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Intersoggetività
Il riconoscimento e il valore dell’intersoggettività: una dote che “per coltivarla richiede reciproco rispetto” (J. Bruner).
Partendo da queste parole, vorrei riflettere su come il rispetto a cui allude Bruner, in alcune realtà appare essere fragile. Nel corso della storia della scuola in Italia, la penna del Presidente della Repubblica ha firmato decreti a favore dello “sviluppo della relazione, della creatività e dell’apprendimento di ogni bambino [...] superando le barriere culturali” (D. Lgs 13 aprile 2017, n.65). Tuttavia, ritengo che le più grandi barriere culturali, siano le sovrastrutture cognitive proprie dell’adulto. Quest’ultime, credo che impoveriscano l’immaginazione e sterilizzino l’esplorazione delle molteplici possibilità. In molte scuole, vi sono delle modalità relazionali e di apprendimento che faticano ad organizzarsi di fronte all’imprevisto che i linguaggi inediti dei bambini possono originare. 
In quanto adulti, sovente pretendiamo che siano i bambini a riconoscere il senso delle nostre azioni e poche volte avviene il contrario. 
Ci interroghiamo sui significati delle loro azioni quando ne rintracciamo delle lacune o delle fragilità e poco tempo ci soffermiamo per far scivolare il nostro interesse relazionale e la nostra curiosità epistemica sulle potenzialità emergenti.
Personalmente, credo che allenare uno sguardo attento alla molteplicità dei linguaggi, possa essere la strada maestra per realizzare il rispetto dei processi interattivi tra le differenti personalità. Dal pensiero di adulti che provano ad osservare le sfumature con cui i bambini colorano la cultura vigente trasformandola poco alla volta, possono aprirsi nuovi scenari, culture, esperienze e realtà.
“la necessaria responsabilità di una scuola come sito di ricerca, in grado di accomodarsi, ricercarsi e ricrearsi sui linguaggi dei bambini. Cercare, senza la pretesa di trovare, una metodologia con cui organizzare i nuovi alfabeti”
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Non credo che ci debba essere una cultura dell’adulto e una del bambino, come zone dicotomiche sulle quali posizionarsi. Tra le due terre, possiamo provare a edificare il ponte della ricerca educativa, quale area privilegiata da abitare. Come sosteneva L. Malaguzzi, “le cose dei bambini e per i bambini si apprendono solo dai bambini”. Emerge, pertanto, la necessaria responsabilità di una scuola come sito di ricerca, in grado di accomodarsi, ricercarsi e ricrearsi sui linguaggi dei bambini. Cercare, senza la pretesa di trovare, una metodologia con cui organizzare i nuovi alfabeti, potrebbe diventare lo sguardo che responsabilmente dobbiamo provare ad allenare e costruire, per fare della scuola un luogo di ricerca educativa e relazionale; una ricerca che si traccia in luoghi aperti alla cultura dei diversi alfabeti, linguaggi e personalità.
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Scuola è Territorio
“una scuola aperta, quindi, composta di adulti che operano scelte consapevoli e ragionate, affinché ogni luogo possa diventare contesto di apprendimento”
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Nel pensiero comune la scuola è rappresentata da uno spazio fisico, da un tempo preciso, da una struttura ben delineata. Istituzione per eccellenza, è luogo principe degli apprendimenti formali, dello sviluppo delle competenze trasversali, dello sviluppo della persona nella sua globalità. D’altra parte abbiamo una scuola ingabbiata in tempi da rispettare, programmi da terminare, sussidiari da completare, una scuola settoriale e poco sistemica.
 Si sono susseguite riforme negli ultimi decenni sempre organizzative e mai strutturali. Ora è davanti a noi la possibilità di rinnovare la forma mentis della scuola, la forma mentis degli insegnanti. Scuola non è una struttura definita, non è un’aula, non è un luogo fisico, ma è il territorio. Scuola è il museo, il cinema, la piccola bottega, il centro sportivo, il parco. I luoghi da soli sono vuoti, sono le persone che li abitano a riempirli di significati. Così come gli apprendimenti non sono solo quelli formali, apprendimento è anche stare in relazione con la natura, con molteplici contesti, attraverso molteplici linguaggi. 
Il territorio è la zona di sviluppo prossimale in cui immergere le nostre esperienze, in cui affondare le nostre radici, che intersecandosi con le radici degli altri vanno a formare esperienza, apprendimento, confronto e democrazia.
Il territorio permette di esplorare e di sperimentarsi, di entrare in contatto con altri punti di vista, i quali completano e rendono più ampia la mia visione, che diventa globale. Avremmo in mano la formazione di cittadini consapevoli che abiterebbero il mondo in maniera, forse, più democratica e realmente più inclusiva, dove le mie competenze non entrano in gara con le tue, ma concorrono a svilupparne di nuove, a servizio della comunità. 
Una scuola aperta, quindi, composta di adulti che operano scelte consapevoli e ragionate, affinché ogni luogo possa diventare contesto di apprendimento. Pensiamo a come uno stesso argomento didattico possa essere affrontato in una classe, con uno studio scientifico immersi nella natura, attraverso una grafica, attraverso il linguaggio digitale e pensiamo a come l’interconnessione di tutte queste modalità possano concorrere al raggiungimento di un apprendimento attivo, alla formazione di un pensiero critico. 
Ogni anno, in media, uno studente trascorre a scuola 1000 ore. Pensate a quale possibilità abbiamo di migliorare la vita di ogni singolo bambino che incontriamo. Pensate a quanta responsabilità abbiamo nella formazione di adulti competenti. Pensate a quanto un nostro voto, una nostra idea, una nostra frase, possa migliorare o peggiorare la vita di quel futuro adulto. 
Pensiamo, infine, a quanto avremmo bisogno di una comunità educante ampia, che operi e accolga i nostri ragazzi in un territorio che si fa scuola, in una scuola che si fa territorio.
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Fantasia ed Istruzione
La Fantasia e l’Istruzione, la prima essenziale ai proponimenti che ci dobbiamo prefiggere e la seconda fondamentale per alimentare la prima
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In questo periodo composto di cambiamenti profondi tutti noi stiamo ricercando strumenti per inventarci un mondo diverso. Quello che globalmente è accaduto, ci ha portato a ripensare e ridefinire i nostri comportamenti, le nostre relazioni e i nostri obiettivi. Quali strumenti utilizzare per fare tutto questo? La Fantasia e l’Istruzione, la prima essenziale ai proponimenti che ci dobbiamo prefiggere e la seconda fondamentale per alimentare la prima.
Bruno Munari definiva la Fantasia: tutto ciò che prima non c’era anche se irrealizzabile. In altre parole il processo di distruzione creativa di tutto ciò che conosciamo per ristabilire, costruire ciò che prima non era stato immaginato e che si crede appunto ineseguibile. La Fantasia permette un fronte immaginifico sconfinato, e proprio per le capacità di espansione che la contraddistingue ci permette di prefigurare scenari inimmaginabili, quelli di cui ora abbiamo bisogno.
Credo che solo percorrendo strade inesplorate troveremo le risposte. Oggi l’uomo è chiamato ad andare oltre ciò che prima era immaginato a ricercare potenzialità nelle difficoltà. Lo sforzo è sicuramente possente, ma quale capacità se non quella dell’immaginifico può condurci sul giusto sentiero? La Fantasia, come pensiero divergente, è una capacità umana infinita e potentissima che ci ha portato nel percorso di crescita delle civiltà a scoprire mondi nuovi, a viaggiare in orizzonti sconosciuti, a creare ciò che prima il nostro sguardo non poteva scorgere. Questo è il salto che dobbiamo compiere, con coraggio e con spirito d’avventura.
 Fondamentali oggi, più che mai, si configurano i ruoli delle nuove generazioni che attraverso le loro potenzialità saranno le giuste guide per il viaggio che ci attende.
Da oggi abbiamo la possibilità di trasformare il mondo, di costruirne uno nuovo, di cambiarlo e migliorarlo imparando dai nostri errori precedenti. Come nella favola di Rodari Storia Universale, dobbiamo ricostruire tutto! In un certo senso siamo tornati al punto di partenza, ad un contesto atto ad essere ridefinito. Rodari scrive: in origine la terra era tutta sbagliata, per renderla più abitabile fu una bella faticata. Per attraversare i fiumi non c’erano ponti. Non c’erano sentieri per salire sui monti. Ti volevi sedere? Neanche l’ombra di un panchetto. Cascavi dal sonno? Non esisteva il letto… Per fare questo ci occorrerà la Fantasia, che oggi è tornata a risplendere nel suo veritiero valore.
Chi ne sono i custodi? I bambini! Sono loro che riescono a trasmettercela e a condurci lungo i suoi percorsi creativi. Oggi più che mai è importante che ci affidiamo ai loro sguardi che senza restrizioni, esplorano le terre sconfinate del futuro che dobbiamo progettare. Fondamentali oggi, più che mai, si configurano i ruoli delle nuove generazioni che attraverso le loro potenzialità saranno le giuste guide per il viaggio che ci attende. Ed è per questo che la scuola diviene il contesto essenziale per strutturare la crescita non solo di chi la frequenta, ma dell’intera società. Se oggi perdiamo la possibilità di ripensarla avremo perso molto delle opportunità che ci offre l’esperienza globale che abbiamo vissuto.
L’istruzione deve nuovamente riposizionarsi sulla formazione della personalità, intesa come individuazione delle potenzialità d’ognuno, in modo che tutti bambini e ragazzi riescano ad esprimere il loro agire e il loro pensiero in una pluralità di linguaggi atti a creare ciò di cui noi e loro necessitiamo in questo mondo nuovo che ci attende.
Se lasciamo le nuove generazioni in possesso di molteplici strumenti, ma senza dar loro contenuti e linguaggi non riusciremo a metterli nelle condizioni di creare il mondo che ci occorre. Se non diamo ai bambini e ai ragazzi le forze per compiere questo viaggio creativo, non avremo una favola con il lieto fine come in quella di Rodari, che con queste parole: c’erano solo gli uomini con due braccia per lavorare e agli errori più grossi si potè rimediare; lascia a loro con fiducia un arduo compito. Credo che appaia un’impervia impresa solo a noi adulti, per chi ha gli occhi ancora affamati di nuovi orizzonti queste sono gesta che appaiono semplici.
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Oltre la distanza, la bellezza
“I bambini giocano e interagiscono con le distanze..ne osservano i colori, le luci, le forme e le grandezze e ravvisano in tutto ciò un territorio in cui poter dispiegare reciprocamente i propri sguardi e le proprie competenze per riuscire a ricercarne il senso e l’essenza.”
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È ormai da tempo che la distanza è pensata con un’accezione negativa, di privazione e quasi pessimismo rispetto alle possibilità di scambio e reciprocità. Tuttavia, i bambini mantengono sempre uno sguardo più ampio sulle questioni che la società porta loro e grazie a questa dote, trasformano la distanza in distanze.
 Quest’accezione ci restituisce così un terreno fertile sul quale poter appoggiare le nuove relazioni e gli apprendimenti. Nello scambio con i bambini, la distanza diventa un concetto che prende forma e movimento.
 Il distanziamento diventa un’esperienza che può essere manipolata per costruire e condividere riflessioni su ciò che vi è intorno.
In modo del tutto naturale, i bambini diventano attori e protagonisti delle esperienze caratterizzate dal distanziamento, rendendolo nelle loro mani, un’occasione per apprendere reciprocamente e continuare ad esprimersi. Con uno sguardo attento e meticoloso, osservano le varie sfaccettature della distanza e come questa si modifica nello spazio e nel tempo.
 I bambini giocano e interagiscono con le distanze, ne curano gli aspetti più intrinseci che spesso noi adulti non riusciamo a osservare e curare. Ne osservano i colori, le luci, le forme e le grandezze e ravvisano in tutto ciò, un territorio in cui poter dispiegare reciprocamente i propri sguardi e le proprie competenze per riuscire a ricercarne il senso e l’essenza. 
I bambini ricordano agli uomini “il piacere nel vedere i colori”, come sosteneva J.W. Goethe. Quei colori e quegli effetti, che cambiano grazie alla manipolazione delle distanze da parte dei bambini, diventano l’attuale bellezza. Le distanze quindi come un gioco; un motivo in cui si svelano quelle possibilità per scoprire e stupirsi ancora della bellezza che le cose hanno intorno a noi.
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Condividere architetture
quello che ci insegnano i bambini è l’essenza relazionale dell’architettare. Non si è mai soli nella progettazione e costruzione di contesti, ma è nella condivisione delle idee che uno spazio democratico può prendere forma.
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Architettare come sinonimo di progettare e costruire, dare forma ed esistenza a scenari nuovi. Nel qui e ora vediamo i pensieri dei bambini che hanno l’opportunità di materializzarsi. Nelle mani dei bambini l’architettare si configura come l’arte di tenere traccia in un tempo che possiamo trattenere e rendere percettibile e tangibile. 
Quello che ci insegnano i bambini è l’essenza relazionale dell’architettare. Non si è mai soli nella progettazione e costruzione di contesti, ma è nella condivisione delle idee che uno spazio democratico può prendere forma. 
In quanto adulti, siamo curiosi di scoprire quali scenari i bambini vogliono costruire. La ripresa delle esperienze educative può essere vissuta da tutti come possibilità e opportunità per architettare, in relazione, contesti nuovi, coerenti con le espressioni e le aspirazioni dei bambini.
 Un contesto costruito può essere più efficace di un contesto presentato; i bambini che come artigiani modellano i propri apprendimenti e le proprie relazioni, non possono non avere l’opportunità e il diritto di scegliere quali forme dare ai propri spazi. 
Credo che nell’architettura di contesti e spazi da parte dei bambini, abiti l’estetica di un tempo che può porsi in relazione con le personalità più profonde e intime dei bambini stessi. Cosa ci occorre per architettare? I bambini, nel repertorio di strumenti utili allo scopo, si dotano anche di lenti di ingrandimento con cui osservare ciò che l’occhio nudo sovente fatica a cogliere. Sulla base delle loro osservazioni e scoperte, i bambini continuano a costruire i propri contesti.
Osservare e scoprire diventano così delle coordinate che guidano l’agire educativo e si configurano anche come pilastri dell’architettare contesti, spazi e relazioni nuove e in continuo divenire. 
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Nuovi spazi progettuali?
Educatori e insegnanti, diventiamo osservatori meticolosi e progettisti creativi, ascoltatori ed equilibristi, architetti di spazi e contesti nuovi da abitare, abile rete che lavora in stretta sinergia 
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 È giunto il momento delle possibilità. Siamo stati investiti da una logica ribaltata, dove l’avere tempo di godersi la propria casa da lusso è diventato obbligo, e dove addirittura qualcuno ha sentito la nostalgia del proprio ufficio. Probabilmente pensiamo ci sia stata privata la libertà di scegliere, anche se arriviamo da un tempo concepito in maniera capitalistica, dove vendiamo ore, giorni, anni della nostra vita a patto che, nella migliore delle ipotesi, dalle 18 in poi possiamo sentirci liberi di incontrare persone a noi care, di avere momenti per noi stessi, di vivere ore di svago –dalla nostra stessa vita-. Analizzando più in profondità, mi affiora il pensiero che il concetto di libertà, in fin dei conti, non sia quello di fare ciò che si vuole, ma proprio quello di avere la facoltà di scegliere il momento in cui vivere l’altro.  
Ancora una volta, tutto passa quindi dalla relazione, dal bisogno esistenziale che abbiamo di avere una rete sociale che ci faccia sentire vivi, che ci faccia pensare di avere un posto nel mondo. La relazione costituisce la nostra essenza di esseri umani. A rigor di logica tutto dovrebbe migliorare, il bisogno di stare con l’altro dovrebbe, oggi, precedere il facile giudizio e gli occhi con cui guardiamo il mondo potrebbero soffermarsi sugli occhi dell’altro. Abbiamo una splendida opportunità. Possiamo imparare a leggere gli sguardi, soffermarci sulle parole e sui gesti, alleggerendo il carico pregiudizievole che portiamo costantemente con noi. Noi come adulti dobbiamo avere la priorità e forse l’obbligo di perseguire nuove consapevolezze. 
“è subito lampante quanto occorra ancora di più destreggiarsi tra nuove fragilità e nuove potenzialità”
Sono passati pochi giorni dall’apertura dei servizi educativi, di ritorno alla normalità, tanto attesa quanto temuta. Abbiamo colto immediatamente la spontaneità dei bambini nell’accogliere il nuovo e il diverso, nel dare vita a nuove traiettorie relazionali che passano da alcuni limiti che in qualche caso sono diventati risorsa. Allo stesso tempo abbiamo visto adulti impauriti, con il cuore verso il futuro e la mente in un pesante recente passato. Vivo ai nostri occhi di educatori, è subito lampante quanto occorra ancora di più destreggiarsi tra nuove fragilità e nuove potenzialità, immaginando e costruendo altri percorsi di accompagnamento alle famiglie, che prevedono una presa in carico degli adulti, a partire dalla spontaneità e leggerezza con cui i bambini si stanno immergendo in questo mondo nuovo. 
Educatori e insegnanti, diventiamo osservatori meticolosi e progettisti creativi, ascoltatori ed equilibristi, architetti di spazi e contesti nuovi da abitare, abile rete che lavora in stretta sinergia, perché spetta a noi cogliere il buono di questo tempo inaspettato, per metterne a frutto tutte le potenzialità che ci ha portato in dote.
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Abbracci Futuri
Quanto abbiamo perso negli abbracci mancati? E quanto rivalutiamo in quelli futuri?
Anni fa rimasi particolarmente affascinata dalla recensione di un testo, fatta da W. Szymborska, dal titolo Abbracci per l’umanità. Nella riflessione si sottolineava come, senza eccessive strumentalizzazioni, gli uomini sarebbero incomparabilmente più felici se si abbracciassero un po’ più spesso. Quindi oggi, forse, lo siamo tutti un po’ meno. In questo periodo di lockdown il testo mi è tornato alla memoria e credo che la ragione sia che gli abbracci sono una delle cose che più mi è mancata. Trovo che sia un gesto estremamente sincero per trasmettere all’altro il nostro sentire, non è condizionato come il verbale da sovrastrutture ed è efficace nel trasmettere il messaggio come realmente si presenta. 
A tutti noi è capitato di abbracciare altri e di percepire quella trasmissione di “energia” che ci dichiara in modo schietto ciò che l’altro vuole dirci, forse il bene nel sua forma più vera. L’abbraccio è molto frequente tra i più piccoli e meno tra gli adulti, ormai sopraffatti dalle sovrastrutture e da una serie di costrutti che gli hanno fatto perdere la spontaneità richiesta. 
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Essendo un gesto così naturale per l’uomo, la considerazione successiva è stata: ma quanto mancherà ai bambini abbracciarsi? Per i bimbi è un gesto imprescindibile della relazione sociale coi pari e spesso anche con le figure adulte del loro vissuto scolastico, tutta quella dose di energia positiva, che la letteratura dichiara indiscutibilmente generata dal gesto, venuta a mancare così all’improvviso, di cosa li ha privati? Quanto non potersi relazionare fisicamente, col senso del tatto, li ha privati nel percepire l’altro e di conseguenza loro stessi? Molti diranno che hanno comunque avuto gli abbracci di mamma e papà… per fortuna, dico io! Ma sono convinta comunque che ai bambini sia mancato abbracciare i loro amici, le maestre, gli educatori, e tutti quelli che spontaneamente sentono il bisogno di stringere a loro.
“per i più piccoli il microcosmo di relazioni coi pari sia fondamentale per la strutturazione della personalità e per un interscambio con l’altro, interazione imprescindibile alla natura umana”
 La loro socialità al di fuori delle mura domestiche e spesso data per scontato, ma credo che anche  per i più piccoli il microcosmo di relazioni coi pari sia fondamentale per la strutturazione della personalità e per un interscambio con l’altro, interazione imprescindibile alla natura umana. Quanto loro e noi adulti ci possiamo percepire in assenza di percezione tattile dell’altro? Questo carico di energia che davamo per scontato ha creato una mancanza un vuoto in noi adulti tanto e se non di più nei bambini. Quanto abbiamo perso negli abbracci mancati? E quanto rivalutiamo in quelli futuri?
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Ripartiamo dalla Distanza
“potremmo scoprire come la relazione sia in un rapporto diretto e dipendente dall’altro e dagli altri, indipendentemente dai centimetri che ci separano”
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“Dal latino distanzia, der. di distare, la lunghezza del percorso fra due luoghi, due oggetti, due persone”. Distanza quindi come una strada fra, che insita sottintende una dualità, una relazione fra un punto e l'altro, alla ricerca del punto di contatto. Un percorso che prende avvio da me per arrivare a te. E se partissimo da qui? Moltissime sono le domande degli addetti ai lavori: quali proposte ai bambini, quali attività, come ripensare ai contesti? Probabilmente siamo ingabbiati in prefigurazioni guidate dal lockdown, dalla crisi sanitaria, dalle paure e dalle ansie sociali. È importante, forse, immaginare la distanza non come limitazione, ma come trasformazione del nostro agire progettuale, ponendo il nostro sguardo sul come abitarla, sul come riempirla di significati. 
Occorrerebbe prima di tutto un pensiero lucido sul contesto, sulle sue potenzialità, sulle risorse che ti porta e sul come costruire con i bambini nuovi sguardi, nuovi punti di vista. 
Ripartiamo dalle domande. Facciamo domande ai nostri bambini, chiediamo loro cosa è cambiato, come è cambiato, chiediamo loro soluzioni, innovazioni, ascoltiamoli, trasformiamoci in ricercatori e chiediamo ai bambini di esserlo, e ancora una volta potremmo scoprire come la relazione sia in un rapporto diretto e dipendente dall’altro e dagli altri, indipendentemente dai centimetri che ci separano, perché veicolata da pensieri condivisi, da tante piccole riflessioni che ne costruiscono una comune, fino a costruire un’identità di quel gruppo di bambini e di adulti. Potremmo riscoprire quanto un mio pensiero concorra alla costruzione del tuo e di quanto il tuo agire permetta al mio di affinarsi. Tutto questo a prescindere dalla distanza che ci separa, perché anzi, sarebbe, questa, proprio il punto di partenza. Sarà quindi necessaria una cassetta degli attrezzi aggiornata, per gli educatori, piena di consapevolezze differenti, di strumenti nuovi o rinnovati. 
Niente sarà e dovrà più essere come ieri. L’innovazione del sistema educativo sembra alle porte, e saremo pronti solo se porteremo con noi tante, tantissime domande.
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Vestiti da casa nelle case altrui
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In digitale siamo bidimensionali: cambiamo posto e forma, apparendo tutti sullo stesso piano.
Virtualmente ci incontriamo eppur sfuggiamo alla lingua madre della relazione: la stretta di mano, un abbraccio, dare un pizzicotto o fare una carezza, formare un cerchio tenendoci per mano. 
Il codice non verbale innato che possediamo è ad ora per molti un ricordo nostalgico, per alcuni una liberazione, a tutti inevitabilmente risulta un’amputazione che richiede un ripensamento ed un adattamento alla socialità e alla comunicazione efficace con l’Altro.
In digitale siamo bidimensionali: cambiamo posto e forma, apparendo tutti sullo stesso piano.
La profondità non è più la dimensione della gerarchia sociale, bensì recupera il valore di alleanza e relazione.
I pensieri emersi dalle lunghe ore trascorse ad ascoltarsi ci attivano a muoverci in squadra in questo presente inaspettato, a co-progettare il futuro sulla base di un cambiamento comune.
“giochi d’incastro tra forme e dimensioni che aprono vie di fuga da sistemi obsoleti creando nuovi spazi comuni”
In questa estensione le forme di socialità si evolvono rendendosi maggiormente ugualitarie e collettiviste e la relazione rimane la quotidianità: è realmente accaduto che siamo entrati in case altrui “vestiti da casa”. Sullo schermo del PC ci rivediamo di fianco al capo, a lezione di storia e geografia con la mamma, nella cucina dell’insegnante, davanti alla nonna che mai prima d’ora si era fatta vedere senza la messa in piega della Domenica. Tra adulti sono sorte forme di cooperazione e i bambini, proprio in questo lungo periodo, hanno ricostruito l’idea di scuola come safe space per alimentare e mantenere legami. La relazione esiste e resiste ogni giorno, con un’intrinseca e vitale competenza di trasformazione.
Ciascuno di noi è agente -non subordinato o dipendente- su questi giochi d’incastro tra forme e dimensioni che aprono vie di fuga da sistemi obsoleti creando nuovi spazi comuni: allestiamoli e rivestiamoli degli stessi abiti funzionali e accoglienti in cui ci riconosciamo ora, sperimentiamoli con agilità e disinvoltura, come senza esitazione abbiamo esperito modi per restare in relazione.
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Come in una mostra di Salgado
Ciò che incontrano oggi i miei occhi, sono delle immagini; delle fotografie che si muovono e vivono dentro uno schermo e che si relazionano per il suo tramite. Credo che l’orizzontalità di sguardi che si vengono a creare attraverso lo schermo, oggi si traduca in orizzontalità dei ruoli. Siamo tutti sulla stessa barca, alla ricerca di nuove strategie. 
“è giunto il momento di fermarsi, ma per gli esseri umani è arrivato quello di riscoprire le proprie virtù.”
Stiamo mettendo in gioco noi stessi per ricostruire nuovi ruoli e consapevolezze. In uno scenario in cui sono cambiati i tempi, gli spazi e le relazioni, tutto è da rimodellare. Denudati dai ruoli rigidamente fissati dalla società, ci sentiamo più capaci di guardare negli occhi l’altro. Ci poniamo tutti su un medesimo piano. Lo facciamo perché avvertiamo la necessità di ristabilire nuovi equilibri. Tutto si rimescola e quasi si confonde, nel tentativo di ritrovare l’armonia di un tempo. Siamo pronti ad ascoltare di più l’altro; ci impegniamo ad accogliere pensieri diversi.
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“Non cerco uno scatto onnisciente sull'esperienza, ma provo a pormi alla stessa altezza delle persone”
 L’orizzontalità di cui scrivo, è una virtù che l’essere umano è chiamato oggi a riscoprire e riconoscere con umiltà. Non cerco uno scatto onnisciente sull'esperienza, ma provo a pormi alla stessa altezza delle persone che, come me, si stanno impegnando a costruirla. Ecco che la ricerca di uno scatto orizzontale dell’altro e della realtà, può essere capace di accarezzare la mia mente ogni volta che lo guardo. 
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Mezzi busti pixellati: vaghiamo come satelliti nella galassia
Osho scrive che “la consapevolezza è la chiave che aiuta a vivere in armonia” e può essere utilizzata come strumento per un nuovo equilibrio. L’invito è quello di ri-guardare alle cose con uno sguardo diverso da quello di prima. Per farlo ci occorre questa lente d’ingrandimento tra le mani che è la consapevolezza stessa. Il nostro sguardo si apre così al mondo in modo più aperto e al contempo più profondo di prima, riuscendo a riscoprire la bellezza che caratterizza quei dettagli che ci siamo persi lungo il cammino della frenetica esperienza pre-pandemica. La bellezza delle piccole cose, diventa il piano sul quale concentrare i nostri sforzi per tessere un filo capace di tenere agganciata l’esperienza passata con quella presente. Il tempo e l’identità umana, non possono essere frammentati, ma dobbiamo essere curiosi di scoprire i significati che sottendono alla natura del loro divenire. È in virtù di questa curiosità, che s’impone una riflessione e una metaconoscenza su quanto sta accadendo, affinchè possiamo continuare ad essere attori e non spettatori, soggetti e non oggetti, all’interno di questo cambiamento che in modo così inaspettato e imprevedibile si è presentato. In particolare, ciò che si presta ad essere pensato, mentre scrivo sulla consapevolezza, è quanto, paradossalmente, la ricerca del dettaglio continui ad abitare nella relazione con gli altri. Scambio fotografie, conversazioni e videochiamate e ho il tempo di con-dividere sia l’esperienza sia le scelte strategiche con cui costruire la nuova routine. Mi ispiro alla volontà e allo sforzo con cui anche gli altri cercano di non essere preda degli eventi. Così facendo, riscopro la bellezza nell’abbracciare quel tempo per accingermi ad amalgamare con cura degli ingredienti per preparare una torta in cucina, lasciando agli altri l’interrogativo se sarà buona o meno. Condivido e scambio con loro questo particolare come se fosse l’evento dell’anno. Ebbene sì! Lo faccio perchè quando hai una lente di ingrandimento tra le mani, tutto assume una visione e un significato più ampio e probabilmente più autentico. Assaggio quella torta e mi accorgo che potevo prepararla meglio, correggendo le dosi degli ingredienti che la compongono. Così la mia scelta è quella di utilizzare il tempo per curare le piccole cose
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Sono davanti all’edicola, in fila insieme ad altre tre persone: ognuno di noi con la sua mascherina e i suoi guanti, tutti a distanza di almeno un metro l’uno dall’altro, ci scambiamo sguardi e piccoli sorrisi, consapevoli di vivere una straniante condizione comune.
Mi trovo a pensare come questa fosse una scena a me estranea fino a tre mesi fa, prima dell’arrivo di una pandemia globale, che ha reso le nostre vite nuove.
Sì… nuove, non mi piace dire che le ha stravolte, perché vorrebbe dire essere spettatori di quello che accade, vivere passivamente gli eventi.
Essere consapevoli vuol dire essere a conoscenza di ciò che viene percepito, ed anche se la conoscenza non potrà mai essere globale e solo singolare nell’accezione di non totalità, averne comunque un buon quadro permette di controllare o prevedere meglio gli eventi.
La coscienza di ciò che ci sta accadendo, lo sguardo lucido, l’utilizzo preciso delle parole, sono gli strumenti che ci possono salvare dall’essere trascinati dalla corrente verso lidi perduti. 
In un cambio di scenario così repentino, imprevisto, inaspettato, ognuno di noi ha trovato dentro di sé le sue forze per poter rimanere integri, per non essere scissi e infranti dal cambio di tutto ciò che fino al giorno prima era conosciuto e dato per assodato.
Nel mio piccolo, la prima ancora di stabilità mi è arrivata dall’individuare lessicalmente, in modo quasi “chirurgico”, la parola per dare sostanza a ciò che stavo vivendo… non era paura, non era stravolgimento, non era cambiamento… era angoscia.
Termine che ha un senso negativo nel comune sentire. Io la trovo, invece, paradossalmente rassicurante. Se si ha il coraggio di dire a se stessi che ci si sente completamente persi, perché non si hanno più riferimenti e non si hanno esperienze pregresse per capire, si prova una grande incertezza; ma ironicamente, come solo la vita sa essere, hai la certezza di non averne nessuna ed è già un ottimo punto di partenza. 
Da quella base che è tanto concreta quanto inesistente puoi ricostruire il tuo agire del domani, puoi identificare te stesso in modo più veritiero ed assoluto, la creazione si genera solo dalla distruzione, quando noi compiamo un atto creativo lo facciamo in modo imprescindibile da un precedente atto distruttivo. 
Ed è su queste consapevolezze, l’angoscia affrontata con il coraggio di guardarla in faccia e la capacità creativa, che questa imprevista nuova condizione di vita ci dà la straordinaria possibilità di ricostruire noi stessi, le nostre relazioni, il nostro agire, le nostre giornate fatte di amici, famiglia e relazioni.
La nostra consapevolezza non può essere arrogantemente singolare, pensando di aver compreso tutto, ma può essere plurale, una pluralità di piccole consapevolezze che messe insieme ci danno le navi per costruire la flotta con cui navigare nello sconosciuto oceano del domani. 
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Sarebbe interessante indagare come l’uomo riesca ad adattarsi non solo a contesti nuovi, ma a contesti inaspettatamente nuovi. Immersi in un tempo sconosciuto, tutto da rinnovare e da ri-costruire, a partire dalle coordinate che scandivano le nostre giornate. Tolta la sveglia, tolto l’appuntamento di lavoro fisso, tolte le passeggiate domenicali, tolte le relazioni fisiche. Un uomo denudato da tutte le sue certezze. Da qualcosa bisognava pur partire, abbiamo la necessità impellente di avere un appiglio che ci sorregga mentre tutto intorno sta cambiando. L’unica cosa che ci accomuna tra il mondo pre-pandemico e il mondo post pandemico è la rete internet. Con i tutti i suoi strumenti, nei quali si sostanzia. Cellulari, tablet, computer. Ecco quello che ci è rimasto, ed ecco da che cosa è stato necessario ripartire. Tutto del nostro vivere deve/dovrà essere mediato da un dispositivo elettronico a casa, di sicurezza fuori di casa. È una svolta epocale, il cui punto focale sarà capire quali strascichi relazionali ci porteremo nel prossimo futuro. Per interloquire con l’altro occorre una mediazione, una barriera, fisica e ben tangibile. E le relazioni sono immerse in un tempo espanso, poco definito e difficilmente definibile. Ma non tutto ha risvolti negativi, o, per lo meno, dobbiamo essere capaci di ritrovare una bellezza formale e sostanziale nei nostri percorsi di vita. Ripensarci partendo dalla consapevolezza della nuova cornice che ci definisce, che è quella di un quadro di Dalì, che cambia forma repentinamente correndo il rischio di crepare anche il dipinto. Se non abbiamo potere sulla cornice, abbiamo il dovere di trasformare il materiale usato per dare sostanza al quadro, un materiale morbido, che non produce spaccature, ma si allinea in maniera naturale ai cambiamenti. Il tempo di vita quotidiana scandito rigidamente, dovrà quindi diventare non un tempo flessibile ma oserei dire flessibilmente rigido; il pregiudizio insito nelle sovrastrutture cognitive di ogni uomo, dovrà mutare i propri riferimenti pregiudiziali, in un mondo che ha aumentato relazioni orizzontali, se non in qualche modo, capovolto le competenze che ci attribuivamo e pre-attribuivamo all’altro; dovremo necessariamente fare ricorso alle nostre migliori doti empatiche, perché dietro al tuo schermo siede una persona, che è però una persona diversa da quella che conoscevamo fisicamente; dovrà necessariamente cambiare il nostro modo di interpretare la realtà.
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Lo spazio delle idee coincide con quello del lavoro, dello svago, dell’intimità. 
In questo quadro confusionario abbiamo dimenticato i nostri riferimenti spazio-temporali ed essi sono diventati fluidi, non più facilmente definibili. 
In un attimo noi esseri umani siamo tutti uguali: mezzi busti pixellati vaghiamo come satelliti nella galassia sconfinata della rete Internet, sotto forma di immagini -formato fototessera-  arriviamo in ogni angolo del mondo. 
In questa realtà virtuale parallela all'isolamento del corpo, i ruoli cambiano e le gerarchie si appiattiscono: bambini che insegnano agli adulti, adulti polifunzionali che si ritrovano a governare i punti di riferimento, dirigenti che esprimono le medesime incertezze dei loro dipendenti. La situazione di immobilità che ci circonda attiva la nostra adattabilità, in certi casi anche assumendo un adeguato riconoscimento.
Gli unici strumenti per stare in relazione sono i cosiddetti “beni di prima necessità”, pochi e molto simili per tutti: oltre al cibo, s’ intende un telefono, un pacchetto abbondante di giga a disposizione, e se possibile un computer. Tutti interagiamo senza sosta con questi mezzi tentando di prenderci confidenza, perché solo pochi sanno realmente utilizzarli con agilità. 
Su tutti i fronti ci è stata richiesta un’estrema dose di autonomia personale, ma noi siamo stati in grado di trasformarci e creare nuove alleanze. L’individualità si organizza, si rimette insieme e fonda forme evolute di comunicazione. 
La relazione è combattiva, si riconferma modulare e flessibile, sa rigenerarsi e costruire nuovi contesti e nuove modalità. E’ possibile sempre, anche quando tutto ciò che abbiamo intorno di conosciuto si trasforma, si estrania e si annulla.
Questo strano viaggio sul posto che stiamo facendo ci rinnova. Il livello di competenza, ovvero saper attivare determinate risorse per pianificare le nostre azioni, è un prerequisito dell’autonomia e della maturità delle nostre strutture e delle nostre stesse funzioni corporee, emozionali e cognitive. Questo significa avere la consapevolezza di sé e del proprio agito nello spazio e nel tempo, qualunque esso sia.
Ecco come abbiamo potuto vivere e affrontare questo imprevisto.
Ecco come è possibile ripartire per andare avanti.
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