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La filosofia è una pratica, non una teoria: non qualcosa che si dice, ma che si fa. Ermanno Bencivenga
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enricca · 7 years ago
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Ne ho abbastanza
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Anch’io rilancia lui, anch’io ne ho abbastanza. Poi mi spiega: è una frase molto semplice ma di estrema importanza, perché è una frase che ci vietiamo. Ci vietiamo non solo di pronunciarla, ma per quanto possibile anche di pensarla. Perché se si comincia a pensare: “ne ho abbastanza”, ci si ritrova molto presto a pensare: “non è giusto” e “potrei avere un’altra vita”. Ora questi pensieri sono insopportabili. Se cominci a dirti “non è giusto”, non vivi più. Se cominci a dirti che la vita potrebbe essere diversa (…) la vita si guasta. “Ne ho abbastanza” e dietro “ne ho abbastanza” “non è giusto” e dietro “non è giusto”, “la vita potrebbe essere diversa”, sono pensieri che non portano a nulla. Ciò non toglie che questi pensieri esistono e non fa nemmeno bene impiegare tutte le proprie energie per fingere che non esistano. È complicato adeguarsi a questi pensieri. 
Il mio augurio è che questo adeguarsi si faccia più facile. 
Che riusciamo a pensare e a dire “ne ho abbastanza” quando ne abbiamo abbastanza davvero e che questo pensiero non ci spaventi. Che significhi libertà. E che sia solo un punto di partenza. Per superarlo, capire perché restiamo, valorizzare cosa ci trattiene. Oppure per superarlo e cambiare ciò che possiamo cambiare.
Buon 2018 a tutti.
*Tratto da Vite che non sono la mia, E. Carrère
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enricca · 7 years ago
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World Philosophy Day 2017
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L'uomo che è misura di tutte le cose, la natura che è principio, il tempo che passa e che ritorna, la verità relativa e quella assoluta che si cerca che non si trova, il desiderio, il piacere, i bisogni, l'analisi di realtà, l'opinione, le parole, il loro significato, la loro ambiguità, i valori, il ragionamento valido quello non valido, la causa e l'effetto, le azioni, l'esistere che cerca un senso, e l'essere, la sostanza, la politica, la famiglia la societá civile lo Stato, il valore della storia, la diversità la differenza la contraddizione, il perchè, il dolore, la morte, l'epochè. La via lunga la via breve, l'interpretazione, la vita, la fatica e la passione.
Alla filosofia, a tutto quello che significa per me. A chi ostinatamente la sceglie e a chi orgogliosamente la pratica.
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enricca · 8 years ago
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Guarda che (non) sono io
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Guardate questa fotografia. Mi è stata scattata domenica, e sono giorni che la contemplo. Cerco i dettagli, che espressione ho, come sono le labbra, cosa dice il mio sguardo. E la guardo così insistentemente per riuscire a capire cos’avesse nella testa la persona che proprio in quel momento lì, mentre gli stavo parlando, ha spinto il polpastrello sullo schermo del proprio iphone.
Clic.
Cos’ha visto? Perché in quell’istante? Cosa gli è arrivato di me? Forse nulla, forse era solo una bella foto, con quei due quadri alle spalle. O forse tutto, quella che sono io.
È una fotografia, un’altra persona mi ha oggettivato. Cogliere uno sguardo è accorgersi di essere guardati, diceva Sartre. È lo sguardo altrui che mi rimanda da me a me stesso. L’altro mi guarda e io divento l’oggetto che l’altro mi guarda e giudica.
È un esercizio apparentemente molto banale eppure richiede un grosso sforzo. Riuscire a tirarsi fuori, guardarsi attraverso lo sguardo altrui, oggettivarsi e regolare la propria emotività.
Quando siamo dentro alle cose, quando lo specchio ci rimanda il nostro riflesso e non abbiamo la possibilità di uscire dalla percezione che abbiamo noi di noi stessi, siamo intrappolati.
Io mi guardo, io mi giudico, io mi fotografo, io mi valuto, io mi commento, io mi riguardo, io mi modifico con gli effetti instagram, io mi attribuisco valore, io me lo tolgo. E io mi perdo. Avere a che fare con il proprio io, senza permettere a nessuno di oggettivarci e di guardarci da fuori, ci costringe a rimanere in una gabbia, in un dialogo solipsistico che è all’origine dell’incapacità che abbiamo di percorrere la strada della conoscenza di noi stessi.
Per riuscire a conoscerci davvero, dobbiamo andar fuori da noi. L’introspezione e l’autovalutazione hanno un grandissimo valore, ma lo sguardo altrui gioca un ruolo altrettanto importante. E questo non significa perdersi nel giudizio degli altri e farsi condizionare, ma al contrario riappropriarsi delle proprie luci e ombre in un gioco continuo tra percezione di sé e percezione che gli altri hanno di noi.
Tiresia, l’indovino della mitologia greca, disse alla madre di Narciso che questo suo bellissimo figlio sarebbe diventato vecchio solo se non avesse conosciuto se stesso. Narciso dopo aver guardato la sua immagine riflessa se ne innamorò perdutamente e morì in questo rimando tra sé e sé stesso senza riuscire a uscirne, conoscendo l’immagine che aveva di se stesso, solo e soltanto quella.
Così come quando ci scattiamo un selfie e ci riguardiamo. Resta un dialogo interno, uno sguardo interno, niente di più paralizzante. Potrebbe anche essere un bel rifugio, ma se poi un selfie lo pubblichiamo è perché stiamo cercando di oggettivarci e di farci guardare. Ma è troppo tardi. Da questo sguardo, che arriva dopo il nostro, non riceveremo niente indietro.
Clic.
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enricca · 8 years ago
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Il bene e il male davanti al semaforo
Passare con il rosso di notte? È uno dei tanti quesiti che pongono un tema universale. Di questo si occupa la nuova disciplina: l'obiettivo non è guarire l'individuo ma offrirgli una prospettiva diversa - di Federico Capitoni, Robinson la Repubblica.
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Ils vont 📷 Treno Regionale Roma-Fabriano, ottobre 2017
L'associazione della filosofia alla parola "pratica" ancora sorprende molti, abituati a pensare che la madre di tutte le discipline riguardi la pura speculazione, l'accademia e — nel peggiore dei casi — un mondo teorico, ideale, che non trova alcuna applicazione nella realtà. Quando si parla di pratiche filosofiche è dunque naturale essere pronti a spiegare cosa si intende, non solo in termini concettuali, ma anche professionali, visto che quello del filosofo pratico, per quanto ancora poco diffuso, è un mestiere a tutti gli effetti.
Le pratiche filosofiche sono molteplici, ma possono dividersi in due grandi tronconi: quelle individuali e quelle collettive. Nel primo caso si parla prevalentemente di consulenza filosofica, un dialogo tra un consultante (colui il quale espone un suo problema) e un consulente (il filosofo) che ha l'obiettivo di fare luce sulla questione, senza intenzioni risolutive. Può considerarsi una pratica alternativa, ma non affine, alla psicoterapia, sebbene non vengano messi in campo strumenti o modelli psicologici e non si miri alla soluzione del problema, ma soltanto a escogitare nuovi punti di vista per guardarlo e affrontarlo. Non c'è alcuno scopo terapeutico e non esiste la figura del paziente (tanto meno del malato). Se c'è invece un riferimento filosofico, esso non è una scuola, ma una modalità: quella socratica delle continue interrogazioni e messa in discussione di ogni proposizione. Cogliere in fallo logico l'interlocutore spesso tradisce un suo errato posizionamento rispetto alla questione.
Lo stesso approccio socratico, argomentativo, è alla base anche delle pratiche collettive, un mondo più ampio, fatto di tante attività — caffè filosofici, Philosophy for Children, Philosophy for Community, dialoghi in stile filosofico — tutte accomunate però dal medesimo processo, controllato — non diretto! — dal filosofo professionista che assume il ruolo di facilitatore. Normalmente disposti in circolo, per eliminare ogni gerarchia e per fare in modo che lo spazio vuoto creato al centro sia il luogo neutro delle argomentazioni, i partecipanti — facilitatore incluso — iniziano un dialogo che normalmente scaturisce dalla lettura di un testo non filosofico. Più raramente il tema è già deciso prima di iniziare il dibattito, si preferisce utilizzare un testo perché è interessante anche il processo grazie al quale si arriva all'argomento. I partecipanti fanno osservazioni non sul testo, bensì a partire da questo, il che consente di vedere come in un brano, che pure possiede una tematica centrale, la comunità possa individuare un argomento laterale o non palesemente emergente. E ciò mostra l'inevitabile collegamento di temi anche apparentemente lontani. Il testo serve dunque a scatenare, accendere, la riflessione, che prende corpo attraverso la libera circolazione delle opinioni.
Quel che c'è di filosofico sono la pratica dialettica, l'argomentazione e un processo di astrazione che esercita la mente: si parte sempre da casi particolari per arrivare all'universalizzazione del concetto, per quanto il tempo (raramente si superano le due ore) lo consenta. Nessuno, quando si comincia, lo sa, ma è esattamente quello che succede: è naturale che dall'esperienza di vita del singolo, se sia il caso o meno di passare col semaforo rosso anche alle tre di notte quando non c'è nessuno (e magari neanche le telecamere che controllano, cosa che fa spesso la differenza), si giunga a una riflessione più generale prima sulle regole e poi sul rapporto bene/ male. Se il dialogo naviga da solo, il facilitatore quasi non interviene; è chiamato invece a rilanciare il dialogo e a spostare l'asse su cui il pensiero si è disposto se la discussione si arena.
La pratica non è soltanto nel processo dialogico, ma anche nel coinvolgimento esistenziale. Il tema deve essere sentito, la filosofia diventa pratica se ci riguarda. Se nella consulenza ancora resiste un dualismo (il consultante va dal filosofo e non sa di fare filosofia), nelle pratiche collettive, il partecipante diventa subito filosofo egli stesso, anche perché può affrontare una questione che lo concerne senza però che per lui costituisca un problema da risolvere e che lo fa soffrire. Così si può parlare di giustizia, di identità, di regole, di creatività: parole dalle quali sviscerare i contenuti e le manifestazioni nella vita di tutti i giorni. Nulla impedisce di alzare il livello, se il facilitatore lo ritiene opportuno. Nel caso di una discussione sul rapporto tra egoismo e altruismo, per esempio, normalmente vi sono due opposte fazioni: chi crede nell'altruismo vero, assoluto, e chi pensa che questo si fondi comunque sull'egoismo (impossibilità del dono puro: il dare procura comunque soddisfazione e contentezza). Si possono introdurre allora gli ultimi risultati delle ricerche neuroscientifiche secondo cui quello che chiamiamo egoismo non è altro che uno strumento biologico umano per la salvaguardia della specie e di cui siamo naturalmente dotati. Altrimenti dovremmo sentirci in colpa ogni volta che troviamo parcheggio, dacché lo abbiamo sottratto a chi arriva un secondo dopo di noi... E se ognuno cedesse il parcheggio all'altro, quel posto rimarrebbe sempre libero.
Questo filosofare concerne appunto la vita e non ha alcuna ambizione di addivenire a una qualche verità. E benché viga un atteggiamento logico, non c'è una guerra tra tesi opposte, se ne accettano anche di mediane; non esiste la formale polarizzazione di A e B e il tertium, una volta tanto, è possibile. Chi ha voluto argomentare sulla necessità del vaccino obbligatorio dicendo che chi non si vaccina è un pericolo per gli altri, si è ovviamente visto rispondere, logicamente, che chi è vaccinato è protetto, mentre chi non lo è la pensa esattamente come "l'untore"; dunque l'argomentazione cade. Ma poi la realtà ci dice che ci sono bambini che si vorrebbe vaccinare ma che appartengono a una piccola percentuale di individui clinicamente non vaccinabili e si conviene che l'eccezione va tutelata. Eccezione che in un sistema rigorosamente logico non dovrebbe esistere. La filosofia esce così dall'università e entra nell'esistenza di ognuno. Ciò che conta sono le “buone ragioni”, purché sempre argomentate, più che la logica infallibile. E soprattutto che si pensi e si parli non per sentito dire, per studi o per dogmi di pensiero, bensì con la propria testa. È anche il motivo per cui gli incontri funzionano meglio se svolti tra non studiosi: quelli finirebbero altrimenti per citare le teorie dei grandi pensatori e il dialogo assumerebbe le fattezze del convegno universitario.
Invece l'attività, allenamento del pensiero, trova grande successo tra i normali cittadini, nelle scuole, nelle aziende e anche nelle carceri (un libro di recente uscita per Mursia, Filosofia dentro, racconta di esperienze nei penitenziari), cioè tra persone che senza saperlo sollevano i grandi temi della storia della filosofia: una volta, parlando di pregiudizio, è stato detto da un bambino di undici anni che "per non avere pregiudizio bisognerebbe disporre di un giudizio ‘puro', senza un'idea che lo precede", che è esattamente la questione fenomenologica di Cartesio prima e di Husserl poi.
I partecipanti colgono altresì con gioia anche l'aspetto comunitario e sociale degli incontri. La maggior parte di loro confessano che le occasioni per confrontarsi civilmente e mantenere una conversazione a un livello che non sia quello superficiale della chiacchiera sono normalmente scarse. E che si torna a casa stimolati, magari — e per fortuna — con meno certezze, ma con un processo di riflessione ormai innescato che non può far altro che alimentare ulteriori ragionamenti e dialoghi: il motore filosofico è partito.
La filosofia diventa cura, ma non intesa come terapia, bensì come cura di sé, palestra per la mente. Per prendersi cura di sé si può andare a pilates, al cinema, in gelateria e - perché no? - a un dialogo filosofico.
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enricca · 8 years ago
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Dopolavoro Filosofico
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Un aperitivo filosofico è uno spazio di libertà. Di confronto, di dialogo e di scambio. L’idea arriva da lontano, quando in Francia negli anni ’90 nascevano i primi caffè filosofici. Ci si riuniva in un bar per godere di un momento esclusivo: esercitare la propria mente ad argomentare le proprie idee, a condividerle con altri, a sviluppare definizioni e costruire progetti. Il 27 maggio cerchiamo di riproporre qualcosa di molto simile. Un aperitivo e non un caffè, ma pur sempre un incontro filosofico. Non è richiesta nessuna competenza in materia, ma solo il desiderio di ritagliarsi uno spazio per allenare la mente a pensare. Il tema di questo aperitivo filosofico è l’identità personale. Come si costruisce? Che percorso fa l’io per definirsi? Che priorità abbiamo e come ci determinano? Tante domande e le risposte di ciascuno di voi. La discussione consisterà in un confronto libero e orizzontale di pensieri, in cui ogni singolo pensiero avrà valore in quanto tale; la sottoscritta Enrica Birardi e Claudia Spinosa, vi “guideranno” in questo “gioco”. Dopo il lavoro, a fine settimana, in una sospensione di tempo. Vi aspettiamo!
Per iscrizioni inviare un'email a: [email protected] Aperitivo + partecipazione all'evento: 15 euro
DOVE E QUANDO: Al "Fabrica", via G. Savonarola 8, ROMA Sabato 27 maggio, dalle ore 18:00
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enricca · 8 years ago
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La doppia colpa di Rai 1
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L'indignazione scorre nelle vene del web. 
Ha un certo fascino sapere che oggi, grazie al web, ognuno con il suo commento indignato aggiunge un pezzo e fa risuonare un'eco che si allarga sempre di più. 
Che sia chiaro, però, ciò per cui ci indigniamo. 
Perchè se ci fa schifo che la tv di Stato (che già chiamarla così a me dà tanto di minculpop) mandi in onda un servizio abominevole, è un conto. Che ci indignino i pregiudizi alla base di quel servizio è un altro. Perchè a questo punto dovrebbero indignarci frasi molto ma molto più piccole. Frasi tipo: 
- ma come fa quello a stare con quella, che è così brutta? (con variante: ma come fa quello a stare con quella che è così bella?) - vabbè ma secondo me un uomo a cui non piaccia il calcio ha qualcosa di strano eh - se vai in giro con i capezzoli all'aria, non devi poi lamentarti se attiri battute sconce - sei così bella che cresci un po’ che poi ripasso - a quella un colpo glielo darei, mentre sua sorella fa davvero schifo - io ho dedicato la mia intera vita al lavoro, scegliendo che mia moglie restasse a casa, così poteva accudire i miei figli e accogliermi al rientro; eh lo so, sono scelte, però io amo il mio lavoro - quella è proprio una troia
L'elenco potrebbe continuare, sono tutte frasi sentite con le mie orecchie, dette da uomini e da donne (di destra e di sinistra). Dette in silenzio, lontano dalle telecamere, con un amico, un fratello, un collega. E alcune di queste sono anche “troppo”, ce ne sono alcune molto più sottili, discrete, silenziose, che neanche sembrano pregiudizi e invece lo sono. In una società quantomeno civile, l’etica collettiva dovrebbe rispecchiare una buona parte di moralità personale su certi argomenti, altrimenti è ipocrisia collettiva. 
Allora, io direi, anche meno proclami facili da web. 
Provvedimenti seri per “la tv di Stato” che manda una tale pattumiera in onda, ma va fatta una considerazione ulteriore. Rai 1 è doppiamente colpevole perché ha legittimato chiunque a indignarsi sul web, gli stessi che continuano a dire frasi stracolme di pregiudizi ogni giorno, nel caldo della loro insignificante vita. E lì non hanno like e commenti dietro cui nascondersi. 
E così, la tv di Stato ha fatto una magia: ha mostrato in tv e nascosto sul web tutta la miseria di moltissimi.
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enricca · 8 years ago
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Come insegnare ai bambini ad allenare il pensiero?
“(...) Imparando a esercitare la propria razionalità non si risolvono questioni particolari, ma si fa scoprire al bambino che la mente se stimolata può lavorare su qualsiasi cosa abbia davanti a sé. I laboratori di pratica filosofica non insegnano tecniche o soluzioni strutturate, ma si sviluppano con un approccio molto libero e questo i bambini lo sperimentano partecipando, non sentendosi braccati dal “devi far così, perché…” ma scoprendo che possono arrivare a pensare su qualsiasi argomento proposto e trarre conclusioni che possono essere utili in classe, a casa, per strada.” (...)
L’intervista integrale per Pianeta Mamma, qui: https://goo.gl/uscD3E
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enricca · 8 years ago
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L’alfabeto di Sofia
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A cosa serve farsi domande? Perché ci serve conoscere il significato delle parole? Quanto è importante riflettere su ciò che abbiamo attorno e dentro di noi? 
Se ci manca la risposta a queste domande, la filosofia ci sa rispondere. 
La filosofia è “amore per il pensiero” e studiarla è importante ma lo è ancora di più “praticarla”. 
Ma che vuol dire “praticare la filosofia”?
Farsi domande, riflettere, rispondere, cambiare idea, discutere!
In un laboratorio di pratica filosofia si fa tutto questo, divertendosi. Ci si diverte a scoprire perché, per esempio, parliamo di “amicizia”. Che differenza c’è tra un amico e un altro? E tutti gli altri bambini, chi sono? Oppure... se siamo fatti come siamo, timidi esuberanti chiacchieroni, come possiamo andare d’accordo con chi abbiamo attorno, se è diverso da noi? E poi perché quando siamo a scuola il tempo scorre lento, mentre quando giochiamo corre velocissimo e quasi ci sembra di perderlo? 
Se volete scoprire dentro di voi la risposta a queste domande, basta partecipare ai  tre laboratori che vedete nella locandina. Sono invitati tutte le bimbe e tutti i bimbi (8-12 anni). La protagonista sarà Sofia, una bambina convinta che tutti siano filosofi. Vuole aiutarvi a scoprire quanto sia importante farsi e fare le giuste domande, dare un nome alle proprie emozioni, ricercare il significato delle parole, guardare le cose da tanti punti di vista. 
Come? Tocca solo scoprirlo. Iscrizioni all'indirizzo: [email protected] 
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enricca · 8 years ago
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Integrazione e pezzi di identità
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Facciamo così. Proviamo a immaginare la nostra esistenza isolata e lontana. Lontana dagli altri, lontana dai desideri altrui, lontana dalle parole. Muta, isolata, chiusa. E proviamo a immaginare l’interazione di questa identità. Facile pensare che sarebbe solo con se stessi. Un’interazione a uno. Io guardo, io valuto, io giudico. L’altro non esiste, è lontano, è indifferente. La sua esistenza non mi tocca.
Bene, se questo fosse possibile, cadrebbe uno dei principi costitutivi del nostro essere uomini: il desiderio di essere riconosciuti. L’idea che il riconoscimento sia alla base di qualsiasi teoria identitaria si basa sul presupposto che non possiamo esistere senza l’altro, perché siamo esseri relazionali e lo siamo perché saremmo assolutamente incapaci di “riconoscerci” da soli, senza lo sguardo altrui. Chi ci sta di fronte ci restituisce l’immagine di ciò che siamo e di ciò che non siamo e inizia a tessere una rete, una rete che col tempo si arricchisce di tanti nodi e tanti fili. È un processo di costruzione identitaria. Se qualcuno interrompe questo processo e si pone di fronte a noi in maniera indifferente, ne scaturisce il conflitto, ossia il desiderio di eliminare colui che non ci riconosce.
Se l’altro non ci restituisce un’immagine e non ci dà la possibilità di accoglierla, rifiutarla, discuterla, ricrearla, in un intreccio inesauribile, crolla la relazione e crolla l’identità. È in questa logica, solo apparentemente complessa, che si innesta il concetto così tanto dilatato di integrazione.
Il rischio di questa parola è che venga intesa in assonanza con la sua derivazione etimologica: “integrità”. Se intendiamo l’integrazione solo come la risultante di un processo rischiamo di esporre questa parola a critiche già ormai diffuse. Se, invece, l’integrazione viene vissuta essa stessa come processo, le cose cambiano. E di molto. Come si tesse la maglia dell’identità grazie all’esistenza dell’altro da noi, così si tesse la rete dell’accoglienza. L’integrazione è un processo estremamente delicato, che non implica e non deve implicare l’assimilazione passiva di una cultura a un’altra, la sovrapposizione di un “volto” su un altro, una fusione asettica e indifferente. L’integrazione è possibile se avviene un reciproco riconoscimento, complesso e rispettoso dell’alterità. Una costruzione sociale che sappia dar conto di un equilibrio fragilissimo: io esisto e vengo nel tuo territorio (nel tuo Paese?) e a te chiedo riconoscimento e intanto a te lo restituisco. In questo modo quell’irrefrenabile e costitutivo desiderio di riconoscimento si alimenta e tesse altri fili della rete. Nel momento in cui viene rifiutata questa logica, in quell’istante la rete identitaria si rompe, nascono tante singolarità indifferenti (e appiattite) e l’indifferenza si trasforma in astio (con le sue perverse risultanti sociali).
Sarebbe utopico pensare che io possa scegliere chi è l’altro che deve riconoscermi. Ma per (ri)conoscerci serve la pluralità, una pluralità che rispecchi quella che portiamo dentro e che ci costituisce. Provate a rifiutare l’idea che siamo costituiti da tante parti e che ciascuna parte definisca la nostra identità così tanto complessa e complicata. Provate a rifiutare questo e provate a negare la necessità dell’integrazione come processo dinamico e costruttivo. Vi ritroverete (s)conosciuti. Perché nessuno sarà disposto più a riconoscervi, se non si sentirà per primo riconosciuto da voi.
E perderete pezzi di identità, della vostra stessa identità.
* 📷 Steve McCurry
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enricca · 8 years ago
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2017
C'è una poesia molto bella di John Donne che parla d’amore. Lui parla di due innamorati che sono costretti ad allontanarsi, ma io da adolescente mi figuravo l'amore proprio così, come le due gambe di un compasso. Fermezza, certezza, porto sicuro che però non impedisce movimento, cambiamento, vita che scorre e che ti modella.
Questa poesia mi torna in mente proprio alla fine di questo 2016, anno così forte da non riuscire a contenerlo in un solo pensiero. E ad oggi credo che il compasso di John Donne sia una bellissima metafora, che uso qui andando oltre l’amore.
Chè tutti dovremmo avere una gamba ferma, che punta sul foglio, una gamba fatta di qualsiasi cosa che ci tenga ancorati. E poi una gamba mobile, pronta a cambiare, a metter(si) in discussione. E allora il mio augurio di quest'anno è che ciascuno possa scegliere qual è la sua gamba ferma e sappia muovere l'altra senza perdere la prima. Ovunque vada.
Buon 2017 a tutti
Ps. La poesia si chiama A valediction: forbidding mourning e la parte in questione è questa qui, tradotta: (...) le nostre due anime perciò, che sono una, anche se io devo andare, non soffrono in verità una separazione, ma un’espansione, come oro battuto che si allarga aereo / se le nostre anime devono essere due, sono due così come le aste gemelle del compasso sono due, la tua anima il piede fisso, non mostra di muoversi, ma lo fa, se l’altra lo fa. / ed anche se essa sta al centro, quando l’altra gira lontano, essa si piega, e si protende verso l’altra, e diventa eretta, quando ritorna a casa. / così saremo tu ed io, che devo come l’altro piede, correre obliquamente; la tua fermezza rende il mio cerchio perfetto, e mi fa finire, dove io ho avuto inizio.
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enricca · 8 years ago
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UNA (QUASI) FAVOLA DI NATALE
In coda al supermercato e accanto a me tanti piccoli peluche. 
Ne prendo due, un orsacchiotto e un pinguino. Sono peluche speciali, perché hanno il cordoncino per attaccarli all'albero di Natale. Subito la mia mente va a due bimbi speciali ai quali voglio regalarli. Il pinguino per lei, l’orsacchiotto per lui. Belli, dolcissimi, nero e bianco, diversi come sono loro, penseranno a me quando li vedranno ogni giorno sull'albero di Natale.
Arriva il mio turno. Portafogli, carta fedeltà e loro. Li mostro al cassiere, prima che inizi a contare la spesa fatta, proprio per assicurarmeli, “questi li prendo eh”.
E qui la notizia triste. Il peluche è in omaggio solo se fai 25 euro di spesa.
Il cassiere ci prova, prova a farmene passare uno a prescindere, ma niente. Inizia a contare. Arrivo a 25 euro, l’orsacchiotto è con me, ma il pinguino no, non ce la fa. Non arrivo a 50 euro. Ci riprova, ripassa il peluche, invano.
Allora interviene la gentile signora dietro di me “aspetta, se li raggiungo io i 25 euro, te lo regalo”.
Niente, 21 euro, mi dispiace.
Allora, con gli occhi luccicanti guardo la ragazza dopo la signora. Una ragazza sulla trentina. La guardo e le chiedo se vuole regalarmelo lei.
“Ma devi darle 1,99 euro di differenza se lo prende”, dice il cassiere
“Certo, ci mancherebbe” rispondo io.
Ce l’ho quasi fatta.
“Ehm no, lo voglio io il piccolo peluche”. La ragazza trentenne candidamente mi risponde.
È per due bimbi, replico. La ragazza trentenne poggia la testa sulla sua spalla e mi guarda: “Lo voglio io, mi fa compagnia”, dice. Ed è lì che penso a quanto può essere triste lei e la sua vita triste. Triste come questa piccola storia triste.
L’orsacchiotto è qui con me. Il pinguino, rovesciato dietro il cassiere buono. Dopo aver conosciuto una ragazza innamorata, una signora compassionevole e una trentenne senza cuore.
Volevo scrivere una favola di Natale. Dovrò aspettare il 25 (in euro).
Ps. è il primo post non filosofico di questo blog. O forse no.
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enricca · 9 years ago
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LA MISURA DEL TEMPO
Il mio blog compie due anni. Me lo ricorda un’email di Tumblr. 
E io mi ricordo di quando una persona mi chiese se fosse più efficace dire “2 anni” o “24 mesi” per rendere meglio l’idea della lunga durata. È un po’ una semplificazione, ma per me mostra  la misura di come ciascuno cerchi di gestire con se stesso il tempo che passa.
A dire il vero, spesso ci ritroviamo a rincorrerlo più che a gestirlo. Perché sia fruttuoso, perché abbia un valore, perché abbia il contorno di un’esistenza definita e riconoscibile. Di quando ti guardi indietro e pensi di aver saputo riempire il vuoto, perché avesse senso e non ci fosse spazio per lo smarrimento. E allora corriamo, come unico modo per poter trattenere ciò che sfugge. Più corri, più riesci a fare di più, più puoi di più. E più hai di più. Più corri più riesci ad avanzare, a vedere qualcosa per primo, a mostrarla per primo, a raccogliere consenso per primo. E in questa velocità, che il tempo dell’oggi un po’ ci impone, ritroviamo il senso del nostro fare.
“Chiamo questa condizione una forsennata situazione di stallo. Dobbiamo correre per stare fermi. Ci troviamo su scale mobili che scendono sempre più rapidamente. Per mantenere il nostro posto dobbiamo correre in salita.” Così il filosofo tedesco Hartumt Rosa parla del nostro modo sociale d’esistere.
E va tutto bene, finché questo ritmo frenetico segue il ritmo delle paure, dei passi falsi, degli errori, delle difficoltà. Non appena la velocità diventa “distrazione”, ci si perde.
Se questo accade (e accade) l’unico modo per potersi fermare è cambiare paradigma di visione. Provare a sentire ciò che si vive misurando il tempo attraverso lo spazio. Resto qui, “sono” qui, in questo punto, preciso e circoscritto e possiedo il mio tempo perché so “dove” sono. Non più corro-cerco-trovo-ricerco-ritrovo e così via, ma sento e trovo. Sento e trovo.
“Non attraverso la lentezza, ma con la risonanza. La lentezza non è un fine in sé e non sempre è auspicabile. Un ottovolante troppo lento precipita, una connessione internet non abbastanza rapida fa saltare i nervi. Quando le persone parlano di lentezza, intendono qualcosa di diverso, sognano un altro modo di essere nel mondo. Vogliono avere la chance di un incontro più intenso e vivo con coloro con cui hanno a che fare, con i luoghi in cui soggiornano, con le cose a cui e con cui lavorano. Vogliono entrare in risonanza, con qualcuno, con un’idea o con una cosa che riesca a toccarci e muoverci”. Continua Hartmut Rosa.
È questo ciò che è accaduto a me con questo blog. Mi ero persa e avevo bisogno di ritrovare “il mio tempo”. Riuscire a mettermi in risonanza con ciò che sentivo importante, con qualcosa che riuscisse a muovermi, tenendomi “ferma”. 
Ogni post scritto su questo blog mi è costato tempo, non ci ho mai messo meno di 2 ore (e per questo spesso ci sono state lunghe pause di non-scrittura). Mi è costato fatica, la fatica del voler combattere la banalità. Mi è costato l’ammissione che di quell'argomento non potevo scrivere, perché non ne sapevo. Mi è costato il riconoscimento dei miei limiti. 
Eppure, mi ha fatto “restare” nel mio spazio, la filosofia. Mi ha aperto a nuove sfide, mi ha permesso di entrare in angoli sconosciuti. 
Ma ciò che più mi ha insegnato è il coraggio di cercare uno spazio nel quale io riuscissi a riconoscermi e la mia frenesia riposarsi.
* Il tempo dello spazio - Matera, ottobre 2016
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enricca · 9 years ago
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Da La bella e la bestia, Walt Disney
Ero bambina e questa scena mi torna in mente oggi: “- Liberiamo il villaggio dal mostro! Chi viene con me?  - Io io io! - Salveremo i nostri figli e il villaggio rivivrà”
Il diverso, ritenuto diverso, in un castello e i cattivi che lo assalgono per ucciderlo e liberare il villaggio. A Gorino ieri a parti invertite ("la bestia” veniva da fuori, il villaggio era arroccato) è accaduto un po’ questo. Nella realtà, però. 
Semplifico ma non banalizzo. 
Il diverso viene spesso vissuto come l’altro-da-noi da cui difendersi, per tutelare il proprio spazio vitale. Ogni monade ha il suo e i muri servono a distinguere, differenziare. Come se la propria identità personale venisse definita solo per opposizione: “io sono” in quanto “sono diverso da”. Una delle più facili vie per scappare dal compito più difficile che ci è stato assegnato: convivere con la nostra stessa identità e riconoscerla. Per questo l’altro è da combattere. Perché l’altro è di fronte a noi e può restituirci l’immagine di ciò che non-siamo. 
Sarebbe molto meglio se accettassimo che l’altro ci restituisce spesso l’immagine di ciò che siamo. E in certi casi, come a Gorino, l’immagine è estremamente becera.
E allora penso ai bambini e al loro sguardo sugli adulti. Chissà se qualche abitante del “villaggio” di Goro ha fatto credere stasera al proprio figlio, rimboccandogli le coperte, di essere in una favola con dei mostri da sconfiggere. Rabbrividisco e confido nel loro sguardo. E che sappiano rispondere al proprio padre: papà io “la bestia” non la voglio uccidere.
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enricca · 9 years ago
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‘Quello che conta è donare loro la libertà di essere diversi da come li avremmo voluti; è lasciarli essere quello che sono. Sartre diceva che se i genitori hanno delle attese sui figli, i figli avranno dei destini e solitamente assai infelici. Nessuna regola comportamentale può compensare l’assenza del segno d’amore che sa riconoscere la particolarità reale del figlio aldilà di ogni sua rappresentazione ideale.’ M. Recalcati
Buon anno scolastico ai bimbi e ai ragazzi. Ma anche ai loro genitori e ai loro insegnanti, che sappiano tirar fuori quella particolarità.
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enricca · 9 years ago
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Domenica 8 maggio 2016 Una giornata dedicata alla filosofia e alla consulenza filosofica.
Il mio laboratorio: I vi(n)coli della scelta
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enricca · 9 years ago
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UMANI TROPPO UMANI 
Mi piace quando due persone si incontrano e si scambiano idee. Mi piace perché sono una strenua sostenitrice che solo dal confronto di pensieri diversi (e anche divergenti) possa nascere qualcosa di fruttuoso. Mi piace la pluralità di menti e di voci, mi piace anche la difesa del proprio pensiero, se argomentata. Mi piace un po’ meno chi si irrigidisce sulle sue posizioni senza ascoltare l’altro, non mi piace per niente chi scambia una battaglia di diritti per un confronto di idee.
Quello che sta accadendo in Parlamento sulla questione delle unioni civili e della stepchild adoption è sulla bocca di chiunque abbia un po’ di senso civico. Il nodo della questione, ormai si sa, è l’adozione di un bambino da parte di una coppia gay. E di articoli ce ne sono tanti, di parole se ne sono spese tante, ma dopo aver ricevuto un sms (ebbene sì, un whatsapp) con un brano attribuito a Oriana Fallaci contro le adozioni gay, non ho resistito alla tentazione di scrivere, di parlarne.
Perché per parlare di legge di natura e legge di vita occorre essere cauti. Una legge naturale è certamente il metodo riproduttivo sesso maschile-sesso femminile, ma saremmo certamente in grado di dire che nella nostra vita seguiamo le “leggi naturali”? Basta fermarsi a riflettere un attimo sulla vita di tutti i giorni e a cosa ci sia di “naturale” in ciò che facciamo. Tutto ha una sovrastruttura etica oppure una sovrastruttura tecnica. E’ naturale invecchiare e avere le rughe, non è naturale correggere i difetti con la liposuzione; è naturale che delle cellule si ammalino e sviluppino un cancro, non è naturale cercare di bloccare lo sviluppo della malattia; è naturale morire quando il corpo si è ormai consumato, non è naturale riempirlo di farmaci pur di tenerlo in vita (in stato vegetativo). E certamente esistono coloro che sono contrari anche a queste “distorsioni” in nome della Legge di Natura, ma ciò che più conta è essere capaci di distinguere la natura dalla morale personale, dalle abitudini, dalla religione. La contrarietà alle adozioni gay si basa su un principio che non ha nulla a che vedere con la natura ma che riguarda il sistema etico della nostra società: il sistema riproduttivo è certamente un sistema naturale perché servono un seme e un ovulo per far nascere un bambino e nessuno lo mette in discussione, ma il sistema “famiglia” non è certamente un principio naturale. Non si parla “naturalmente” di famiglia, siamo noi che attribuiamo alla famiglia una determinata connotazione. Come diceva Hegel, la famiglia è il primo momento dell’eticità, cioè della condivisione oggettiva di valori morali. Contiene il momento naturale, ma lo supera. Tralasciando la ben più articolata argomentazione del filosofo, lo cito soltanto per evidenziare che la famiglia come entità sociale è una costruzione etica, quindi nostra, dell’uomo, membro di una società; non è naturale e può essere messa in discussione, al pari di qualsiasi altra evoluzione etica.
Entrando poi nel merito di questa costruzione etica, ci si è chiesti davvero cosa rende una famiglia, “una famiglia”? Cosa serve perché un figlio cresca “sano”? Si potrebbe davvero dire che un figlio basta che venga cresciuto da una mamma e da un papà, allora sia “sano”? Io avrei una marea di esempi che potrebbero confutare questa teoria. Forse perché, la crescita perlomeno equilibrata di un figlio non dipende dai genitali dei genitori ma dall’apparato valoriale che viene trasmesso. E meraviglia delle meraviglie, il bagaglio valoriale di un omosessuale è assolutamente identico al bagaglio valoriale di un eterosessuale, in quanto esseri umani (cresciuti con certezze dubbi e paure di tutti). Umani troppo umani, direbbe Nietzsche. E da umani troppo umani noi ragioniamo, viviamo, ci innamoriamo, costruiamo contesti sociali più o meno evoluti.
Non c’è nessuna natura che detti leggi e il cattolicesimo stesso facendo del sesso un meccanismo puramente riproduttivo si attiene a una legge naturale così “non umana” che qualsiasi sua posizione contro gli omosessuali viene a cadere data la sua premessa così fragile.
Infine, per poter veramente discutere con qualcuno di qualcosa, sarebbe opportuno partire dalla stessa condizione di libertà. Io ritengo che mio figlio sia più intelligente del tuo e possiamo confrontarci (ammesso che sia un confronto sensato, ma scommetto che c’è qualcuno che riuscirebbe anche a farlo) se però anche la persona con cui parli è “genitore”. Oriana Fallaci pare chiedesse: “Con quale diritto, dunque, una coppia di omosessuali (maschi o femmine) chiede d'adottare un bambino?” Io inverto la domanda. Con quale diritto gli eterosessuali possono impedire a un omosessuale di riconoscere legittimamente un figlio come suo? Davvero possiamo arrogarci il diritto di stabilire chi è idoneo a essere padre o madre? E in qualità di cosa? In qualità di uomini perfetti? E chi ce la riconosce questa perfezione?
E’ una disparità di posizioni inaccettabile perché se nel confronto c’è una disparità di libertà personale, il confronto si annulla da sé.
E’ bello avere opinioni diverse, ma partendo da condizioni di parità, di uguaglianza. Chi non è d’accordo con le adozioni gay rimanga pure contrario. L’importante è che lo stesso riconoscimento e la stessa legittimazione sociale siano dati a chi si ritiene d’accordo.
A quel punto ci si può trovare attorno a un tavolo, tirar fuori l’intellettuale preferito che dice meglio di chiunque altro “esattamente quello che voglio dire io!”, ritenere la propria  argomentazione la migliore del mondo, urlare, sbattere i pugni sul tavolo, dialogare con serenità o andare a casa infuriati. E davvero, così, possiamo confrontare le nostre idee anche il giorno dopo e il giorno dopo ancora. All’infinito. Ma uguali, a parità di diritti.
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enricca · 9 years ago
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PICCOLI SEGMENTI DI FELICITÀ
Il buon dio è nei dettagli, diceva Flaubert. 
Quando lo sguardo si sofferma su una lettera piuttosto che su una parola, oppure su una parola piuttosto che su una frase e così via, sapete continuare voi. Un dettaglio, la parte di un tutto. Un piccolo (o grande) segmento di qualcosa di infinito. 
Quando a scuola mi spiegarono che una linea retta è un insieme infinito di segmenti, mi sono da subito chiesta per quale motivo bisognasse specificarlo. Voglio dire, la linea retta è così bella. “Una linea retta infinita”, che meraviglia scandire queste parole, danno respiro e prospettiva. Andare a segmentarla mi sembrava una crudeltà. Significava spezzettarla, farle perdere la sua armonia, la sua bellezza. Ma niente da fare, la definizione era quella e da lì, da quella primissima lezione di matematica ho dovuto per forza approcciarmi ai segmenti. 
Crescendo ho scoperto che di linee rette ne esistono tantissime e che noi siamo una linea retta composta di tanti segmenti. Anzi, peggio. Una linea retta finita. E in qualsiasi momento della nostra vita cerchiamo di immaginare di essere infiniti e unitari e invece ci ritroviamo finiti e segmentati. Per evitare di impazzire ho pensato che l’unico modo per uscire da questa impasse è cercare il buon dio in questi segmenti. Valorizzarli, valorizzarne i confini, i limiti. In alcuni segmenti non si sta neanche comodissimi, a volte sono anche un po’ angusti. Però starci dentro, camminare anche un po’ in circolo, guardare ogni puntino di quel segmento, ti fa capire che sei lì, in quello spazietto finito e che in fondo, non si sta così male. 
Perché nella rincorsa su una linea retta infinita potrebbe accadere di rincorrere qualcosa di irraggiungibile, invece nella corsetta in un segmento forse si riesce a individuare l’obiettivo, a osservarlo e a prendersene cura. E una volta che questo passaggio è davvero concluso, si può saltare sul secondo segmento. Anche Giordano Bruno, oltre alla mia maestra di matematica, la pensava così. Vedeva l’universo infinito composto di mondi innumerevoli, ma non poteva dirlo totalmente infinito perché ciascuno di questi mondi è finito. E anche lui ci dice che l’infinito non ci appartiene, come non ci appartiene l’infinita perfezione. Possiamo solamente curarci dei nostri segmenti e renderli perfetti nella loro imperfezione, accettando che questa sia inevitabile. 
“Distaccarsi dalla potenzialità illimitata e multiforme per incontrare qualcosa che ancora non esiste ma che potrebbe esistere solo accettando dei limiti e delle regole”. Questo pare sia il momento decisivo per lo scrittore, per Calvino. Secondo me vale per la vita di ciascuno di noi. 
Io sto provando a rinunciare al fascino della linea retta e a sposare i suoi segmenti limitati e regolati. Penso al tutto solo per avere una visione d'insieme e tenere legate tra loro alcune parti. L’unica fuga a questa contingenza è che piuttosto che immaginare l’infinito, penso al segmento successivo. Ma questa è un’altra storia.
* Oltre - Ponzano di Fermo, agosto 2015
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