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lagonnadisocrate · 4 years
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In Italia, l'Istituto Nazionale Previdenza Sociale (INPS) si riferisce alle persone disabili come "invalide" o aventi "invalidità".
Questo è gravissimo e dobbiamo indignarci. L'invalidità è definita come "inattitudine al lavoro dovuta a infermità o difetto fisico o mentale" ma significa anche "mancanza di validità".
È dannoso fare riferimento ad una persona disabile come "non valida" o "invalida" perché sono le barriere imposte dalla nostra società, e non le caratteristiche della persona, a renderla relativamente o temporaneamente non in grado di lavorare o svolgere determinate funzioni.
Dobbiamo sviluppare una società inclusiva (anche) attraverso l'uso cosciente delle parole e della lingua.
Ecco una breve guida a un linguaggio inclusivo...
Da evitare: Handicappato, disabile; da usare: persone disabili.
Da evitare: afflitto da, soffre di, vittima di; da usare: ha (seguito dal tipo di disabilità).
Da evitare: confinato su una sedia a rotelle, relegato su sedia a rotelle; da usare: utente su sedia a rotelle.
Da evitare: handicappato mentale, mentalmente carente, ritardato, subnormale; da usare: con difficoltà di apprendimento.
Da evitare: paralizzato, invalido; da usare: persona con disabilità o persona disabile.
Da evitare: spastico o spastica; da usare: persona con paralisi cerebrale.
Da evitare: malato di mente, pazzo; da usare: persona con una condizione di salute mentale.
Da evitare: sordo e muto, sordomuto; da usare: sordo, persona con problemi di udito.
Da evitare: cieco; da usare: persone con disabilità visive, persone cieche, persone non vedenti e ipovedenti.
Da evitare: un epilettico, un diabetico, un depresso e così via; da usare: persona con epilessia, diabete, depressione o qualcuno con epilessia, diabete, depressione.
Da evitare: nano; da usare: qualcuno con crescita limitata o bassa statura.
https://disablog.it/linguaggio-inclusivo-parole-da-evitare-e-da-usare-quando-si-descrive-una-disabilita
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lagonnadisocrate · 4 years
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10 Novembre 2020
Riflessioni su "The Wolf of Wall Street"
di Vanessa Sauls
CINE(MA)SCHILE è la nuova rubrica cinematografica de La Gonna di Socrate, in cui esploriamo il ruolo, la riduzione, lo stravolgimento e la degradazione delle figure femminili, transgender e non-binarie sul grande schermo. Le nostre recensioni hanno lo scopo di esporre i pregiudizi, consapevoli o inconsapevoli, che scrittori, scrittrici e regist* canalizzano nei loro film.
Per coerenza, o forse per affievolire il senso di colpa da esteta e amante del cinema quale sono, ho deciso di iniziare con un film che ho visto tre o quattro volte: The Wolf of Wall Street. Dal punto di vista cinematico, The Wolf of Wall Street è un film eseguito eccellentemente e che, in tutta onestà, soddisfa al massimo i miei bisogni visivo-erotici attraverso il tempo sullo schermo di Leonardo DiCaprio, il trucco e i costumi del cast. Ma non sono qui a parlare di ciò che è ovvio. Diretto da Martin Scorsese (Taxi Driver, Goodfellas, The Departed e, aimé, il mediocre The Irishman), The Wolf of Wall Street è senz’altro una produzione con grandi aspirazioni cinematiche.
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Nonostante ciò, i miei obiettivi rimangono due. Da un lato, voglio mostrare comprensione verso chi, come me, spesso vive un conflitto nel cinema: quello tra il fascino delle immagini esteticamente piacevoli e lo spirito critico nell’analizzare contenuti misogini o altrimenti discriminatori. Dall’altro, voglio sviluppare proprio questo spirito critico ed immergermi nell’analisi di personaggi femminili inesatti e stereotipati nei film che tanto ci affascinano. Questa recensione contiene vari spoiler.
Fra il lancio dell’uomo affetto da nanismo durante la festa di Stratton Oakmont, la graduatoria delle prostitute (“blue-chip”, NASDAQ e stock dei “fogli rosa”) e l'assalto alle assistenti di volo durante il volo privato del team Stratton verso la Svizzera, The Wolf of Wall Street è un film problematico che ostenta una cruda onestà nel dipingere i “brutti e cattivi” di Wall Street: uomini che sfruttano, strumentalizzano e dominano in un mondo creato a loro misura. Al contempo, i creatori del film celano astutamente le somiglianze tra Wall Street e Hollywood in un approccio creativo tanto demonizzante quanto indulgente.
In questa recensione, mi concentro principalmente sulla rabbrividente rappresentazione femminile nel film. Il personaggio femminile con il maggior tempo sullo schermo in The Wolf of Wall Street è Naomi Belfort, interpretata dalla talentuosa Margot Robbie (I, Tonya, Mary Queen of Scots, Suicide Squad). La mia analisi del personaggio di Naomi si basa sui suoi principali interventi nel corso del film, dall’incontro con Jordan Belfort (Leonardo DiCaprio) alla memorabile scena della separazione dei due. 
Ci tengo a sottolineare che la maggior parte del film, per quanto basata sul memoir del vero Jordan Belfort, è frutto dell’immaginazione dello sceneggiatore Terence Winter. Quando scrivo “Naomi” intendo “Terence Winter decide che Naomi”, poiché ritengo fondamentale scrutinare le scelte narrative di Winter e il suo sviluppo del personaggio (così come delle altre donne nel film). Lo scopo della recensione è  quello di identificare ed analizzare le decisioni di Winter sulla riduzione dei suoi personaggi femminili. La mia speranza è di giungere a delle conclusioni universali che possano aiutare sia me che voi a comprendere meglio i ritratti di genere nel mondo del cinema.
L’incontro con Jordan (o “il passaggio di proprietà”)
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Durante una delle eccessive feste di Jordan Belfort e del suo team di Stratton Oakmont, Naomi arriva accompagnata dal suo compagno. Quando Naomi fa il suo ingresso, sentiamo la voce fuoricampo di Jordan: 
“Questa tipa me la scoperei anche se fosse mia sorella, lascerei che mi dia l'AIDS, cazzo” (libera traduzione, come le altre a seguire). 
Oltre all’affermazione insensibile e sminuente rispetto a una malattia come l’AIDS, questa frase imposta la futura relazione tra Jordan e Naomi come una basata sul sesso e sull'attrattività di quest’ultima. Quando Jordan viene introdotto a Naomi, lei osserva: 
“Non credo di essere mai stata in una casa così grande!”, riferendosi alla casa di Jordan. 
Quest’affermazione imposta l’interesse di Naomi verso Jordan come basato principalmente sulla sua ricchezza. È vero che questi interessi siano possibili nelle relazioni fra uomini e donne, ma nella vita reale ci sono molte più sfumature nelle interazioni sociali, e a mio avviso Winter dimostra poca profondità creativa nello sviluppare il dialogo in questa scena.
Nel frattempo, il compagno di Naomi (Blair Hollingsworth) e la moglie di Jordan (Teresa Petrillo) diventano simbolicamente cornut* - ma non c’e da sorprendersi: d’altronde nessun* dei due è dotat* della bellezza e del fascino aspirazionale di Jordan e Naomi (N.B. sarcasmo editoriale). Per la ciliegina sulla torta, l’amico e collega di Jordan, Donnie Azoff, si masturba pubblicamente guardando Naomi. L'aspettativa immagino sia che il pubblico rida, e tutti gli amici di Donnie ridono. Altrimenti, non riesco a comprendere lo scopo narrativo di questa sequenza masturbatoria (come nemmeno quello della “stanza della bambina” a seguire).
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Dal mio punto di vista, la scena presenta intenzionalmente il personaggio di Naomi come una donna da bramare e sessualizzare, anziché un essere umano alla pari da conoscere nel tempo. Di conseguenza, il pubblico non sviluppa un desiderio di conoscere Naomi come persona nel resto del film: ci limitiamo ad apprezzarla come oggetto.
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Il primo appuntamento (o “chi non viene è stronz*”)
Dopo una lussuosa prima cena, Jordan accompagna Naomi a casa. Lui guida, ovviamente, e lei gli è accanto, seduta e seducente. Secondo il copione, “il vestito le sta risalendo la coscia”, un dettaglio molto importante. Lo sguardo maschile (il “male gaze”) di Jordan (come quello di Winter) è forte in questa scena.
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La voce fuoricampo di Jordan ci avverte che “come probabilmente [possiamo] immaginare, le [ha] scopato pure il cervello...per undici secondi!”. Dunque, dopo un primo appuntamento colmo di tensione sessuale, Jordan raggiunge l’orgasmo e Naomi molto probabilmente no. Questo non interessa a Winter, soddisfatto che il personaggio principale, un uomo, abbia non solo scopato (come e con Naomi) ma sia anche venuto (da vero uomo, a differenza di Naomi) senza alcuna indicazione di aver usato un preservativo, come è consono nella maggior parte dei film mainstream. Questo tipo di scena glorifica il piacere e il dominio maschile a discapito delle donne che ne sono oggetto.
La bamba, la bambola e la cornuta
A vari anni luce di distanza da quella che potrebbe essere una fiaba o un romanzo harmony, Jordan e Naomi stanno tornando da una delle loro stravaganti uscite quando Teresa (la moglie di Jordan) li trova in una limousine. Jordan sta per sniffare della cocaina dal seno di Naomi: ed è qui che, ancora una volta, Naomi viene degradata ad oggetto di desiderio, di piacere e di consumo.
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D’altra parte, Teresa è più fortunata di Naomi nella sua sventura: in una sera, riesce a scoprire il vero carattere di Jordan, a liberarsene e a ridefinire il proprio valore. In questa scena, Naomi viene inquadrata come vincitrice: in fin dei conti, è lei l’attuale oggetto del desiderio di Jordan. Un ulteriore messaggio tossico per il pubblico.
“Ti ho sposato quando non avevi niente…” dice Teresa a Jordan, “ora sei una persona completamente diversa. [...] Dimmi che non la ami…”. Jordan, in un silenzio di tomba, implica di amare Naomi. Tre giorni dopo, Jordan ha già fatto richiesta di divorziare Teresa e ha organizzato il trasloco di Naomi nel proprio appartamento. Naomi, naturalmente, accetta tutto ciò come l’inizio di un rapporto sano e longevo. Ebbene, ecco la prima definizione di “amore” tra un uomo e una donna in The Wolf of Wall Street.
Il materialismo come guida a un matrimonio felice
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Le prossime scene in cui compare Naomi sono quasi esclusivamente basate su costosi regali da parte di Jordan.
La proposta di matrimonio (tratto dal copione) Jordan è in ginocchio e chiede a Naomi di sposarlo. Naomi iperventila mentre le mette l'anello al dito - un diamante da sette carati, giallo canarino su una montatura in platino.
Lo yacht di nome “Naomi” (tratto dal copione) Con Naomi bendata, Jordan la conduce alla fine di un lungo molo, yacht costosi ormeggiati ovunque.
Dopodiché, le presenta uno yacht di nome “Naomi”, per ricordarle che sarà per sempre equiparabile a un oggetto.
Oltre la luna di miele (o “la donna isterica”)
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Dopo 18 mesi, la scena si riapre con Jordan e Naomi che litigano perché lui è un pezzo di merda infedele, e intanto secondo me Teresa se la ride fuoricampo.
Con una performance formidabile sia da Margot Robbie che da Leonardo DiCaprio, quasi mi consola il fatto che Winter abbia deciso di evidenziare l'infelicità di un matrimonio basato sul materialismo e sull'infedeltà. Per la prima volta, Naomi dice qualcosa di reale e rilevante: “Credi che non sappia cosa stai combinando? Sei un padre adesso e ti comporti come un bambino!”.
Al contempo, questa realizzazione improvvisa (nel contesto della sequenza di scene proposta da Scorsese e Winter) la fa apparire come un’ingenua che ha sposato un uomo infedele senza valutare il suo carattere ed unicamente per soldi. Mentre nella scena precedente Teresa dice a Jordan che è diventato una persona completamente diversa, Naomi non ha mai avuto il beneficio del dubbio e questo ci rende difficile simpatizzare pienamente con il suo personaggio.
“Saluta Rocco e Rocco!” e gli altri 30 uomini sul set del film
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Nella scena che ritengo la più inutile dal punto di vista narrativo e la più gratuitamente degradante sia nei confronti di Naomi personaggio che di Margot Robbie attrice (lei stessa ne parla in questa intervista su Porter). Naomi e Jordan hanno litigato e si ritrovano nella stanza della loro figlia. In uno scambio provocante (e provocatorio), Naomi minaccia Jordan di astenersi dall’avere rapporti sessuali con lui.
Dopo un breve tira e molla in cui Naomi sembra averla vinta, Jordan la prende in giro e le dischiude che proprio davanti alle sue gambe aperte c'è un orsetto di peluche con dentro una telecamera di sorveglianza, che trasmette immagini alle loro guardie di sicurezza, Rocco e Rocco. Oltre a riconoscere una terrificante violazione di fiducia e violenza personale nei confronti di Naomi personaggio, mi immedesimo in Margot Robbie, pensando all’imbarazzo e al degrado che deve aver provato girando quella scena. A parole sue:
“Non si nota quando guardi il film, ma in realtà eravamo in una minuscola camera da letto con 30 membri della troupe stipati dentro. Tutti uomini. Per 17 ore ho finto di toccarmi. È stata una situazione molto strana in cui ho dovuto seppellire l'imbarazzo e l'assurdità in profondità ed impegnarmi completamente [ad essere credibile nella performance]”.
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L’idea che una donna che vanta un’autostima ed è ad agio con il proprio corpo non meriti rispetto è sbagliata. L’idea che un compagno o marito abbia il consenso implicito di una compagna o moglie nella sua esposizione allo sguardo altrui è un messaggio pericoloso. Similmente, l'uso del proprio sesso da parte di Naomi come un metodo di controllo maschile rappresenta un tipo di “privilegio” femminile a doppio taglio. La scelta di descrivere la sessualità di Naomi come sua arma principale sminuisce le vere testimonianze storico-culturali di scioperi del sesso, per lo più eseguiti da donne in protesta verso i propri limiti sociali e la propria vittimizzazione sessuale.
Il rilievo comico della scena per me fallisce.
Grazie del tentativo, Terence.
Io, mia moglie e i miei soldi, e mia moglie, l’ho già detto? Ah, ok.
Ecco a voi il copione...
Jordan si scopa Naomi. C'è un curioso thunk-thunk-thunk.
Jordan (voce fuoricampo):
Quando sono tornato a casa, ho capito che non c'era modo che zia Emma potesse contrabbandare così tanti soldi da sola. Così mi sono spremuto il cervello pensando ad un'altra persona che avesse un passaporto straniero.
Il letto è coperto di mazzette di dollari. Con ogni spinta di Jordan, un’altra mazzetta cade a terra - thunk.
Nonostante non si tratti di Naomi ed anzi, Naomi sia complice in questa scena, ci tengo molto ad aggiungere quest’immagine.
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Dal copione, introduciendo la scena:
Chantalle è completamente incastrata, una mummia ricoperta di contanti.
La prioritizzazione dell’immagine della donna sfruttata per un fine principalmente benefico a uno o più personaggi maschili è un tema ricorrente nel film. Donne e soldi, soldi sulle donne, materiale femminile, femmine materialiste.
La mamma, la pancia e il metaqualone
Nonostante tutto, Naomi continua a lasciare che Jordan le inietti il suo seme tossicodipendente. Tutto ciò sembra avere un senso nel lusso di Casa Belfort e, come previsto all’inizio del film, il matrimonio dei due è fondato principalmente sulla sicurezza economica e sul materialismo.
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A questo punto del film, di solito, ho molta ansia e mi sento a disagio. Il glamour (o la fase della luna di miele) è durato solo un po’ più a lungo della felicità della coppia.
Purtroppo finora Naomi non ha avuto opportunità di sviluppare un'identità svincolata da Jordan, dai problemi di Jordan e dai suoi soldi. E mai l’avrà. Al contrario, Naomi continuerá a fluttuare tra bomba sessuale, moglie, madre e poi di nuovo bomba sessuale, ex moglie, madre, con un pizzico di malvagità banshee che gli incel di turno attenderanno con gioia.
In alcune scene, Naomi serve quasi come una narratrice-spettatrice e mi domando il senso della sua presenza se non quello di evidenziare che “c'è una bella donna nella stanza che fa cose e vede gente”.
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Nella seconda parte del film e del copione, Naomi appare più come “Naomi Yacht” che come Naomi persona. Margot, che ti avevo detto? Mannaggia, Terence!
Quando la zia di Naomi (Emma) muore, nella seconda parte del film, a Jordan questo interessa poco. La sua preoccupazione principale è che i soldi da lui assegnati al conto corrente di lei siano svincolati al più presto. Il primo e unico lutto del film viene trattato come poco più di un inconveniente nella trama del protagonista: per l’uomo che non deve chiedere mai!
Almeno in questo modo Naomi non scoprirà mai che Jordan ha baciato sua zia Emma, senza alcuna ragione plausibile.
Il divorzio (o “l’inizio della fine come all’inizio del film”)
Dopo essersi forzata da sola ad avere un rapporto intimo con Jordan, sapendo che sarebbe stata l’ultima volta, tristemente a mo’ di auto-stupro (per mano di uno scrittore e di una troupe quasi interamente di genere maschile), Naomi ammette di voler divorziare Jordan. Lui non riesce a comprendere il perché, e la caratterizza come un’opportunista.
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A questo punto ne segue una scena orripilante, in cui Jordan colpisce Naomi con un pugno in pancia, si droga a livelli pericolosi con della cocaina (violando la sua libertà condizionale) e si mette al volante con la figlia nel sedile accanto a lui.
Questa scena rappresenta la fine della storia di Naomi e Jordan. Un finale che di per sé non glorifica il vile comportamento di Jordan né tantomeno il materialismo di Naomi. Avverto una sorta di giudizio fatalista della serie “non poteva essere altrimenti, sono persone infami e se lo meritano entrambe”. Ciononostante, dobbiamo chiederci perché uno scrittore di cinema quale Terence Winter abbia deciso di trasporre il personaggio di Naomi sul grande schermo in maniera così scarna. Sarebbe stato un affronto all’importanza del personaggio principale di Jordan creare un personaggio femminile di simile profondità caratteriale o con dialoghi più significativi? Prendiamo come esempio il personaggio di Matthew McConaughey (Mark Hanna): appare all’inizio del film per un paio di scene e, ad occhio e croce, ha interazioni più significative ed iconiche con Jordan rispetto a Naomi, che con lui è sposata per almeno 2-3 anni nel corso del film.
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La rappresentazione nei film è una scelta creativa, particolarmente in film esagerati e fantasiosi come The Wolf of Wall Street. È proprio per questo che dobbiamo esigere di più da chi ha la responsabilità di crearne i personaggi. E, in quanto pubblico, dobbiamo resistere alla tentazione di prioritizzare l’estetica ed il fascino visivo alla densità dei contenuti che consumiamo.
Non è la fine del mondo provare attrazione verso la controversia e l’eccesso, poiché sono proprio questi a rendere un film come The Wolf of Wall Street una hit da botteghino capace di incassare 392 milioni di dollari. In fin dei conti, l’arte e la finzione servono per navigare le nostre fantasie più scorrette e perverse. La cosa importante è mantenere il nostro spirito critico ed in un certo senso utilizzare questi contenuti come strumenti per esercitarci criticamente, in modo che la rappresentazione nei film evolva nel tempo e su richiesta del pubblico.
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lagonnadisocrate · 4 years
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21 Ottobre 2020
The Art of Shibari: Intervista a Lily Grey 
di Vanessa Sauls
Oggi ho il piacere di intervistare una cara amica, Lily Grey, che conosco da molti anni e che ho sempre ritenuto una ragazza - ed ora donna - all’avanguardia, curiosa, tenace e interessata alla diversità. Lily fa parte della comunità BDSM* di Roma da un po' di anni e per questo non vedevo l’ora di farle alcune domande a riguardo. 
*Per chi non lo sapesse, acronimo di Bondage and Discipline, Dominance and Submission, Sadism and Masochism.
Vanessa: Come ti sei avvicinata al BDSM e allo shibari? Quando hai sviluppato un interesse verso questa forma di espressione?
 
Lily: Sono sempre stata affascinata dalla sessualità e dalle sue sfaccettature. Mi sono fatta la mia cultura con libri, film e documentari e, quando incontravo dinamiche kinky tra i personaggi, ero molto incuriosita dallo scambio di potere e dalla relazione tra dolore e piacere. 
Ho iniziato a praticare BDSM a 18 anni, con vari partner. All'inizio non ero molto interessata alle corde, ma dopo la fine di una relazione ho deciso di partecipare alla prima edizione della Rome Bondage Week, l'unico festival internazionale di shibari in Italia. Lì mi sono trovata immersa in tre giorni di spettacoli, corsi, gente e stili completamente differenti. E mi sono innamorata. Ho iniziato piano piano, mi sono fatta legare, poi ho cominciato a frequentare i corsi, fino a che non ho iniziato a lavorare con Beatrice Red Lily come modella per corsi e spettacoli. Per quanto continui a praticare BDSM in generale, le corde adesso sono per me una cosa a parte, quotidiana, sempre diversa e con un impatto sulla mia vita molto intenso. 
V: Come è inteso e comunicato il consenso nella comunità BDSM? Quali sono alcune differenze e parallelismi che riscontri fra il sesso nella comunità BDSM e quello nella società più in generale?
 
L: La cosa che mi rattrista della società in generale è che nell'ambito della sessualità si dia quasi tutto per scontato, soprattutto la gestione del consenso. Essendo nel mondo BDSM da un po' posso dire che le possibilità sono infinite: a qualunque persona può piacere qualunque cosa, perché ognuno di noi ha un passato specifico e un'indole differente. 
Quando gioco con una persona, nella negoziazione precedente alla scena (cioè la discussione sui propri desideri e limiti) non mi verrebbe mai di dare per scontato qualcosa solo perché è vestita in un modo o perché ha una certo orientamento sessuale o è di un determinato genere. Una cosa che per qualcuno è stupida o scontata, per un altr* può essere un trauma o un trigger molto forte. Il consenso esplicito (verbale ed entusiasta) è fondamentale nel BDSM, la negoziazione (che varia a seconda della persona e della situazione) è il punto vitale di una buona esperienza. 
Nella società moderna "chiedere il permesso" rovina l'atmosfera e avere un dialogo onesto su ciò che si vuole o meno sembra inopportuno, mentre sono proprio queste conversazioni che possono insegnarci a capire noi stessi e gli altri. E a riportare questa consapevolezza negli ambiti della nostra vita esterni al sesso. 
V: Cosa consiglieresti a chi vorrebbe imparare di più sul BDSM? E a chi vorrebbe provare esperienze BDSM?
 
L: Di fare delle ricerche prima di iniziare a sperimentare. Tutti possono fare BDSM, ma non tutti lo fanno in sicurezza, soprattutto all'inizio. Consiglierei di trovare la community più vicina a voi attraverso la ricerca di conferenze, corsi ed eventi su Instagram e Facebook. Esiste anche Fetlife, dove troverete la maggior parte della community kinky mondiale. Informatevi su quello che volete fare ma soprattutto chiedete feedback sulle persone che conoscerete online o andando alle lezioni o a party e aperitivi: il marcio si può trovare ovunque, quindi chiedere informazioni ad altra gente della scena è una buona precauzione. 
V: Che “tipo di persone” sono quelle della comunità BDSM? Esistono stereotipi da smantellare?
 
L: Chiunque può avere fantasie BDSM. Sono nella scena romana da quasi 4 anni e ho incontrato gente di qualsiasi genere, orientamento sessuale, età, etnia e ceto sociale. Tutti sono i benvenuti se rispettano il consenso. Gli stereotipi purtroppo sono tantissimi: siamo abuser e malati mentali, se non si ama il dolore non si può fare BDSM, per avere una sessione si deve per forza includere il sesso nel gioco, etc. L'unico modo per capire che queste affermazioni sono false è informarsi: leggere articoli e libri, vedersi dei video a riguardo, ma anche chiedere a una persona che pratica, ascoltando senza pregiudizi. 
V: Se potessi riassumere il BDSM in una parola, verbo, aggettivo o sostantivo che sia, come lo definiresti?

L: “Conoscenza”. O “consapevolezza”. Non c'è cosa più importante del consenso nell'ambiente BDSM. Da entrambe le parti coinvolte. E questo deve essere non solo informato (come potresti accettare di fare una cosa senza avere la minima idea di cosa sia?) ma soprattutto consapevole. 
"Cosa desideri? Quali sono i tuoi limiti? Con chi sei disposto a fare cosa?" ma soprattutto "Perché tutto ciò?".
La conoscenza di se stessi è fondamentale: cosa ci piace, come ci comportiamo, come metabolizza il nostro cervello. Farci domande e riflettere sui nostri desideri e i nostri limiti spesso ci porta a toccare parti di noi che non avremmo mai pensato potessero esistere. È solo attraverso la consapevolezza di "cosa" e di "perché" che può partire un percorso di accettazione e comprensione, che influenzerà positivamente il nostro modo di comunicare, aiutandoci a capire sia noi stessi che l'altro. E che ci darà quella sensazione di libertà e adrenalina nel lasciarci andare. 
V: Hai mai raccontato la tua esperienza di shibari? Cos’è che ti attrae di più dello shibari e che tipo di esperienza rappresenta per te?
 
L: Non ho mai avuto problemi a raccontare le mie esperienze: ne ho parlato con amici, partner, e i miei genitori sono persino venuti a vedere due miei spettacoli. Quando le persone mi chiedono: "Perché ti piace lo shibari?" la mia risposta è sempre la stessa: per la comunicazione. 
Sono sadomasochista, mi piace la costrizione e tanto altro. Ma ciò che mi ha attratto da subito è il tipo di comunicazione non verbale che c'è tra le parti coinvolte. Di solito non si dialoga durante le sessioni perciò il livello di ascolto necessario è molto più attento e profondo. I piccoli gesti, le differenze nella respirazione, la tensione nel corpo... cose che nella vita di tutti i giorni sono spesso ignorate nel BDSM sono invece fondamentali, soprattutto per chi ha difficoltà a verbalizzare emozioni e problemi. Farmi legare è un'esperienza a tutto tondo, un modo per conoscere e farmi conoscere senza muri o maschere. Significa onestà, libertà ed entrare a contatto con la mia forza e la mia vulnerabilità. 
V: Hai vissuto discriminazioni dalla tua comunità, o da amici e parenti, a causa della tua partecipazione in attività legate al BDSM? Potresti parlarmene? 
L: Sono una persona molto aperta e trasparente per quanto riguarda la mia sessualità e il lavoro che faccio. Non sono poche le persone che mi hanno giudicata per le mie attività, ma quello che più mi dispiace è che molte persone che mi conoscono da anni si preoccupino per me, come se dovessi essere “salvata” dalla vita che ho. 
Sono una modella di nudo, una modella e performer di shibari e una sex worker, pratico BDSM e lo faccio apertamente. Sono consapevole di quello che faccio, studio per fare quello che faccio e per portare avanti un messaggio di informazione e normalizzazione. E mi dispiace che si portano ancora dietro il pregiudizio sul sex working e sul BDSM dove la "giovane ragazza inconsapevole" viene sfruttata e deve essere salvata. 
Anche all'interno del mondo kinky sono presenti dei pregiudizi, ma vengono portati avanti per lo più da alcune persone che fanno parte della "vecchia scuola" del BDSM, dove la mascolinità tossica purtroppo è ancora molto presente. Ma dalla mia community personale, quella di Ritual (evento fetish) e Shibari House (community di corde), ho ricevuto solo accettazione e comprensione. 
Infine, Lily mi racconta che l’ambiente scolastico non ha contribuito alla sua comprensione e gestione del “consenso”, non solo nel contesto dei rapporti sessuali ma anche nella vita di tutti i giorni. D’altro canto, la comunità BDSM l’ha aiutata ad acquisire maggiore consapevolezza del rispetto delle volontà altrui. 
Per esempio, mi spiega che nei rapporti affettivi e nelle responsabilità di cura (es. nel lavoro di babysitter), Lily presta molta attenzione al rispetto dei limiti personali. Molto spesso, invece, nell’infanzia è normalizzato ricevere contatto fisico indesiderato da parte di adult*, in forma di baci e abbracci. Queste dimostrazioni d’affetto, per quanto benevole, non prendono in considerazioni fattori come la neuro-diversità dei bambini e delle bambine, o semplicemente i limiti autodeterminati che quest* vogliono stabilire. 
Le riflessioni di Lily riguardo alla consapevolezza dei limiti propri e altrui possono aiutarci a comprendere il consenso come qualcosa che va oltre i rapporti sessuali e, specificamente, le attività BDSM. La sua esperienza di shibari e nella comunità kinky l’ha aiutata a sviluppare una maggiore consapevolezza di sé e di chi la circonda, cosa che noi tutt* dovremmo ammirare, manifestare e promuovere. 
Se avete voglia di scoprire di più su Lily Grey, il suo lavoro, lo shibari e la comunità BDSM visitate i suoi social.
Lily Grey 
Facebook: Lily Grey 
Instagram: @LGbansheetwo 
Shibari House 
www.shibari.house 
Instagram: @shibarihouse
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lagonnadisocrate · 4 years
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13 ottobre 2020
Feminist Waves & Ancient History
di Eugenia Vitello
Bambin* e adolescenti occidentali si ritrovano, fin dalle scuole primarie, a familiarizzare con la storia delle civiltà classiche, specialmente con quella di Roma: per quant* di noi sono completamente estranei i nomi di Catone o di Augusto, oppure l’eco della disfatta alle Forche Caudine o della battaglia di Zama tra Scipione e Annibale?
Tra le nozioni che si imparano sui banchi di scuola riguardo i Romani, ci sono spesso anche quelle legate alla figura femminile nella società antica. Nessun* scampa dall’imparare che il ruolo della donna romana era fortemente defilato rispetto alla sfera pubblica, alla gestione politica ed all’ambito economico e produttivo: la donna, matrona o plebea che fosse, aveva come unico scopo quello riproduttivo, era proprietà del marito e la sua unica preoccupazione era la cura della casa e dei figli.
Un mondo a parte era quello delle schiave, obbligate ad imparare ed esercitare un mestiere: ma, esattamente come accadeva per le loro controparti maschili, il mondo della servitù femminile era considerato un “universo parallelo” in cui vigevano regole di comportamento diverse e che non compromettevano quelle del mondo dei liberi. Buona parte degli autori latini parla chiarissimo a riguardo: secondo Giovenale, il più accanito sull’argomento (basti leggere la sua Satira VI, un componimento di 700 versi scritto con lo scopo di dimostrare all’amico Postumo la pericolosità della natura femminile per dissuaderlo dal prender moglie), addirittura non è decoroso per una donna libera essere istruita nelle lettere e parlare correttamente, figurarsi ottenere pubblica visibilità nella politica o acquisire abbastanza autonomia per gestire da sola le proprie rendite economiche! La donna doveva limitarsi ad eccellere nelle attività domestiche e a far mostra costante delle virtù della castità, della riservatezza e della modestia.
Fino a meno di 50-60 anni fa, questa era anche la visione che dominava nell’accademia internazionale: nei libri di storia, infatti, delle donne si parlava in termini di subordinazione e separazione rispetto alla società maschile, o, ancora più spesso, non se ne parlava affatto. L’analisi della professionalità femminile era estremamente limitata (o negata, a parte per le manifatture tessili che appartenevano tradizionalmente alla sfera muliebre della società); ad esempio, non si teneva pienamente conto dell’aumento di autonomia giuridica che le donne sposate iniziarono ad ottenere nei confronti del marito già dagli ultimi anni del periodo repubblicano. Ancora nel 1985, in un monumentale studio sugli evergeti (ovvero, i benefattori che si facevano carico di donazioni a favore dei propri concittadini allo scopo di ottenere prestigio e visibilità sociale ed avere un maggiore successo politico ed economico), Gauthier poteva trattare le benefattrici donne in sole due pagine di testo.
Le donne ed il loro ruolo pubblico erano considerate in modo parentetico rispetto ai grandi temi della storia antica, tanto che, quando ci si trovava davanti a segnali di vitalità economica e di autonomia femminile, si bollavano queste donne “aberranti” rispetto alla norma sotto l’etichetta di “honorary men” (donne a cui è concesso lo status di uomo senza interrompere lo status quo patriarcale): le donne non erano niente più che possessi degli uomini, che eventualmente e in via del tutto eccezionale i mariti potevano spingere ad atti di munificenza cittadina al solo scopo di servirsi del loro nome e della loro figura a livello pubblico, quasi come di loro alter ego.
Ma quanto era realmente accurata e completa questa ricostruzione?
Il primo ad abbattere (parzialmente e, in un certo senso, anche involontariamente) questo paradigma fu Francesco Maria de Robertis, storico del diritto romano sempre vicino alla corrente di sinistra della Democrazia Cristiana, già negli anni ’60; il romanista per primo parlò, in particolare in appendice ai suoi studi sull’organizzazione sociale del lavoro nell’antichità, dell’esistenza di due diverse società romane: quella “aulica”, ovvero quella che ci viene presentata dai testi letterari classici (che sono un prodotto, come sottolinea de Robertis, degli ambienti aristocratici e conservatori del mondo romano, legati a valori tradizionali e del tutto interessati a restituire un’immagine della società romana ad essi aderente), e quella “volgare”, della vita quotidiana della maggioranza della popolazione, che possiamo parzialmente indagare attraverso fonti di vario genere (materiali, epigrafiche, papirologiche) o anche cercando di “leggere tra le righe” dei testi letterari (per tornare al nostro amico Giovenale, ad esempio, non sarà che quei 700 versi polemici contro le donne siano stati motivati dall’indignazione che provava l’autore nel vedere sempre più donne maggiormente libere ed emancipate rispetto al passato, che egli idealizza in un costante paragone con le “mostruosità” del presente nell’intero componimento?).
Nell’analisi storica si avverte, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, la necessità di misurare la distanza tra una ricostruzione che possa essere ideologicamente orientata (come quella della maggioranza degli autori latini, che, in quanto esseri umani, non possono naturalmente essere immuni dal riportare nelle proprie opere la loro chiave di lettura personale della realtà) e quella che doveva essere stata la reale prassi quotidiana, integrando gli stimoli e le informazioni che provengono da più fonti possibili.
La prima vera svolta riguardo lo studio della figura femminile antica si ha solo nel decennio successivo, quando, a partire dagli anni ’70 e ’80, studiose come Susan Treggiari (che si focalizza sul tema soprattutto in un capitale articolo del 1979, intitolato Lower-Class Women in the Roman Economy) e Natalie Kampen (contributrice, nel 1985, in un volume non a caso intitolato Feminism and Art History: Questioning the Litany) iniziano a rendersi conto che qualcosa non torna nella ricostruzione tradizionale: prendendo le mosse dapprima dall’analisi delle fonti iconografiche ed epigrafiche, si comincia ad osservare come ci siano svariate attestazioni di donne lavoratrici le quali, quando ne hanno l’occasione (ad esempio, negli epitaffi sulle proprie tombe), non mancano di ricordare apertamente il proprio mestiere. Se prestiamo attenzione alla cronologia di questo cambiamento negli studi delle scienze dell’antichità, si nota una coincidenza interessante: la rilettura e l’apertura degli studiosi e delle studiose verso la possibilità di ricostruire nuovi spazi d’azione per la donna romana, intesa anche nella sua dimensione di lavoratrice in senso pieno, ha solo pochi anni di scarto rispetto al movimento della “seconda ondata” femminista nei paesi europei e negli Stati Uniti; e l’ipotesi che ciò non sia una coincidenza, ma che i due filoni di pensiero siano strettamente collegati (anzi, siano uno causa diretta dello sviluppo dell’altro), è più che concreta.
Ulteriori passi in avanti nell’abbattimento del paradigma tradizionale hanno avuto luogo negli ultimi tre decenni, in piena correlazione con il cosiddetto third-wave feminism. Dagli anni ’90 ad oggi, i gender studies sono approdati stabilmente nel campo degli studi sul mondo antico: se da una parte infatti si sono fatti ulteriori progressi nello studio del ruolo femminile nel mondo antico (non si parla più soltanto di donne lavoratrici, ma anche di vere e proprie “imprenditrici” e benefattrici autonome, dall’operato di gestione economica delle proprietà delle quali la figura del padre e del marito – per quanto ci è dato sapere allo stato attuale – è completamente estranea: il fenomeno è visibile soprattutto nell’ambito degli studi dell'evergetismo femminile di Riet Van Bremen e di Emily Hemelrijk, per citare due studiose tra le più note in questo settore), dall’altra la società accademica internazionale si mostra sempre più interessata alle tematiche dei gender studies, con l’istituzione di enti, progetti e comitati volti a perseguire e sostenere questo tipo di ricerche. Emblematico è il caso del Women’s Classical Committee, fondato nella ricorrenza del Giorno Internazionale della Donna del 2015 presso l’Institute of Classical Studies di Londra con il doppio scopo di promuovere la conoscenza della condizione femminile nell’antichità classica e di sostenere la crescente presenza di studiose donne nell’accademia britannica.
Ovviamente, questa nuova sensibilità non pare avere intenzione di fermarsi qui: solo il tempo e il progresso degli studi ci diranno quanti altri paradigmi ancora saremo in grado di abbattere.
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lagonnadisocrate · 4 years
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lagonnadisocrate · 4 years
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7 ottobre 2020
Al Dirigente Scolastico Al corpo docente Agli e alle studenti del Liceo Classico-Scientifico Statale “Socrate” Via Padre Reginaldo Giuliani, 15 – 00154 Roma (RM)
Siamo ex studenti del Liceo Socrate di Roma, e per questa ragione abbiamo sentito la necessità di riunirci a seguito degli eventi che recentemente hanno portato il liceo al centro di una bufera mediatica. Il nostro intento è quello di esprimere solidarietà agli e alle studenti del Socrate nella lotta contro il sessismo presente nella nostra società e, di conseguenza, anche nel contesto scolastico.
In primo luogo ci teniamo a condannare tanto l’accanimento dei media verso la docente protagonista della notizia quanto il sensazionalismo con cui l’evento è stato trattato. Tuttavia, riteniamo importante affrontare in maniera più articolata il complesso tema che l’evento scatenante ha messo in luce: la violenza di genere veicolata da una mentalità, più o meno consapevolmente, sessista.
Ricordiamo il Socrate come una scuola unica nel suo genere in virtù della sinergia tra corpo docente e studenti, e del caratteristico spirito critico di quest* ultim*. Ciononostante, ribadire che il Socrate abbia una vocazione progressista è insufficiente ad affrontare il problema evidenziato dagli e dalle studenti. Questa narrazione rischia di ignorare o delegittimare le esperienze negative che possono verificarsi in qualunque contesto. Nessun ambiente, infatti, è di per sé immune da pregiudizi e violenze.
La maggior parte di noi ha sviluppato la propria consapevolezza femminista e di genere oltre le mura del Socrate. Al liceo, non avevamo un’idea chiara di cosa fosse il femminismo, né tantomeno della sua importanza nella società contemporanea.
Anche per questo, alcune testimonianze di ex studenti che abbiamo raccolto in questi giorni sono state condivise solo oggi, portando alla luce episodi di bullismo, discriminazione di ragazze per comportamenti giudicati promiscui (slut-shaming), umiliazione del corpo e dell'aspetto fisico (body-shaming) e commenti offensivi sull'abbigliamento da parte di docenti e studenti. Al tempo, non abbiamo saputo riconoscere il contesto strutturale in cui si collocavano i singoli eventi. Questo ci differenzia dagli e dalle studenti attuali, che hanno invece saputo individuare un comportamento involontariamente sessista e reagire con consapevolezza.
Sosteniamo che la loro iniziativa vada incoraggiata anziché sminuita, prendendo atto del fatto che non si tratta di una dinamica nuova. La scuola ha un ruolo fondamentale nel determinare un esito positivo o negativo nel processo di scoperta ed espressione di sé tra i ragazzi e le ragazze, affinché possano scoprirsi ed amarsi per quello che sono.
Scriviamo questa lettera nella speranza di contribuire ad un importante dibattito che, a causa della crisi mediatica, è stato estinto prematuramente. Vorremmo cogliere questa occasione per proporre alcune riflessioni che riteniamo di valore:
- Se una persona prova disagio o impulsi sessuali davanti a parti del corpo scoperte, non può scaricare la colpa su chi le provoca tali reazioni, ma deve saperle controllare nel rispetto altrui e mettere in discussione la legittimità dei propri impulsi.
- L’ambiente scolastico deve far sì che gli e le studenti si sentano in grado di fare presente atteggiamenti discriminatori e offensivi con la consapevolezza che verranno presi seriamente in considerazione e tutelati come parte lesa, anche qualora si tratti di “micro-aggressioni”.
- Nessun comportamento all’interno dell’ambiente scolastico dovrebbe portare chi ne fa parte a sentire criticato il proprio corpo o il modo in cui esprime la propria identità.
- La critica di certe scelte di abbigliamento è spesso giustificata in riferimento al “decoro” o alla “sobrietà”. Tali termini sono tuttavia astratti, relativi e facilmente declinabili in forma coercitiva e discriminatoria. Crediamo che il presunto “decoro” non sia il vero problema, e riteniamo che venga usato come diversivo per evitare di mettere in discussione abitudini o modi di pensare più profondamente radicati. In assenza di un regolamento ufficiale a riguardo, ciò che è “decoroso” o meno non può essere deciso arbitrariamente.
- Intenzioni ed effetto prodotto non sempre coincidono: se un’affermazione viene fatta bonariamente o con fini protettivi ciò non le impedisce di trasmettere un messaggio discriminatorio o offensivo. Se questo viene fatto notare, è fondamentale ascoltare e dialogare con chi ritiene problematica l’affermazione in questione.
- Il benessere delle e degli studenti ed il rispetto verso la loro autodeterminazione ed identità dovrebbero risultare di primaria importanza a scuola.
Speriamo in una autoanalisi da parte del corpo docente ed un reale ascolto delle argomentazioni avanzate dagli e dalle studenti. Rimaniamo a loro disposizione qualora avessero bisogno di sostegno, senza voler interferire in una realtà di cui non facciamo più parte. Confidiamo che i nostri punti di vista siano ricevuti positivamente, sapendo che, come ex studenti, ci auguriamo il meglio per il futuro del Socrate.
Le ex allieve e gli ex allievi
Firme in ordine alfabetico (nome, cognome, anno di nascita):
Aggiungi la tua firma: https://forms.gle/EiNRtKVdgHnECKSf7
Arianna Aguirre, 1998 Beatrice Albè, 1995 Claudia Alfonsi, 1987 Alberto Anticoli, 1997 Andrea Arcese, 1995 Giovanni Ardizzone, 1997 Cecilia Ascenzi, 1993 Alessio Balletti, 1992 Alice Bardelli, 1997 Marta Baroni, 1989 Giulia Benedetti, 1996 Eva Bertelli, 1994 Linda Bettelli, 1997 Alessandra Bolletti, 1996 Andrea Bongiorno, 1993 Michela Boromei, 1996 Valerio Brandimarte, 1989 Luca Brigida, 1994 Corinna Calabrese, 1989 Federica Caliendo, 1990 Serena Cannavò, 1993 Dafne Capotondi, 1996 Giulia Castelli, 1993 Cecilia Catania, 1993 Chiara Cazzato, 1995 Daniela Cenni, 1994 Althea Ciminiello, 1985 Lorenzo Cioci, 1996 Sara Coccoli, 1999 Veronica Coia, 1995 Eleonora Colarieti, 1996 Lidia Conti, 1998 Marianna Coppo, 1990 Niccolò Costantini, 1995 Chiara Conte, 1991 Andrea D'Albero, 1997 Lavinia D'Angeli, 1990 Diletta Della Rasa, 1974 Chiara Dorbolò, 1988 Caterina D’Ubaldi, 1998 Elena De Pasqualis, 1994 Claudia Di Carlo, 1987 Matteo Di Carlo, 1993 Livia Di Gioia, 1988 Rebecca Donati, 1995 Giulia Drummond J., 1993 Serena Fagiani, 1992 Gianna Fanelli, 1997 Valeria Fanti, 1990 Gisella Fasone, 1991 Claudia Filippi, 1974 Alexandros Fokianos, 1996 Giulia Fontana, 1994 Elisa Formigani, 1998 Sara Fossatelli, 1995 Jacopo Franceschetti, 1994 Anna Fumagalli, 1998 Bianca Fumagalli, 1996 Elena Gargaglia, 1993 Camilla Giuliano, 1997 Francesca Gravagno, 1994 Gaia Graziotti, 1994 Carola Grechi, 1992 Flavia Grimaldi, 1991 Anna Haas, 1995 Francesca Haas, 1993 Claudia Lalli, 1999 Giulia Libianchi, 1992 Lorenzo Libianchi, 1995 Silvia Losardo, 1997 Livia Lozzi, 1989 Valeria Maestri, 1996 Alessandra Marsico, 1994 Renata Martinelli, 1997 Emanuela Masella, 1995 Marta Mastrobuono, 1990 Giulia Mattei, 1994 Martina Mazza, 1999 Marta Mastrobuono, 1990 Arianna Mele, 1991 Michela Meniconi, 1998 Mariam Migahed, 1994 Nilima Mittal, 1997 Federica Moccia, 1994 Martina Monaldi, 1989 Diana Musacchio, 1997 Ilaria Musci, 1996 Francesca Nardi, 1997 Elisa Nardini, 1988 Alice Nosiglia, 1996 Giulia Padolecchia, 1998 Thomas Palozzi, 1996 Giulia Panfili, 1989 Maria Cristina Parenti, 1996 Alessia Pasotto, 1998 Marianna Pasquali, 1994 Chiara Pastore, 1993 Bianca Paolucci, 1995 Giulia Perpignani, 1995 Valentina Perpignani, 1995 Elisa Pescitelli, 1993 Elisabetta Petrucci, 1997 Flavia Petrucci, 1994 Elena Pia, 1990 Andrea Pianalto, 1996 Valerio Picchi, 1987 Adriana Pistolese, 1996 Flavio Pistolese, 1993 Irene Proietto, 1996 Cecilia Rendina, 1995 Iacopo Ricci, 1990 Susanna Romanella, 1995 Gaia Romano, 1998 Gilda Romano, 1993 Greta Romano, 1996 Filippo Sabani, 1993 Benedetta Sabene, 1995 Silvia Saccone, 1995 Francesco Saracini, 1996 Vanessa Sauls, 1994 Maria Savi, 1994 Leonardo Scarton, 1997 Tiziano Scrocca, 1985 Camilla Schettino M., 1992 Giulia Sepe, 1991 Federico Serpe, 1995 Barbara Sideri, 1990 Flavia Sidoni, 1988 Iacopo Smeriglio, 1999 Valentina Spagnoli, 1987 Alice Straffi, 1995 Isabella Tabacchi, 1998 Giulia Tancredi, 1996 Lorenzo Trasarti, 1992 Elio Trevisan, 1995 Veronica Turchetti, 1986 Marta Vannelli, 1997 Francesca Vignali, 1993 Eugenia Vitello, 1995 Marco Vitiello, 1990 Giulia Zadra, 1996 Marco Zanne, 1988 Maria Cristina Zanne, 1995 Francesca Zanni, 1994 Linda Zennaro, 1995 Alessandra Zoia, 1990
Per chi non fosse al corrente dello svolgersi degli eventi citati in questa lettera: Niente minigonna a scuola, preside del liceo Socrate: “Ancora non ho ricevuto lettera studentesse” (18 settembre 2020): https://bit.ly/30ImnQW Roma, gli studenti del Socrate alla vicepreside che vieta la minigonna: "La scuola deve eliminare la cultura sessista" (18 settembre 2020): https://bit.ly/3iCReV6 Comunicato del Dirigente Scolastico del Socrate (data ignota) : https://bit.ly/3jSHaJ7 Integrazione al comunicato del Dirigente Scolastico (19 settembre) : https://bit.ly/3jFdleB «Niente minigonne a scuola? Io, vicepreside femminista, sono stata fraintesa» (20 settembre 2020) : https://bit.ly/2GOvtnL Minigonne al liceo Socrate, parlano i docenti: “Solo strumentalizzazioni” (21 settembre 2020): https://bit.ly/3llsO47
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