Tumgik
#realismo capitalista
verteder0 · 1 year
Text
Tumblr media
Estamos buscando un símbolo de paz
entre los escombros que dejan nuestras pisadas
oh, Mark, aún tenías tanto para dar
7 notes · View notes
wthljvia · 2 years
Text
Tumblr media Tumblr media
Mark Fisher, Realismo capitalista.
8 notes · View notes
L'ontologia oggi dominante nega alla malattia mentale ogni possibile origine di natura sociale. Ovviamente, la chimico-biologizzazione dei disturbi mentali è strettamente proporzionale alla loro depoliticizzazione: considerarli alla stregua di problemi chimico-biologici individuali, per il capitalismo è un vantaggio enorme. Innanzitutto, rinforza la spinta del Capitale in direzione di un'individualizzazione atomizzata (sei malato per colpa della chimica del tuo cervello); e poi crea un mercato enormemente redditizio per le multinazionali farmaceutiche e i loro prodotti (ti curiamo coi nostri psicofarmaci).
Realismo capitalista, M. Fisher, 2009
0 notes
ilquadernodelgiallo · 3 months
Text
Detta altrimenti: per Fisher l'immaginario anni Duemila è letteralmente abitato da fantasmi, sia di stili passati (la Retromania), sia di ipotesi politiche e ideologiche relegate al dominio del non-più-possibile (le alternative al capitalismo messe a tacere dalla retorica neoliberale del "There Is No Alternative"), ed è semmai dalle seconde che discendono i primi. [...] La tesi è semplice: il "There Is No Alternative" al capitalismo pronosticato dalla Thatcher è stato infine introiettato non solo dalle forze politiche che pure a suo tempo occupavano il campo avverso a quello del consevatorismo neoliberale, ma dallo stesso inconscio collettivo; il risultato è che «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo», con ricadute drammatiche sia nel campo sociale che in quello psichico. Da qui discende un'analisi succinta ma penetrante di come questo «realismo capitalista» si rifletta in ambiti apparentemente tra loro diversissimi come la sempiterna cultura pop (soprattutto il cinema, che nel corso degli anni è diventato sempre più uno dei perni dell'analisi di Fisher), la malattia mentale (che Fisher  conosceva bene sin dall'adolescenza), la burocrazia, il sistema scolastico, la catastrofe ambientale. [...] una generazione condannata a emergere in piena «fine della storia» [...] abbandonare nostalgismi di sorta, a recuperare il brivido del future shock, a tornare a ipotizzare alternative aliene e irriducibili al realismo capitalista imperante... [dalla prefazione di Valerio Mattioli] _______________
...è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. È uno slogan che racchiude alla perfezione quello che intendo per «realismo capitalista»: la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l'unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un'alternativa coerente. _______________ A proposito: se ho parlato di aspirazioni «ufficiali» è perché l'ideologia neoliberale, nonostante ami da sempre scagliarsi contro lo Stato, è proprio sullo Stato che ha surrettiziamente contato. Il fenomeno è stato particolarmente evidente durante la crisi del 2008, quando - come da indicazione degli ideologi neoliberali - gli Stati si sono precipitati in soccorso del sistema bancario. _______________ Senza il nuovo, quanto può durare una cultura? Cosa succede se i giovani non sono più in grado di suscitare stupore? [...] Possibile che davvero non ci aspettino cambiamenti di sorta, che non rimarremo più spiazzati da quello che verrà? Ansie del genere tendono a produrre un'oscillazione bipolare: la speranza vagamente messianica che prima o poi qualcosa di nuovo dovrà pur succedere scivola nella tetra convinzione che niente di nuovo accadrà mai sul serio. Dalla next big thing, l'attenzione si sposta sull'ultima grossa novità: a quanto tempo fa risale, e quanto grossa era davvero? Ma forse tra le pieghe del film [scil. 'I figli degli uomini' di Alfonso Cuarón] è possibile intravedere un altro Eliot ancora: quello di 'Tradizione e talento individuale'. Fu in quel saggio che Eliot, anticipando Harold Bloom, descrisse la relazione reciproca tra canone e nuovo: il nuovo definisce se stesso come risposta a quanto è già stabilito; allo stesso tempo, quanto è già stabilito deve riconfigurarsi in risposta al nuovo. Secondo Eliot, l'esaurimento del futuro ci lascia anche senza passato: quando la tradizione smette di essere contestata e modificata, smette di avere senso. Una cultura che si limita a preservare se stessa non è una cultura. [...] Nessun oggetto culturale conserva la propria potenza se non ci sono più nuovi sguardi a osservarlo.[...] Il potere del realismo capitalista deriva in parte dal modo in cui il capitalismo sussume e consuma tutta la storia pregressa: è un effetto di quella «equivalenza» che riesce ad assegnare un valore monetario a qualsiasi oggetto culturale [...]. Nella conversione di pratiche e rituali in puri oggetti estetici, gli ideali delle culture precedenti diventano strumento di un'ironia oggettiva e si ritrovano trasformati in artefatti. In questo senso, il realismo capitalista non è semplicemente un particolare tipo di realismo; è più il realismo in sé e per sé. [...] Il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è un consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine. Eppure proprio la trasformazione dell'ideale in estetica, del coinvolgimento attivo in spettatorialità, andrebbe considerata una delle virtù del realismo capitalista. [...] L'atteggiamento di ironica distanza così tipico del capitalismo postmoderno, dovrebbe immunizzarci dalle seduzioni di ogni fanatismo. [...] «Viviamo in una contraddizione», ha osservato Badiou: «Ci viene presentato come ideale uno stato delle cose brutale e profondamente ingiusto, dove ogni esistenza viene valutata in soli termini monetari. Per giustificare il loro conservatorismo, i partigiani dell'ordine costituito non possono davvero dire che questo stato sia meraviglioso o perfetto. E quindi hanno deciso di dire che tutto il resto è orribile». [...] Quando poi finalmente arriva, il capitalismo si accompagna a un'imponente desacralizzazione della cultura. È un sistema che non è più governato da alcuna Legge trascendente: al contrario, smantella tutti i codici trascendenti per poi ristabilirli secondo criteri propri. I limiti del capitalismo non sono fissati per decreto, ma definiti (e ridefiniti) pragmaticamente, improvvisando. _______________
In uno dei suoi passaggi più profetici Nietzsche parla di «un'era satura di storia». «Un'epoca incorre nella pericolosa disposizione intima dell'autoironia, e da essa in quella ancora più rischiosa del cinismo», si legge nelle 'Considerazioni inattuali'; un «carnevale cosmopolitico», ovvero una spettatorialità distaccata, avrà sostituito la partecipazione e il coinvolgimento. È la condizione dell'Ultimo Uomo nietzschiano: colui che ha visto tutto, ma che proprio l'eccesso di (auto)consapevolezza condanna all'indebolimento e alla decadenza. [...] È noto che Jameson definì il postmodernismo come la «logica culturale del tardo capitalismo»: il fallimento del futuro era per lui una parte integrante di quella cultura postmoderna che, come correttamente anticipò, sarebbe infine stata dominata dal pastiche e dal revival. [...] Il lavoro di Jameson sul postmodernismo iniziava con una messa in discussione dell'idea, cara ad Adorno e soci, che il modernismo possedesse un potenziale rivoluzionario in virtù soltanto delle sue innovazioni formali. Quello che invece Jameson aveva notato era l'assorbimento di temi modernisti all'interno della cultura popolare: pensiamo all'improvviso uso che delle tecniche surrealiste fece la pubblicità. Nello stesso momento in cui le forme peculiari del modernismo venivano assorbite e commercializzate, il credo modernista - la sua supposta fiducia nell'elitismo e il suo modello culturale monologico dall'alto verso il basso - venne messo in discussione e rigettato in nome della «differenza», della «diversità» e della «molteplicità». Il realismo capitalista non intrattiene più un confronto di questo tipo col modernismo: al contrario, dà per scontata la sconfitta del modernismo al punto che il modernismo stesso diventa un oggetto che può periodicamente tornare, ma solo come estetica congelata, mai come un ideale di vita. _______________
In Europa e negli Stati Uniti, per la maggior parte delle persone sotto i vent'anni l'assenza di alternative al capitalismo non è nemmeno più un problema: il capitalismo semplicemente occupa tutto l'orizzonte del pensabile. [...] Quella con cui ora abbiamo a che fare non è l'incorporazione di materiali che prima sembravano godere di un potenziale sovversivo, quanto la loro precorporazione: la programmazione e la modellazione preventiva, da parte della cultura capitalista, dei desideri, delle aspirazioni, delle speranze. Prendiamo per esempio quelle aree culturali «alternative» o «indipendenti» che replicano senza sosta i vecchi gesti di ribellione e contestazione come se fosse la prima volta: «alternativo» e «indipendente» non denotano qualcosa di estraneo alla cultura ufficiale; sono semmai semplici stili interni al mainstream - o meglio sono, a questo punto, gli stili dominanti del mainstream. Nessuno ha incarnato (e sofferto) questo stallo più di Kurt Cobain: con la sua straziante inedia, con la sua rabbia senza scopo, il leader dei Nirvana sembrò l'esausta voce dell'avvilimento che attanagliava la generazione venuta dopo la fine della storia, la stessa generazione cui ogni singola mossa era stata anticipata, tracciata, comprata e svenduta prima ancora di compiersi. [...] La morte di Cobain ribadì la sconfitta e l'incorporazione delle ambizioni utopico-prometeiche del rock. [...] In buona parte dell'hip hop ogni ingenua speranza che la cultura giovanile potesse cambiare qualcosa venne sostituita dalla testarda adesione a una versione brutalmente riduttiva della «realtà». [...] Nell'hip hop, scrive Reynolds, «"to get real" significa confrontarsi con quello stato di natura in cui cane mangia cane, dove o sei un vincente o sei un perdente, e dove i più sono condannati a perdere». _______________
Un film come 'Wall-E' esemplifica quella che Robert Pfaller ha chiamato «interpassività»: il film inscena il nostro anticapitalismo per noi stessi, dandoci al contempo la possibilità di continuare a consumare impunemente. Il ruolo dell'ideologia capitalista non è quello di ribadire le proprie priorità allo stesso modo della propaganda, ma di celare il fatto che le operazioni del Capitale non dipendono da alcuna convinzione soggettivamente imposta. [...] Resta prezioso il consiglio di Žižek: «Se il concetto di ideologia è quello classico in cui l'illusione sta nella conoscenza, allora la società di oggi dà l'idea di essere post-ideologica: l'ideologia prevalente è il cinismo; le persone non credono più in nessuna verità ideologica; la gente non prende seriamente nessuna proposta ideologicamente connotata. Il livello fondamentale dell'ideologia, in ogni caso, non è quello di un'illusione che maschera il reale stato delle cose, quanto quello di una fantasia (inconscia) che struttura la nostra stessa realtà sociale. E a questo livello, siamo ovviamente tutto tranne che una società post-ideologica. Il cinico distacco è soltanto un modo di renderci ciechi di fronte al potere strutturale della fantasia ideologica: anche se non prendiamo le cose sul serio, anche se manteniamo una distanza ironica da quello che facciamo, continuiamo comunque a farlo». L'ideologia capitalista in generale, continua Žižek, consiste precisamente nella sopravvalutazione del «credo» inteso come atteggiamento interiore soggettivo, a spese di quanto professiamo ed esibiamo coi nostri comportamenti esteriori. Fintantoché, nel profondo dei nostri cuori, continuiamo a credere che il capitalismo è malvagio, siamo liberi di continuare a partecipare agli stessi scambi propri del capitalismo. _______________
...vista la sua [scil. del movimento anticapitalista] incapacità di ipotizzare un modello politico-economico alternativo al capitalismo, il sospetto fu che il suo obiettivo fosse non rimpiazzare il capitalismo stesso, quanto mitigarne gli eccessi peggiori; e visto che le forme in cui il movimento anticapitalista si è espresso prediligevano più la protesta che l'organizzazione politica vera e propria, la sensazione era che questo movimento si riducesse a una serie di richieste isteriche senza che nessuno si aspettasse che venissero accolte sul serio. Per il realismo capitalista, la contestazione è diventata una specie di burlesco rumore di fondo _______________ Rivendicare un'azione politica vera significa prima di tutto accettare di essere finiti nello spietato tritacarne del Capitale al livello del desiderio. Declassando il male e l'ignoranza a dei fantasmatici Altri disconosciamo la nostra complicità col sistema planetario dell'oppressione. Quello che dobbiamo tenere a mente, è sia che il capitalismo è una struttura impersonale e iperastratta, sia che questa struttura non esisterebbe senza la nostra cooperazione. [...] Il ricatto ideologico emerso sin dal primissimo Live Aid del 1985 si fonda sull'idea che «prendersi cura degli individui» possa direttamente mettere fine alla fame nel mondo, senza alcuna necessità di soluzioni politiche o ristrutturazioni sistemiche. Quello che conta è agire e basta, o almeno così ci spiegano: la politica va sospesa in nome dell'immediatezza etica. [...] La fantasia era che il consumismo occidentale, anziché essere parte integrante delle disuguaglianze che sistematicamente segnano il pianeta, potesse addirittura risolverle. Tutto quello che serve è comprare i prodotti giusti. _______________
È più un'atmosfera che pervade e condiziona non solo la produzione culturale ma anche il modo in cui vengono regolati il lavoro e l'educazione, e che agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l'azione. [...] L'unica maniera per mettere in discussione il realismo capitalista è mostrare in qualche modo quanto sia inconsistente e indifendibile: insomma, ribadire che di «realista» il capitalismo non ha nulla. Inutile dire che quello che viene considerato «realistico», quello cioè che sembra plausibile dal punto di vista sociale, è innanzitutto determinato da una serie di decisioni politiche. Qualsiasi posizione ideologica non può affermare di aver raggiunto il suo traguardo finché non viene per così dire naturalizzata, e non può dirsi naturalizzata fino a quando viene recepita in termini di principio anziché come fatto compiuto. Di conseguenza il neoliberismo ha cercato di eliminare la stessa categoria di principio, di valore nel senso etico della parola: nel corso di più di trent'anni il realismo capitalista ha imposto con successo una specie di «ontologia imprenditoriale» per la quale è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all'educazione, andrebbe gestito come un'azienda. Come ricordato da tanti teorici radicali - siano essi Brecht, Foucault o Badiou - ogni politica di emancipazione deve puntare a distruggere l'apparenza dell'«ordine naturale», deve rivelare che quello che ci viene presentato come necessario e inevitabile altro non è che una contingenza, deve insomma dimostrare che quanto abbiamo finora reputato impossibile è, al contrario, a portata di mano. _______________
«Il principio di realtà è esso stesso ideologicamente mediato; si potrebbe persino arrivare a sostenere che sia la forma più alta di ideologia, quella cioè che si presenta come fatto empirico, come necessità biologica o economica, e che tendiamo a percepire come non ideologica.» [Alenka Zupančič] _______________ Viene quindi da pensare che una prima strategia contro il realismo capitalista potrebbe partire dall'evocazione di quei «reali» che sottendono la realtà per come il capitalismo ce la presenta. Uno di questi è la catastrofe ambientale. [...] La relazione tra capitalismo e disastro ecologico non è né casuale né accidentale: la necessità di espandere costantemente il mercato e il feticcio della crescita stanno lì a significare che il capitalismo è, per sua natura, contrario a qualsiasi nozione di sostenibilità. Tuttavia le questioni ecologiche sono già una terra di contesa, un luogo cioè dove per la politicizzazione si combatte. [...] La prima riguarda la salute mentale. [...] Quello di cui però abbiamo bisogno ora è una politicizzazione di disordini assai più comuni; anzi, è proprio il fatto che questi disordini siano diventati comuni che vale da solo la nostra attenzione. [...] Quello che dovremmo chiederci è: com'è potuto diventare tollerabile che così tante persone, e in particolare così tante persone giovani, siano malate? La «piaga della malattia mentale» che affligge le società capitaliste lascia intendere che, anziché essere l'unico sistema che funziona, il capitalismo sia innatamente disfunzionale; il prezzo che paghiamo per dare l'impressione che il capitalismo fili liscio è davvero molto alto. L'altro fenomeno che vorrei evidenziare è la burocrazia. [...] La realtà è che, piuttosto che scomparire, la burocrazia ha cambiato aspetto, ed è proprio questo suo aspetto inedito e decentralizzato che le ha permesso di proliferare. Che la burocrazia persista anche nel tardo capitalismo non è in sé un segnale che il capitalismo non funzioni: semmai è la spia di come il modo in cui il capitalismo funziona davvero è molto differente dall'immagine che ne fornisce il realismo capitalista. Il motivo per cui ho deciso di concentrarmi su problemi mentali e burocrazia deriva in parte dal fatto che entrambi i fenomeni occupano un posto di primo piano in un'area della cultura dominata con sempre maggiore insistenza dagli imperativi del realismo capitalista: l'istruzione. _______________
Ora: io credo che non si tratti né di apatia, né di cinismo; piuttosto, è quella che chiamo impotenza riflessiva. Gli studenti cioè sanno che la situazione è brutta, ma sanno ancor di più che non possono farci niente. Solo che questa consapevolezza, questa riflessività, non è l'osservazione passiva di uno stato delle cose già in atto: è una profezia che si autoavvera. [...] Non è esagerato affermare che, nella Grand Bretagna tardo capitalista, il solo essere adolescenti rischia di equivalere a una forma di patologia. Una tale patologizzazione pregiudica qualsiasi possibilità di politicizzazione: privatizzare questi disturbi, trattarli come se fossero provocati da null'altro che qualche squilibrio chimico o neurologico dell'individuo, o come se fossero il semplice risultato del retroterra familiare, significa escludere a priori qualsiasi causa sociale sistemica. [...] In un saggio fondamentale come 'Poscritto sulle società di controllo' Gilles Deleuze distingue tra le società disciplinari descritte da Foucault - organizzate attorno ad ambienti chiusi come la fabbrica, la scuola e la prigione - e le nuove società del controllo, nelle quali tutte le istituzioni vengono integrate in un regime diffuso. Deleuze ha ragione quando individua in Kafka il profeta di quel potere diffuso e cibernetico che caratterizza le società del controllo. [...] Una conseguenza di questa forma «indefinita» di potere è che il controllo esterno viene garantito dalla sorveglianza interna: il controllo, cioè, funziona solo quando sei complice. Da qui viene la figura burroughsiana del control addict che dal controllo dipende, ma che anche, inevitabilmente, dal controllo viene posseduto e sottomesso. [...] Il sistema attraverso cui il college è finanziato fa sì che - anche qualora qualcuno intendesse farlo - non ci si possa letteralmente permettere di respingere uno studente. Le risorse allocate per i college si basano sia su quanto questi riescano a raggiungere obiettivi specifici (e quindi fanno testo i risultati degli esami), sia sul tasso di frequenza e di mantenimento degli studenti: questa combinazione di imperativi di mercato e quelli che burocraticamente vengono chiamati target è un tipico tratto dello «stalinismo di mercato» che attualmente regola i servizi pubblici. Per usare un eufemismo, l'assenza di un vero e proprio sistema disciplinare non è stata compensata da un aumento della motivazione degli studenti, anche perché questi sanno benissimo che possono pure non frequentare le lezioni per settimane intere, possono pure non svolgere alcun compito o lavoro, e non ci sarà comunque nessuna seria sanzione ad attenderli. A questa libertà gli studenti in genere reagiscono non dedicandosi a progetti propri, ma cedendo a un'inerzia edonistica (o anedonica): e cioè a uno stato di soffice narcosi, al confortevole oblio della Playstation, alle maratone notturne davanti alla televisione, alla marijuana. [...] Anche l'utilizzo degli auricolari è un particolare indicativo: la musica pop non viene vissuta per il suo potenziale impatto sullo spazio pubblico, ma relegata a «ediPodico» piacere consumistico e privato che ci trincera dalla socialità. [...]
Quella che oggi frequenta le aule scolastiche, è insomma una generazione emersa all'interno di una cultura astorica e segnata da interferenze antimnemoniche, per la quale il tempo è da sempre ripartito in microporzioni digitali. [...] Se insomma la sindrome da deficit di attenzione e iperattività è una patologia, si tratta allora di una patologia peculiare del tardo capitalismo: una conseguenza dell'essere connessi a quei circuiti di controllo e intrattenimento che caratterizzano la nostra cultura consumistica e ipermediata. Allo stesso modo, in molti casi quella che chiamiamo dislessia altro non è che post-lessia: gli adolescenti processano dati densamente affollati di immagini senza alcun bisogno di saper leggere davvero; il riconoscimento degli slogan è tutto quello che serve per navigare il piano dell'informazione online e mobile. [...] Chiamati a mediare tra la soggettività post-alfabetizzata del consumatore tardo capitalista e le richieste del regime disciplinare (esami da superare e così via), gli insegnanti sono stati a loro volta sottoposti a una pressione incredibile; e questo è solo uno dei modi attraverso cui l'istruzione, lungi dall'essere quella torre d'avorio al riparo dal mondo reale, si trasforma in motore per la riproduzione della realtà sociale, scontrandosi direttamente con le contraddizioni della società capitalista. Gli insegnanti si ritrovano intrappolati tra il ruolo di facilitatori-intrattenitori e quello di disciplinatori autoritari: vorrebbero aiutare gli studenti a passare gli esami, ma gli viene anche chiesto di incarnare l'autorità, di imporre dei doveri. Dal punto di vista degli studenti, l'identificazione degli insegnanti come figure autoritarie esaspera il problema della «noia», se non altro perché qualsiasi prodotto dell'autorità è noioso a priori. Ironicamente, dagli insegnanti si esige più che mai una funzione di disciplinatori nello stesso esatto momento in cui le strutture disciplinari sono andate in crisi; mentre le famiglie cedono alle pressioni di un capitalismo che obbliga entrambi i genitori a lavorare, agli insegnanti viene chiesto di comportarsi come surrogati dell'istituzione familiare: sono loro che devono instillare negli studenti i protocolli comportamentali base, sono loro che devono provvedere alla guida e al sostegno emotivo di quegli adolescenti che, in non pochi casi, ancora non sanno come socializzare. [...]
Presi assieme, gli immobilisti (con la loro ammissione implicita che il capitalismo non potrà mai essere rovesciato, e che nei suoi confronti non si può tentare altro che opporre resistenza) e i comunisti liberali (per i quali gli eccessi immorali del capitalismo vanno temperati dalla filantropia e dalla beneficenza) danno il senso di come le potenzialità politiche dell'oggi siano circoscritte proprio dal realismo capitalista. [...] Ad ogni modo, resistere al «nuovo» non è una causa che la sinistra possa o debba abbracciare. Il Capitale è stato molto attento e scrupoloso quando si è trattato di ragionare su come mandare in frantumi la vecchia classe operaia; mentre dall'altra parte altrettanta riflessione non c'è stata né su quali tattiche adottare sotto il postfordismo, né su quale nuovo linguaggio sviluppare per far fronte alle condizioni che lo stesso postfordismo impone. Mettere in discussione l'appropriazione capitalista della categoria del «nuovo» è importante; ma al tempo stesso rivendicare il «nuovo» non può significare adattarsi alle condizioni in cui già ci troviamo: in quello siamo già riusciti benissimo, e sappiamo bene che «riuscire ad adattarsi con successo» è la principale strategia dell'ideologia manageriale. [...] Il modello immobilista, quello che si riduce a chiedere di conservare il vecchio regime fordista/disciplinare, non potrà mai funzionare nei paesi in cui il neoliberismo è già riuscito a imporsi. _______________
È una condizione ben riassunta dallo slogan «niente è a lungo termine»: se in passato i lavoratori potevano acquisire un singolo bagaglio di capacità e da lì aspettarsi di progredire verso l'alto sui binari di una rigida gerarchia organizzativa, adesso ai lavoratori viene richiesto di apprendere periodicamente capacità nuove, a seconda di come si muovono da un'organizzazione all'altra, da un ruolo all'altro. E dal momento che l'organizzazione del lavoro viene decentralizzata, e che le vecchie gerarchie piramidali vengono sostituite da nuove reti trasversali, a essere premiata è la «flessibilità». [...] I valori da cui la vita in famiglia dipende - riconoscenza, fiducia, impegno - sono precisamente gli stessi che il nuovo capitalismo ritiene obsoleti. Eppure, visti gli attacchi che vengono portati alla sfera pubblica e lo smantellamento di quelle reti di sicurezza a suo tempo garantite dal vecchio «Stato assistenziale», proprio la famiglia viene sempre più identificata come un rifugio dalle pressioni di un mondo costantemente segnato dall'instabilità. La situazione in cui versa la famiglia nel capitalismo postfordista è contraddittoria nello stesso modo in cui aveva previsto il marxismo tradizionale: il capitalismo ha bisogno della famiglia (in quanto strumento essenziale per la riproduzione e la cura della forza lavoro; perché allevia le ferite psichiche inferte da condizioni socioeconomiche fuori controllo), eppure contemporaneamente ne mina le fondamenta (impedendo ai genitori di trascorrere tempo con i propri figli; alimentando la tensione di coppia nel momento in cui i partner diventano l'unica fonte di consolazione affettiva reciproca).
[...] Questa flessibilità è stata a sua volta definita da una deregolamentazione del Capitale e del lavoro, che ha portato a una crescente esternalizzazione e precarizzazione della manodopera e a un sempre maggior numero di lavoratori impiegati su base temporanea. [...] Per funzionare, in quanto elemento della produzione just in time, devi saper reagire agli eventi imprevisti e imparare a vivere in condizioni di instabilità assoluta (o «precarietà», come da orribile neologismo). Periodi in cui lavori si alternano a periodi in cui sei disoccupato. Costretto a una fila infinita di impieghi a breve termine, non riesci a pianificare un futuro. Sia Marazzi che Sennett fanno notare come lo sgretolamento del modello fondato sul lavoro stabile sia stato in parte motivato dalle aspirazioni dei lavoratori stessi: erano in effetti proprio i lavoratori che, giustamente, non ne volevano più sapere di lavorare per quarant'anni dentro la stessa fabbrica. A sua volta, il Capitale ha sollecitato e metabolizzato il desiderio di emancipazione dalla routine fordista, spiazzando in questo modo una sinistra che da allora per molti versi non si è più ripresa. [...]
Oggi l'orizzonte dell'antagonismo non sta più all'esterno, vale a dire nel confronto tra blocchi sociali; è semmai tutto interno alla psicologia del lavoratore, che da una parte resta coinvolto nel vecchio conflitto tra classi, mentre dall'altra è interessato a massimizzare i profitti dei propri investimenti in vista del fondo pensione. E se non c'è più un nemico esterno identificabile, la conseguenza è che - come nota ancora Marazzi - sotto il postfordismo i lavoratori assomigliano agli ebrei che nel Vecchio Testamento lasciano la «casa di schiavitù»: liberi da una prigionia verso la quale non provano nostalgia alcuna, ma anche abbandonati, persi nel deserto, confusi sul da farsi. Il conflitto scatenato nella psiche degli individui non può che produrre vittime; Marazzi analizza il legame tra postfordismo e aumento dei casi di sindrome bipolare: da questo punto di vista, se la schizofrenia è - come ricordano Deleuze e Guattari - la condizione che segna il limite esterno del capitalismo, allora il disturbo bipolare è la malattia mentale che del capitalismo segna l'«interno». Di più: coi suoi incessanti cicli di espansione e crisi, è il capitalismo stesso a essere profondamente e irriducibilmente bipolare, periodicamente oscillante tra stati di eccitazione incontrollata (l'esuberanza irrazionale delle «bolle») e crolli depressivi (l'espressione «depressione economica» non è evidentemente casuale). Il capitalismo nutre e riproduce gli umori della popolazione a un livello che nessun altro sistema sociale ha mai sfiorato: senza delirio e senza fiducia in se stesso, non saprebbe proprio come funzionare. [...] In particolar modo, James si sofferma sul modo in cui il capitalismo egoista istiga all'idea che qualsiasi aspirazione o aspettativa possa essere realizzata: [...]
«Le tossine più nocive del capitalismo egoista, sono quelle che sistematicamente incoraggiano l'idea che la ricchezza materiale sia la chiave per la realizzazione personale, che i ricchi sono i vincenti e che per puntare in alto non serve altro che lavorare sodo, indifferentemente dal retroterra familiare, etnico o sociale di provenienza. Se poi non riesci, l'unico da biasimare sei tu». [...] L'ontologia oggi dominante nega alla malattia mentale ogni possibile origine di natura sociale. Ovviamente, la chimico-biologizzazione dei disturbi mentali è strettamente proporzionale alla loro depoliticizzazione: considerarli alla stregua di problemi chimico-biologici individuali, per il capitalismo è un vantaggio enorme. Innanzitutto, rinforza la spinta del Capitale in direzione di un'individualizzazione atomizzata (sei malato per colpa della chimica del tuo cervello); e poi crea un mercato enormemente redditizio per le multinazionali farmaceutiche e i loro prodotti (ti curiamo coi nostri psicofarmaci). _______________
È una dimostrazione pratica di come creatività ed espressione personale siano diventati strumenti di lavoro essenziali in una società del controllo che - come ricordato dai vari Paolo Virno e Yann Moulier-Boutang - dai lavoratori pretende un impegno non solo produttivo, ma anche emotivo; persino il grossolano tentativo di quantificare il contributo affettivo degli impiegati è rivelatore. [...] Abbastanza non è più abbastanza. È una sindrome che suonerà familiare a quei tanti lavoratori per i quali una valutazione «sufficiente» delle proprie prestazioni, non è più… sufficiente. In molte strutture educative, se ad esempio la classe valuta come sufficiente il lavoro del proprio insegnante, quest'ultimo viene obbligato a intraprendere un corso di formazione prima che gli venga riassegnato un posto. Che le misure burocratiche si siano intensificate sotto un regime neoliberale che si presenta come antiburocratico e antistalinista potrebbe dapprima sembrare un mistero. Eppure ad aver proliferato è una nuova burocrazia fatta di «obiettivi» e di «target», di «mission» e di «risultati», e questo nonostante tutta la retorica neoliberale sulla fine della gestione top-down. [...]
E invece l'enfasi sulla valutazione prestazionale dei lavoratori, così come la spinta a quantificare forme di lavoro che per loro natura sono refrattarie a qualsiasi quantificazione, ha inevitabilmente prodotto ulteriori livelli di burocrazia e amministrazione. Quello che ci troviamo di fronte non è un raffronto diretto tra prestazioni o risultati, ma tra la rappresentazione (debitamente quantificata) di quelle prestazioni e di quei risultati. È ovvio che a questo punto si produce un cortocircuito: il lavoro viene predisposto alla produzione e alla manipolazione proprio di quelle rappresentazioni, anziché attrezzato per gli obiettivi ufficiali del lavoro vero e proprio. [...] Questa inversione delle priorità è uno dei tratti distintivi di un sistema che possiamo tranquillamente definire «stalinismo di mercato». Dello stalinismo, il capitalismo riprende proprio questo suo attaccamento ai simboli dei risultati raggiunti, più che l'effettiva concretezza del risultato in sé. [...] In una strana coazione a ripetere, i governi britannici del New Labour - in apparenza, il massimo dell'antistalinismo - hanno dimostrato la stessa tendenza all'applicazione di interventi i cui effetti nel mondo reale contano solo fintantoché possono essere spesi in termini di «comunicazione». Un tipico esempio sono i fantomatici target di cui il New Labour era così entusiasta: seguendo un processo che tende a replicarsi con ferrea prevedibilità ovunque prenda piede, questi target smettono in fretta di essere uno strumento per la misurazione delle performance, e diventano invece dei fini a sé.
[...] Sarebbe comunque un errore interpretare lo stalinismo di mercato come una specie di deviazione dallo «spirito autentico» del capitalismo. Al contrario: è più giusto dire che la vera essenza dello stalinismo è stata inibita dal rapporto con un progetto politico quale il socialismo, mentre è solo in una cultura tardo capitalista che riesce a emergere a pieno. Nel tardo capitalismo, d'altronde, le immagini acquisiscono una forza autonoma: nel mercato azionario il valore viene generato non tanto da quello che una compagnia produce per davvero, quanto dalla fiducia nelle sue performance future, o perlomeno dalle sensazioni che circolano a riguardo. Mettiamola così: nel capitalismo tutto ciò che è solido si dissolve nelle public relations. [...] Un'altra dimensione importante del Grande Altro è che non conosce tutto: al contrario, è proprio questa ignoranza costitutiva del Grande Altro che permette alle public relations di funzionare. [...] Ma la distinzione tra quello che il Grande Altro sa - e cioè quello che è ufficialmente accettato - e quello che viene comunemente sperimentato dagli individui in carne e ossa, è tutto tranne che formale o vuota: è anzi proprio questa discrepanza che permette alla realtà sociale «ordinaria» di funzionare. E quando viene meno l'illusione che il Grande Altro non sappia, a disintegrarsi è la struttura immateriale che tiene assieme il sistema sociale. [...]
Allo stesso modo, non esiste alcuna tendenza progressiva allo «svelamento» del capitalismo, nessuna graduale messa a nudo di quello che il capitalismo davvero è: rapace, indifferente, inumano. Al contrario: il ruolo essenziale che nel capitalismo giocano quelle «trasformazioni incorporee» messe in atto dalle campagne di public relations, dal marketing e dalla pubblicità, suggerisce che, per funzionare efficacemente, la brama del capitalismo si affida a varie forme di copertura. [...] Ma i supposti gesti di demistificazione del postmodernismo non sono un segno di sofisticatezza: piuttosto denotano una certa ingenuità, la convinzione che una volta, nel passato, ci fosse davvero qualcuno che nel Simbolico ci credeva. In realtà, l'efficienza simbolica è stata ottenuta proprio mantenendo una distinzione chiara tra la causalità di tipo empirico-materiale, e la causalità incorporea del Simbolico. [...] «È il paradosso che Lacan sottolinea nel suo 'Les non-dupes errent': le persone che si affidano solo a quanto vedono di persona, le persone che non si lasciano raggirare dall'inganno e dalla finzione del simbolico, sono le persone che sbagliano di più. Un cinico che crede solo a quanto vede «coi propri occhi», non coglie l'efficienza della finzione simbolica e come questa struttura la nostra esperienza della realtà» [Žižek]. Buona parte del lavoro di Baudrillard ragiona sullo stesso tema: il modo in cui la fine del Simbolico porta non a un confronto diretto con il reale, ma a una specie di emorragia del reale stesso.
[...] Nello stesso momento in cui sembra che venga catturata nella maniera più cruda possibile, ecco che la realtà si trasforma in quella che Baudrillard chiama, con un neologismo troppo spesso frainteso, «iperrealtà». In un riflesso straniante delle tesi baudrillardiane, i reality show televisivi hanno finito addirittura per fondere tecniche-verità e sondaggismo d'opinione. In programmi del genere esistono in effetti due livelli di realtà: la «vita vera» e fuori copione dei concorrenti in tv, e le reazioni imprevedibili degli spettatori a casa (che a loro volta condizionano il comportamento dei concorrenti). Tuttavia la reality tv è continuamente perseguitata dal dubbio dell'illusione e della finzione: e se i concorrenti stessero segretamente recitando, reprimendo alcuni aspetti della loro personalità in modo da risultare più appetibili al pubblico? E poi i voti degli spettatori: vengono accuratamente registrati, o dietro c'è qualche forma di accordo, di intesa nascosta? [...]
Il motivo per cui Kafka è un prezioso commentatore del totalitarismo è perché rivela che c'è una dimensione del totalitarismo che non si riduce al dispotismo, e che quindi non può essere compresa come tale. [...] Possiamo pensare all'assillo della quantificabilità come a una fusione tra relazioni pubbliche e burocrazia: quasi sempre i dati burocratici assolvono a una funzione promozionale, come nel caso dei risultati delle prove d'esame che, nel sistema educativo, vengono impiegati per aumentare (o diminuire) il prestigio dei singoli istituti. Per gli insegnanti, a essere frustrante è la sensazione che il loro lavoro sia sempre più orientato a impressionare il Grande Altro che colleziona e consuma questi «dati» [...]. La nuova burocrazia non è più una funzione delimitata e specifica portata avanti da determinate figure professionali, ma invade ogni area del lavoro col risultato che - come pronosticato da Kafka - i lavoratori diventano i controllori di se stessi, obbligati a valutare le proprie stesse prestazioni. [...] Per Foucault non c'è alcun bisogno che il ruolo della sorveglianza sia effettivamente ricoperto da qualcuno: il non sapere se si è controllati o meno produce come effetto l'introiezione dell'apparato di controllo, così che finirai per comportarti come se fossi sempre sotto osservazione. _______________
Un tempo «essere realistici» significava forse fare i conti con una realtà percepita come solida e inamovibile: ma il realismo capitalista comporta che ci sottoponiamo a una realtà infinitamente plastica, capace di riconfigurarsi come e quando vuole. Dinanzi a noi c'è quello che Jameson - nel suo saggio 'The Antinomies of Postmodernity' - chiama «un presente puramente fungibile in cui sia la psiche che lo spazio possono essere processati e ricostruiti secondo necessità». Qui la «realtà» assomiglia alle infinite opzioni di un documento digitale, dove nessuna decisione è definitiva, le revisioni sono sempre possibili, e ogni attimo pregresso può essere richiamato in qualsiasi momento. [...]
È una forma di sconfessione e disconoscimento che dipende da quella distinzione tra atteggiamento soggettivo interiore e comportamenti esteriori di cui abbiamo già parlato: il dirigente poteva pur essere interiormente ostile (se non addirittura sprezzante) nei confronti delle procedure burocratiche da lui supervisionate; ma esteriormente, era perfettamente compiacente. Il trucco è che è proprio il disinvestimento soggettivo dagli adempimenti contabili che permette ai lavoratori di prestarsi a mansioni tanto inutili e demoralizzanti. [...]
La strategia di accettare senza domande l'incommensurabile e l'insensato è da sempre la tecnica sui cui regge la sanità mentale in quanto tale; ma nel tardo capitalismo - quell'«impasto informe di tutto quanto è già stato» in cui l'invenzione e la rottamazione delle finzioni sociali è tanto rapida quanto la produzione e lo smaltimento delle merci - è una tecnica che gioca un ruolo speciale. In una tale condizione di precarietà ontologica, dimenticare diventa una strategia di adattamento. [...] Da una parte, questa è una cultura che privilegia unicamente il presente e l'immediato: la rimozione del pensiero a lungo termine si estende non solo in avanti nel tempo, ma anche indietro (basti pensare a quelle storie che monopolizzano l'attenzione dei media per una settimana al massimo, per poi essere istantaneamente dimenticate); dall'altra, è una cultura piagata da un eccesso di nostalgia, schiava della retrospezione e incapace di dare vita a qualsivoglia novità autentica. [...] Come spiega in 'The Antinomies of Postmodernity': «Il paradosso da cui dobbiamo partire è l'equivalenza tra la quantità di immani cambiamenti a tutti i livelli della nostra vita sociale e l'altrettanto impareggiabile standardizzazione di tutto quanto appaia incompatibile con tali cambiamenti, si tratti di sentimenti, beni di consumo, linguaggio, architettura... [...] Di conseguenza, quello che cominciamo a percepire - e quello che sta emergendo come un profondo tratto costitutivo della stessa postmodernità, quantomeno nella sua dimensione temporale - è che d'ora in poi, laddove tutto si presta al continuo succedersi di mode e rappresentazioni mediatiche, nessun cambiamento sarà più possibile». [...]
Incapacità di produrre ricordi nuovi: eccola, la formulazione essenziale dell'impasse postmoderna. [...] Brown nota come, sebbene mossi da impostazioni tra loro diversissime, neoliberali e neoconservatori abbiano collaborato ai fini di un indebolimento della sfera pubblica e della democrazia, partorendo un cittadino assoggettato che cerca le soluzioni non nei processi politici, ma nei prodotti. Come spiega Brown: «[...] Gli intellettuali della scuola di Francoforte (e prima ancora Platone) hanno teorizzato l'aperta compatibilità tra scelta individuale e assoggettamento politico, descrivendo soggetti democratici capaci di accettare forme di tirannia politica e di autoritarismo proprio perché rapiti da una sfera di scelta e soddisfazione del bisogno che scambiano per libertà.» [...] E però, nonostante tutta la sua retorica antistatalista, a ben guardare il neoliberismo non è contrario allo Stato in sé (come abbiamo già ricordato a proposito degli aiuti bancari del 2008), quanto ad alcuni particolari utilizzi delle sue risorse. Nel frattempo, lo Stato forte tanto caro ai neoconservatori è stato confinato alle funzioni militari e di polizia, in diretta antitesi a uno Stato sociale accusato di minare la responsabilità morale degli individui. _______________
Letteralmente fatto a pezzi da neoliberali e neoconservatori, il concetto di Stato-balia continua nondimeno a rappresentare per il realismo capitalista un'autentica ossessione. Meglio ancora: per il realismo capitalista lo spettro dello Stato assistenziale gioca un'imprescindibile funzione libidinale: sta lì per essere biasimato proprio per i suoi fallimenti nell'accentramento del potere, [...] È il risultato di una prolungata ostilità nei confronti dello Stato-balia che - allo stesso tempo - si accompagna al rifiuto di accettare le conseguenze della marginalizzazione dello Stato nel capitalismo globale: il segno, forse, che al livello dell'inconscio politico resta impossibile accettare che non ci siano più controllori, e che la cosa più simile che abbiamo oggi a un potere decisionale sono null'altro che interessi nebulosi e incomprensibili, esercitanti a loro volta una forma di irresponsabilità aziendale-imprenditoriale. [...]
Questa forma di disconoscimento interviene in parte perché l'assenza di un vero centro nel capitalismo globale è drasticamente impensabile: nonostante le persone vengano ora interpellate in qualità di consumatori (e come Wendy Brown e altri hanno dimostrato, il governo stesso viene presentato come una specie di bene di consumo o di servizio), queste non possono ancora fare a meno di immaginarsi in qualità di cittadini (o se non altro, di pensarsi come se lo fossero). [...] L'esperienza del call center è un distillato della fenomenologia politica tardo capitalista: la noia e la frustrazione accentuate da campagne promozionali allegramente pompate; la continua ripetizione degli stessi tediosi dettagli da dare in pasto a operatori poco qualificati e male informati; l'irritazione montante ma condannata a restare impotente perché priva di un oggetto concreto, visto che - come chi si rivolge a un call center impara in fretta - nessuno sa niente e nessuno può nulla. La rabbia può tuttalpiù limitarsi allo sfogo, all'attacco a vuoto, all'aggressione nei confronti di un tuo simile, vittima anch'egli del sistema ma nei confronti del quale non è possibile alcuna comunanza solidale. E così come la rabbia non ha oggetto, non avrà nemmeno effetto. È nell'esperienza di un sistema tanto impersonale, indifferente, astratto, frammentario e senza centro, che più ci avviciniamo a guardare negli occhi tutta la stupidità artificiale del Capitale. [...]
Quello che Jameson descrive è il mortificante guscio protettivo della struttura corporate: che rasserena e ti mette al sicuro, che svuota e allontana chi sta sopra di te, che garantisce che la loro attenzione sia sempre altrove e che non ti possano sentire. [...] È qui che la struttura diventa palpabile: riesci praticamente a vederla mentre si impossessa delle persone; attraverso le loro parole, senti la struttura coi suoi deprimenti e insensibili verdetti. È per questa ragione che è un errore precipitarsi a imporre quella responsabilità etica individuale dirottata dalla struttura corporate; questa è la «tentazione etica» che, come nota Žižek, il sistema capitalista ha utilizzato per proteggersi in scia alla crisi creditizia: le colpe vengono fatte ricadere su quegli individui apparentemente patologici che «abusano del sistema», anziché sul sistema stesso. Solo che tanta elusività segue in realtà un doppio metodo: la struttura viene effettivamente invocata (e anche spesso), sia implicitamente che esplicitamente, quando c'è la possibilità che a essere puniti siano gli individui che alla struttura appartengono. Per farla breve: a un certo punto, le cause di abusi e orrori diventano improvvisamente così sistemiche, così diffuse, che nessun individuo può esserne considerato responsabile [...].
Da una parte quindi solo gli individui possono essere considerati eticamente responsabili per le proprie azioni; dall'altra le cause degli abusi e degli errori sono «di sistema». Questa impasse però non è una semplice dissimulazione: al contrario, indica precisamente cos'è che nel capitalismo viene meno. Quale organismo è in grado di regolare e controllare una struttura impersonale? Com'è possibile sanzionare una struttura corporate? _______________
La domanda concreta a questo punto è: se un ritorno al super-ego paterno (che sia il padre severo che domina in casa, o l'arroganza paternalista della vecchia televisione di Stato) non è possibile né desiderabile, come possiamo superare quel conformismo culturale monotono e moribondo partorito dal rifiuto di tutto quanto suoni come una sfida, uno stimolo, finanche un'educazione? [...] Come Burroughs, Spinoza dimostra che la condizione di assuefazione e dipendenza non è un'anomalia, ma la condizione ordinaria dell'essere umano, che viene regolarmente asservito a comportamenti reattivi e ripetitivi da immagini congelate (di se stesso e del mondo). La libertà, dice Spinoza, può essere conquistata solo nel momento in cui apprendiamo le cause reali delle nostre azioni, solo cioè quando siamo in grado di accantonare le «passioni tristi» che ci intossicano e ci ipnotizzano. Non c'è dubbio che il tardo capitalismo articoli molte delle sue imposizioni ricorrendo al fascino di un particolare tipo di «salute» [...]. Quello che ci troviamo davanti è semmai un modello riduttivo ed edonista di salute, tutto centrato sullo «stare bene» per «apparire bene». [...]
«La tv adesso non ti dice più cosa devi pensare, ma cosa devi sentire. [...] Davvero, non è tanto un sistema di orientamento morale, quanto emotivo. [...] Quello di cui la gente soffre è l'essere rinchiusi in se stessi: in un mondo plasmato sull'individualismo, ogni individuo è intrappolato nei propri sentimenti, nelle proprie fantasie, nel proprio "sé"» [Adam Curtis]. [...] Curtis se la prende con internet perché, nella sua visione, favorisce le comunità di solipsisti, reti interpassive formate da individui simili che, anziché mettere in discussione i rispettivi assunti e pregiudizi, non fanno che confermarli. Sono comunità che, piuttosto che confrontare i diversi punti di vista in uno spazio pubblico e di contesa, si trincerano in circuiti chiusi. Per Curtis, l'impatto che sui vecchi media hanno avuto internet e i suoi gruppi di pressione è disastroso: non solo perché la sua proattività reattiva permette al sistema dei media di chiamarsi ulteriormente fuori dalla funzione educativa, ma anche perché alimenta le correnti populiste sia di destra che di sinistra, nonché il diritto di «obbligare» i produttori a rifugiarsi in una programmazione mediocre e anestetizzante.
[...] Ma è anche vero che la simulazione interpassiva della partecipazione tipica dei media postmoderni e il narcisismo online di Facebook, e prima ancora di MySpace, hanno perlopiù generato contenuti ripetitivi, parassitari e conformisti. Ironicamente, il rigetto da parte del sistema mediatico di qualsiasi sospetto di paternalismo non ha prodotto alcuna cultura «dal basso» di eccitante varietà; ha solo partorito una cultura che più passa il tempo più si ritrova infantilizzata. Di contro, a trattare il pubblico in maniera adulta è proprio la cultura paternalista, se non altro perché parte dal presupposto che gli spettatori siano in grado di fare i conti con prodotti culturali complessi e intellettualmente impegnativi. Il motivo per cui focus group e sistemi di feedback capitalisti non riescono nei loro obiettivi, persino quando da lì prendono vita prodotti di immensa popolarità, è che le persone non sanno cosa vogliono; e non perché in loro il desiderio c'è già, solo che gli viene occultato (anche se spesso di questo si tratta); piuttosto, è che le forme più potenti di desiderio sono proprio quelle che bramano lo strano, l'inaspettato, il bizzarro. E questo può arrivare solo da artisti e professionisti dei media preparati a dare alle persone qualcosa di diverso da quanto già le soddisfa; insomma, da quelli che sono pronti ad assumersi un certo rischio. La super-tata marxista non sarebbe soltanto quella che stabilisce i limiti, che agisce nei nostri interessi quando noi non siamo in grado di riconoscerli, ma anche quella che questo rischio se lo assume, che scommette sullo strano e sulla nostra brama per ciò che non conosciamo. L'altra ironia è che la «società del rischio» capitalista è assai meno incline ad assumersi rischi di quanto non lo fosse la cultura del dopoguerra, così apparentemente pesante e centralizzata. [...]
L'effetto dell'instabilità strutturale permanente, della fine della visione «di lungo corso», non può che essere stagnazione e conservazione, altro che innovazione. E questo non è un paradosso. Lo suggeriva già Adam Curtis nelle osservazioni riportate sopra: i sentimenti predominanti nel tardo capitalismo sono paura e cinismo. Emozioni del genere non ispirano né ragionamenti coraggiosi né stimoli all'impresa: coltivano semmai il conformismo, il culto delle variazioni minime, l'eterna riproposizione di prodotti-copia di quelli che già hanno avuto successo. [...] Quello che serve è legare l'effetto alla sua causa strutturale. Contro l'allergia postmoderna alle grandi narrazioni dobbiamo riaffermare che, anziché trattarsi di problemi contingenti e isolati, sono tutti effetti di un'unica causa sistemica: il Capitale. Dobbiamo insomma cominciare, come se fosse la prima volta, a sviluppare strategie contro un Capitale che si presenta ontologicamente (oltre che geograficamente) ubiquo. [...]
Quello che oggi appare chiaro è che se il neoliberismo non poteva che essere realista capitalista, il realismo capitalista non ha invece alcun bisogno di essere neoliberale. Anzi: ai fini della propria salvaguardia il capitalismo potrebbe benissimo riconvertirsi al vecchio modello socialdemocratico, oppure a un autoritarismo in stile 'I figli degli uomini'. Senza un'alternativa coerente e credibile al capitalismo, il realismo capitalista continuerà a dominare l'inconscio politico-economico. [...] Siamo adesso in un panorama politico disseminato di quelli che Alex Williams ha chiamato «detriti ideologici»; è un nuovo anno zero, e c'è spazio perché emerga un nuovo anticapitalismo non più costretto dai vecchi linguaggi e dalle vecchie tradizioni. [...] Non esiste niente che sia innatamente politico: la politicizzazione richiede un agente politico che trasformi il dato-per-scontato in una messa-in-palio. Se il neoliberismo ha trionfato assorbendo i desideri della classe operaia post-sessantottesca, allora una nuova sinistra potrebbe cominciare dal lavoro su quei desideri che il neoliberismo ha generato, ma che è incapace di soddisfare. Ad esempio, la sinistra dovrebbe rivendicare la sua capacità di riuscire in quello in cui il neoliberismo ha fallito per primo: una massiccia riduzione della burocrazia. Serve una nuova battaglia sul lavoro e su chi lo controlla [...]. Resta aperta la questione se le vecchie strutture (come i sindacati) saranno in grado di coltivare una simile soggettività, o se piuttosto non avremo bisogno di organizzazioni politiche radicalmente nuove.
Mark Fisher, Realismo capitalista
0 notes
cadusimoes · 10 months
Text
Certamente o autor de Zom 100 se inspirou diretamente em Mark Fisher, não?
0 notes
autunnocaldissimo · 2 years
Text
Sto leggendo Realismo capitalista di Mark Fisher e alcune analisi sono molto interessanti anche se non del tutto nuove, però quel che sto notando è che considera il capitalismo come ideologia / periodo storico senza però considerare il liberalismo, la democrazia, il parlamentarismo ecc... parte assestante del capitalismo. Esso difatti se ne serve per mantenersi in piedi e viceversa; se si vuole abbattere il capitalismo bisogna abbattere anzitutto le istituzioni che lo sorreggono
1 note · View note
Text
The Uranium Club - Infants Under the Bulb
Né punk né post punk, mai pretenziosi ma neanche immediati, gli Uranium Club se ne fregano delle definizioni e giocano nel mezzo di queste, la poca immaginazione diventa un cifra stilistica (e ideologica). Era un po’ che aspettavo questo ritorno, ma devo dire che i quattro da Minneapolis sono riusciti a stupirmi di nuovo, più maturi ma non meno incazzati di cinque anni fa. Eccovi qualche link…
Tumblr media
View On WordPress
0 notes
biancalara · 6 months
Text
Se o Real é insuportável, qualquer realidade que formos construir terá que ser um tecido de inconsistencias.
Mark Fisher - Realismo Capitalista
6 notes · View notes
gcorvetti · 6 months
Text
Tempi bui.
Ieri sera nevicava, stamane ci sono un paio di centimetri di neve che coprono il giardino che si mischiano al verde pallido dell'erba e tutto sembra come immobile e lo sarà fino al disgelo primaverile. Ultimamente non ho scritto perché ho avuto un pò da fare, tra compleanni e abbandono della rete passo sempre meno tempo qua davanti, beh tanto è solo una perdita di tempo visto che non ho niente da fare di così importante online. Dopo aver perso quel lavoro che anche se pesante e non proprio il massimo era comunque fattibile (quello nella prima scuola) mi sono un pò come mollato, rilassato, un pò deluso forse dal fatto che mi hanno segato solo perché mi è venuta l'influenza e quindi non era proprio colpa mia, una di quelle cose che capitano ma che non ci puoi fare niente e ne subisci le conseguenze e ci resti di merda, ecco tipo così. Spock mi ha spronato a cercare di riprendere con la stampa 3D e magari farmi il negozietto online, gli ho spiegato che qua non interessano ste cose, che il formicaio che è questo paese è colmo di inquadrati tutti casa/lavoro/bar e che se non vendi roba griffata non vai da nessuna parte, perché il consumista quello vero incallito se non spende per roba che vale poco e costa tanto non è contento, per scrupolo ieri comunque ho guardato la cartella delle cose che vendevo tempo fa, deprimente pensare di aver passato settimane e creare oggetti che non interessano a nessuno, ma ci penso su tanto non ho alternative. Che posso dirvi, è l'avvicendarsi di quello che Fisher nel suo libro descrive come una cosa normale perché non si ha più una certezza lavorativa si passa da brevi periodi lavorativi a lunghi periodi di disoccupazione, questa è la flessibilità del realismo capitalista, comunque libro interessantissimo per capire le dinamiche che ci hanno portato allo stato attuale dalla fine degli anni 70 per passare dal punto chiave negli anni 80 fino ai giorni nostri dove soffriamo non solo la morsa del capitalismo ma anche del consumismo e di altre pratiche legate tra loro che ci inducono, non so se faccio parte di quella categoria, malattie mentali come depressione e ansia per appunto la precarietà della nostra vita. Fortuna che per me è normale amministrazione visto che ho sempre passato la vita a dirmi "questo è l'ultimo lavoro, poi mi butto a testa bassa sulla musica", ma aimè non è mai stato così, perché purtroppo per quelli come me non c'è spazio nel mondo fatato dell'intrattenimento per scimmie ammaestrate, a me serve gente che pensa, che riesce a stare incollata per 3 minuti ad ascoltare quello che sto facendo a comprendere che io sono la per loro e non per puro divertimento o per fare da tappeto sonoro, vi mettete le vostre playlist spotyshit tanto che vi cambia la musica è solo un sottofondo oramai. Basta alla prossima.
youtube
4 notes · View notes
sobreiromecanico · 4 months
Text
Drinking from Graveyard Wells: histórias de África, de mulheres, e da fúria de ambas
Tumblr media
Seria difícil ter começado melhor as leituras de 2024. Drinking from Graveyard Wells, de Yvette Lisa Ndlovu, é uma pequena mas riquíssima colectânea de contos que a autora publicou em várias revistas temáticas e antologias ao longo dos últimos anos, e que aqui surgem em edição revista pela University Press of Kentucky.
Ao todo, a colectânea inclui 14 contos, todos relativamente curtos, com registos que oscilam entre o realismo, um certo realismo mágico, e territórios temáticos da fantasia literária, chegando mesmo a uma ou outra aproximação ao horror. Nestas páginas encontramos girafas fantasmas, espíritos vingativos, demónios ancestrais sob o jugo do extractivismo capitalista, sereias ameaçadoras, divindades matreiras cujas bênçãos nem sempre produzem o efeito desejado. Sempre com um ponto de vista africano, ou de diáspora africana - a autora é natural do Zimbabwe e vive e estuda nos Estados Unidos. Quase sempre de um ponto de vista feminino/feminista - a única excepção talvez seja When Death Comes to Find You, a única história da colectânea que tem um protagonista masculino, partindo do princípio de que a personagem principal é Takura e não Grootsland, claro (será discutível). Na verdade, a haver um tema que liga todos estes contos, será mesmo a condição feminina, e em particular a condição das mulheres africanas - seja nas feridas que mantém das muitas guerras de independência travadas naquela região do Sul de África, seja no contraste entre os papéis que aspiram desempenhar e aqueles que é esperado que desempenhem, seja na forma como os espartilhos de normas patriarcais condicionam tanto a sua vida como a sua morte, seja nos esforços e sacrifícios que empreendem em busca de uma vida melhor (que passa com frequência com o desejo de deixarem a sua terra), seja até na relação amor-ódio que mantém com a terra natal quando dela saem em busca de uma vida melhor.
Ou sobre vingança, um tema ao qual Yvette Lisa Ndlovu regressa com frequência nestas histórias - seja contra a opressão das mulheres na vida e na morte, seja contra a exploração colonialista ou capitalista, seja contra a corrupção que grassa na sociedade. De facto, se há outro tema comum a estas histórias, a correr em paralelo à condição das mulheres, é o tema da raiva, de uma injustiça que só será corrigida pela força, jamais pelo tempo.
Não estando directamente interligados num contínuo narrativo (como acontece por exemplo em Arboreality de Rebecca Campbell), a ordem com que os contos surgem neste livro acaba por revelar uma certa continuidade, se nem sempre temática, pelo menos simbólica: expressões, noções, e ideias que um conto apresenta e explica são consideradas "matéria dada" nos contos seguintes, surgindo já sem necessidade de contextualização ou explicação. E essa organização contribui para tornar a experiência de leitura mais coesa enquanto seguimos pelas curvas e contracurvas do caminho que Yvette Lisa Ndlovu vai traçando com a sua prosa limpa, rica e evocativa, repleta de frases que perdurarão na memória.
Por norma, as colectâneas de ficção curta tendem a ser algo irregulares - histórias muito boas ao lado de experiências que nem sempre resultam muito bem. Algo que não acontece neste livro, resultado do talento e da disciplina que Ndlovu demonstra. Certo, haverá algumas histórias melhores do que outras, e cada leitor encontrará textos que lhe dirão mais ou menos - mas todos os contos efectivamente muito bons, e seleccionar os melhores revela-se um exercício algo espinhoso. Da parte que me toca, destacaria talvez Home Became a Thing With Thorns, When Death Comes to Find You, e o conto que dá o título à colectânea, Drinking from Graveyard Wells, uma história espantosa cujas imagens que Ndlovu evoca ficarão comigo durante muito tempo.
Drinking from Graveyard Wells é o terceiro livro que leio da shortlist do Prémio Ursula K. Le Guin de 2023, depois do já mencionado Arboreality e de The Spear Cuts Through Water, de Simon Jimenez. E vem confirmar a excelência absoluta desta shortlist - não venceu o prémio, mas se tivesse ganho teria sido um justíssimo vencedor. Yvette Lisa Ndlovu é uma contadora de histórias exemplar, a seguir com atenção.
-
Yvette Lisa Ndvolu (2023), Drinking From Graveyard Wells, Lexington, University Press of Kentucky.
2 notes · View notes
rideretremando · 4 months
Text
GLI SPETTRI DI MARK (FISHER) ("TUTTOLIBRI, LA STAMPA").
La mia ultima recensione del 2023 dedicata a Mark Fisher
"Diciamo una verità, come sarebbe piaciuto a Fisher che si professava dogmatista e difensore dell’esistenza “delle Verità”. L’autore di Realismo capitalista non è filosoficamente brillante e preparato come Žižek, non ha la profondità teorica di un Badiou, né la potenza di pensiero di Derrida. Nella sua opera non troverete concetti profondamente innovativi e le sue analisi rischiano sempre di scadere in una sociologia della cultura. Perché allora è importante misurarsi con gli spettri di Mark? Perché ha saputo cogliere un’esigenza strategica che i grandi nomi della filosofia del secondo Novecento non avevano visto: trovare nuove forme e nuovi spazi di scrittura teorica al contempo innovativi e popolari, secondo una logica della contaminazione di temi e stili, di cultura alta e cultura pop, rigore di pensiero e capacità di comunicazione a un vasto pubblico. Ecco la cifra dell’eredità di Fisher, del suo pensare contaminato e aperto a tutti gli spettri, del suo edificio concettuale al contempo affascinante e fatiscente, dolente e perturbate come una vecchia casa infestata ricolma di oggetti pop, vecchi cimeli politici, romanzi di Ballard sparsi ovunque e da qualche parte un vinile che suona Love Will Tear Us Apart dei Joy Division".
Regazzoni su Fisher
2 notes · View notes
notasfilosoficas · 1 year
Quote
“Yo creo que el dinero es un sirviente magnífico pero un amo tiránico”
Mark Fisher
Tumblr media
Fue un escritor, filósofo, profesor y crítico cultural británico nacido en Leicester en julio de 1968.
Adquirió notoriedad por sus publicaciones en su blog firmadas como k-punk a comienzos del siglo XXI.
Su libro más conocido es “Realismo Capitalista, no hay alternativa?” publicado en 2009.
En su juventud, Fisher estuvo influido por la prensa musical post-punk de finales de los 70.
En 1989 realizó un grado de humanidades en inglés y filosofía en la Universidad de Hull, terminando posteriormente un doctorado en Filosofía en la Universidad de Warwick en 1999.
Durante esta etapa fue miembro fundador de l colectivo Cybernetic Cultural Research Unit, afín al pensamiento politico aceleracionista y a la obra de los filósofos Sadie Plant y Nick Land considerado “el padre del aceleracionismo”.
Pensamiento
A finales del año 2000 Fisher redefinió el termino de “realismo capitalista” (utilizado mucho en Alemania para describir el arte basado en el uso de materias primas). En donde describe la sensación generalizada de que el capitalismo solo es el único camino viable en donde es imposible imaginar una alternativa coherente.
Este concepto filosófico esta influido por el concepto althusseriano de ideología (del filósofo estructuralista francés Louis Althusser) así como por las obras de Frederic Jameson y Slavoj Žižek.
En sus primeros intentos por explicar el realismo capitalista, Fisher se refiere a la aceptación de la sociedad actual de que el mundo actual no puede organizarse de otra forma. Que el capitalismo es indestructible e irreversible, pues no hay otra cosa, no hay otra posibilidad y por lo tanto no queda otra cosa a que adaptarse, y expande este concepto argumentando que es la mejor forma de describir la situación ideológica existente desde la caída de la Unión Soviética.
Para Fisher, vivimos en un mundo de individualismo obligatorio y de privatización, en donde incluso la enfermedad se ha privatizado, en donde los jovenes viven en un estado de “impotencia reflexiva”, en donde saben que las cosas van mal y que ellos no pueden hacer nada al respecto.
Fisher observa que muchos adolescentes viven en un estado en el que siempre están buscando estímulos placenteros, a la vez que consideran todas las cosas como aburridas. Han nacido y crecido en una cultura rápida, caótica y sin memoria, en donde reciben dosis digitales pre-digeridas acompañada de una incapacidad de general para concentrarse y que generan los cada dia mas frecuentes deficits de atención.
Muerte
Fisher murió en enero de 2017, se suicidó a la edad de 48 años, poco antes de la publicación de su ultimo libro “Lo raro y lo Espeluznante”. 
Su lucha contra la represión fue narrada por el propio Fisher en varios artículos en su Realismo Capitalista, en donde argumentaba “la pandemia de angustia mental que aflige nuestros tiempos no puede ser correctamente entendida, o curada, si es vista como un problema personal padecido por instrumentos dañados”.
Fuente: Wikipedia y Youtube: La travesía: Mark Fisher y su lucha contra el realismo capitalista. 
7 notes · View notes
wthljvia · 2 years
Quote
A longa e escura noite do fim da história deve ser encarada como uma enorme oportunidade. A própria generalidade opressiva do realismo capitalista significa que mesmo tênues vislumbres de possibilidades políticas e econômicas alternativas são capazes de gerar um efeito desproporcionalmente grande. O menor dos eventos pode abrir um buraco na cinzenta cortina reacionária que encurtou os horizontes de possibilidade sob o realismo capitalista. De uma situação em que nada pode acontecer, de repente tudo é possível de novo.
Mark Fisher, Realismo capitalista.
3 notes · View notes
contro-futuro · 1 year
Text
10 libri che andrebbero letti secondo me (oltre al must Realismo Capitalista di Mark Fisher, che tutte le persone nate dopo il 1990 dovrebbero leggere):
- La cronologia dell’acqua, Lidia Yuknavitch
- Insegnare a trasgredire, bell hooks
- Il libro delle mie vite, Aleksandar Hemon
- Libertà: casa, prigione, esilio, il mondo, Yassin al-Haj Saleh
- Allah 99, Hassan Blasim
- Quando abbiamo smesso di capire il mondo, Benjamin Labatut
- Non siamo rifugiati, Agus Morales
- Davanti al dolore degli altri, Susan Sontag
- Io sono un black bloc: Poesia e pratica della sovversione sociale
- Elogio della disobbedienza civile, Goffredo Fofi
4 notes · View notes
tb0zu · 2 years
Text
sulla mia cattedra: realismo capitalista di fisher, borraccia xon gli uccellini, rametto di malva regalatomi dai criaturi..... balance existenziale.....
6 notes · View notes
Text
"La ontología actual niega cualquier posibilidad de causalidad social de la enfermedad mental. La biologización química de las enfermedades mentales es, por supuesto, estrictamente proporcional a su despolitización. Considerar la enfermedad mental como un problema químico-biológico individual tiene enormes beneficios para el capitalismo. En primer lugar, refuerza el impulso del Capital hacia la individualización atomista (estás enfermo debido a la química de tu cerebro). En segundo lugar, proporciona un mercado enormemente lucrativo en el que las empresas farmacéuticas multinacionales pueden vender sus productos farmacéuticos (podemos curarte con nuestros ISRS). No hace falta decir que todas las enfermedades mentales tienen instancias neurológicas, pero esto no dice nada sobre su causa. Si es cierto, por ejemplo, que la depresión está constituida por niveles bajos de serotonina, lo que aún queda por explicar es por qué determinados individuos tienen niveles bajos de serotonina. Esto requiere una explicación social y política; y la tarea de repolitizar las enfermedades mentales es urgente si la izquierda quiere desafiar el realismo capitalista."
—Mark Fisher, Realismo Capitalista
0 notes