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THE ACID MACHINE - Mushrooms [FULL ALBUM] 2024
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Dvne - Voidkind (FULL ALBUM)
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Lie Heavy - Burn To The Moon (Full Album 2024)
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LUCIFER GIANT - Lucifer Giant (2024)
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ilquadernodelgiallo · 15 days
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Skraeckoedlan - Vermillion Sky (Full Album 2024)
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ilquadernodelgiallo · 22 days
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Gennaio - Marzo 2024
Film: C'è sempre domani (Paola Cortellesi) Io capitano (Matteo Garrone) Felicità (Micaela Ramazzotti) Povere creature (Yorgos Lanthimos) The holdovers (Alexander Payne) Anatomia di una caduta (Justine Triet) Dream scenario (Kristoffer Borgli) Dune - Parte due (Denis Villeneuve) Il maestro giardiniere (Paul Schrader)
Libri: L'animale della foresta (Roberto Calasso) Verde Eldorado (Adrián N. Bravi) Assolutamente musica (Haruki Murakami , Seiji Ozawa)
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ilquadernodelgiallo · 1 month
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BIG SCENIC NOWHERE - The Waydown (Full Album 2024)
(non esattamente quello che cerco, ma non male)
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ilquadernodelgiallo · 2 months
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Waste a Saint - Ravenous (Full Album 2024)
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ilquadernodelgiallo · 2 months
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SUNDRIFTER - An earlier time
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ilquadernodelgiallo · 2 months
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Witchorious - Witchorious (Full Album 2024)
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ilquadernodelgiallo · 2 months
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Detta altrimenti: per Fisher l'immaginario anni Duemila è letteralmente abitato da fantasmi, sia di stili passati (la Retromania), sia di ipotesi politiche e ideologiche relegate al dominio del non-più-possibile (le alternative al capitalismo messe a tacere dalla retorica neoliberale del "There Is No Alternative"), ed è semmai dalle seconde che discendono i primi. [...] La tesi è semplice: il "There Is No Alternative" al capitalismo pronosticato dalla Thatcher è stato infine introiettato non solo dalle forze politiche che pure a suo tempo occupavano il campo avverso a quello del consevatorismo neoliberale, ma dallo stesso inconscio collettivo; il risultato è che «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo», con ricadute drammatiche sia nel campo sociale che in quello psichico. Da qui discende un'analisi succinta ma penetrante di come questo «realismo capitalista» si rifletta in ambiti apparentemente tra loro diversissimi come la sempiterna cultura pop (soprattutto il cinema, che nel corso degli anni è diventato sempre più uno dei perni dell'analisi di Fisher), la malattia mentale (che Fisher  conosceva bene sin dall'adolescenza), la burocrazia, il sistema scolastico, la catastrofe ambientale. [...] una generazione condannata a emergere in piena «fine della storia» [...] abbandonare nostalgismi di sorta, a recuperare il brivido del future shock, a tornare a ipotizzare alternative aliene e irriducibili al realismo capitalista imperante... [dalla prefazione di Valerio Mattioli] _______________
...è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. È uno slogan che racchiude alla perfezione quello che intendo per «realismo capitalista»: la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l'unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un'alternativa coerente. _______________ A proposito: se ho parlato di aspirazioni «ufficiali» è perché l'ideologia neoliberale, nonostante ami da sempre scagliarsi contro lo Stato, è proprio sullo Stato che ha surrettiziamente contato. Il fenomeno è stato particolarmente evidente durante la crisi del 2008, quando - come da indicazione degli ideologi neoliberali - gli Stati si sono precipitati in soccorso del sistema bancario. _______________ Senza il nuovo, quanto può durare una cultura? Cosa succede se i giovani non sono più in grado di suscitare stupore? [...] Possibile che davvero non ci aspettino cambiamenti di sorta, che non rimarremo più spiazzati da quello che verrà? Ansie del genere tendono a produrre un'oscillazione bipolare: la speranza vagamente messianica che prima o poi qualcosa di nuovo dovrà pur succedere scivola nella tetra convinzione che niente di nuovo accadrà mai sul serio. Dalla next big thing, l'attenzione si sposta sull'ultima grossa novità: a quanto tempo fa risale, e quanto grossa era davvero? Ma forse tra le pieghe del film [scil. 'I figli degli uomini' di Alfonso Cuarón] è possibile intravedere un altro Eliot ancora: quello di 'Tradizione e talento individuale'. Fu in quel saggio che Eliot, anticipando Harold Bloom, descrisse la relazione reciproca tra canone e nuovo: il nuovo definisce se stesso come risposta a quanto è già stabilito; allo stesso tempo, quanto è già stabilito deve riconfigurarsi in risposta al nuovo. Secondo Eliot, l'esaurimento del futuro ci lascia anche senza passato: quando la tradizione smette di essere contestata e modificata, smette di avere senso. Una cultura che si limita a preservare se stessa non è una cultura. [...] Nessun oggetto culturale conserva la propria potenza se non ci sono più nuovi sguardi a osservarlo.[...] Il potere del realismo capitalista deriva in parte dal modo in cui il capitalismo sussume e consuma tutta la storia pregressa: è un effetto di quella «equivalenza» che riesce ad assegnare un valore monetario a qualsiasi oggetto culturale [...]. Nella conversione di pratiche e rituali in puri oggetti estetici, gli ideali delle culture precedenti diventano strumento di un'ironia oggettiva e si ritrovano trasformati in artefatti. In questo senso, il realismo capitalista non è semplicemente un particolare tipo di realismo; è più il realismo in sé e per sé. [...] Il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è un consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine. Eppure proprio la trasformazione dell'ideale in estetica, del coinvolgimento attivo in spettatorialità, andrebbe considerata una delle virtù del realismo capitalista. [...] L'atteggiamento di ironica distanza così tipico del capitalismo postmoderno, dovrebbe immunizzarci dalle seduzioni di ogni fanatismo. [...] «Viviamo in una contraddizione», ha osservato Badiou: «Ci viene presentato come ideale uno stato delle cose brutale e profondamente ingiusto, dove ogni esistenza viene valutata in soli termini monetari. Per giustificare il loro conservatorismo, i partigiani dell'ordine costituito non possono davvero dire che questo stato sia meraviglioso o perfetto. E quindi hanno deciso di dire che tutto il resto è orribile». [...] Quando poi finalmente arriva, il capitalismo si accompagna a un'imponente desacralizzazione della cultura. È un sistema che non è più governato da alcuna Legge trascendente: al contrario, smantella tutti i codici trascendenti per poi ristabilirli secondo criteri propri. I limiti del capitalismo non sono fissati per decreto, ma definiti (e ridefiniti) pragmaticamente, improvvisando. _______________
In uno dei suoi passaggi più profetici Nietzsche parla di «un'era satura di storia». «Un'epoca incorre nella pericolosa disposizione intima dell'autoironia, e da essa in quella ancora più rischiosa del cinismo», si legge nelle 'Considerazioni inattuali'; un «carnevale cosmopolitico», ovvero una spettatorialità distaccata, avrà sostituito la partecipazione e il coinvolgimento. È la condizione dell'Ultimo Uomo nietzschiano: colui che ha visto tutto, ma che proprio l'eccesso di (auto)consapevolezza condanna all'indebolimento e alla decadenza. [...] È noto che Jameson definì il postmodernismo come la «logica culturale del tardo capitalismo»: il fallimento del futuro era per lui una parte integrante di quella cultura postmoderna che, come correttamente anticipò, sarebbe infine stata dominata dal pastiche e dal revival. [...] Il lavoro di Jameson sul postmodernismo iniziava con una messa in discussione dell'idea, cara ad Adorno e soci, che il modernismo possedesse un potenziale rivoluzionario in virtù soltanto delle sue innovazioni formali. Quello che invece Jameson aveva notato era l'assorbimento di temi modernisti all'interno della cultura popolare: pensiamo all'improvviso uso che delle tecniche surrealiste fece la pubblicità. Nello stesso momento in cui le forme peculiari del modernismo venivano assorbite e commercializzate, il credo modernista - la sua supposta fiducia nell'elitismo e il suo modello culturale monologico dall'alto verso il basso - venne messo in discussione e rigettato in nome della «differenza», della «diversità» e della «molteplicità». Il realismo capitalista non intrattiene più un confronto di questo tipo col modernismo: al contrario, dà per scontata la sconfitta del modernismo al punto che il modernismo stesso diventa un oggetto che può periodicamente tornare, ma solo come estetica congelata, mai come un ideale di vita. _______________
In Europa e negli Stati Uniti, per la maggior parte delle persone sotto i vent'anni l'assenza di alternative al capitalismo non è nemmeno più un problema: il capitalismo semplicemente occupa tutto l'orizzonte del pensabile. [...] Quella con cui ora abbiamo a che fare non è l'incorporazione di materiali che prima sembravano godere di un potenziale sovversivo, quanto la loro precorporazione: la programmazione e la modellazione preventiva, da parte della cultura capitalista, dei desideri, delle aspirazioni, delle speranze. Prendiamo per esempio quelle aree culturali «alternative» o «indipendenti» che replicano senza sosta i vecchi gesti di ribellione e contestazione come se fosse la prima volta: «alternativo» e «indipendente» non denotano qualcosa di estraneo alla cultura ufficiale; sono semmai semplici stili interni al mainstream - o meglio sono, a questo punto, gli stili dominanti del mainstream. Nessuno ha incarnato (e sofferto) questo stallo più di Kurt Cobain: con la sua straziante inedia, con la sua rabbia senza scopo, il leader dei Nirvana sembrò l'esausta voce dell'avvilimento che attanagliava la generazione venuta dopo la fine della storia, la stessa generazione cui ogni singola mossa era stata anticipata, tracciata, comprata e svenduta prima ancora di compiersi. [...] La morte di Cobain ribadì la sconfitta e l'incorporazione delle ambizioni utopico-prometeiche del rock. [...] In buona parte dell'hip hop ogni ingenua speranza che la cultura giovanile potesse cambiare qualcosa venne sostituita dalla testarda adesione a una versione brutalmente riduttiva della «realtà». [...] Nell'hip hop, scrive Reynolds, «"to get real" significa confrontarsi con quello stato di natura in cui cane mangia cane, dove o sei un vincente o sei un perdente, e dove i più sono condannati a perdere». _______________
Un film come 'Wall-E' esemplifica quella che Robert Pfaller ha chiamato «interpassività»: il film inscena il nostro anticapitalismo per noi stessi, dandoci al contempo la possibilità di continuare a consumare impunemente. Il ruolo dell'ideologia capitalista non è quello di ribadire le proprie priorità allo stesso modo della propaganda, ma di celare il fatto che le operazioni del Capitale non dipendono da alcuna convinzione soggettivamente imposta. [...] Resta prezioso il consiglio di Žižek: «Se il concetto di ideologia è quello classico in cui l'illusione sta nella conoscenza, allora la società di oggi dà l'idea di essere post-ideologica: l'ideologia prevalente è il cinismo; le persone non credono più in nessuna verità ideologica; la gente non prende seriamente nessuna proposta ideologicamente connotata. Il livello fondamentale dell'ideologia, in ogni caso, non è quello di un'illusione che maschera il reale stato delle cose, quanto quello di una fantasia (inconscia) che struttura la nostra stessa realtà sociale. E a questo livello, siamo ovviamente tutto tranne che una società post-ideologica. Il cinico distacco è soltanto un modo di renderci ciechi di fronte al potere strutturale della fantasia ideologica: anche se non prendiamo le cose sul serio, anche se manteniamo una distanza ironica da quello che facciamo, continuiamo comunque a farlo». L'ideologia capitalista in generale, continua Žižek, consiste precisamente nella sopravvalutazione del «credo» inteso come atteggiamento interiore soggettivo, a spese di quanto professiamo ed esibiamo coi nostri comportamenti esteriori. Fintantoché, nel profondo dei nostri cuori, continuiamo a credere che il capitalismo è malvagio, siamo liberi di continuare a partecipare agli stessi scambi propri del capitalismo. _______________
...vista la sua [scil. del movimento anticapitalista] incapacità di ipotizzare un modello politico-economico alternativo al capitalismo, il sospetto fu che il suo obiettivo fosse non rimpiazzare il capitalismo stesso, quanto mitigarne gli eccessi peggiori; e visto che le forme in cui il movimento anticapitalista si è espresso prediligevano più la protesta che l'organizzazione politica vera e propria, la sensazione era che questo movimento si riducesse a una serie di richieste isteriche senza che nessuno si aspettasse che venissero accolte sul serio. Per il realismo capitalista, la contestazione è diventata una specie di burlesco rumore di fondo _______________ Rivendicare un'azione politica vera significa prima di tutto accettare di essere finiti nello spietato tritacarne del Capitale al livello del desiderio. Declassando il male e l'ignoranza a dei fantasmatici Altri disconosciamo la nostra complicità col sistema planetario dell'oppressione. Quello che dobbiamo tenere a mente, è sia che il capitalismo è una struttura impersonale e iperastratta, sia che questa struttura non esisterebbe senza la nostra cooperazione. [...] Il ricatto ideologico emerso sin dal primissimo Live Aid del 1985 si fonda sull'idea che «prendersi cura degli individui» possa direttamente mettere fine alla fame nel mondo, senza alcuna necessità di soluzioni politiche o ristrutturazioni sistemiche. Quello che conta è agire e basta, o almeno così ci spiegano: la politica va sospesa in nome dell'immediatezza etica. [...] La fantasia era che il consumismo occidentale, anziché essere parte integrante delle disuguaglianze che sistematicamente segnano il pianeta, potesse addirittura risolverle. Tutto quello che serve è comprare i prodotti giusti. _______________
È più un'atmosfera che pervade e condiziona non solo la produzione culturale ma anche il modo in cui vengono regolati il lavoro e l'educazione, e che agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l'azione. [...] L'unica maniera per mettere in discussione il realismo capitalista è mostrare in qualche modo quanto sia inconsistente e indifendibile: insomma, ribadire che di «realista» il capitalismo non ha nulla. Inutile dire che quello che viene considerato «realistico», quello cioè che sembra plausibile dal punto di vista sociale, è innanzitutto determinato da una serie di decisioni politiche. Qualsiasi posizione ideologica non può affermare di aver raggiunto il suo traguardo finché non viene per così dire naturalizzata, e non può dirsi naturalizzata fino a quando viene recepita in termini di principio anziché come fatto compiuto. Di conseguenza il neoliberismo ha cercato di eliminare la stessa categoria di principio, di valore nel senso etico della parola: nel corso di più di trent'anni il realismo capitalista ha imposto con successo una specie di «ontologia imprenditoriale» per la quale è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all'educazione, andrebbe gestito come un'azienda. Come ricordato da tanti teorici radicali - siano essi Brecht, Foucault o Badiou - ogni politica di emancipazione deve puntare a distruggere l'apparenza dell'«ordine naturale», deve rivelare che quello che ci viene presentato come necessario e inevitabile altro non è che una contingenza, deve insomma dimostrare che quanto abbiamo finora reputato impossibile è, al contrario, a portata di mano. _______________
«Il principio di realtà è esso stesso ideologicamente mediato; si potrebbe persino arrivare a sostenere che sia la forma più alta di ideologia, quella cioè che si presenta come fatto empirico, come necessità biologica o economica, e che tendiamo a percepire come non ideologica.» [Alenka Zupančič] _______________ Viene quindi da pensare che una prima strategia contro il realismo capitalista potrebbe partire dall'evocazione di quei «reali» che sottendono la realtà per come il capitalismo ce la presenta. Uno di questi è la catastrofe ambientale. [...] La relazione tra capitalismo e disastro ecologico non è né casuale né accidentale: la necessità di espandere costantemente il mercato e il feticcio della crescita stanno lì a significare che il capitalismo è, per sua natura, contrario a qualsiasi nozione di sostenibilità. Tuttavia le questioni ecologiche sono già una terra di contesa, un luogo cioè dove per la politicizzazione si combatte. [...] La prima riguarda la salute mentale. [...] Quello di cui però abbiamo bisogno ora è una politicizzazione di disordini assai più comuni; anzi, è proprio il fatto che questi disordini siano diventati comuni che vale da solo la nostra attenzione. [...] Quello che dovremmo chiederci è: com'è potuto diventare tollerabile che così tante persone, e in particolare così tante persone giovani, siano malate? La «piaga della malattia mentale» che affligge le società capitaliste lascia intendere che, anziché essere l'unico sistema che funziona, il capitalismo sia innatamente disfunzionale; il prezzo che paghiamo per dare l'impressione che il capitalismo fili liscio è davvero molto alto. L'altro fenomeno che vorrei evidenziare è la burocrazia. [...] La realtà è che, piuttosto che scomparire, la burocrazia ha cambiato aspetto, ed è proprio questo suo aspetto inedito e decentralizzato che le ha permesso di proliferare. Che la burocrazia persista anche nel tardo capitalismo non è in sé un segnale che il capitalismo non funzioni: semmai è la spia di come il modo in cui il capitalismo funziona davvero è molto differente dall'immagine che ne fornisce il realismo capitalista. Il motivo per cui ho deciso di concentrarmi su problemi mentali e burocrazia deriva in parte dal fatto che entrambi i fenomeni occupano un posto di primo piano in un'area della cultura dominata con sempre maggiore insistenza dagli imperativi del realismo capitalista: l'istruzione. _______________
Ora: io credo che non si tratti né di apatia, né di cinismo; piuttosto, è quella che chiamo impotenza riflessiva. Gli studenti cioè sanno che la situazione è brutta, ma sanno ancor di più che non possono farci niente. Solo che questa consapevolezza, questa riflessività, non è l'osservazione passiva di uno stato delle cose già in atto: è una profezia che si autoavvera. [...] Non è esagerato affermare che, nella Grand Bretagna tardo capitalista, il solo essere adolescenti rischia di equivalere a una forma di patologia. Una tale patologizzazione pregiudica qualsiasi possibilità di politicizzazione: privatizzare questi disturbi, trattarli come se fossero provocati da null'altro che qualche squilibrio chimico o neurologico dell'individuo, o come se fossero il semplice risultato del retroterra familiare, significa escludere a priori qualsiasi causa sociale sistemica. [...] In un saggio fondamentale come 'Poscritto sulle società di controllo' Gilles Deleuze distingue tra le società disciplinari descritte da Foucault - organizzate attorno ad ambienti chiusi come la fabbrica, la scuola e la prigione - e le nuove società del controllo, nelle quali tutte le istituzioni vengono integrate in un regime diffuso. Deleuze ha ragione quando individua in Kafka il profeta di quel potere diffuso e cibernetico che caratterizza le società del controllo. [...] Una conseguenza di questa forma «indefinita» di potere è che il controllo esterno viene garantito dalla sorveglianza interna: il controllo, cioè, funziona solo quando sei complice. Da qui viene la figura burroughsiana del control addict che dal controllo dipende, ma che anche, inevitabilmente, dal controllo viene posseduto e sottomesso. [...] Il sistema attraverso cui il college è finanziato fa sì che - anche qualora qualcuno intendesse farlo - non ci si possa letteralmente permettere di respingere uno studente. Le risorse allocate per i college si basano sia su quanto questi riescano a raggiungere obiettivi specifici (e quindi fanno testo i risultati degli esami), sia sul tasso di frequenza e di mantenimento degli studenti: questa combinazione di imperativi di mercato e quelli che burocraticamente vengono chiamati target è un tipico tratto dello «stalinismo di mercato» che attualmente regola i servizi pubblici. Per usare un eufemismo, l'assenza di un vero e proprio sistema disciplinare non è stata compensata da un aumento della motivazione degli studenti, anche perché questi sanno benissimo che possono pure non frequentare le lezioni per settimane intere, possono pure non svolgere alcun compito o lavoro, e non ci sarà comunque nessuna seria sanzione ad attenderli. A questa libertà gli studenti in genere reagiscono non dedicandosi a progetti propri, ma cedendo a un'inerzia edonistica (o anedonica): e cioè a uno stato di soffice narcosi, al confortevole oblio della Playstation, alle maratone notturne davanti alla televisione, alla marijuana. [...] Anche l'utilizzo degli auricolari è un particolare indicativo: la musica pop non viene vissuta per il suo potenziale impatto sullo spazio pubblico, ma relegata a «ediPodico» piacere consumistico e privato che ci trincera dalla socialità. [...]
Quella che oggi frequenta le aule scolastiche, è insomma una generazione emersa all'interno di una cultura astorica e segnata da interferenze antimnemoniche, per la quale il tempo è da sempre ripartito in microporzioni digitali. [...] Se insomma la sindrome da deficit di attenzione e iperattività è una patologia, si tratta allora di una patologia peculiare del tardo capitalismo: una conseguenza dell'essere connessi a quei circuiti di controllo e intrattenimento che caratterizzano la nostra cultura consumistica e ipermediata. Allo stesso modo, in molti casi quella che chiamiamo dislessia altro non è che post-lessia: gli adolescenti processano dati densamente affollati di immagini senza alcun bisogno di saper leggere davvero; il riconoscimento degli slogan è tutto quello che serve per navigare il piano dell'informazione online e mobile. [...] Chiamati a mediare tra la soggettività post-alfabetizzata del consumatore tardo capitalista e le richieste del regime disciplinare (esami da superare e così via), gli insegnanti sono stati a loro volta sottoposti a una pressione incredibile; e questo è solo uno dei modi attraverso cui l'istruzione, lungi dall'essere quella torre d'avorio al riparo dal mondo reale, si trasforma in motore per la riproduzione della realtà sociale, scontrandosi direttamente con le contraddizioni della società capitalista. Gli insegnanti si ritrovano intrappolati tra il ruolo di facilitatori-intrattenitori e quello di disciplinatori autoritari: vorrebbero aiutare gli studenti a passare gli esami, ma gli viene anche chiesto di incarnare l'autorità, di imporre dei doveri. Dal punto di vista degli studenti, l'identificazione degli insegnanti come figure autoritarie esaspera il problema della «noia», se non altro perché qualsiasi prodotto dell'autorità è noioso a priori. Ironicamente, dagli insegnanti si esige più che mai una funzione di disciplinatori nello stesso esatto momento in cui le strutture disciplinari sono andate in crisi; mentre le famiglie cedono alle pressioni di un capitalismo che obbliga entrambi i genitori a lavorare, agli insegnanti viene chiesto di comportarsi come surrogati dell'istituzione familiare: sono loro che devono instillare negli studenti i protocolli comportamentali base, sono loro che devono provvedere alla guida e al sostegno emotivo di quegli adolescenti che, in non pochi casi, ancora non sanno come socializzare. [...]
Presi assieme, gli immobilisti (con la loro ammissione implicita che il capitalismo non potrà mai essere rovesciato, e che nei suoi confronti non si può tentare altro che opporre resistenza) e i comunisti liberali (per i quali gli eccessi immorali del capitalismo vanno temperati dalla filantropia e dalla beneficenza) danno il senso di come le potenzialità politiche dell'oggi siano circoscritte proprio dal realismo capitalista. [...] Ad ogni modo, resistere al «nuovo» non è una causa che la sinistra possa o debba abbracciare. Il Capitale è stato molto attento e scrupoloso quando si è trattato di ragionare su come mandare in frantumi la vecchia classe operaia; mentre dall'altra parte altrettanta riflessione non c'è stata né su quali tattiche adottare sotto il postfordismo, né su quale nuovo linguaggio sviluppare per far fronte alle condizioni che lo stesso postfordismo impone. Mettere in discussione l'appropriazione capitalista della categoria del «nuovo» è importante; ma al tempo stesso rivendicare il «nuovo» non può significare adattarsi alle condizioni in cui già ci troviamo: in quello siamo già riusciti benissimo, e sappiamo bene che «riuscire ad adattarsi con successo» è la principale strategia dell'ideologia manageriale. [...] Il modello immobilista, quello che si riduce a chiedere di conservare il vecchio regime fordista/disciplinare, non potrà mai funzionare nei paesi in cui il neoliberismo è già riuscito a imporsi. _______________
È una condizione ben riassunta dallo slogan «niente è a lungo termine»: se in passato i lavoratori potevano acquisire un singolo bagaglio di capacità e da lì aspettarsi di progredire verso l'alto sui binari di una rigida gerarchia organizzativa, adesso ai lavoratori viene richiesto di apprendere periodicamente capacità nuove, a seconda di come si muovono da un'organizzazione all'altra, da un ruolo all'altro. E dal momento che l'organizzazione del lavoro viene decentralizzata, e che le vecchie gerarchie piramidali vengono sostituite da nuove reti trasversali, a essere premiata è la «flessibilità». [...] I valori da cui la vita in famiglia dipende - riconoscenza, fiducia, impegno - sono precisamente gli stessi che il nuovo capitalismo ritiene obsoleti. Eppure, visti gli attacchi che vengono portati alla sfera pubblica e lo smantellamento di quelle reti di sicurezza a suo tempo garantite dal vecchio «Stato assistenziale», proprio la famiglia viene sempre più identificata come un rifugio dalle pressioni di un mondo costantemente segnato dall'instabilità. La situazione in cui versa la famiglia nel capitalismo postfordista è contraddittoria nello stesso modo in cui aveva previsto il marxismo tradizionale: il capitalismo ha bisogno della famiglia (in quanto strumento essenziale per la riproduzione e la cura della forza lavoro; perché allevia le ferite psichiche inferte da condizioni socioeconomiche fuori controllo), eppure contemporaneamente ne mina le fondamenta (impedendo ai genitori di trascorrere tempo con i propri figli; alimentando la tensione di coppia nel momento in cui i partner diventano l'unica fonte di consolazione affettiva reciproca).
[...] Questa flessibilità è stata a sua volta definita da una deregolamentazione del Capitale e del lavoro, che ha portato a una crescente esternalizzazione e precarizzazione della manodopera e a un sempre maggior numero di lavoratori impiegati su base temporanea. [...] Per funzionare, in quanto elemento della produzione just in time, devi saper reagire agli eventi imprevisti e imparare a vivere in condizioni di instabilità assoluta (o «precarietà», come da orribile neologismo). Periodi in cui lavori si alternano a periodi in cui sei disoccupato. Costretto a una fila infinita di impieghi a breve termine, non riesci a pianificare un futuro. Sia Marazzi che Sennett fanno notare come lo sgretolamento del modello fondato sul lavoro stabile sia stato in parte motivato dalle aspirazioni dei lavoratori stessi: erano in effetti proprio i lavoratori che, giustamente, non ne volevano più sapere di lavorare per quarant'anni dentro la stessa fabbrica. A sua volta, il Capitale ha sollecitato e metabolizzato il desiderio di emancipazione dalla routine fordista, spiazzando in questo modo una sinistra che da allora per molti versi non si è più ripresa. [...]
Oggi l'orizzonte dell'antagonismo non sta più all'esterno, vale a dire nel confronto tra blocchi sociali; è semmai tutto interno alla psicologia del lavoratore, che da una parte resta coinvolto nel vecchio conflitto tra classi, mentre dall'altra è interessato a massimizzare i profitti dei propri investimenti in vista del fondo pensione. E se non c'è più un nemico esterno identificabile, la conseguenza è che - come nota ancora Marazzi - sotto il postfordismo i lavoratori assomigliano agli ebrei che nel Vecchio Testamento lasciano la «casa di schiavitù»: liberi da una prigionia verso la quale non provano nostalgia alcuna, ma anche abbandonati, persi nel deserto, confusi sul da farsi. Il conflitto scatenato nella psiche degli individui non può che produrre vittime; Marazzi analizza il legame tra postfordismo e aumento dei casi di sindrome bipolare: da questo punto di vista, se la schizofrenia è - come ricordano Deleuze e Guattari - la condizione che segna il limite esterno del capitalismo, allora il disturbo bipolare è la malattia mentale che del capitalismo segna l'«interno». Di più: coi suoi incessanti cicli di espansione e crisi, è il capitalismo stesso a essere profondamente e irriducibilmente bipolare, periodicamente oscillante tra stati di eccitazione incontrollata (l'esuberanza irrazionale delle «bolle») e crolli depressivi (l'espressione «depressione economica» non è evidentemente casuale). Il capitalismo nutre e riproduce gli umori della popolazione a un livello che nessun altro sistema sociale ha mai sfiorato: senza delirio e senza fiducia in se stesso, non saprebbe proprio come funzionare. [...] In particolar modo, James si sofferma sul modo in cui il capitalismo egoista istiga all'idea che qualsiasi aspirazione o aspettativa possa essere realizzata: [...]
«Le tossine più nocive del capitalismo egoista, sono quelle che sistematicamente incoraggiano l'idea che la ricchezza materiale sia la chiave per la realizzazione personale, che i ricchi sono i vincenti e che per puntare in alto non serve altro che lavorare sodo, indifferentemente dal retroterra familiare, etnico o sociale di provenienza. Se poi non riesci, l'unico da biasimare sei tu». [...] L'ontologia oggi dominante nega alla malattia mentale ogni possibile origine di natura sociale. Ovviamente, la chimico-biologizzazione dei disturbi mentali è strettamente proporzionale alla loro depoliticizzazione: considerarli alla stregua di problemi chimico-biologici individuali, per il capitalismo è un vantaggio enorme. Innanzitutto, rinforza la spinta del Capitale in direzione di un'individualizzazione atomizzata (sei malato per colpa della chimica del tuo cervello); e poi crea un mercato enormemente redditizio per le multinazionali farmaceutiche e i loro prodotti (ti curiamo coi nostri psicofarmaci). _______________
È una dimostrazione pratica di come creatività ed espressione personale siano diventati strumenti di lavoro essenziali in una società del controllo che - come ricordato dai vari Paolo Virno e Yann Moulier-Boutang - dai lavoratori pretende un impegno non solo produttivo, ma anche emotivo; persino il grossolano tentativo di quantificare il contributo affettivo degli impiegati è rivelatore. [...] Abbastanza non è più abbastanza. È una sindrome che suonerà familiare a quei tanti lavoratori per i quali una valutazione «sufficiente» delle proprie prestazioni, non è più… sufficiente. In molte strutture educative, se ad esempio la classe valuta come sufficiente il lavoro del proprio insegnante, quest'ultimo viene obbligato a intraprendere un corso di formazione prima che gli venga riassegnato un posto. Che le misure burocratiche si siano intensificate sotto un regime neoliberale che si presenta come antiburocratico e antistalinista potrebbe dapprima sembrare un mistero. Eppure ad aver proliferato è una nuova burocrazia fatta di «obiettivi» e di «target», di «mission» e di «risultati», e questo nonostante tutta la retorica neoliberale sulla fine della gestione top-down. [...]
E invece l'enfasi sulla valutazione prestazionale dei lavoratori, così come la spinta a quantificare forme di lavoro che per loro natura sono refrattarie a qualsiasi quantificazione, ha inevitabilmente prodotto ulteriori livelli di burocrazia e amministrazione. Quello che ci troviamo di fronte non è un raffronto diretto tra prestazioni o risultati, ma tra la rappresentazione (debitamente quantificata) di quelle prestazioni e di quei risultati. È ovvio che a questo punto si produce un cortocircuito: il lavoro viene predisposto alla produzione e alla manipolazione proprio di quelle rappresentazioni, anziché attrezzato per gli obiettivi ufficiali del lavoro vero e proprio. [...] Questa inversione delle priorità è uno dei tratti distintivi di un sistema che possiamo tranquillamente definire «stalinismo di mercato». Dello stalinismo, il capitalismo riprende proprio questo suo attaccamento ai simboli dei risultati raggiunti, più che l'effettiva concretezza del risultato in sé. [...] In una strana coazione a ripetere, i governi britannici del New Labour - in apparenza, il massimo dell'antistalinismo - hanno dimostrato la stessa tendenza all'applicazione di interventi i cui effetti nel mondo reale contano solo fintantoché possono essere spesi in termini di «comunicazione». Un tipico esempio sono i fantomatici target di cui il New Labour era così entusiasta: seguendo un processo che tende a replicarsi con ferrea prevedibilità ovunque prenda piede, questi target smettono in fretta di essere uno strumento per la misurazione delle performance, e diventano invece dei fini a sé.
[...] Sarebbe comunque un errore interpretare lo stalinismo di mercato come una specie di deviazione dallo «spirito autentico» del capitalismo. Al contrario: è più giusto dire che la vera essenza dello stalinismo è stata inibita dal rapporto con un progetto politico quale il socialismo, mentre è solo in una cultura tardo capitalista che riesce a emergere a pieno. Nel tardo capitalismo, d'altronde, le immagini acquisiscono una forza autonoma: nel mercato azionario il valore viene generato non tanto da quello che una compagnia produce per davvero, quanto dalla fiducia nelle sue performance future, o perlomeno dalle sensazioni che circolano a riguardo. Mettiamola così: nel capitalismo tutto ciò che è solido si dissolve nelle public relations. [...] Un'altra dimensione importante del Grande Altro è che non conosce tutto: al contrario, è proprio questa ignoranza costitutiva del Grande Altro che permette alle public relations di funzionare. [...] Ma la distinzione tra quello che il Grande Altro sa - e cioè quello che è ufficialmente accettato - e quello che viene comunemente sperimentato dagli individui in carne e ossa, è tutto tranne che formale o vuota: è anzi proprio questa discrepanza che permette alla realtà sociale «ordinaria» di funzionare. E quando viene meno l'illusione che il Grande Altro non sappia, a disintegrarsi è la struttura immateriale che tiene assieme il sistema sociale. [...]
Allo stesso modo, non esiste alcuna tendenza progressiva allo «svelamento» del capitalismo, nessuna graduale messa a nudo di quello che il capitalismo davvero è: rapace, indifferente, inumano. Al contrario: il ruolo essenziale che nel capitalismo giocano quelle «trasformazioni incorporee» messe in atto dalle campagne di public relations, dal marketing e dalla pubblicità, suggerisce che, per funzionare efficacemente, la brama del capitalismo si affida a varie forme di copertura. [...] Ma i supposti gesti di demistificazione del postmodernismo non sono un segno di sofisticatezza: piuttosto denotano una certa ingenuità, la convinzione che una volta, nel passato, ci fosse davvero qualcuno che nel Simbolico ci credeva. In realtà, l'efficienza simbolica è stata ottenuta proprio mantenendo una distinzione chiara tra la causalità di tipo empirico-materiale, e la causalità incorporea del Simbolico. [...] «È il paradosso che Lacan sottolinea nel suo 'Les non-dupes errent': le persone che si affidano solo a quanto vedono di persona, le persone che non si lasciano raggirare dall'inganno e dalla finzione del simbolico, sono le persone che sbagliano di più. Un cinico che crede solo a quanto vede «coi propri occhi», non coglie l'efficienza della finzione simbolica e come questa struttura la nostra esperienza della realtà» [Žižek]. Buona parte del lavoro di Baudrillard ragiona sullo stesso tema: il modo in cui la fine del Simbolico porta non a un confronto diretto con il reale, ma a una specie di emorragia del reale stesso.
[...] Nello stesso momento in cui sembra che venga catturata nella maniera più cruda possibile, ecco che la realtà si trasforma in quella che Baudrillard chiama, con un neologismo troppo spesso frainteso, «iperrealtà». In un riflesso straniante delle tesi baudrillardiane, i reality show televisivi hanno finito addirittura per fondere tecniche-verità e sondaggismo d'opinione. In programmi del genere esistono in effetti due livelli di realtà: la «vita vera» e fuori copione dei concorrenti in tv, e le reazioni imprevedibili degli spettatori a casa (che a loro volta condizionano il comportamento dei concorrenti). Tuttavia la reality tv è continuamente perseguitata dal dubbio dell'illusione e della finzione: e se i concorrenti stessero segretamente recitando, reprimendo alcuni aspetti della loro personalità in modo da risultare più appetibili al pubblico? E poi i voti degli spettatori: vengono accuratamente registrati, o dietro c'è qualche forma di accordo, di intesa nascosta? [...]
Il motivo per cui Kafka è un prezioso commentatore del totalitarismo è perché rivela che c'è una dimensione del totalitarismo che non si riduce al dispotismo, e che quindi non può essere compresa come tale. [...] Possiamo pensare all'assillo della quantificabilità come a una fusione tra relazioni pubbliche e burocrazia: quasi sempre i dati burocratici assolvono a una funzione promozionale, come nel caso dei risultati delle prove d'esame che, nel sistema educativo, vengono impiegati per aumentare (o diminuire) il prestigio dei singoli istituti. Per gli insegnanti, a essere frustrante è la sensazione che il loro lavoro sia sempre più orientato a impressionare il Grande Altro che colleziona e consuma questi «dati» [...]. La nuova burocrazia non è più una funzione delimitata e specifica portata avanti da determinate figure professionali, ma invade ogni area del lavoro col risultato che - come pronosticato da Kafka - i lavoratori diventano i controllori di se stessi, obbligati a valutare le proprie stesse prestazioni. [...] Per Foucault non c'è alcun bisogno che il ruolo della sorveglianza sia effettivamente ricoperto da qualcuno: il non sapere se si è controllati o meno produce come effetto l'introiezione dell'apparato di controllo, così che finirai per comportarti come se fossi sempre sotto osservazione. _______________
Un tempo «essere realistici» significava forse fare i conti con una realtà percepita come solida e inamovibile: ma il realismo capitalista comporta che ci sottoponiamo a una realtà infinitamente plastica, capace di riconfigurarsi come e quando vuole. Dinanzi a noi c'è quello che Jameson - nel suo saggio 'The Antinomies of Postmodernity' - chiama «un presente puramente fungibile in cui sia la psiche che lo spazio possono essere processati e ricostruiti secondo necessità». Qui la «realtà» assomiglia alle infinite opzioni di un documento digitale, dove nessuna decisione è definitiva, le revisioni sono sempre possibili, e ogni attimo pregresso può essere richiamato in qualsiasi momento. [...]
È una forma di sconfessione e disconoscimento che dipende da quella distinzione tra atteggiamento soggettivo interiore e comportamenti esteriori di cui abbiamo già parlato: il dirigente poteva pur essere interiormente ostile (se non addirittura sprezzante) nei confronti delle procedure burocratiche da lui supervisionate; ma esteriormente, era perfettamente compiacente. Il trucco è che è proprio il disinvestimento soggettivo dagli adempimenti contabili che permette ai lavoratori di prestarsi a mansioni tanto inutili e demoralizzanti. [...]
La strategia di accettare senza domande l'incommensurabile e l'insensato è da sempre la tecnica sui cui regge la sanità mentale in quanto tale; ma nel tardo capitalismo - quell'«impasto informe di tutto quanto è già stato» in cui l'invenzione e la rottamazione delle finzioni sociali è tanto rapida quanto la produzione e lo smaltimento delle merci - è una tecnica che gioca un ruolo speciale. In una tale condizione di precarietà ontologica, dimenticare diventa una strategia di adattamento. [...] Da una parte, questa è una cultura che privilegia unicamente il presente e l'immediato: la rimozione del pensiero a lungo termine si estende non solo in avanti nel tempo, ma anche indietro (basti pensare a quelle storie che monopolizzano l'attenzione dei media per una settimana al massimo, per poi essere istantaneamente dimenticate); dall'altra, è una cultura piagata da un eccesso di nostalgia, schiava della retrospezione e incapace di dare vita a qualsivoglia novità autentica. [...] Come spiega in 'The Antinomies of Postmodernity': «Il paradosso da cui dobbiamo partire è l'equivalenza tra la quantità di immani cambiamenti a tutti i livelli della nostra vita sociale e l'altrettanto impareggiabile standardizzazione di tutto quanto appaia incompatibile con tali cambiamenti, si tratti di sentimenti, beni di consumo, linguaggio, architettura... [...] Di conseguenza, quello che cominciamo a percepire - e quello che sta emergendo come un profondo tratto costitutivo della stessa postmodernità, quantomeno nella sua dimensione temporale - è che d'ora in poi, laddove tutto si presta al continuo succedersi di mode e rappresentazioni mediatiche, nessun cambiamento sarà più possibile». [...]
Incapacità di produrre ricordi nuovi: eccola, la formulazione essenziale dell'impasse postmoderna. [...] Brown nota come, sebbene mossi da impostazioni tra loro diversissime, neoliberali e neoconservatori abbiano collaborato ai fini di un indebolimento della sfera pubblica e della democrazia, partorendo un cittadino assoggettato che cerca le soluzioni non nei processi politici, ma nei prodotti. Come spiega Brown: «[...] Gli intellettuali della scuola di Francoforte (e prima ancora Platone) hanno teorizzato l'aperta compatibilità tra scelta individuale e assoggettamento politico, descrivendo soggetti democratici capaci di accettare forme di tirannia politica e di autoritarismo proprio perché rapiti da una sfera di scelta e soddisfazione del bisogno che scambiano per libertà.» [...] E però, nonostante tutta la sua retorica antistatalista, a ben guardare il neoliberismo non è contrario allo Stato in sé (come abbiamo già ricordato a proposito degli aiuti bancari del 2008), quanto ad alcuni particolari utilizzi delle sue risorse. Nel frattempo, lo Stato forte tanto caro ai neoconservatori è stato confinato alle funzioni militari e di polizia, in diretta antitesi a uno Stato sociale accusato di minare la responsabilità morale degli individui. _______________
Letteralmente fatto a pezzi da neoliberali e neoconservatori, il concetto di Stato-balia continua nondimeno a rappresentare per il realismo capitalista un'autentica ossessione. Meglio ancora: per il realismo capitalista lo spettro dello Stato assistenziale gioca un'imprescindibile funzione libidinale: sta lì per essere biasimato proprio per i suoi fallimenti nell'accentramento del potere, [...] È il risultato di una prolungata ostilità nei confronti dello Stato-balia che - allo stesso tempo - si accompagna al rifiuto di accettare le conseguenze della marginalizzazione dello Stato nel capitalismo globale: il segno, forse, che al livello dell'inconscio politico resta impossibile accettare che non ci siano più controllori, e che la cosa più simile che abbiamo oggi a un potere decisionale sono null'altro che interessi nebulosi e incomprensibili, esercitanti a loro volta una forma di irresponsabilità aziendale-imprenditoriale. [...]
Questa forma di disconoscimento interviene in parte perché l'assenza di un vero centro nel capitalismo globale è drasticamente impensabile: nonostante le persone vengano ora interpellate in qualità di consumatori (e come Wendy Brown e altri hanno dimostrato, il governo stesso viene presentato come una specie di bene di consumo o di servizio), queste non possono ancora fare a meno di immaginarsi in qualità di cittadini (o se non altro, di pensarsi come se lo fossero). [...] L'esperienza del call center è un distillato della fenomenologia politica tardo capitalista: la noia e la frustrazione accentuate da campagne promozionali allegramente pompate; la continua ripetizione degli stessi tediosi dettagli da dare in pasto a operatori poco qualificati e male informati; l'irritazione montante ma condannata a restare impotente perché priva di un oggetto concreto, visto che - come chi si rivolge a un call center impara in fretta - nessuno sa niente e nessuno può nulla. La rabbia può tuttalpiù limitarsi allo sfogo, all'attacco a vuoto, all'aggressione nei confronti di un tuo simile, vittima anch'egli del sistema ma nei confronti del quale non è possibile alcuna comunanza solidale. E così come la rabbia non ha oggetto, non avrà nemmeno effetto. È nell'esperienza di un sistema tanto impersonale, indifferente, astratto, frammentario e senza centro, che più ci avviciniamo a guardare negli occhi tutta la stupidità artificiale del Capitale. [...]
Quello che Jameson descrive è il mortificante guscio protettivo della struttura corporate: che rasserena e ti mette al sicuro, che svuota e allontana chi sta sopra di te, che garantisce che la loro attenzione sia sempre altrove e che non ti possano sentire. [...] È qui che la struttura diventa palpabile: riesci praticamente a vederla mentre si impossessa delle persone; attraverso le loro parole, senti la struttura coi suoi deprimenti e insensibili verdetti. È per questa ragione che è un errore precipitarsi a imporre quella responsabilità etica individuale dirottata dalla struttura corporate; questa è la «tentazione etica» che, come nota Žižek, il sistema capitalista ha utilizzato per proteggersi in scia alla crisi creditizia: le colpe vengono fatte ricadere su quegli individui apparentemente patologici che «abusano del sistema», anziché sul sistema stesso. Solo che tanta elusività segue in realtà un doppio metodo: la struttura viene effettivamente invocata (e anche spesso), sia implicitamente che esplicitamente, quando c'è la possibilità che a essere puniti siano gli individui che alla struttura appartengono. Per farla breve: a un certo punto, le cause di abusi e orrori diventano improvvisamente così sistemiche, così diffuse, che nessun individuo può esserne considerato responsabile [...].
Da una parte quindi solo gli individui possono essere considerati eticamente responsabili per le proprie azioni; dall'altra le cause degli abusi e degli errori sono «di sistema». Questa impasse però non è una semplice dissimulazione: al contrario, indica precisamente cos'è che nel capitalismo viene meno. Quale organismo è in grado di regolare e controllare una struttura impersonale? Com'è possibile sanzionare una struttura corporate? _______________
La domanda concreta a questo punto è: se un ritorno al super-ego paterno (che sia il padre severo che domina in casa, o l'arroganza paternalista della vecchia televisione di Stato) non è possibile né desiderabile, come possiamo superare quel conformismo culturale monotono e moribondo partorito dal rifiuto di tutto quanto suoni come una sfida, uno stimolo, finanche un'educazione? [...] Come Burroughs, Spinoza dimostra che la condizione di assuefazione e dipendenza non è un'anomalia, ma la condizione ordinaria dell'essere umano, che viene regolarmente asservito a comportamenti reattivi e ripetitivi da immagini congelate (di se stesso e del mondo). La libertà, dice Spinoza, può essere conquistata solo nel momento in cui apprendiamo le cause reali delle nostre azioni, solo cioè quando siamo in grado di accantonare le «passioni tristi» che ci intossicano e ci ipnotizzano. Non c'è dubbio che il tardo capitalismo articoli molte delle sue imposizioni ricorrendo al fascino di un particolare tipo di «salute» [...]. Quello che ci troviamo davanti è semmai un modello riduttivo ed edonista di salute, tutto centrato sullo «stare bene» per «apparire bene». [...]
«La tv adesso non ti dice più cosa devi pensare, ma cosa devi sentire. [...] Davvero, non è tanto un sistema di orientamento morale, quanto emotivo. [...] Quello di cui la gente soffre è l'essere rinchiusi in se stessi: in un mondo plasmato sull'individualismo, ogni individuo è intrappolato nei propri sentimenti, nelle proprie fantasie, nel proprio "sé"» [Adam Curtis]. [...] Curtis se la prende con internet perché, nella sua visione, favorisce le comunità di solipsisti, reti interpassive formate da individui simili che, anziché mettere in discussione i rispettivi assunti e pregiudizi, non fanno che confermarli. Sono comunità che, piuttosto che confrontare i diversi punti di vista in uno spazio pubblico e di contesa, si trincerano in circuiti chiusi. Per Curtis, l'impatto che sui vecchi media hanno avuto internet e i suoi gruppi di pressione è disastroso: non solo perché la sua proattività reattiva permette al sistema dei media di chiamarsi ulteriormente fuori dalla funzione educativa, ma anche perché alimenta le correnti populiste sia di destra che di sinistra, nonché il diritto di «obbligare» i produttori a rifugiarsi in una programmazione mediocre e anestetizzante.
[...] Ma è anche vero che la simulazione interpassiva della partecipazione tipica dei media postmoderni e il narcisismo online di Facebook, e prima ancora di MySpace, hanno perlopiù generato contenuti ripetitivi, parassitari e conformisti. Ironicamente, il rigetto da parte del sistema mediatico di qualsiasi sospetto di paternalismo non ha prodotto alcuna cultura «dal basso» di eccitante varietà; ha solo partorito una cultura che più passa il tempo più si ritrova infantilizzata. Di contro, a trattare il pubblico in maniera adulta è proprio la cultura paternalista, se non altro perché parte dal presupposto che gli spettatori siano in grado di fare i conti con prodotti culturali complessi e intellettualmente impegnativi. Il motivo per cui focus group e sistemi di feedback capitalisti non riescono nei loro obiettivi, persino quando da lì prendono vita prodotti di immensa popolarità, è che le persone non sanno cosa vogliono; e non perché in loro il desiderio c'è già, solo che gli viene occultato (anche se spesso di questo si tratta); piuttosto, è che le forme più potenti di desiderio sono proprio quelle che bramano lo strano, l'inaspettato, il bizzarro. E questo può arrivare solo da artisti e professionisti dei media preparati a dare alle persone qualcosa di diverso da quanto già le soddisfa; insomma, da quelli che sono pronti ad assumersi un certo rischio. La super-tata marxista non sarebbe soltanto quella che stabilisce i limiti, che agisce nei nostri interessi quando noi non siamo in grado di riconoscerli, ma anche quella che questo rischio se lo assume, che scommette sullo strano e sulla nostra brama per ciò che non conosciamo. L'altra ironia è che la «società del rischio» capitalista è assai meno incline ad assumersi rischi di quanto non lo fosse la cultura del dopoguerra, così apparentemente pesante e centralizzata. [...]
L'effetto dell'instabilità strutturale permanente, della fine della visione «di lungo corso», non può che essere stagnazione e conservazione, altro che innovazione. E questo non è un paradosso. Lo suggeriva già Adam Curtis nelle osservazioni riportate sopra: i sentimenti predominanti nel tardo capitalismo sono paura e cinismo. Emozioni del genere non ispirano né ragionamenti coraggiosi né stimoli all'impresa: coltivano semmai il conformismo, il culto delle variazioni minime, l'eterna riproposizione di prodotti-copia di quelli che già hanno avuto successo. [...] Quello che serve è legare l'effetto alla sua causa strutturale. Contro l'allergia postmoderna alle grandi narrazioni dobbiamo riaffermare che, anziché trattarsi di problemi contingenti e isolati, sono tutti effetti di un'unica causa sistemica: il Capitale. Dobbiamo insomma cominciare, come se fosse la prima volta, a sviluppare strategie contro un Capitale che si presenta ontologicamente (oltre che geograficamente) ubiquo. [...]
Quello che oggi appare chiaro è che se il neoliberismo non poteva che essere realista capitalista, il realismo capitalista non ha invece alcun bisogno di essere neoliberale. Anzi: ai fini della propria salvaguardia il capitalismo potrebbe benissimo riconvertirsi al vecchio modello socialdemocratico, oppure a un autoritarismo in stile 'I figli degli uomini'. Senza un'alternativa coerente e credibile al capitalismo, il realismo capitalista continuerà a dominare l'inconscio politico-economico. [...] Siamo adesso in un panorama politico disseminato di quelli che Alex Williams ha chiamato «detriti ideologici»; è un nuovo anno zero, e c'è spazio perché emerga un nuovo anticapitalismo non più costretto dai vecchi linguaggi e dalle vecchie tradizioni. [...] Non esiste niente che sia innatamente politico: la politicizzazione richiede un agente politico che trasformi il dato-per-scontato in una messa-in-palio. Se il neoliberismo ha trionfato assorbendo i desideri della classe operaia post-sessantottesca, allora una nuova sinistra potrebbe cominciare dal lavoro su quei desideri che il neoliberismo ha generato, ma che è incapace di soddisfare. Ad esempio, la sinistra dovrebbe rivendicare la sua capacità di riuscire in quello in cui il neoliberismo ha fallito per primo: una massiccia riduzione della burocrazia. Serve una nuova battaglia sul lavoro e su chi lo controlla [...]. Resta aperta la questione se le vecchie strutture (come i sindacati) saranno in grado di coltivare una simile soggettività, o se piuttosto non avremo bisogno di organizzazioni politiche radicalmente nuove.
Mark Fisher, Realismo capitalista
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ilquadernodelgiallo · 3 months
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THE CLAMPS - Megamouth (Full Album 2024)
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ilquadernodelgiallo · 3 months
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Ma forse le cose non stanno davvero così, aveva suggerito Nelly al suo pubblico: la natura potrebbe anche essere estremamente caotica, priva di leggi capaci di dar conto della sua evidente eterogeneità , di concetti in grado di dominare la sua complessità crescente. E se la natura non potesse essere colta nel suo insieme? La nostra civiltà doveva ancora fare i conti con questa eventualità terrificante e lei dubitava molto che ci sarebbe mai riuscita, perché per la scienza, la filosofia e la razionalità sarebbe stato un colpo letale. Invece, aveva detto Nelly, gli artisti avevano già accolto pienamente quell'ipotesi: lei riteneva che la riscoperta dell'irrazionale fosse la forza motrice dietro tutti i movimenti d'avanguardia, movimenti che, anche agli occhi dei profani, apparivano pervasi da un'inesauribile energia faustiana, un'urgenza, una tragica caduta libera in cui tutto era permesso. _______________
Perdere la fede è peggio che non averla mai avuta, perché ciò che resta è un'enorme voragine, un po' come il vuoto lasciato dallo Spirito quando ha abbandonato questo mondo maledetto. Ma per loro natura queste cavità a forma di dio chiedono di essere riempite da qualcosa di altrettanto prezioso di ciò che si è perso. Ed è la scelta di quel qualcosa - sempre che sia una scelta - a determinare il destino degli uomini. _______________
Johnny adorava l'America quasi quanto io la disprezzavo. Quel paese gli fece qualcosa. Tutto quell'esasperante, sconsiderato ottimismo, tutto quel gioviale candore sotto cui la gente nasconde la crudeltà tirarono fuori il peggio da lui. _______________
Ma non si fermò qui. Continuò a lavorarci su concependo quella che oggi chiamiamo «sonda di von Neumann»: una navicella spaziale in grado di costruirsi da sola, ripararsi da sola e migliorarsi da sola, che potremmo mandare a colonizzare i pianeti esterni del nostro sistema solare, e da lì verso i più oscuri recessi dello spazio. Queste sue macchine potrebbero raggiungere mondi remoti, avventurandosi molto più in là di dove qualunque essere umano - o, quanto a questo, qualunque entità biologica - potrebbe mai arrivare. Approderebbero in lande aliene, si procurerebbero i materiali necessari per assemblare copie di se stesse, e poi spedirebbero questa progenie perfezionata in un interminabile viaggio nel vuoto, spingendosi sempre più avanti, disseminando l'universo della loro discendenza, continuando a prosperare anche dopo l'estinzione del genere umano. Teoricamente un'unica sonda di von Neumann che viaggiasse al cinque per cento della velocità della luce potrebbe replicarsi in tutta la nostra galassia in quattro milioni di anni. Ma per quanto meraviglioso, questo suo esperimento mentale, al pari di tante altre cose nella scienza, potrebbe produrre scenari inquietanti. Che cosa accadrebbe se, come capita comunemente in tutti i processi di autoreplicazione, una delle sonde subisse una piccola mutazione? Questo minuscolo errore, questo scarto quasi impercettibile, potrebbe influire su uno dei suoi processi fondamentali, modificandone le caratteristiche e gli obiettivi, e poi diffondersi nei futuri discendenti, trasformando questi dispositivi tecnologici in modi impossibili da prevedere. [...] Quanto potrebbero allontanarsi da ciò per cui erano stati programmati? Smetterebbero di rispondere ai comandi, scegliendo di restare su un unico pianeta e svilupparsi lì in tutta tranquillità ? Diventerebbero famelici, un gigantesco sciame che consuma ogni cosa al suo passaggio perseguendo nuovi obiettivi, prefiggendosi scopi e intenti che andrebbero al di là della semplice scoperta ed esplorazione? E se decidessero di invertire la rotta e tornare indietro, di ripercorrere in senso contrario il loro itinerario di milioni di anni pretendendo da noi - i loro genitori smarriti da tempo - il perdono delle loro malefatte e una risposta alla più pressante delle domande, la stessa che assilla e tormenta anche la nostra specie: perché ? Perché li abbiamo creati e poi abbandonati? Perché li abbiamo sguinzagliati nelle tenebre? Per quanto fantasiose ed estremamente improbabili, queste prospettive future ci pongono di fronte a quesiti interessanti. Siamo responsabili delle cose che creiamo? Siamo vincolati a quelle cose dalla stessa catena che sembra legare fra loro tutte le azioni umane? [...] ...non possiamo negare che ci stiamo lentamente avvicinando a un momento nella storia in cui la nostra relazione con la tecnologia sarà fondamentalmente alterata, dato che le creature della nostra immaginazione cominciano a poco a poco a prendere forma reale, e noi dobbiamo assumerci la responsabilità non solo di crearle, ma anche di prendercene cura. [...] Nonostante il fallimento, una delle intuizioni decisive avute da Turing osservando i suoi «bambini» fu che per fare progressi in direzione della vera intelligenza le macchine avrebbero dovuto essere fallibili: era necessario che fossero capaci non solo di sbagliare e di non seguire alla lettera le istruzioni ricevute, ma anche di avere un comportamento casuale e addirittura insensato. Turing riteneva che la casualità avrebbe svolto un ruolo importante nelle macchine intelligenti, perché avrebbe permesso reazioni inedite e imprevedibili, creando un ampio spettro di possibilità fra le quali un programma di ricerca avrebbe potuto individuare l'azione più appropriata a ogni particolare circostanza. _______________
I cavernicoli hanno creato gli dèi» disse. «Non vedo perché noi non dovremmo fare lo stesso». _______________ ...«qualcosa doveva pur sopravvivere alle bombe», come amava dire quando qualcuno gli chiedeva a cosa sarebbero servite le sue macchine autoreplicanti _______________ «Gli dèi sono una necessità biologica,» mi disse in una sera particolarmente calda nella sua casa di Georgetown, durante quell'ultima estate in cui riusciva ancora ad andare in giro con le stampelle «intrinseca alla nostra specie come il linguaggio o i pollici opponibili». Secondo lui, la fede aveva garantito ai popoli primordiali una fonte di forza, potere e significato che all'uomo moderno mancava completamente; ed era a questa mancanza, a questa perdita profonda, che ora la scienza doveva dedicarsi. «Non abbiamo alcuna stella polare,» mi disse «nulla a cui guardare o aspirare, perciò stiamo regredendo, ricadendo nell'animalità , perdendo quella cosa che ci ha permesso di trascendere ciò a cui originariamente eravamo destinati». Jancsi pensava che, se intendeva sopravvivere al Novecento, la nostra specie avrebbe dovuto colmare il vuoto lasciato dalla scomparsa degli dèi, e la sola e unica candidata a riuscire in questa strana trasformazione esoterica era la tecnologia: la nostra conoscenza tecnica in continua espansione era l'unica cosa che ci distinguesse dai nostri progenitori, dato che in fatto di etica, filosofia e pensiero generale non eravamo meglio (anzi, eravamo molto, molto peggio) dei greci, delle popolazioni vediche o delle piccole tribù nomadi che ancora si aggrappavano alla natura quale unica dispensatrice di grazia e vera misura dell'esistenza. In ogni altro campo non avevamo fatto nessun passo avanti. Il nostro sviluppo si era arrestato in tutte le arti tranne una, la téchne, in cui il nostro sapere era diventato così profondo e pericoloso che avrebbe fatto tremare dalla paura i Titani che un tempo terrorizzavano la terra, e sembrare gli antichi signori delle foreste innocui come spiritelli e buffi come folletti. Il loro mondo era passato. Perciò adesso avrebbero dovuto essere la scienza e la tecnologia a fornirci una versione migliore di noi stessi, un'immagine di quel che potevamo diventare. [...] «Questi dèi sono morti viventi. Hanno perso la loro gloria. Non possono dare senso al mondo perché sono residuali, reliquie in frantumi che ancora ci portiamo dietro, anacronistici e inefficienti quanto i calessini trainati da cavalli che si vedono per le strade di New York. Il fatto che ci siano ancora non significa che siano di una qualche utilità. _______________
gli dicevo che dovevamo semplicemente accettare la nostra fragilità , imparare a convivere con l'incertezza e sopportare le conseguenze dei nostri tanti errori senza ricadere in modalità di pensiero superate e pericolose. Il connubio che lui proponeva fra la tecnologia più avanzata e i nostri più arcaici meccanismi di trascendenza poteva solo portare all'orrore e al caos, a un mondo che si sarebbe evoluto fino ad arrivare al punto in cui nessuno, per quanto ricco, intelligente o potente, sarebbe più riuscito a comprenderlo. _______________
Quando già sapevamo che la sua malattia sarebbe stata fatale, e che sarebbe peggiorata in fretta, gli chiesi a bruciapelo come poteva contemplare con assoluta compostezza l'eventualità che si uccidessero centinaia di milioni di persone in un attacco nucleare preventivo contro l'Unione Sovietica, e tuttavia non saper affrontare la propria mortalità con un minimo di calma e di decoro. «Sono due cose completamente diverse» mi rispose. _______________
mi chiese di scegliere due numeri a caso e poi domandargli di sommarli. Pensai che scherzasse. Gli era tutt'a un tratto tornato il senso dell'umorismo? Sorrisi, prima di rendermi conto che era mortalmente serio. Nel corso della mia visita precedente, appena un mese prima o giù di lì, la sua mente era ancora acuta come sempre. Ma ora il suo genio si era guastato al punto che non ricordava più neanche l'aritmetica di base. Le sue vastissime facoltà intellettuali erano scomparse. Non restava più niente del talento che era stato la sua caratteristica principale, e l'espressione di cieco panico che gli distorceva i lineamenti mentre quella consapevolezza lo sopraffaceva a poco a poco fu la cosa più straziante che mi sia mai capitata di vedere. Era uno spettacolo atroce, e non riuscii ad andare oltre un paio di numeri pronunciati con voce strozzata - Quanto fa due più nove? Quanto fa dieci più cinque? Quanto fa uno più uno? - prima di fuggire in lacrime da quella stanza. _______________
Riteneva anche che esistesse una soglia, un punto critico che una volta superato avrebbe dato il via nelle sue macchine a un processo evolutivo, portando ad automi la cui complessità sarebbe cresciuta esponenzialmente, allo stesso modo in cui gli organismi biologici prosperano e mutano attraverso la selezione naturale creando l'intricata bellezza che ci circonda. Questa progressione avrebbe permesso ai membri di ogni successiva generazione di produrre non solo copie identiche di se stessi, ma una progenie di una complessità sempre maggiore. «Ai livelli più bassi, probabilmente, la complessità è degenerativa,» scriveva «e quindi ogni automa ne potrà produrre solo altri meno complicati; ma esiste un livello oltre il quale il fenomeno potrebbe diventare esplosivo, con conseguenze inimmaginabili; [...] «Se avessero la possibilità di evolvere liberamente nella sconfinata matrice di un cosmo digitale in continua espansione,» scriveva «i miei automi potrebbero assumere forme inimmaginabili, ripercorrendo gli stadi dell'evoluzione biologica a un ritmo incomparabilmente più rapido di quello delle creature in carne e ossa. Tramite ibridazione e impollinazione, finirebbero per diventare più numerosi di noi, e forse, un giorno, arriverebbero al punto di rivaleggiare con la nostra intelligenza. All'inizio i loro progressi sarebbero lenti e impercettibili. Ma poi prolifererebbero e farebbero irruzione nelle nostre vite come uno sciame di voraci locuste, lottando per assicurarsi il loro legittimo posto nel mondo, aprendosi una strada verso il futuro _______________
Tuttavia il progresso tecnologico sempre più rapido sembra in procinto di avvicinarsi a una singolarità fondamentale, un punto di non ritorno nella storia della nostra specie oltre il quale l'esistenza umana come la conosciamo non potrà continuare. Il progresso diventerà incomprensibilmente veloce e complicato. Il potere della tecnologia in quanto tale è sempre ambivalente, e la scienza non può che essere neutrale, limitandosi a fornire mezzi di controllo applicabili a qualunque scopo, e indifferenti a tutto. Il pericolo non sta nella natura particolarmente distruttiva di una specifica invenzione. Il pericolo è intrinseco. Per il progresso non c'è cura». _______________
Prima che von Neumann diventasse indifferente a tutto e si rifiutasse di parlare anche con amici e parenti, gli chiesero cosa sarebbe stato necessario perché un calcolatore, o qualsiasi altra entità meccanica, cominciasse a pensare e comportarsi come un essere umano. Lui si prese moltissimo tempo prima di rispondere, con una voce non più forte di un sussurro. Disse che avrebbe dovuto crescere da solo, e non essere costruito. Disse che avrebbe dovuto comprendere il linguaggio, leggere, scrivere, parlare. E disse che avrebbe dovuto giocare, come un bambino. _______________
[Lee o I deliri dell'intelligenza artificiale] Tutti questi programmi giocano a scacchi in un modo molto diverso da noi. Non si affidano alla creatività o all'immaginazione, ma scelgono le mosse migliori tramite la pura potenza di calcolo; mentre il giocatore professionista medio è in grado di vedere dalle dieci alle quindici mosse avanti, questi algoritmi possono calcolare duecento milioni di posizioni al secondo, circa cinquanta miliardi di posizioni in poco più di quattro minuti. Questo approccio, in cui il computer passa in rassegna ogni singola possibilità derivante da ciascuna mossa, viene definito, giustamente, forza bruta. Mentre un giocatore umano, per compiere le proprie scelte sulla scacchiera, usa la memoria, l'esperienza, il ragionamento astratto di alto livello, il riconoscimento di schemi ricorrenti e l'intuizione, un motore scacchistico non comprende affatto il gioco, ma si limita a impiegare la sua potenza di calcolo e a prendere poi una decisione attenendosi a un complesso sistema di regole stabilite dai suoi programmatori. [...] Il gioco del go, però, è molto diverso. La sua estrema complessità rende impraticabile il metodo forza bruta. _______________
La mossa 37 non faceva parte della memoria di AlphaGo, e non era nemmeno l'esito di una regola preprogrammata o di una linea guida codificata manualmente nel suo cervello di silicio. Era stata creata dal programma stesso, senza alcun input umano, ma la cosa più impressionante era che AlphaGo sapeva - nella misura in cui un essere non senziente può «sapere» qualcosa - che si trattava di una mossa che un maestro di go non avrebbe mai preso in considerazione. [...] Il sistema, disse ai giornalisti, non era stato costruito manualmente, né aveva ricevuto una serie completa di regole da seguire, a differenza di quanto successo vent'anni prima con Deep Blue, il motore scacchistico dell'IBM. AlphaGo si basava sull'apprendimento per rinforzo attraverso partite contro se stesso, il che, in pratica, significava che si era insegnato a giocare da solo. _______________
La prima rete neurale di AlphaGo aveva analizzato quelle migliaia e migliaia di partite, imparando gradualmente a imitare, copiare e prevedere le mosse che un giocatore dilettante avrebbe effettuato in ogni particolare situazione. Questo primo insieme di dati fornito dagli esseri umani rappresentava il «buonsenso» di AlphaGo, ed equivaleva, molto approssimativamente, alle conoscenze che un principiante avrebbe potuto ricavare dai manuali o dalle lezioni ricevute da un maestro. DeepMind la definiva «rete di policy». Utilizzandola, AlphaGo era in grado di giocare partite discretamente buone, allo stesso livello di un dilettante umano, ma era ancora molto lontano dal poter competere con un vero professionista. Per arrivare a quel livello doveva sviluppare la capacità che hanno i grandi giocatori di vedere l'intera tavola e intuire come la partita evolverà da una determinata posizione, il talento tipicamente umano di «leggere la tavola» che i giovani giocatori impiegano anni a sviluppare, e che Lee Sedol aveva acquisito dopo innumerevoli ore trascorse a fissare la griglia vuota giocando nella mente ogni mossa e contromossa. AlphaGo aveva bisogno di un sistema che gli permettesse di valutare ogni posizione sulla tavola, così da poter raggiungere una più ampia comprensione del gioco, e di saper dire, momento per momento, se si stava avvicinando alla vittoria o rischiava la sconfitta. Ma per far questo doveva affrontare se stesso. Così AlphaGo aveva preso la rete di policy creata basandosi sulle partite amatoriali e aveva giocato contro se stesso, parecchi milioni di volte. [...] Nel corso di milioni di partite aveva apportato miliardi di microscopici aggiustamenti al suo modello matematico, perfezionandosi attraverso un meccanismo che nessun essere umano poteva capire fino in fondo, dato che il funzionamento interno di una rete neurale artificiale è per noi quasi del tutto incomprensibile, poiché non possiamo tracciare o registrare gli innumerevoli effetti che derivano dalle quasi infinite migliorie che l'algoritmo apporta ai suoi parametri interni a mano a mano che si avvicina all'esito desiderato. [...] Una volta completato questo secondo processo di apprendimento, la nuova, più solida versione di AlphaGo aveva giocato altri trenta milioni di partite contro il se stesso potenziato, creando un insieme di dati che gli aveva permesso di allenare una seconda rete neurale, che DeepMind definiva «rete di valore», e il cui scopo era analizzare ogni configurazione di pietre sulla tavola e prevedere l'esito della partita, valutando se il programma si trovasse in vantaggio oppure no, e di quanto. Ciò andava molto oltre le possibilità degli esseri umani, anche di quelli più intelligenti e allenati, dato che questa seconda rete neurale era in grado di assegnare un valore numerico a una cosa che noi possiamo solo cogliere attraverso sensazioni vaghe e intuizioni nebulose. Le due reti neurali permettevano ad AlphaGo di ridurre l'infinita complessità del gioco e raggiungere un livello fino allora inimmaginabile. Il programma non aveva bisogno di sprecare la sua grande potenza di calcolo per esplorare le innumerevoli possibilità che si diramavano da ogni singola pietra, dal momento che poteva usare il buonsenso della sua rete di policy per prendere in considerazione solo le mosse migliori fra tutte quelle possibili, tagliando i rami meno fruttuosi del suo albero di ricerca Monte Carlo; allo stesso tempo, grazie alla rete di valore, poteva decidere se una particolare mossa l'avrebbe avvicinato alla vittoria oppure alla sconfitta senza bisogno di giocare dentro di sé nella sua interezza ogni partita possibile. [...] E gli permetteva anche di stimare con precisione quanto ogni singola mossa sarebbe sembrata improbabile al suo avversario umano. _______________
Per AlphaGo non faceva nessuna differenza se vinceva anche di un solo punto. Questo spiegava le mosse «pigre» che faceva di tanto in tanto, mosse che a tutti sembravano sottotono e poco ispirate, finché un commentatore sudcoreano non fece notare che si basavano sul puro calcolo: ognuna di quelle pietre fiacche apportava un minuscolo, quasi impercettibile progresso verso l'obiettivo finale, e il loro vero valore lo si poteva comprendere appieno solo quando alla fine della partita si combinavano tutte insieme. ________________
Di tanto in tanto, nel caso di configurazioni sulla tavola molto particolari, AlphaGo impazziva, perdendo di colpo la capacità di cogliere il valore di una posizione, al punto che sembrava pensasse di essere vivo in aree in cui era palesemente morto, come se fosse diventato cieco, non più in grado di distinguere se stesso dall'altro, il nero dal bianco, l'amico dal nemico, la vita dalla morte. [...] Intanto, nella sala di controllo, David Silver, la principale controparte di Aja Huang in quanto capo programmatore di AlphaGo, vide che dopo la stupefacente mossa di Lee Sedol il computer si era spinto avanti con le sue previsioni di novantacinque mosse, sviluppando interminabili linee di probabilità che si diramavano da ogni possibile mossa successiva: «Mi sa che qualcosa è andato storto» disse a Hassabis, che continuava a camminare nervosamente avanti e indietro da un capo all'altro della stanza. «Non ha mai cercato così a lungo in tutta la partita. Credo abbia cercato talmente in profondità che ha finito per perdersi». _______________
Era quello il motivo per cui AlphaGo non era riuscito a fronteggiare la mossa a cuneo di Lee: era troppo lontana dall'esperienza umana, e di conseguenza fuori dalla portata di AlphaGo, per quanto illimitate potessero sembrare le sue capacità. Affrontandosi, Lee e il computer erano riusciti a spingersi oltre i limiti del go, creando una nuova e terribile bellezza, una logica più potente della ragione, le cui ripercussioni giungeranno molto lontano. _______________
AlphaGo continuò sino alla fine con quelle mosse bislacche, e alcuni esperti cominciarono a far presente che dietro le sue decisioni c'era un modo di pensare diverso. Di solito un giocatore umano valuta la propria forza in base alla quantità di territorio che controlla; secondo questa logica semplice e chiara, più territorio si possiede, maggiori sono le probabilità di vittoria. Ma AlphaGo poteva fare una cosa di cui nessun essere umano è capace: calcolare, con assoluta precisione, di cosa avesse bisogno per vincere, e limitarsi a quello. _______________
«Per me è un dio del go. Un dio in grado di annientare chiunque lo sfidi. Io non ho mai dubitato di me stesso. Ho sempre sentito di avere tutto sotto controllo. Pensavo di avere una grande consapevolezza della composizione, una conoscenza intima della tavola. Ma Master guarda tutto questo ed è come se dicesse: "Scemenze!". Lui riesce a vedere l'intero universo del go, io vedo solo la minuscola area intorno a me. Quindi, vi prego, lasciategli pure esplorare l'universo, e lasciate che io giochi in pace nel mio cortile. Pescherò nel mio piccolo stagno. Quanto ancora potrà migliorare attraverso l'autoapprendimento? I suoi limiti sono difficili da immaginare. Credo che il futuro appartenga all'IA». [...] Hassabis e la squadra di DeepMind fecero una scelta radicale: sottrassero a Master, il successore di AlphaGo, qualunque conoscenza di origine umana - i milioni e milioni di partite su cui aveva imparato a giocare e che formavano la pietra angolare del suo buonsenso, della sua eccezionale capacità di giudicare il valore di ogni singola posizione, di stimare le probabilità di vittoria, e di vedere la tavola come l'avrebbe vista un essere umano - e lo ridussero all'osso. Il loro obiettivo era creare un'intelligenza artificiale più potente e molto più generale, che non si limitasse al go nelle sue capacità di apprendimento, e che non si aggrappasse alla comprensione e alla conoscenza umane per muovere i primi passi. Presero il loro algoritmo e lo ripulirono, non lasciandogli alcun dato umano da cui imparare, privandolo della sua unica connessione diretta con l'umanità . Il risultato fu terrificante. [...] Per tutti questi giochi, l'algoritmo non aveva preso in alcuna considerazione l'esperienza umana: gli erano solo state fornite le regole, e aveva giocato contro se stesso. All'inizio faceva mosse completamente casuali, ma in pochissimo tempo si trasformava in una forza imbattibile. È diventata l'entità più forte che il mondo abbia mai conosciuto a go, scacchi e shogi. Il suo nome è AlphaZero.
Benjamin Labatut, MANIAC
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ilquadernodelgiallo · 3 months
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...anche Miša le apprezzava, ma preferiva di gran lunga evocare tutte le forze oscure che ogni posizione celava dentro di sé, come un brulicante mondo sottomarino; o accumulare nubi e nubi di complessità  sulla scacchiera in modo che all'improvviso la folgore si abbattesse. _______________
L'aveva detto diverse volte, in passato: occorre agguantare l'avversario e trascinarlo nel fitto di una foresta dove le regole saltano - dove due più due fa cinque e per uscirne vivi esiste appena un impervio sentiero, una viuzza nascosta tra felci rovi e tronchi caduti, percorribile da un giocatore solo. Certo gli stili arditi esistevano già  da tempo, ma ad essi Miša aggiungeva una nuova sfumatura: il puro rapimento del paradosso, e la scelta deliberata della continuazione più interessante, in luogo della più efficace. Perché l'efficacia era banale, un ideale di poco conto. _______________
...rammentava il corpo della madre steso su di lui per proteggerlo, il cuore di lei battente nel fragore degli aerei, il suo respiro strozzato, il volto nell'erba del campo dov'erano fuggiti. (Quella sensazione di assoluta sicurezza in mezzo al massimo pericolo: proprio ciò che avrebbe provato anni dopo scatenando i suoi attacchi nei tornei). [...] E, in forma oscura, si manifestava in Miša una certezza che l'avrebbe accompagnato per sempre: quel gioco non era soltanto una tregua per esuli e lavoratori; era la paziente tessitura di un altrove. Un mondo nuovo, dove fucili e bastoni non costringevano gli alfieri a muoversi e la vittima era in grado di rifarsi sul carnefice. Un'altra occasione: girare il tavolo, pretendere rivincita, esattamente quanto la realtà negava. [...] Niente botte, carceri, confische di beni o minacce, e nemmeno il futuro cui altri si dedicano con tanta abnegazione, edificato cadavere su cadavere. _______________
...anche la gioia terrena ammette forme di martirio. Bevo e fumo perché rifiuto l'ascetismo dei fanatici: per la vita sono onnivoro e voglio conciliarla con la mia ossessione, ma non ho le forze di affrontarla in tutta la sua massa incalcolabile di variazioni e contromosse. Dà  alla testa persino a me, esattamente come può accadere a un fabbro o a un postino; essere un genio, in fondo, non cambia nulla. Dunque bere perdonava le colpe e smussava i difetti, rendeva più pure le risate. A torto o a ragione, un ubriaco si vendica dell'intero cosmo: potete schiacciarmi, mutilarmi, fare ciò che volete di me - ma io sono sbronzo, conosco la vanità  di ogni programma a lungo termine, e questo non me lo toglierete mai. Tanto vale giocare. Infine, l'alcool leniva il dolore incessante. Quanta sofferenza può produrre un corpo? Quanta ne può sopportare? _______________ Miša era un patito delle ore in cui le persone si svegliano di colpo da un incubo e ricapitolano senza volerlo i propri fallimenti, seppellendosi nelle lenzuola fino al mento e mormorando a fior di labbra tutti gli insulti che l'indomani non diranno al capo o al marito o al collega, gonfiandosi il cuore di amarezza e temendo oscure rappresaglie: le ore d'ambra, come le aveva chiamate una volta, pensando al colore gettato da certi lampadari, uniche pozze di luce rimaste nei ristoranti e sotto le quali, mentre fuori il buio paralizzava nei letti gli onesti cittadini, lui cercava ancora di rubare tempo al tempo: ordinando un altro giro o lanciando un applauso alla banda che sudava sui violini, fra i camerieri che spazzavano mestamente a terra e si portavano le mani ai fianchi indolenziti. Poi le sedie sui tavoli, il silenzio improvviso, tre colpi di interruttore spegnevano le lampade, e lui trascinava un collega altrove per giocare lampo. [...] Per lui il tempo assomigliava a un lago che non doveva essere attraversato lentamente, bensì prosciugato alla svelta. Se andavi abbastanza veloce, se avevi il coraggio di bruciarti nel processo, l'infelicità  non poteva raggiungerti davvero: la graduale trasformazione in un essere umano disilluso e incapace di stupore, un destino che riguardava la stragrande maggioranza del pianeta, non sarebbe avvenuta. _______________
Del resto scegliere di ardere il proprio genio è a sua volta opera geniale: soltanto i mediocri credono sia possibile incrementarlo giorno dopo giorno, o proteggerlo dagli urti. Il talento sepolto non porta frutti, e forse nemmeno il talento investito con oculatezza. Solo quanto dissipato è realmente vivo. _______________ Il passato lo sovrastava come una condanna e nessuno sapeva cosa significasse assistere da vivo, e già  da molto tempo, alla sua trasformazione in leggenda: gli anni d'oro, il declino e le rinascite, e tutte le storielle che giravano continuamente di bocca in bocca, alimentandosi a vicenda e componendo un'aneddotica non priva, temeva, di apocrifi - Il cittadino Michail Nechem'evi? Tal' ha fatto così e cosà. Non ci badava molto, ma ogni tanto aveva un sussulto di tristezza, la vecchia paura in nuove forme. Era diventato campione troppo giovane, troppo giovane era caduto; l'immagine dell'astro che brucia nel cielo notturno gli era venuta a noia, e temeva che la sua intera biografia fosse ridotta a poche istantanee: sguardi, sbronze, frasi fulminanti. Del resto, pensava, abbiamo tutti il goffo bisogno di chiuderci in una formula - il Patriarca, il Mago di Riga - perché il mistero ci atterrisce quanto il nostro destino di ignoranza: nulla sappiamo realmente degli altri, nulla sapremo mai di loro. Così Miša celava momenti da custodire ben lontano dalla fama: non le sbronze o la bottigliata in testa all'Avana ma la quiete del suo secondo matrimonio: la figlia Žanna fatta ballare sulle ginocchia una sera d'estate, mentre Gelja gli carezza dolcemente i capelli; non le scappatelle cui è incapace di resistere - le donne lo adorano, lui adora le donne, le seduce con la sua parlantina e le porta a letto e poi non sa più come comportarsi - bensì un assolato mattino di giugno a Riga, nell'appartamento di Gor'kij iela, lui e Salli nudi fra le lenzuola, il cielo ardesia ritagliato dalla finestra. Una fetta di cha?apuri con un bell'uovo giallissimo e tutto colante sopra, in un ristorante di Tbilisi dall'insegna in metallo brunito. _______________
...quando la vita si riempiva di screzi e ferite, l'allegra generosità  non era più sufficiente, e i suoi sentimenti intensi ma volatili parevano avere effetti peggiori dell'odio o dell'indifferenza _______________ Il capriccio, pensò ora con l'onestà dei febbricitanti: l'incapacità di resistere al capriccio, ecco cosa mi ha perseguitato. Ho fatto quel che volevo perché ero sicuro del perdono altrui. Amare sembrava semplice, e lui certo amava, ma prendersi devotamente cura degli altri era assai più arduo. [...] Doveva, sì: perché in alcuni di noi pulsa qualcosa che non ci appartiene fino in fondo, un bisogno terribile e che pure occorre sfamare, la cui violenza ci rende più sfuggenti e insieme - ecco il paradosso, il suo piccolo ricatto quotidiano - più desiderabili. _______________ ...forse, aveva buttato lì, la certezza di vedere qualcuno che arde davvero. Tutti pensavano di ardere, ogni singolo imbecille in quel paese di imbecilli poteva battersi il petto e dirti che ardeva per te o il Partito o il lavoro o la poesia, ma erano per lo più sciocchezze da disperati. Pochissimi ardevano come lui, con candore e noncuranza: era un uomo davanti al quale tutto il resto perde rilievo, una creatura che esercita il diritto cui ognuno segretamente aspira - vivere al di là  delle incombenze e del potere. «È molto pericoloso», aveva concluso. «Hai qualcosa di pericoloso» _______________ Se vivi come si deve, crepi come si deve: bell'affare. Perché non provare qualcosa di diverso? _______________ Perché con i pezzi Miša offriva sull'altare le stolide certezze che ognuno possiede fin da quando impara il gioco: una torre vale più di un cavallo e un cavallo più di due pedoni: questa ragioneria da mercante non significava nulla per lui, che immolava materia in cambio di tempo, velocità, mobilità; oro in cambio di fiamme. [...] «Una mossa sbagliata e crolla tutto», dicevano di certe combinazioni perfettamente calcolate: ma nel suo stile le mosse sbagliate trovavano in qualche modo cittadinanza: perché riteneva che errore e correttezza non fossero concetti opposti bensì fusi e lavorati insieme nella fragile lega del rischio. Anche vincere era in fondo meno importante di esporsi per cercare bellezza; era una conferma del suo scopo primario: forzare i limiti della probabilità, battere a colpi di maglio un cateto fino a renderlo più lungo dell'ipotenusa. Voleva che la gente ripercorresse le sue partite borbottando: Ma come diavolo...? Voleva che le sue creazioni fossero narrabili solo con il lessico dell'incanto o del sortilegio; voleva la magia. ________________ Questo miraggio delle partite o delle vite senza sbagli: no, Miša si teneva volentieri il fallimento. Si teneva la vulnerabilità e lo scompiglio. Tanto valeva ubriacarsi o combinare pasticci, ma rispettare sempre la dignità del singolo essere umano: gentilezza e generosità erano migliori di una rettitudine che, nel nome di se stessa, non esitava a calpestare gli altri. _______________ Il fato. In Occidente affibbiavano a quella parola significati astratti e poetici, citando Eschilo o Shakespeare, ma senza mai capirla davvero, come un bimbo che si pavoneggia con un'espressione troppo complessa. In Unione Sovietica il fato era cosa di tutti i giorni. Una porta che si apre di colpo e da cui entrano persone incaricate di distruggerti o, con l'avvento di un potere meno atroce, ridurti al completo silenzio. Non occorrevano opere d'arte per capire quanto ogni essere umano dipendesse da forze più vaste e incontrollabili. Allora il vero modo di sfuggire al sistema, pensava Miša, non è combattere né fuggire. È tentare di fregarsene. [...] Devi solo garantire a te stesso un luogo al riparo dall'arbitrio, dalle idee che gli altri hanno di te, dalla trama che vincola e strozza la società  intera: un millimetro dove nessuno può scrutare.
Giorgio Fontana, Il mago di Riga
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ilquadernodelgiallo · 3 months
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Ah, i vecchi, quando ricordano, non fanno altro che mentire! Idealizzano il passato non avendo più alcun futuro, perciò mentono a sé stessi in maniera spudorata. Illusione e menzogna, sono queste le assi su cui si recita la commedia umana, è sempre stato così. [...] Ecco cosa rimane di tutti i nostri furori ideologici e amorosi!, ho pensato, nient'altro che una buffonata recitata da vecchie carampane, senza neppure un briciolo di vergogna o di compassione. [...] è naturale che pensi a chi ero io a quel tempo, al tempo perduto della giovinezza. E a quel punto è inevitabile che riveda agitarsi nella memoria un fantoccio tremendamente stupido e frenetico. Un pagliaccio che si ostina ancor oggi a tenere aggiornato - con implacabile e funereo masochismo - questa specie di diario dell'infamia e del disinganno. [Le scarpe di Joyce] _______________
Avvolto da fili di nebbia e pioggia, cammino attraverso l'autunno con la sensazione di camminare in compagnia di fantasmi. Di notte, li vedo nei sogni. Di giorno, mi seguono per strada indossando gli abiti delle persone più comuni. Invisibili a tutti, ma non ai miei occhi. A volte, quando me li sento alle spalle, con il fiato già sul collo, mi metto a correre all'impazzata in mezzo alla gente. Corro per sfuggire ai demoni che mi perseguitano camuffati da individui normali, ben sapendo che dietro alle loro maschere bonarie, da uomini qualunque, si celano in realtà delle terribili sfingi con la testa di falco. [Unghie sporche di sangue] _______________
I saluti che ci scambiamo all'uscita dal ristorante, le promesse assurde di incontrarci di nuovo e al più presto (addirittura di «non perderci mai più di vista»!), sono in realtà  degli addii definitivi, vere e proprie epigrafi scolpite sulla tomba del nostro comune passato. E in effetti, dopo aver guardato in faccia il passato, non resta nient'altro che ammutolire mentre gli occhi si riempiono di lacrime e di cenere. [Compagni di classe] _______________ «Tutto questo rumore assordante, lo senti? Tutto questo chiasso infernale, ti assicuro, è niente in confronto alla voce da femminuccia del mio carnefice», aveva detto al momento di salutarmi. [Una voce da femminuccia] _______________
Un petulante balbettio letterario sale molesto da ogni parte d'Italia, è quella marea di grafomani incontinenti che non hanno nulla in comune con la letteratura (cantanti, comici, politici, magistrati, alienisti, maghi, casalinghe, prostitute, conduttori televisivi, ballerine e onanisti vari) e che producono quotidianamente tonnellate di mucillagine cartacea. Tonnellate di porcherie che ammorbano l'aria e ti investono in faccia appena ci si arrischia a mettere il naso in una libreria. [...] Fortini ci confessò che quei pennini gli ricordavano un viaggio in Russia di tanti anni addietro: accogliendo lo scrittore italiano a Leningrado, alla stazione ferroviaria Finlandia, un addetto culturale russo si era sfilato dal taschino della giacca la penna e, donandogliela, gli aveva detto: «Scrivi sempre la verità!». [I pennini di Fortini] _______________
Conservo ancora una copia di La croce e il nulla, forse il suo [di Sergio Quinzio] libro più illuminante e profetico, sul cui frontespizio aveva scritto per me questa dedica speciale: caro Francesco, non conosciamo fino in fondo neppure la sofferenza e la morte se non le confrontiamo con un disperato bisogno di giustizia, di consolazione e di pace. Non perdiamolo, a qualunque costo, cerchiamo, se non altro per questo, di serbare anche la più esile memoria della gioia e della speranza. Il nulla dissolve anche la sofferenza e la morte di chi ha sofferto e di chi è morto. [Fra l'immondezzaio e l'eternità] _______________
Adesso che sono diventata cieca, io non vedrò più il demonio. Al contrario di me, tu sei condannato invece a vedere ancora a lungo i tuoi fantasmi. Ti accompagneranno fino alla tomba, te l'assicuro, i tuoi dannati incubi diurni e notturni. Perché la questione in fondo è molto semplice. Per non dire banale, ed è che tu sei vissuto finora murato vivo dentro il carcere della memoria. Sepolto sotto un cumulo di ricordi e con la mente sempre rivolta verso l'infanzia, alla fine sei diventato pazzo di nostalgia. La nostalgia dell'infanzia, è questo il tuo dramma. La tua malattia. «Una malattia subdola e regressiva che ti obbliga a rielaborare ossessivamente il lutto per la perdita della tua innocenza puerile, conservandoti così al riparo dal terrore della morte. Una malattia incurabile che ti costringe a tenere lo sguardo puntato non verso il futuro, di cui non ti è mai interessato un accidente, bensì verso il passato. Verso quei fasti inceneriti della nostra infanzia in comune, come ti ostini a chiamare con ridicola enfasi i nostri giochi infantili sulle rive verdeggianti del Tartaro, in quel piccolo eden di nome Ca' Labia.» [Negli occhi del diavolo]
Francesco Permunian, Il gabinetto del dottor Kafka
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ilquadernodelgiallo · 3 months
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MAMUT - The Sun Will Rise Again (Full Album 2023)
(abbastanza gojiriani - e non è un difetto; mezzo disco è cantato in macedone, ma noi non ci spaventiamo per così poco)
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ilquadernodelgiallo · 4 months
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MARS RED SKY - Dawn of the dusk
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