Ecpirosi e palingenesi. Scrivo pensieri in modo che mi rimangano nel tempo.
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Ogni tanto, saltuariamente, realizzo.
Fumo una sigaretta in balcone: non ci sei.
Osservo il mio riflesso nei vetri della metro, mentre il mio volto si sovrappone a quello degli altri passeggeri in piedi in una strana doppia esposizione urbana: non ci sei.
Conosco nuove persone, o parlo con conoscenze e amicizie ormai certe: non ci sei.
Sono seduta sul divanetto della mia terapista, con il mio racconto metacognitivo della settimana pieno di presenze: non ci sei.
Mentre le mie dita si incrociano con gli spazi vuoti della mano di una persona nuova, ma appartenente al mio passato: tu non ci sei.
Dov'era che mi accompagnavi spesso? Ah, sì. Nel giudizio che davo di me stessa, nelle lacrime che versavo nel fissare lo specchio, nelle dita che mi ficcavo in gola tornando a casa e chiudendo la porta del bagno a chiave, lesta come una volpe, o nella colazione che saltavo. O nel continuo confronto con gli altri in cui realizzavo di essere sempre la perdente, l'invisibile, e non ero in grado di spiegarmi perché. Tu eri lì, e ora non ci sei.
A dire il vero, il senso di colpa un poco è rimasto. È probabile che tu sia ancora nascosto in uno di quegli angolini, e prima o poi tornerai. Quando vissi in Germania avevi fatto così, dopotutto. La differenza è che, tornata a Roma, ero cosciente del fatto che saresti tornato. Lo dicevo a tutti. Ero sicura, me lo sentivo. Ma adesso non sento nulla.
La verità è che non mi fido di qualcuno che, dopo oltre quindici anni insieme, è sparito troppo velocemente, nell'arco di un paio di giorni.
Certo, potrei obiettare che quello che a me è sembrato un paio di giorni, in realtà è stato solo il resoconto finale di una battaglia lunga un anno.
Eppure mi sento smarrita, non solo per l'assenza - per aver abbandonato una relazione tossica cresciuta insieme a me - ma soprattutto per il fatto di provare uno stralcio di solitudine per qualcosa che mi ha fatto solo stare male.
Cosa si prova quando vuoi ammazzarti, quando speri che il terreno si apra in una voragine e ti inghiotta intera soffocandoti rapidamente, e poi il giorno dopo non senti più nulla?
Quanto è assurdo pensare che arrivi al punto più basso della tua vita, in cui inizi a pensare che solo le medicine possano salvarti, per poi svegliarti e avere la mente vuota.
Sono vuota?
Ho la fottuta paura che, perdendo te, io abbia perso la mia intelligenza emotiva e la mia capacità di mettere ogni frammento di questa realtà in discussione. È solo grazie alla tua compagnia se, dopotutto, mi sono rifugiata nell'autoanalisi e nell'empatia del dolore altrui. Giuro che spesso riesco a provarlo, non avendolo mai vissuto, e che l'altra persona lo percepisce. È che a volte non serve aver vissuto esperienze analoghe, basta aver vissuto quantità di dolore simili, e ci si fida e ci si comprende.
Che poi, posso dire, non mi sono neanche mai sentita degna di averti come compagno. I miei sono state brave persone, mosche bianche nel mettere i loro bisogni sempre dietro a quelli dei figli. Di colpe gliene ho affibbiate tante, ed altrettante sono riuscita ad assolvergliene. Non ho vissuto eventi traumatici se non in età adulta, quando ormai da tempo camminavi con me.
Sei sempre stato bravo a nasconderti, ma la tua stazza di certo non era tra le più minute.
Forse è per questo che adesso, non sentendo più la tua presenza, mi fa strano. Come quegli anziani a cui muore il fido cagnolino, e che anche dopo la perdita si trovano talvolta a cercarselo intorno, mentre sono a casa o al mercato. "Il mio amico peloso deve essere da qualche parte, è mia abitudine cercarlo", e invece no, non c'è più. Andato per sempre.
La psicologa dice che ho avuto un "insight", e che nonostante possa essere sensato sperimentarlo, dopo un anno di lavoro insieme, è opportuno starci dentro e analizzarlo per benino.
La mia psicologa dice anche "umore depresso", e lo uso anche io talvolta, per smorzare una diagnosi che era precoce fare. Anche io ho iniziato a chiamarti al maschile.
Ma in fondo lo sappiamo entrambe che eri donna. La depressione è femmina. Non nel senso di languida, né meschina né subdola, né sensuale né materna. Sono caratteristiche che possono appartenere ad un sesso come ad un altro.
Sei femmina perché la lingua italiana ti vuole così, e perché ti ho sempre reputata tale. Chissà, forse per anni eri l'unica cosa femminile che tolleravo quando rispecchiata in me, e adesso l'accettare il sacro femmineo presente in me ti ha sbalzato via per mera questione di spazi nell'anima.
E in effetti ora mi sento così grande da non avere una sensazione di mancanza interiore. Sento solo una sedia vuota accanto e, per la prima volta, nessuna vaga sensazione di dover lasciare quel posto a te, ché tornerai.
Non ti sento più. Non mi riconosco più.
Che strana cosa che succede, quando la depressione sparisce, e non la trovi più da nessuna parte.
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Le prime giornate di sole di Gennaio hanno il tepore della primavera; i raggi vengono assorbiti dalla lana del cappotto nero e trattenuti dai molteplici strati sottostanti.
Sono le giornate in cui nelle classi si torna a subire un asfissiante effetto serra, che va a sostituire già al momento della ricreazione la frizzantezza delle finestre aperte dalla prima ora. Sono giornate che risuonano dei richiami dei merli maschi e profumano dell'odore delle fragole di serra dei fruttivendoli bengalesi, abbinamento sinestetico che si protrae fino ad aprile inoltrato, e che rimanda alla mia mente quell'altro ieri che era la quarantena del duemilaventi. Sono giornate che hanno la forma delle scadenze e di una fine che si avvicina, un capodanno scolastico scandito dal conto alla rovescia dei compiti in classe, dell'invalsi, degli scrutini, degli addii. Ed io, dopotutto, ho vissuto solo capodanni scolastici. Al limite capodanni universitari - che non vi si discostano poi più di tanto.
Ogni sprazzo di primavera mi stringe le viscere, e ogni spasmo enterico ha il ritmo di un pendolo. Ad ogni oscillazione gli anni passano, sempre uguali, e io mi stringo un po' di più in un ammasso di carne simile ad un pulcino in un tritatutto. Quando alzo lo sguardo verso il cielo di saturissimo celeste, percepisco sempre un peso interiore su tutta la cassa toracica, quasi vi fosse un gigante che preme all'altezza del cuore distribuendo equamente la pressione su tutta la superficie del petto. Le prime giornate di primavera sono un finanziamento per un attacco di panico: lo sento a rate, ogni giorno, senza che mi blocchi mai davvero.
Chiunque mi prende per folle, per pazza: "La primavera è la stagione più bella, tutto rinasce". Ma dopotutto, non hanno sempre pensato che fossi diversa? Il loro feedback sul mio odio per la primavera procede di pari passo con le origini di questo spleen baudelairiano. Un uroboro temporale in cui sono l'outsider perché la primavera mi angoscia, e la primavera mi angoscia poiché mi ricorda i tempi del liceo in cui ero un outsider. Spesso mi dicono che sono cambiata rispetto a quel periodo: identica al di fuori, ma irriconoscibile psicologicamente. Se prima pensavo fossi solo stata brava a sviluppare attitudini sociali nel tempo, ora mi chiedo se io sia solo una neurodivergente che ha imparato negli anni a fare masking. Sono solamente diventata abile a capire quali sono gli atteggiamenti che piacciono alla gente per farci amicizia? Perché, se tutti prima sembravano disprezzarmi o ignorarmi, adesso vengo descritta in termini così positivi come carattere e affetto? Talvolta mi dico che avevo solo una classe di persone non affini a me, salvo pochi compagni. Eppure sono stata da sempre più capace a stringere amicizie singole che quelle di gruppo, e sempre con gente a me simile.
La situazione è migliorata solamente all'università: mentre la gente intorno a me maturava, e cresceva, e diventava più in linea con quel che io ero in grado di dare loro, io avevo usato quel tempo, in cui ero precoce per maturità, per imparare a fare tante cose: dal disegno al canto, dalla moda alle lingue, dalla scrittura alla matematica, dalla cucina alla natura. La mia multipotenzialità mi ha tenuto impegnato il cervello, quando avrei solo voluto nascere più stupida e piú serena. O quantomeno ci ha provato, poiché tutt'ora preferirei essere felice, piuttosto che sentirmi dire quanto io sia "profonda", "stimolante", "intelligente", e cagate varie. Ché avere la mente sempre a tremila, assetata di perché sul mondo, sugli altri e su se stessi, cercando connessioni tra tutto lo scibile umano, sentire le emozioni al doppio del normale, è solo profondamente deprimente. E opprimente.
E non sapere le ragioni di questa complessità che mette un muro tra te e gli altri diviene solo la prova di quanto quella sbagliata possa, solo ed esclusivamente, essere te. E che se non riesci mai a sentirti parte del tutto, quel tutto consistente nella tua cerchia di pari (come solo gli adolescenti possono reputare), la ragione sei sempre te.
Un profondo senso di inadeguatezza accumulato lungo ogni anno scolastico liceale, ogni anno l'ennesimo anno in cui pensi "Questa volta le cose cambieranno" per poi, in primavera, tirare le somme e
realizzare
che si tratta
sempre
della solita
inadeguatezza sociale
da cui non puoi mai scappare.
E se per anni è stato così, adesso la sindrome dell'impostore galoppa feroce in me. Come è possibile che io sia in grado di avere così tante amicizie significative che durano anni? Sono stata forse io a cercare sempre le persone ed elemosinare la loro attenzione finché non si sono arrese alla mia amicizia? Banalmente: no. Ma le prime idee che balenano nel mio inconscio sono sempre queste.
E se mascherassi così tanto da fingere, al punto che anche persone di cui mi importa poco mi cercano?
Banalmente: no. È solo perché la mia natura da persona disprezzata non mi permette, a sua volta, di disprezzare gratuitamente le persone, ma mi fa cercare sempre di mettermi nei loro panni, con le migliori intenzioni possibili. E, ancor più banalmente, perché quando odio una persona, o quantomeno la disprezzo, appare chiaro con i miei gesti e il mio volto.
Che ridere: la ragione che cerca di autoassolvermi dove l'inconscio mi dice di non valere nulla.
"Davvero bravi si diventa solo se si pensa di non esserlo mai abbastanza".
Ma allora, mi ritengo brava o no? Sono solo una falsa modesta, una plusdotata che si nasconde dietro il dito della depressione e dell'inadeguatezza per trovare un modo di scendere al pari degli altri? Oppure una parte di me cerca di dirmi brava, per proteggermi dall'altro lato di me stessa che invece mi prenderebbe a calci fino a farmi contorcere a terra in posizione fetale, e continuerebbe ad insistere con violenza la punta dello stivale contro le mie gengive insanguinate, con denti mancanti e il naso ormai rotto e gocciolante rosso carminio?
Chi cazzo sono io adesso?
Ed è possibile che adesso io stia finalmente raggiungendo, pian pianino, la pace verso un primo abbozzo di autoassoluzione?
Vorrei, o anzi voglio, mettere un punto a quella che ero. Voglio smettere di vedere allo specchio la diciassettenne disagiata conosciuta solo per il suo saper disegnare bene e il suo riflesso da figlia iperindipendente e iperresponsabile, e riscrivere i miei contorni di trentenne normale e sociale, mora e bassina.
Mi sembra di aver appena iniziato il processo, eppure lo spleen per la primavera del cielo sopra di me, che mi sovrasta ricoprendo la mia vita attuale con un telo -un telo a forma di giornate soleggiate di quarto e quinto superiore - mi inonda di malessere. Io non sono più quella ragazza delle superiori. E ogni giorno me lo viene dimostrato.
E allora perché mi accompagna ancora questa angoscia esistenziale?
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Oggi ho solo voglia di imbozzolarmi tra le coperte. Sento la mia anima arida, la mia testa vuota, le energie non voler uscir fuori. Il mio cervello non pensa pur di non avere pensieri negativi. Spero solo che domani sia un nuovo giorno.
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Sea of Stars, Vaadhoo Island, Maldives by Doug Perrine
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Ogni anno, una nuova avventura. E’ straordinario pensare come da adolescenti guardavamo l’età adulta come una nube di rassegnazione e abitudinarietà. A volte, penso tutt’ora che lo sia. Ma poi BOOM! L’ennesimo cambiamento. In positivo, in negativo, chi può saperlo. Forse non è questa la ragione intrinseca di ogni cambiamento. Il negativo, o il positivo, è come noi reagiamo ad esso, e quello che porta al nostro futuro. Io spero solo di farcela, i miei standard bassi mi aiutano ad affrontare la vita. Tanto, alla fin fine, darò il massimo come sempre. Ed è giusto così.
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Quatre nuits d'un rêveur (Four Nights of a Dreamer) | Robert Bresson | 1971
Isabelle Weingarten, Jean-Maurice Monnoyer
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Svegliarsi da soli la domenica alle sette con il tuo pappagallino che dà i bacini, pigiama estivo di raso, casa pulita, il fresco della pioggerella estiva che fa venire quella leggera pelle d'oca sugli avambracci, un cappuccino sul tavolino del balcone, il profumo della menta cioccolato che ondeggia al vento.
Tutto ciò è patrimonio dell'umanità.
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we fight, we fix and stay, that’s maturity
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“Sempre ritorni tu, malinconia. Dolcezza del cuore solitario. Muore avvampando una giornata d’oro (…) Ecco, già scende l'ombra.”
— Georg Trakl
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“E ti chiedi: “Dove sono i tuoi sogni?”, e scuotendo la testa dici: “Come volano in fretta gli anni!”. E di nuovo ti chiedi: “Che cosa hai fatto con i tuoi anni? Dove hai sepolto il tuo tempo migliore? Hai vissuto o no?”
— Fëdor Dostoevskij, Le notti bianche
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