castello splendente, benché avesse tutto quello che poteva desiderare, il principe era viziato, egoista e cattivo. Accadde però che una notte di inverno una vecchia mendicante arrivò al castello e offrì al principe una rosa in cambio del riparo dal freddo pungente. Lui, che provava repulsione per quella vecchia dal misero aspetto, rise del dono e la cacciò, ma lei lo avvertì di non lasciarsi ingannare dalle apparenze, perché la vera bellezza si trova nel cuore. Il principe la respinse di nuovo e in quel momento la bruttezza della mendicante si dissolse ed apparve una bellissima fata. Il principe si scusò, ma era troppo tardi, perché lei ormai aveva visto che non c'era amore nel suo cuore e per punirlo lo tramutò in una orrenda bestia e gettò un incantesimo sul castello e su tutti i suoi abitanti. Se avesse imparato ad amare e fosse riuscito a farsi amare a sua volta prima che fosse caduto l'ultimo petalo, l'incantesimo si sarebbe spezzato. Con il passare degli anni il principe cadde in preda allo sconforto... Chi avrebbe mai potuto amare una bestia? Capitoli: 1 | 2 | 3 |
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echocideinthebox-blog · 8 years ago
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Lei è mia! - index
Marinette si sente in colpa. Per colpa sua Lila è stata allontanata da tutti a scuola e, così, cerca di avvicinare l'italiana, offrendole la sua amicizia, peccato che questo ha risvolti...imprevisti! Ispirata al web comic di ryuudesu. Capitoli: 1 | 2 | 3 | 4 | 5 | 6 | 7 | 8 |
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echocideinthebox-blog · 8 years ago
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Inori - index
Dai lombi fatali di questi due nemici toglie vita una coppia d'amanti avventurati, nati sotto maligna stella, le cui pietose vicende seppelliscono, mediante la lor morte... Agreste e Dupain sono due famiglie nobili di Paris, una città ricca di mistero e magia. Una notte, il patriarca degli Agreste condanna i Dupain alla morte e dalla strage della famiglia, una bambina si salva: il suo nome è Marinette. Capitoli: 1 | 2 | 3 | 4 | 5 | 6 | 7 | 8 | 9 |
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echocideinthebox-blog · 8 years ago
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La sirena - capitolo 3
Indice dei capitoli: La sirena
Tikki strinse le labbra, osservando l’occupante del suo letto mentre la sua mente lavorava alacremente: in verità era tutta la notte che rimuginava dato che il signorino, dopo aver detto tutto quello che gli pareva, si era tranquillamente buttato sul suo letto e si era addormentato. Senza curarsi di ciò che avrebbe fatto lei. Era una fortuna che, per una sirena, fosse superfluo dormire. Tornò di nuovo a prestare attenzione all’ospite non voluto, avvicinandosi e studiandolo in volto: aveva dei lineamenti molto decisi e la pelle era bruciata dal sole, significando che passava molto tempo all’aperto. Ma dove? Nel periodo in cui era rimasta lì, l’aveva visto solamente al bar del paese. Inclinò il capo, decidendo sul da farsi e lanciando un’occhiata sfuggevole alla sua borsa, abbandonata vicino alla porta: era ancora intenzionata ad andarsene da quel posto e poco le interessava cosa avrebbero pensato di lei gli abitanti o se il suo ospite indesiderato non guadagnasse nulla. Non era un problema suo. Osservò per un’ultima volta il ragazzo e poi, silenziosamente, scivolò nella camera fino a raggiungere la borsa, si chinò e strinse la presa sulla cinghia, voltandosi e controllando se il suo guardiano stesse ancora dormendo; con il sorriso sulle labbra, si issò in piedi e si sistemò la tracolla sulla spalla, allungando poi una mano verso la maniglia della porta. Ancora poco e sarebbe potuta andare via da quel posto. Ancora… «Dove stai andando, sirenetta?» La voce del ragazzo la fermò, Tikki si voltò osservandolo mentre, comodamente poggiato sui gomiti, la fissava dal letto, con lo sguardo verde che non era per niente assonato, come quello di una persona che si era svegliata dal momento: le sorrise, passandosi una mano fra i capelli scuri, spettinandoli più di quel che erano e osservandola divertito, quando un’espressione di puro disappunto le apparì in volto. Plagg era sveglio già da un po’, per quanto la sirenetta fosse silenziosa a livello di voce, non lo era altrettanto quando si muoveva e lui era rimasto in ascolto, mentre lei si aggirava per la stanza: aveva trattenuto il fiato, quando l’aveva sentita avvicinarsi, per poi rilasciarlo quando si era allontanata. Aveva socchiuso le palpebre, osservando la figura della ragazza avvicinarsi alla porta e, solo allora, aveva deciso di intervenire onde evitare che la sua fonte di guadagno se ne andasse: «Anche oggi sei di poche parole, noto.» dichiarò, stirando i muscoli delle braccia e sorridendo all’espressione di puro odio che la ragazza aveva in quel preciso momento: ah, se uno sguardo poteva uccidere… Si alzò in piedi, sistemandosi la maglia e osservandola di sbieco: «Non penso che tu mi abbia detto come ti chiami, vero? Per caso è Ariel, il tuo nome?» le domandò, osservando lo sguardo blu – lo stesso colore del mare – fissarsi inespressivo su di lui, poi la ragazza incrociò le braccia, voltandosi di lato e non degnandolo di una risposta. «Guarda, non ho nessun problema a chiamarti Ariel, sirenetta. Oppure Rossa, eh? Che ne dici?» La ragazza alzò gli occhi al cielo, tenendo sempre le labbra sigillate e sciogliendo le braccia intrecciate, si avvicinò al tavolino ove la sera precedente aveva abbandonato il bloc notes e, chinandosi, scrisse velocemente una parola, mostrandogli poi il foglio: «Tikki…» lesse Plagg, facendo scivolare lo sguardo dalla parola, vergata velocemente, al volto della ragazza: «E’ il tuo nome?» La rossa annuì e Plagg la imitò, rileggendo il nome e poi sorridendole: «Tikki. Perfetto. Io mi chiamo Plagg.» si presentò, posandosi il palmo aperto sul petto e osservandola mentre piegava le labbra in un sorriso, mentre una nota ilare le illuminava lo sguardo: «Trovi buffo il mio nome, rossa?» Tikki scosse il capo, chinandosi e, dopo aver girato il foglio, scrisse velocemente qualcosa: «Mi chiamo Tikki, non rossa. E sì, il tuo nome è buffo.» lesse Plagg, quando lei gli mostrò la pagina, imbronciandosi: «Non è buffo, è un nome…beh, particolare.» La ragazza lo fissò per un secondo, scuotendo la testa e andando verso la sua borsa: «Ehi, ti ho detto…» iniziò Plagg, zittendosi quando lei alzò l’indice destro verso di lui, come a intimarlo di stare in silenzio. Il ragazzo sbuffò, osservandola mentre recuperava una felpa e la indossava, facendo notare solo in quel momento che lei era stata con una canotta per tutta il tempo in cui avevano parlato, aveva anche pensato di uscire in quel modo e fuori, per quanto non fosse ancora freddo, non c’era certo la temperatura ideale per andarsene in giro con le braccia completamente nude: «Ma non hai freddo?» le domandò, incrociando le braccia e osservandola, mentre indossava il capo di vestiario: «Ok, il fatto che tu abbia messo una felpa dovrebbe essere una risposta affermativa, giusto?» La ragazza sorrise, annuendo con la testa e poi legandosi i lunghi capelli rossi in una coda di cavallo e pettinandola poi con le dita, lasciandola adagiata sulla spalla sinistra: «Sai, penso che abbiano inventato una cosa chiamata pettine. Dovresti provarlo, fa miracoli contro i nodi…» Tikki l’osservò, alzando poi le spalle e recuperando il bloc notes: «Posso uscire?» lesse Plagg, quando lei gli mostrò la pagina: «Ovviamente, finché non lasci il paese, puoi fare quello che vuoi. Ed io sarò la tua fedele ombra.» Vorrei andare in un posto. Da sola. «Sarò la tua fedele ombra.» ripeté Plagg, sorridendo di fronte all’espressione furente che aveva assunto nuovamente Tikki: «Anzi, sai che ti dico: andiamo a fare colazione, offro io.» La ragazza l’osservò, rimanendo ferma al suo posto mentre lui si avvicinava alla porta e l’apriva: Plagg si voltò, sostenendo lo sguardo dell’altra e, dopo una buona manciata di minuti di quella guerra, sospirò: «Senti, non è che ti chiedo di rimanere qui in eterno. Una settimana, niente di più. Il dottor Fu vuole solo che le acque si calmino e che Marie accetti che la morte del padre sia stato solo un incidente: è un villaggio piccolo questo e sono molto – diciamo – suscettibili per quanto riguarda gente estranea e cose nuove, soprattutto se combinate con la morte di uno del posto. Solo una settimana e poi potrai andartene dove più ti piace e dire addio a questo posto, mentre io intasco un po’ di soldi.» Solo una settimana?, scrisse Tikki mostrando poi il foglio e fissandolo, in attesa di una risposta. «Solo una settimana. Te lo prometto.» dichiarò Plagg, facendole cenno di uscire: «E ora andiamo, perché sto veramente morendo di fame.» Tikki annuì, infilandosi il bloc notes e la penna nella tasca della felpa e, dopo aver recuperato la chiave della camera, lo seguì nel corridoio, chiudendosi la porta dietro di sé: solo altri sette giorni in quel luogo, quindi, e poi sarebbe stata libera di andarsene. E se il Mare, in quel breve lasso di tempo, le avesse richiesto un’altra vita? Gli aveva dato Gustav, il giorno prima, quindi non sarebbe successo niente: di solito ci voleva un po’, prima che il Mare chiedesse un altro essere umano e sette giorni erano veramente un periodo molto breve. Non sarebbe successo niente. Seguì Plagg fuori dall’albergo e lungo la strada principale del paese, cercando di pensare: sette giorni in cui sarebbe stata con quel tipo e ciò significava che non avrebbe potuto toccare l’acqua, altrimenti avrebbe scoperto la sua vera natura; sarebbe dovuta anche stare attenta a non emettere il più piccolo suono o Plagg sarebbe stato il prossimo pasto del Padre. A cosa altro doveva stare attenta poi? Che non la toccasse e sentisse quanto fredda era, rispetto a lui. Nessuna ferita, altrimenti si sarebbe accorto delle sue capacità rigenerative. E poi? Ah, giusto. Niente lacrime, dato che si tramutavano in perle. Poi? Poi cos’altro? Ah, ma perché non la lasciava stare in pace? E perché il dottore del luogo gli aveva imposto una guardia del corpo? Socchiuse gli occhi, cercando di reprimere la voglia di piangere e urlare che aveva addosso; infilò invece le mani nella tasca della felpa, toccando il bloc notes che si era portata dietro e sorridendo: certo, doveva stare attenta a tante cose ma era bello avere di nuovo un contatto abbastanza lungo con un’altra persona. Era bello poter parlare – per quanto quello che aveva poteva essere definito conversazione – con qualcun altro. «Ehi, bella addormentata. Dove stai andando?» Tikki si fermò, osservandosi attorno e notando che Plagg si era fermato parecchi metri prima di lei e la stava fissando, la mano destra ferma sulla maniglia della porta del negozio: «Ammettilo, eri già persa in chissà quale sogno ad occhi aperti, dove m’immaginavi padre dei tuoi figli e…» il bloc notes contro la faccia lo interruppe dal continuare la frase e Plagg si portò le mani al volto, osservandolo irato: «Ma che problema hai?» Tu, scrisse velocemente Tikki, mostrandogli il foglio e poi superandolo ed entrando nella panetteria del paese, regalando un timido sorriso all’uomo corpulento al di là del bancone: «Plagg l’ha fatta arrabbiare?» le domandò una voce giovane e femminile: la rossa si voltò, incontrando un ragazzina dai capelli scuri e gli occhi azzurri che fissavano ilare il giovane uomo fuori dalla porta. «Di sicuro è la prima che non gli cade ai piedi.» sentenziò l’uomo nel negozio, mentre si lisciava i baffi: «Gli serve qualcuna che lo rimetta al proprio posto. A proposito, io sono Tom Dupain.» «Ed io mi chiamo Marinette.» «E sei anche in ritardo per la scuola.» Tikki sorrise, recuperando la pagina in cui aveva scritto il proprio nome e mostrandola ai due, abbozzando un sorriso agli sguardi che dalla parola scritta si spostavano al suo volto: «Piacere di conosceeee…» Marinette scivolò sul pavimento, nel tentativo di avvicinarsi e Tikki si lanciò in avanti, afferrandola per un braccio e impedendole così di rovinare a terra: «Grazie mille!» esclamò la ragazzina, regalandole un sorriso luminoso e abbassando poi lo sguardo sulla mano che la teneva per il polso: «Uao, sei veramente fredda.» La rossa ritrasse di scatto, portandosela al petto e chinando lo sguardo: «Io vado a scuola.» dichiarò Marinette, sorridendole: «Spero di rivederti presto, Tikki. E parlare un po’ con te…cioè io parlo e tu…beh, hai capito.» «Vai a scuola, signorina.» esclamò Plagg, entrando nella panetteria: «E mi raccomando: anche oggi balbetta davanti ad Adrien Agreste!» «Co-co-co-cosa? I-io n-non…» «Uh, oggi cominci prima del previsto! E non l’hai ancora visto!» «Plagg, sei uno stupido!» sentenziò la ragazzina, uscendo dal negozio e quasi scivolando appena fu fuori, suscitando l’ilarità del moro e un sospiro da parte del padre. «Quella ragazza...» sospirò Tom, scuotendo il capo e portando tutta l’attenzione su Plagg: «Il solito?» «Sì, grazie.» sentenziò il moro, poggiandosi al bancone e osservando Tom incartargli i due cornetti che erano stati messi da parte: «Ancora nessuno li vuole?» «Sei l’unico che mi chiede cornetti salati al camambert, Plagg.» «Non sanno quel che si perdono questi miscredenti. Come sta Sabine?» «E’ di sopra. Ah, ti ha già parlato del problemino che abbiamo con la luce del bagno?» «Non funziona di nuovo?» «Va a intermittenza.» Plagg annuì, voltandosi verso Tikki e sospirando: «La controllerei anche ora, ma il dottor Fu mi ha dato un lavoro da babysitter.» spiegò, indicando la rossa: «Posso venire…» Tikki si avvicinò, picchiettandogli un dito sulla spalla e mostrandogli un foglietto: «Davvero? Non ti da problemi aspettare?» La ragazza scosse il capo, fissandolo seria: che problemi poteva avere ad aspettare che aggiustasse la luce del bagno di quella famiglia? Nessuno, non aveva niente da fare in quel posto, quindi poteva tranquillamente rimanere in attesa e permettere a Plagg di aiutarli. Il moro sorrise, recuperando il sacchetto con i due cornetti e indicando la porta dietro il bancone: «Di sopra, allora.» sentenziò, osservandola entrare dall’altra parte e osservare le scale che portavano al piano di sopra. «E’ la ragazza che Marie ha accusato per la morte del padre?» domandò Tom, non appena Tikki fu uscita dalla stanza: «Povera ragazza, si vede lontano un miglio che non farebbe del male a una mosca.» «Fu ha paura che le possano fare qualcosa, quindi mi ha chiesto di tenerla sotto controllo fino a che Marie non si calmi un po’.» «Mh. L’ho vista stamattina, quando ho portato le brioches al signor Kubdel in negozio e continuava a dire che è colpa della straniera.» «Quella donna…» «Non è del posto e sai cosa pensa la maggior parte della gente…» Tom sospirò, scuotendo il capo: «Poverina, non parla nemmeno. Chissà cosa le è successo per farla giungere fin qua.» «Chissà…» sentenziò Plagg, sospirando e scuotendo il capo, prendendo la stessa porta dalla quale era uscita Tikki: si fermò, osservandola in attesa vicino alle scale che portavano al piano superiore e rimase a fissare  gli occhi blu mare che lo guardavano seri: «Che c’è?» le domandò, superandola e salendo i primi gradini: «Sono così bello che non riesci a togliermi gli occhi di dosso, rossa?» Plagg sorrise, osservandola mentre tirava fuori il foglio dove aveva scritto il proprio nome e glielo mostrava: «Rossa mi piace di più.» dichiarò, vedendola gonfiare le guance indispettita: «Ah, prima che mi dimentichi. Non farti incastrare da Sabine, la moglie di Tom…» sentenziò, mentre lei chinava il capo e un’espressione confusa le appariva in volto: «Vorrà cercare di farti mangiare e…beh, per quanto tu abbia degli argomenti decisamente interessanti, sei un po’ troppo magra…» Tikki abbassò lo sguardo, sentendo il volto avvampare quando notò cosa il giovane stava guardando e, recuperato il bloc notes, lo uso per colpire in faccia al moro: «Ma la pianti di sbattermelo in faccia?» Avrebbe cantato. Oh, lo avrebbe fatto. «Andiamo, rossa. Non ho tutta la giornata.» sbottò Plagg, massaggiandosi il volto e sorridendo, mentre saliva le scale: «Ah, non guardarmi il sedere.» Sì, lo avrebbe portato in barca, al largo, e poi avrebbe cantato. «Ehi, ti ho detto di non guardarmi il sedere.» Oh, avrebbe cantato. Sette giorni in compagnia di quel tipo significavano un pranzo extra per suo Padre a breve termine.
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echocideinthebox-blog · 8 years ago
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La sirena - capitolo 2
Indice dei capitoli: La sirena
La donna stava piangendo, mentre alcuni volontari tiravano a riva il corpo senza vita del padre: nonostante il rumore delle onde che, incessanti si abbattevano su quella porzione di spiaggia, Plagg poteva sentire le urla strazianti. Poco prima era corso al locale uno dei pescatori, additando a una barca abbandonata e tutti si erano messi in allarme: non era la prima vittima che il mare reclamava e, chi viveva in paesini come quelli, sapeva benissimo che non sarebbe stata neanche l’ultima. Andare in mare, molto spesso, era una scommessa. Ma non in una giornata come quella. Plagg strinse il pugno, osservando il mare che era leggermente mosso e non così agitato da provocare il ribaltamento di una barca e l’annegamento di un pescatore esperto. Come era possibile che fosse avvenuto ciò? Un malore forse? Si appoggiò alla ringhiera, osservando il medico del paese sgambettare lungo il pontile. Fu era l’unico dottore nel raggio di chilometri, da cui tutti andavano: uomini, donne, bambini, vecchi, animali. L’anziano cinese fungeva per il piccolo porto sia da medico che da veterinario e, com’era solito dire, non è che ci fosse poi così tanta differenza fra uomini e animali: se il cuore smetteva di battere erano morti entrambi. «Secondo te cosa sarà successo?» domandò Nooroo, poggiando gli avambracci sulla ringhiera vicino a lui e tenendo lo sguardo sulla folla riunita attorno al cadavere: «Avrà avuto un malore?» «Probabile.» commentò il ragazzo, passandosi una mano fra i capelli scuri e spostando la sua attenzione sulla figura solitaria che, molto distante da tutti, stava osservando la scena: la Rossa, com’era solito chiamarla fra sé, era arrivata poche settimane prima e, da subito, era stata sulle sue, senza parlare con nessuno. Anche Nooroo era stato vittima di quel muro di silenzio, quando aveva provato ad avvicinarla. E ogni volta che lei entrava nel locale, unico bar della zona fra l’altro, ci ricascava con tutte le gambe. Plagg assottigliò lo sguardo, osservandola mentre si stringeva fra le braccia con quel giaccone che era molto più grande del suo corpo: poco prima, al locale, lei si era accorta che la stava fissando. Di norma non succedeva mai o, comunque, era molto bravo a non farsi notare. «C’è la tua bella» commentò, indicando con un cenno il punto in cui la Rossa era ferma e osservando lo sguardo di Nooroo calamitarsi in quella direzione, mentre le guance gli diventavano rosse: «Beh, non vai a parlarle?» «Per cosa? Per vederla fissarmi in silenzio?» Plagg abbozzò un sorriso, tornando a fissare i lavori per riportare il corpo senza vita, sentendo su di sé lo sguardo dell’amico: «Che c’è?» mormorò, dopo un po’ e infastidito da quell’attenzione non richiesta: «So di essere bello, ma non pensavo di essere il tuo tipo.» «Stai pensando alla…» Si voltò, fulminando con lo sguardo l’altro e osservandolo mentre chinava lievemente la testa: «Scusa, non volevo.» «Non importa.» mormorò Plagg, stringendo le mani a pugno e facendo vagare lo sguardo sulla grande distesa d’acqua: odiava il mare e sapeva che era un sentimento reciproco. Quando era piccolo adorava nuotare e stare a mollo nell’acqua: ricordava ancora le prese in giro di sua madre, mentre gli spalmava la protezione solare e lo riprendeva per la pelle scura che aveva. Sei come tuo padre, ti abbronzi subito. Anche tua sorella è così, mentre io…, questo era solito ripetergli, per poi mostrare le sue braccia pallide come il latte. Un urlo straziante lo riportò alla realtà, facendogli lasciare la madre nei ricordi, ove era relegata da quando il mare gliel’aveva portata via assieme al padre e alla sorella: osservò la figlia del deceduto notare la Rossa e correre verso di lei: «Ma cosa…?» mormorò, muovendosi velocemente e scendendo sulla spiaggia, osservando la donna prendere un sasso e lanciarlo in direzione della ragazza. «E’ tutta colpa tua!» urlò quest’ultima, fra i singhiozzi e fermandosi a pochi passi dalla Rossa: «E’ colpa tua se mio padre è morto!» continuò, con le mani strette a pugno, mentre altri la raggiungevano: Plagg si fermò a pochi passi, osservando la ragazza fissare la donna con lo sguardo mortificato e poi farlo vagare sul resto delle persone. «E perché sarebbe colpa sua?» domandò la voce stanca del dottor Fu, facendosi largo fra la folla e sistemandosi fra la donna e la Rossa: «Ho visto personalmente questa ragazza al bar, proprio durante l’orario in cui tuo padre dovrebbe essere morto. Anche Plagg e Nooroo possono confermare.» «L’ho vista parlare con lui qualche giorno fa…» «Tutti hanno parlato con lui, fino a prima che andasse in barca. Siamo tutti colpevoli?» «E’ una straniera.» Fu sospirò, annuendo con la testa e sorrise: «Giusto. Dimenticavo quel piccolo particolare che, se sei straniero, sei anche un omicida. Dove avevo la testa quando ho curato quel tipo, che si era tagliato quando gli si è fermata la macchina? Sono sicuro che, a quest’ora, avrà già ucciso delle bambine…» «Non è divertente, dottore.» dichiarò la donna, fissandolo con il volto rigato dalle lacrime: «Questa…» «Questa ragazza è innocente. E lo diresti anche tu, se non fossi accecata dal dolore, Marie.» bofonchiò Fu, scuotendo il capo e fissandola con lo sguardo assottigliato: «Tuo padre è morto per un malore e, appena quei bravi sommozzatori la smetteranno di prendere il the e si decideranno a tirar fuori tuo padre dall’acqua, ti dirò anche quale è. Non questa ragazza.» continuò l’anziano, voltandosi verso la Rossa: «Vuoi dire qualcosa, mia cara?» La ragazza lo fissò un attimo, scuotendo poi la testa e incassandola fra le spalle, facendo un passo indietro e andandosene velocemente sotto gli occhi di tutti: «Lo vede? Lo vede come è strana? E’ arrivata qua da settimane e non parla mai…» «Ma come? Non avevi detto, proprio poco fa, che ha parlato con tuo padre?» domandò Fu, scuotendo la testa: «Posso comprendere che è il dolore che ti fa parlare, Marie. Piangi tuo padre, ne hai tutto il diritto. Ma non accusare nessun innocente.» Plagg ridacchiò, osservando la donna tirare su con il naso e fissare il dottore imbarazzata, mentre quest’ultimo aveva spostato l’attenzione proprio sul ragazzo: «Oh. Plagg! Volevo proprio te!» esclamò, avvicinandosi al giovane e guardandolo: «Avrei un lavoretto da darti…» Chiuse la porta con forza, sobbalzando quando sentì il rumore secco: si voltò, osservando il foglio attaccato ove erano le poche regole del piccolo albergo in cui si era fermata. Quando la figlia della vittima – della sua vittima – era corsa verso di lei, per un attimo Tikki aveva sperato. Sperato che sapessero la verità e che l’avrebbero uccisa, permettendole quella libertà che non aveva da viva. Ma così non era stato… Certo, la donna l’aveva incolpata ma senza nessuna prova: non aveva mai incontrato l’uomo che aveva ucciso di persona. Lo aveva studiato da lontano, apprendendo la sua vita come faceva con ogni altro obiettivo che il Mare le dava, ma incontri ravvicinati? No, quelli mai. Eppure la figlia la incolpava e, sebbene il dottore del paese, aveva preso le sue difese, lei sapeva quanto le parole della donna fossero vere: era colpa sua. Era lei che, con il suo canto, aveva spinto l’uomo a suicidarsi, gettandosi nelle acque del Mare. Era lei che lo aveva ucciso. Inspirò profondamente, osservando i suoi pochi oggetti sparsi per la stanza e annuì, afferrando il borsone consumato con cui viaggiava e iniziando a riempirlo velocemente: il suo lavoro era concluso lì, non avrebbe avuto senso continuare a rimanere in quel piccolo paese che si affacciava sull’Oceano Atlantico. Per un po’ il Mare non le avrebbe chiesto altre vittime, quindi poteva viaggiare per i fatti suoi. Era in Francia, quindi perché non visitare qualche zona di quella nazione? Gettò la spazzola e una felpa, annuendo alla sua scelta: sebbene vivesse da tanto tempo, si era sempre limitata a rimanere nelle zone vicine al Mare, poiché  come sirena sentiva la mancanza del suo Padre e Sposo non appena si allontanava di qualche chilometro ma, perché non resistere a quella forza che la invocava, spingendosi un po’ nell’entroterra? Vedere qualche città e scendere verso sud, fino a raggiungere Marsiglia. Se non ricordava male, lì viveva un’altra sirena. Sì, avrebbe fatto così. Se ne sarebbe andata e avrebbe viaggiato. Non sarebbe rimasta un secondo di… Un leggero bussare alla porta della sua stanza la interruppe: si voltò verso l’unica entrata alla camera e rimase in allerta, quando un secondo lieve toc toc la sospinse verso la porta: «So che sei lì dentro, Rossa.» dichiarò una divertita voce maschile: «Ti ho seguita dalla spiaggia, sai?» Tikki inspirò profondamente, poggiando una mano sulla maniglia e sentendo il metallo freddo contro il palmo; respirò nuovamente e aprì la porta, osservando la figura ferma dall’altra parte: la pelle inscurita dal sole, i capelli mori leggermente lunghi e lo sguardo verde dal taglio felino. Conosceva fin troppo bene la persona dall’altra parte, anche se non aveva mai avuto nessun contatto con lui. Ma Plagg era famoso in tutto il paese. Conosciuto per il suo odio verso il Mare, che gli aveva portato via la famiglia; per il suo aspetto fra le ragazze, che sospiravano ogni volta che lui entrava da qualche parte; e, soprattutto, lo conosceva per quella sensazione di pericolo e allerta che lui le metteva addosso. Lo osservò guardare l’interno della stanza, mentre lo sguardo si posava sul borsone sul letto: «Te ne stai andando da qualche parte, sirenetta?» le domandò, storcendo il naso e facendo qualche passo indietro, come se la vicinanza con lei non gli piacesse. Tikki sgranò gli occhi a quell’appellativo, aprendo la bocca e richiudendola, portandosi poi le mani alla gola: «Non hai mai visto il film della Disney? La protagonista almeno?» Tikki l’osservò, mentre lui si poggiava contro il muro parallelo a quello della porta e incrociava le braccia, inclinando la testa: «Rossa. Occhi azzurri. Non parla…Avevo pensato fosse carino come soprannome.» Non sapeva chi era lei. Era solo uno stupido soprannome. Lasciò andare il respiro che aveva trattenuto, inclinando la testa e rimanendo in attesa: che continuasse pure con il suo sproloquio, lo avrebbe messo al suo posto come ogni altro essere maschile a quel mondo; alzò la testa, osservandolo mentre, comodamente poggiato contro il muro, ricambiava il suo sguardo con un sorriso tranquillo sulle labbra. «Posso stare qui per tutto il tempo che voglio, ti avviso.» la informò, dopo una buona manciata di minuti e notando i segni di irrequietezza di Tikki: «Sono una persona molto, molto, molto paziente. Io.» Tikki sbuffò, rientrando nella camera e afferrando il bloc notes e la penna che, lo staff dell’ albergo, aveva lasciato nella camera insieme ai campioncini di bagnoschiuma e shampoo e ad altri piccoli gadget che dovevano renderle confortevole il soggiorno. Cosa vuoi?, scrisse sulla prima pagina e la mostrò a lui. Plagg lesse le due parole, spostando poi l’attenzione sulla ragazza: «Non parli?» le domandò, ricevendo in cambio uno scuotimento del capo come segno di negazione: «Nel senso che non parli parli o non vuoi parlare con me?» Non posso parlare, scrisse Tikki sul foglio, sotto il primo messaggio: ho un problema. Plagg annuì, leggendo le nuove frasi e prendendosi un po’ di tempo: «Ok. Ecco svelato il mistero del tuo mutismo, allora.» Cosa vuoi? «Cosa vorrei? Mh. Dormire, ecco. Ma quel maledetto di Fu mi ha nominato tua guardia del corpo e quindi…» si fermò, allargando le braccia: «Tadan! Eccomi qua.» Guardia del corpo? «Sì, crede che la figlia di Gustav farà qualcosa contro di te e…tu sai di chi parlo, vero? La tipa che…» Sì, lo so. Plagg annuì, scostandosi dal muro ma rimanendo sempre distante da lei: «Bene. Ottimo.» si fermò, passandosi una mano fra i capelli scuri e giocherellando con la fascia nera e verde, che portava legata attorno al capo: «Non devo spiegarti più di tanto allora: sarò la tua ombra, almeno finché quella donna non si sarà calmata o tu te ne sarai andata, sirenetta.» dichiarò, entrando nella stanza e lasciandosi andare sul letto: «Ah, ti sconsiglio di farlo ora: saresti sospetta ed io non prenderei un soldo. Grazie.» Tikki l’osservò, mentre chiudeva gli occhi e si rilassava nel suo letto: aprì la bocca, richiudendola e pestando stizzita un piede a terra. Maledizione. Non poteva parlare, altrimenti avrebbe dichiarato morte certa per quel tipo. Ma la voglia di dirgliene tante era veramente enorme.
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echocideinthebox-blog · 8 years ago
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La sirena - capitolo 1
Indice dei capitoli: La sirena
Chiunque i lidi incautamente afferra Delle Sirene, e n’ode il canto, a lui Nè la sposa fedel, nè i cari figli Verranno incontro su le soglie in festa.
[Odissea – Omero]
Lo sguardo blu osservò il pescatore, mentre alzava la testa e si guardava attorno: una vittima ignara di ciò che lo attendeva, che proseguiva tranquilla le ultime ore della sua vita. Rimase immobile, guardando l’uomo prendere gli abbecedari e controllare la lenza, prima di effettuare una manovra e lanciare l’amo in acqua non molto distante dalla barca: lo aveva seguito per giorni, studiando la sua vita e cercando di capire perché era stato scelto. Perché il Mare voleva proprio lui. Ma non aveva trovato risposta alla sua domanda, scoprendo che si trattava solo di un uomo in pensione, la cui unica passione era la pesca e che amava alla follia le sue due nipotine. Nient’altro. Eppure Lui lo voleva, così come aveva voluto tante altre persone. La ragazza chiuse gli occhi, issandosi sulla roccia e ignorando le onde che le spruzzavano il volto, mentre i lunghi capelli cremisi le aderivano alla schiena nuda: doveva cantare, doveva farlo e dare quella vita al Mare che tanto l’agognava. Inspirò profondamente, ascoltando la canzone provenire da dentro di lei e poi aprì la bocca, iniziando a far uscire le prime note. Chiuse gli occhi, decisa a non vedere il teatrino che presto sarebbe iniziato: l’uomo avrebbe abbassato la canna da pesca, si sarebbe guardato intorno con l’aria confusa e poi si sarebbe gettato, venendo accolto dai flutti. Una vita per cento. Era questo che si diceva, ogni volta che induceva un umano a gettarsi. Ogni volta che uccideva qualcuno. Il rumore di qualcosa che cadeva in acqua la ridestò, facendole aprire le palpebre e osservare la barca abbandonata, mentre lei continuava a cantare la sua nenia e una lacrima silenziosa le scendeva lungo la guancia: era un mostro che uccideva persone e poco importava che lo facesse per salvare altre vite, per tenere buona la furia del Mare. Finì di cantare, quando fu certa che la vita era stata assimilata e inglobata e sentì la vibrazione nell’acqua, segno che Lui era contento. Si asciugò veloce la lacrima che era sfuggita, gettandosi poi nell’acqua e nuotando veloce verso la costa, fino ad arrivare nella piccola baia nascosta da cui era partita – da cui partiva ogni volta – e si issò sugli scogli, rimanendo ben nascosta dalla spiaggia poco distante e dalla strada, che si affacciava su quella parte di mare: sarebbe stato un po’ difficile spiegare perché, al posto delle gambe, aveva un’enorme coda di pesce. Sarebbe stato un bel problema rivelare che era una sirena e quello che faceva. Si appoggiò con le braccia alla roccia, osservando il cielo sereno: non ricordava molto della sua vita prima di diventare una sirena; il Mare non parlava mai molto e le poche cose che sapeva le aveva apprese, quando cercava un legame con il suo Genitore. Sapeva di essere stata una ragazza umana e che, in qualche modo, era stata in bilico fra la vita e la morte mentre l’acqua si chiudeva attorno a lei e Lui l’aveva reclamata per sé, donandole una vita immortale e una voce che era fiele per gli esseri umani. In cambio di ciò, doveva semplice sfamare quel Padre e Sposo non voluto: una vita per salvarne altre cento, questo era stato il monito che Lui le aveva detto, la prima volta che aveva dovuto uccidere. Per salvarne molte, per impedire al Mare di riversare la sua furia contro la terraferma e chi ci viveva, doveva condurre alla morte poche vittime: era semplice. E doloro allo stesso tempo. Abbassò lo sguardo, osservando la coda asciugarsi e scivolare via come polvere, lasciando posto a un paio di gambe umane; con poca fatica si issò in piedi e veloce andò a recuperare gli abiti umani che aveva nascosto lì vicino: sarebbe rimasta in quel posto ancora per un po’, il tempo per osservare i cari della sua vittima piangere la perdita e, se fortunati, il Mare avrebbe dato loro anche un corpo da sotterrare, anche se raramente lo faceva. Si vestì con difficoltà, mentre le sue mani tremavano come ogni volta: quanto ancora avrebbe resistito? Quante vite doveva ancora togliere, prima che s’incrinasse e si rompesse? Aveva incontrato altre sirene come lei, alcune anche più anziane e in quest’ultime aveva avvertito la stessa freddezza del Mare: non c’era umanità nei loro sguardi o dolore quando cantavano e uccidevano. Erano Figlie del Mare, esattamente come sarebbe diventata lei un giorno. Non c’è futuro per una sirena, le aveva detto un tempo una delle anziane, diventerai una Figlia del Mare prima o poi; si era fermata poi, facendo vagare lo sguardo verso l’acqua azzurra e aveva sospirato: c’è una sola possibilità, che ti può dare una vita umana: trovare qualcuno che ti ami più del Mare. Ma dove pensi di trovare un amore più forte di quello di Lui? Dove puoi trovare qualcuno che veda al di là dell’aspetto che il Mare ti ha donato? E, in effetti, era difficile che qualcuno oltre la sua apparenza: sapeva che gli umani venivano ammaliati dal suo aspetto esteriore, non molto diverso da quello che aveva da umana ma enfatizzato dal potere del Mare. Chi avrebbe mai potuta vederla davvero per quel che era?, si domandò mentre si legava i capelli in una treccia e recuperava il berretto che si era portata dietro, calandoselo in testa e calcandolo bene, in modo che la visiera le coprisse parte del volto. Si issò sugli scogli, raggiungendo velocemente la strada e iniziando a camminare verso il piccolo paese: sapeva che il figlio dell’uomo che aveva ucciso possedeva l’unico bar-ristorante del posto ed era intenzionata ad andare là e attendere il momento in cui la notizia sarebbe giunta. Infilò le mani nelle tasche del giaccone, tenendo la testa bassa e camminando spedita, raggiungendo così velocemente le prime case del centro abitato e, poco dopo, il locale: entrò, osservando i pochi avventori e sorrise al ragazzo dietro al bancone. Nooroo, così le aveva detto di chiamarsi quando aveva provato a interagire con lei e racimolando solo sorrisi cordiali che erano stati accolti da un balbettio imbarazzato: non poteva parlare, altrimenti lo avrebbe condannato e lui aveva associato il suo mutismo a un atteggiamento altezzoso e  glaciale. Il ragazzo accolse il suo sorriso con un’espressione impacciata e lei si accomodò a un tavolo in disparte, aspettando che Nooroo le portasse la sua solita ordinazione, voltandosi poi verso la grande vetrata e osservando il mare che si vedeva in lontananza, sentendo il rumore delle onde nonostante il vetro e gli schiamazzi degli avventori del locale. Il Richiamo, così veniva chiamato dalle altre sirene ed era anche il motivo per cui loro non vivevano molto sulla terraferma: il Mare le richiamava sempre e incessantemente. Si strinse nel giaccone, sentendo un brivido correrle sotto la pelle molto simile a quello che avvertiva quando, nell’acqua, si trovava nelle vicinanze di un predatore; spostò lo sguardo, vagliando i pochi clienti e notando solo allora il giovane uomo che la fissava sfacciatamente: gli occhi verdi avevano un che di felino e seguivano attentamente ogni suo movimento, quasi come che lei fosse la preda. Quasi come un gatto con il topo.
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echocideinthebox-blog · 8 years ago
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La sirena - index
Tikki è condannata a un'esistenza immortale e susseguita di morti: è una sirena e il suo unico scopo è dare in pasto delle vite umane al Mare, suo Genitore e Sposo. Ma dopo l'ennesima morte, nel piccolo villaggio in cui si ferma, incontra qualcuno... Plagg odia il mare che gli ha portato via la sua famiglia e odia anche la nuova arrivata, che odora di salsedine, ma allo stesso tempo non può stargli lontano... Capitoli: 1 | 2 | 3 | 4 |
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