[Pensieri, parole, immagini di Marco Trabucchi, giornalista, fotografo e sognatore]
Don't wanna be here? Send us removal request.
Text
Danilo Callegari: «Il mio Antartide estremo in solitaria»
L'avventuriero friulano racconta la sua ultima impresa tra i ghiacci dell'Antartide: 1300 km di solitudine e «bianco assoluto». Dove non puoi piangere - Articolo scritto su GQ febbraio 2019

Come si può definire uno che, per professione, ha scelto di misurarsi con imprese al limite dell'umano? Un temerario alla ricerca di sfide impossibili, forse. Ma il concetto di impossibile è, per Danilo Callegari, decisamente relativo. Classe '83, fin da piccolo adora la montagna, per lui grande «palestra di vita». Paracadutista dell’Esercito Italiano, ha esplorato i luoghi più inospitali del Pianeta nuotando in acque oceaniche, scalando montagne impervie in Himalaya, Ande e Caucaso, tra montagne e oceani, attraversando interi continenti in bicicletta.
Antarctica Extreme è la sua ultima avventura nel quarto continente più vasto della Terra, conclusa a gennaio 2019 e durata 3 mesi. Danilo aveva tre obiettivi: raggiungere il Polo Geografico in solitaria, scalare la montagna più alta dell'Antartide e buttarsi con il paracadute da 5000 metri metri. Una cosuccia, insomma. Con la scalata della montagna più alta del continente bianco l'avventuriero estremo ha raggiunto il quarto obiettivo del suo progetto più vasto, «7 Summits Solo Project», che prevede la scalata delle sette vette più alte dei sette continenti con missioni che uniscono all'impresa alpinistica altre discipline estreme. Dopo aver messo le bandierine in Sudamerica, Europa e Africa, mentre in Italia ci si preparava all'arrivo del nuovo anno, Danilo raggiungeva la vetta del Monte Vinson a 4.897m.

Prima di affrontare la scalata, però, il superman friulano ha trainato una slitta dal peso di circa 130 kg per svariate centinaia di chilometri fino quasi a raggiungere l'85° sud affrontando raffiche di venti cabatici, temperature glaciali a meno 40° e lunghissime giornate di white out (il bianco assoluto). Senza scambiare due chiacchiere con nessuno, senza una pacca sulla spalla né una parola di conforto. Una follia? Ce lo racconta lui stesso.
Danilo, cosa è successo in Antartide? «Oltre alla scalata e il lancio in paracadute, l'obiettivo era quello di raggiungere il Polo Sud Geografico. Sono entrato in Antartide nella coda dell'inverno e durante le prime 3 settimane ho affrontato un freddo intenso, con temperature che oscillavano tra i 40 e 50° sotto zero e un vento che passava dai 30 e 50 nodi, ma fortunatamente a favore. In queste condizioni riuscivo a fare 25 km al giorno, trainando la slitta 12-13 ore al giorno. Purtroppo dopo le condizioni sono cambiate, in peggio. C'è stato un rialzo termico anomalo che ha alzato le temperature di 15 gradi, con un vento contrario ma leggero. Fin qui tutto bene, ero felice perché il freddo non era così intenso e il vento, seppur contro, era debole. Purtroppo, però, non ho fatto i conti con le neve. Dopo qualche giorno ha cominciato a nevicare forte e mi sono trovato a trainare la slitta con 30-40 centimetri di neve fresca, che in Antartide pensavo non esistesse. Era come tirare un aratro con la neve che arrivava al ginocchio».

Un imprevisto che le ha fatto cambiare i piani? «Purtroppo sì. Ho dovuto fare i conti con questo cambiamento climatico inaspettato, anomalo. Mai accaduto lì, come mi hanno poi confermato in base. In molti, tra quelli che avevano iniziato la spedizione come me, hanno abbandonato. Per quanto mi riguarda è stato un massacro: ho perso chili perché sprecavo più energie e percorrevo la metà della distanza. Non credo di aver mai sofferto così tanto. Ho avuto paura di non farcela. Ho aspettato qualche giorno, ma non potendo più continuare in quelle condizioni ho chiesto il recupero dalla Base Americana Union Glacier, che però è avvenuto solo 15 giorni dopo, a causa del cattivo tempo. Piuttosto che rimanere fermo ho preferito proseguire la strada. Alla fine ho percorso circa 1300 km. Una volta tornato alla base Americana, e dopo avere aspettato altri 15 giorni, mi sono fatto portare al campo base del Monte Vinson che ho scalato in 4 giorni. Una volta arrivato in cima c'erano -37 gradi, nessun vento e un panorama che avevo dimenticato: cielo terso e l'orizzonte davanti. Ci sono rimasto mezz'ora per rifarmi la vista dopo tutto quel maledetto bianco».
E poi il lancio in paracadute. Il volo comporta dei rischi? «Sono tre i rischi a cui sono andato incontro. Il primo relativo alla pressione, che ai poli è diversa: a 5000 metri c'è una pressione di 1500 metri più alta rispetto a qualsiasi altro posto. Siccome l'altimetro lavora sulla pressione non sapevo come avrebbe reagito, se in volo mi avrebbe indicato una quota esatta o errata. La seconda era che con le temperature così basse non sapevo se il sistema di apertura automatico di emergenza del paracadute avrebbe funzionato. La terza incognita sembra banale: in volo non potendo indossare dei guanti molto imbottiti mi sono chiesto se le mani non avrebbero ghiacciato con il rischio di non riuscire ad aprire il paracadute. Indossavo dei guanti in Goretex non molto spessi, e per mia fortuna è andata bene. Non vedevo l'ora di arrivare a terra. Sono andato giù come un proiettile, ci ho messo più o meno 35 secondi per fare 3000 metri di dislivello ad una velocità di 250 km all'ora. Non so dirti la temperatura che ho percepito, forse un meno 80°. Diciamo che non è stato il volo più gaudente che abbia mai fatto».
Ha avuto paura durante l'impresa? «L'Antartide è brutale e inospitale e la paura è stata una costante dell'impresa. Ma è servita a tenermi vigile, ad affrontare le difficoltà. Ho provato sensazioni molto forti, ma la paura non ha mai preso il sopravvento».
Quanti esploratori ha incontrato? «Dalla base americana siamo partiti in nove tentando di arrivare al Polo Sud o fare la traversata per la via Messner, quella più corta. Colin O'Brady, l'americano è stato l'unico a farcela, gli altri hanno tutti abbandonato».
Come ha gestito la solitudine e il white out? «Anzitutto mi ha sorpreso il white out. Non sapevo esattamente cosa aspettarmi, ed è stata dura affrontare una distesa infinita di nulla. Nessun cambiamento di colore, di rilievo. Nulla di nulla all'orizzonte. La solitudine che ho vissuto in questa enorme distesa è stata totale. Aggiungi a tutto questo le condizioni climatiche estreme. Tutte quelle ore con te stesso, senza nessuna distrazione. Non sai più cosa pensare. È una condizione che rasenta la noia assoluta. In quel frangente è tutto amplificato all'estremo. È stato un casino. Oggi vedi questo, tra tre mesi ancora questo».
Mi spiega la sua giornata tipo durante la traversata? «Un po' monotona. Dopo 15 ore di cammino mi fermavo e mettevo il gps in sosta. Una volta fermo impiegavo dalle 3 alle 4 ore di preparazione per montare la tenda, sciogliere la neve per bere e per mangiare. Cenavo e dopo aver mandato qualche mail chiudevo la giornata con un sonno di 4/5 ore».
Immagino l'attrezzatura sia stata determinante? «L'attrezzatura è fondamentale, mi ha permesso di non dovermi preoccupare. Avere il controllo di uno singolo aspetto, anche il più piccolo, è vitale in condizioni così estreme. Anche una lacrima: se ghiaccia puoi creare complicazioni all'occhio, per questo l'uso della maschera Smith è stato fondamentale. E poi il baselayer Dry Heat e il secondo strato New Land, che mi hanno permesso di rimanere sempre asciutto e non congelare, anche a -50°. E poi l'orologio Breitling Emergency capace di mandare un segnale di SOS grazie al GPS mi ha permesso di farmi stare più tranquillo».
E per l'alimentazione come ha fatto? «Sportcube di Biofarma mi ha fornito colazioni e cene per tutto il periodo in Antartide, prodotti di altissima qualità in grado di garantirmi il corretto apporto calorico riducendo al minimo peso e volume. I gel Explosion mi hanno aiutato a mantenere energia e lucidità nei momenti più difficili mentre attraverso il prodotto ReStart, a fine giornata riuscivo a recuperare i sali e le energie perse durante il giorno di cammino».
Cosa le ha insegnato questa avventura? «In quelle condizioni la solitudine è stata estrema e sono stato costretto a guardarmi dentro. In quei momenti dove non avevi nulla da guardare, ho cominciato a far lavorare di più la mente e l'immaginazione. È stata come una continua meditazione, che mi ha insegnato a vivere un rapporto intimo con me stesso, diverso a quello che avevo prima. Sicuramente mi ha insegnato a vivere l'avventura estrema con una mentalità nuova, con più maturità».
0 notes
Text
Agadir, Marocco: le porte del Grande Sud
Reportage: lo sconfinato Marocco ci svela il grande sud. Articolo pubblicato su LatitudesLife

Una data rimarrà per sempre impressa nella storia di Agadir: il 29 febbraio 1960. Un giorno da dimenticare, il giorno in cui la terra ha tremato e distrutto, trasformando questa città in un cumulo di rovine. Gli abitanti se lo ricordano bene quel giorno, in cui morirono più di 12.000 persone. Dalle rovine rinasce la storia, anche quella di Agadir.
Dell’antica Agadir, di cui si incominciò a parlare nel XVI secolo, quando i portoghesi vi costruirono il fortino di Santa Cruz de Cap de Gué, non è rimasto nulla. Perse anche le testimonianze della dominazione del sultano sadiano Mohammed ech-Cheikh, che strappò la città agli europei nel 1541. Non esiste più nulla, eccezion fatta per le mura della kasba sulla sommità della collina di Cap Ghir che domina la baia.
Terra sfortunata Agadir, di ombre e luci. Ma dalla cenere si risorge e il tragico evento ebbe l’effetto di far diventare Agadir città di vacanze. Simbolo di questa trasformazione è il lungomare, che con l’ampio boulevard Mohammed V e la baia è stato trasformato in un unico grande lido in cui sono sorti alberghi, villaggi turistici, bar, ristoranti e discoteche. Una seconda giovinezza resa possibile anche dal clima mite e il mare smorzato dall'impeto dell’onda oceanica dall'ampio promontorio di Cap Ghir.
Nonostante i suoi punti di forza Agadir è solo il punto di partenza per un viaggio ben più ampio, ben più ammaliante di una lunga spiaggia, la città esaurisce in fretta le sue attrattive. Una di queste è il vasto porto dove è bene recarsi per assaporare un’autentica esperienza culinaria. Dietro il mercato del pesce baracchini grigliano senza sosta il pesce fresco appena pescato a pochi dirham. Un’altra attrattiva è il Marché Municipal, il souk cittadino dove fare incetta di souvenir marocchini e berberi.
Ma Agadir è il punto di partenza verso il grande sud, base di partenza per un viaggio verso le aride vallate dell’Anti Atlante, ai confini con il mare di sappia sahariano. Verso nord, costa atlantica. Una manciata di chilometri e si raggiunge il colorato paesino di Taghzazout. Qui si radunano surfisti da tutto il mondo, come succede a Calangute in India o a Kuta in Indonesia. In questo brullo tratto di costa atlantica c’è il famoso Anchor Point, e i siti chiamati Boiler e Killer in cui è possibile praticare il surf tutto l’anno, in particolare d’inverno, il momento migliore, perché i tiepidi venti provenienti da sud rendono il clima piacevolmente mite, sui 20 di massima da novembre a marzo. Una sosta è d’obbligo per ammirare le gesta dei surfisti che qui si radunano tutto l’anno e, perché no, provare a cavalcare l’onda con i numerosi camp, i corsi per principianti.


Taghzazout e Anchor Point
Lasciate le gesta dei surfisti alla ricerca dell’onda perfetta si veleggia verso sud, transitando per Agadir e le sue trafficate strade (scendere verso sud lungo la N1 fino a Tiznit, da qui prendere la direzione est lungo la n°104 in direzione di Assaka, per poi proseguire verso Tirhmi, per salire al Col du Kerdous, seguire per Tiffermit, Tizgui e giungere presso lo straordinario passaggio lunare che circonda Tafraoute), itinerario indispensabile per raggiungere il villaggio diTafraoute. Qualunque sia la vostra strada, lo spettacolo della natura vi rimarrà impresso nel cuore, perché a detta di molti, il percorso che collega Tiznit a Tafraoute rappresenta una della strade più spettacolari dell’intero Marocco. Tafraoute è un magico villaggio a 1000 metri di altezza, situato in una conca granitica alle pendici del Djebel el Kest (2359 m) che fa da sublime cornice a tutta la vallata, che nella parte settentrionale prende il nome di Valle degli Ammeln, il nome di un tribù che qui conta 26 villaggi posizionati in un contesto geologico dal fascino ancestrale. Una strada corre da est verso ovest lungo la Ameln Valley per una lunghezza di 11 km con deviazioni verso le kasbah e i ksour più caratteristici. Uno dei villaggi più visitati è Oumesnat, dove si trovano case caratteristiche come La Maison Traditionelle, oppure si trovano bei paesaggi presso Anameur.


I dintorni di Tafraoute Tafraoute non offre molto dal punto di vista artistico, se non il suo affascinante intreccio di case dai colori tradizionali, che vanno dal rosso al color mattone fino al giallo ocra. E’ comunque il punto dove poter trovare una sistemazione per la notte (ci sono 4 hotel discreti ed un campeggio) e trovare qualche ristorante dove mangiare qualche piatto tipico della cucina berbera.Tra le escursioni consigliate intorno a Tafraoute da non perdere è quella che conduce a sud della città presso il villaggio di Agard Oudad, sito delle celebri “rocce dipinte” opera di Jean Verane artista belga che ha spalmato 18 tonnellate di vernice, sulla falsa riga del deserto blu del Sinai, sempre sua opera. Per chi vuole poi avventurarsi tra rocce e villaggi remoti può compiere un’escursione in fuoristrada lungo le gole intorno Tizerkine e Temguilcht tra i paesaggi più spettacolari del sud del Marocco.
Lasciate alle spalle le pendici e i paesaggi lunari di Tafraoute si torna sul mare, questa volta verso il villaggio berbero di Mirleft, perfetto avamposto per scoprire le bellezze dei dintorni. Qui il turismo è ancora placido, scandito per lo più dai surfisti e da giovani in cerca del Marocco più autentico. Proprio a una manciata di chilometri, tra Mirleft e Sidi Ifni, si può visitare la maestosa spiaggia di Legzira (o El Gzila): 8 chilometri di sabbia, stretta tra l’acqua e le alte pareti rocciose e chiusa da due enorme archi scavati nella pietra rossa, sculture maestose che lambiscono l’oceano, incorniciando un paesaggio impossibile da dimenticare.




Tra Mirleft e Sidi Ifni la maestosa spiaggia di Legzira (o El Gzila)
0 notes
Text
Cosa è Sognatori & Avventurieri?
Ci sono momenti nella vita in cui sogni di fare qualcosa di speciale, di grandioso, che superi le barriere mentali e fisiche in cui siamo, a volte, ingabbiati. Gli avventurieri sono coloro che coltivano un sogno e lo fanno diventare realtà, a qualunque costo, piccolo o grande che sia. Con la fiducia e la consapevolezza che dopo un sogno realizzato, ce ne sarà un altro da realizzare, e così ancora, fino alla fine. Ve li racconto in questo blog che raccoglie interviste di uomini e donne speciali. Ma anche consigli e spunti di viaggi avventurosi e tutto quello che può esservi d’ispirazione per le vostre piccole, grandi avventure.
1 note
·
View note
Text
Intervista a Paola Gianotti: ultracycler, Ciclista e Guinness World Record

“Ancora adesso mi interrogo sulla molla che mi ha spinto a cambiare vita. A volte, le cose più belle partono da gesti folli”
Ma chi l'ha detto che le donne sono meno forti degli uomini? In sella alla sua bici Paola Gianotti non teme rivali. Tenace avventuriera, ha fatto il giro del mondo su 2 ruote (battendo il record mondiale), ha partecipato alla gara più estenuante del Pianeta e, ultima, ha percorso 40 Stati in USA, battendo un altro record. La storia di una donna che si è inventata un mestiere seguendo la sua passione. È piccola, tanto che in molti la chiamano «scricciola». Ma la statura di Paola Gianotti, classe ‘81, si dovrebbe misurare in chilometri. Nel 2014 ne ha fatti 29.430, attraversando 25 paesi, in 144 giorni: la donna più veloce del Pianeta ad aver fatto il giro del mondo in bici. Nel 2015 in Russia ha percorso i 9.200 km della Red Bull Trans-Siberian Extreme, una gara di ciclismo a tappe tra le più dure del mondo.
Nel 2016 la pedalata da Milano a Oslo per la candidatura della bicicletta come premio Nobel alla pace e, ultimo, il progetto «48 Stati-48 giorni-48 bici», nuovo Guinness World Record. Partita dallo Stato di Washington all’estremo nord-ovest, è arrivata nel Maine a nord-est; 11540 chilometri in 560 ore, il tutto per una giusta causa: regalare biciclette a donne dell'Uganda con una campagna fondi raccolta sul suo sito Keepbrave. Dovevano essere 48 (una per ogni Stato), sono diventate 73.
Nel frattempo però si diverte. «Non solo. La mia ultima impresa, 48 bici in 48 Stati, non è stata solo un record sportivo, ma anche un’impresa di solidarietà. Durante la traversata sul mio sito ho raccolto fondi per acquistare 70 biciclette che - tramite Africa Mission - verranno donate ad altrettante donne del Karamoja, una regione dell'Uganda particolarmente povera dove solo il 6% delle popolazione è alfabetizzata. In questo modo non diamo soltanto un mezzo di trasporto, ma una possibilità di emancipazione economica».

Le donne sono meno avvezze all'avventura, almeno così siamo stati abituati. Si sente giudicata in quanto donna? «Nel mio caso trovo che ci sia molta ammirazione per quello che faccio, sopratutto da parte delle donne. Forse c'è più empatia. Invece con i maschi c'è competizione». Le donne sono davvero ancora meno forti fisicamente degli uomini? «A livello fisico sul ciclismo la differenza è nella potenza. In altri sport le differenze si stanno assottigliando. Mi viene in mente il nuoto. Secondo me la donna ha più resistenza mentale e una soglia del dolore più alta. Spesso riusciamo a fare le stesse cose che fanno gli uomini, e a farle meglio».
Quando le dicono che «hai le palle» che reazione ha? «Sicuramente è una affermazione che mi fa piacere, perché tutto quello che faccio lo faccio con sacrificio e determinazione. Anche se mi dicono che sono una “scricciola”».

Quanto si allena Paola al giorno? «Prima delle preparazione a un record, dalle 2 alle 4 ore al giorno, più 2 volte a settimana dalle 5 alle 7 ore. Fondo, potenza, resistenza, accompagnati da sezioni in palestra. Durante gli “scarichi” faccio solo delle passeggiate in bici. E comunque non sto mai ferma».
Il suo lavoro sembra un po una vacanza… «in realtà dietro ogni mia impresa c'è un lavoro lunghissimo. 7 giorni su 7 li faccio a programmare, pensare alle tattiche e allenarmi. Mi sono inventata un lavoro molto bello, ma che impegna molto di più di un lavoro normale».
Adesso guadagna anche qualcosa? «Per quanto riguarda le imprese sportive, quelle non sono un guadagno. Diciamo che sono un investimento. I guadagni arrivano dagli eventi ai quali partecipo in qualità di testimonial e poi dai corsi motivazionali».

Quale altra folle avventura sta preparando? «Non ci ancora pensato. Le idee mi vengono da sole. Mi piace guardare il mappamondo e fantasticare, ma per il momento non ho deciso nulla. Ho capito però che non voglio più fare record fini a se stessi. Si accumulano uno all'altro, ma non cambiano la vita a nessuno. Mi piacerebbe molto sviluppare l'aspetto umanitario delle mie imprese, come ho fatto nell'ultima. Nel futuro per esempio mi piacerebbe impegnarmi per sensibilizzare sulla necessità di avere più piste ciclabili, magari portare al governo una proposta in tal senso, sensibilizzare sul rispetto delle regole». Come si vede tra 10 anni? «Mi vedo con 3 bimbi e con altre avventure nel cassetto. Non penso di smettere neanche quando sarò mamma».
0 notes
Text
Elisabet Spina: un’allenatrice al Milan
L’intervista alla prima allenatrice professionista di calcio in forze al Milan (articolo uscito su VanityFair.it)

Erano gli anni '60 quando Rita Pavone cantava ��La domenica mi lasci sempre sola per andare a vedere la partita». Oggi qualcosa è cambiato. Donne appassionate di calcio ormai sono normalità e il calcio femminile è in ascesa (meno male). E poi ci sono le donne che allenano uomini. In Italia Carolina Morace fu l'antesignana con la Viterbese in C1, ma durò pochissimo (due giornate). L'altra si chiama Elisabet Spina, ex giocatrice professionista, allena ragazzi e bambini e sogna la serie A. E se le vie del pallone sono infinite, chissà. Nel frattempo questa ragazza toscana, per metà svedese da parte di mamma, si gode un bel primato: è la prima allenatrice professionista di calcio abilitata con il massimo dei voti al corso Uefa A, che dà il patentino per guidare le giovanili e le prime squadre fino alla Lega Pro e tecnici in seconda nel campionato di A e B.
Una piccola impresa rivoluzionaria in un ambiente dove gli stereotipi di genere sono fortissimi. Ma se è vero che le rivoluzioni si combattono dall'interno, Elisabet ha tutte le carte in regola per superarli, questi stereotipi. Nel frattempo è responsabile del Centro giovanile Milan di Capezzano (Lucca), il vivaio dove la società rossonera pesca talenti in Toscana, guarda le partite la domenica con il papà viola e sogna di diventare come Guardiola.

Come è nata la passione per il calcio? «È innata. Da piccola giocavo sempre con la palla. Anche mio fratello, che ha fatto il calciatore professionista, ha iniziato perché ha cominciato a giocare con me. Poi la famiglia mi ha sempre incoraggiato. Sono di madre svedese e lì il calcio femminile è una cosa normale, anzi molto diffusa. Per esempio, si pratica il calcio all'intero delle scuole. Da giocatrice professionista ho vinto una Coppa Italia, ho partecipato a un Europeo nell’Under 18 del c.t. Carolina Morace, poi mi sono rotta il crociato e carriera finita».
Così ha deciso di mettersi ad allenare? «È stato un percorso naturale partito dai miei studi. Prima la laurea in Scienza Motorie, poi la magistrale in Scienza e Tecnica dello Sport. La voglia di crescere mi ha portato ad iscrivermi al corso di Coverciano per allenatori. Allenare non è una vocazione. È una sfida. Per una donna che gioca a calcio il sogno è incidere: non ci sono riuscita da atleta, ci provo da tecnico».

La lusinga essere tra le prime in un mondo di uomini? «Il paragone con gli uomini non mi interessa. Al corso allenatori sono stata accolta bene da un ambiente pronto a ricredersi sulle donne nel calcio. Il pregiudizio culturale fa parte del bagaglio degli italiani: la mia più grande soddisfazione è far cambiare idea ai maschi. Poi io mi ritengo fortunata ad aver trovato un ambiente che mi ha permesso di esprimermi al meglio, in una società legata al Milan. Gagliani, per esempio, mi ha scritto una mail di congratulazioni all'inizio. Un bel gesto davvero». Avrà incontrato qualcuno che aveva pregiudizi nei suoi confronti! «È utopistico pensare che non ci siano dei pregiudizi. C'è stata però la voglia di superarli e, mia fortuna, ho trovato persone intelligenti nel ricredersi nel momento in cui ho potuto dimostrare competenze e professionalità».
Quanto ci vorrà per vedere una donna allenare in serie A o B? «Siamo lontani da quel giorno: l'ambiente non è ancora pronto. Ci sono donne, poche, inserite in staff manageriali, ma nessuna inserita in uno staff di campo. Diciamo che ancora non siamo pronti. Ma quando lo saremo io vorrò esserci».
Cosa manca al calcio femminile per crescere in Italia? «Non gli manca nulla. L'unica cosa che il calcio maschile qui da noi è da tempo molto-molto forte in termini di popolarità. In altri paesi dove c'è una tradizione minore, emerge anche la versione femminile. L’impegno e i sacrifici sono gli stessi dei calciatori maschi con la differenza che loro sono considerati professionisti e le donne no. Brescia, Fiorentina e Verona sono realtà a parte: moltissime ragazze giocano e lavorano per riuscire a mantenersi».
* L'abbiamo scelta perché è riuscita a eccellere in un ambito prettamente maschile
Una strategia per far diventare popolare il calcio femminile? «L'UEFA ha inserito nuove regole per il calcio femminile. In primis l'obbligo entro due anni per le squadre maschili di avere un'omonima squadra femminile. Credo che questo sia uno degli step più importanti per poter lavorare all'interno di una struttura professionistica. A volte le cose imposte non hanno la riuscita che dovrebbero avere, ma è già successo in Germania e Francia e l'iniziativa ha preso piede. Il calcio femminile ha delle peculiarità che rendono il gioco diverso da quello maschile, e questa differenza potrebbe rendere ancora più spettacolare: penso ai punti di forza delle donne, il contrasto e il gioco corto».
Che tipo di lavoro svolge esattamente adesso? «In quanto responsabile del centro tecnico Milan per la Toscana ho un ruolo equiparabile a un tecnico sportivo. Scendo in campo per fare la formazione allenatori per esempio. Prima allenavo allievi e pulcini e ho lavorato anche con prime squadre». È difficile farsi ascoltare dai ragazzi? «No, a volte stanno molto più attenti perché riconoscono il ruolo della figura femminile come quella di un'insegnante. I ragazzi hanno la capacità di valutare se sei bravo e competente e personalmente cerco di portare nel calcio quelle che sono le mie caratteristiche di donna, che non sono ne migliori ne peggiori, ma sicuramente diverse». Quali sono le caratteristiche di un campione secondo lei? «Io do molto importanza alle qualità umane, alla persona, al di la delle capacità calcistiche, alla voglia di sacrificarsi. Ci sono aspetti dell'educazione molto importanti: l'umiltà per esempio, e poi la voglia di fare una cosa con il massimo della passione. Spesso passa il messaggio che diventare il giocatore è una faccenda di soldi. Credo invece che le qualità umane incidano tantissimo. Poi naturalmente essere campioni è anche una questione di genetica». Le piace lavorare solo con uomini? «Sì, assolutamente. Mi piace il confronto con la figura maschile, credo che in qualche maniera si crea una forma di protezione nei confronti della donna che opera nell'ambiente e dall'altra parte si smorza la competizione tra uomini. Per me il dialogo con gli uomini è speciale: vediamo le cose da aspetti diversi e questo è una ricchezza per entrambi». Sei fidanzata con il pallone? «(RIDE) Non mi ritengo una persona estremamente legata al calcio, sono appassionata di tante cose per fortuna. Amo viaggiare per esempio e faccio fatica a racchiudere la mia vita solo nel pallone».
0 notes
Text
Downhill in Pink: Eleonora Farina
L'intervista alla campionessa europea di downhill sportiva a 360° e grande amante della montagna
Fino a qualche anno fa le donne che praticavano gli action sports erano viste come aliene in un mondo di maschi. Oggi se le cose sono cambiate è merito anche di ragazze come Eleonora Farina, che con coraggio e dedizione hanno coltivato un sogno: mettersi alla prova nello sport e nella vita.
E se vi capita di incrociarla in qualche bike park fatele spazio, perchè sicuro lei vi sorpasserà. Da ragazza carina e sorridente che è, quando indossa casco e protezioni avviene la metamorfosi: Ele si scatena e diventa la velocissima rider che abbiamo imparato a conoscere sulle piste di DH nel circuito Gravitalia e poi nell'iXS europeo.
Campionessa del downhill Italiano, a fine settembre ha messo le mani sulla prestigiosa Coppa Europa di downhill, piazzandosi al secondo posto nell'ultima tappa del circuito, quella austriaca di Leogang, e raccogliendo i punti necessari a conquistare l’ottava edizione della “iXS European Downhill Cup”. Un exploit che non è passato inosservato.
Come ti sei avvicinata al downhill e alle competizioni? Per divertimento, con un gruppo di amici che mi ha fatto conoscere questo bellissimo sport. Poi, grazie al mio carattere molto competitivo, ho voluto mettermi alla prova cominciando a fare le prime gare in categoria amatoriale.
Se senti la parola "Downhill" cosa ti viene in mente? Una bici, un trail, gli amici, tanta adrenalina e divertimento.
Prova a spiegare a qualcuno perchè la DH non è uno sport solo da uomini. La dh è uno sport per tutti! Non è solo maschile ma anche femminile. Noi ragazze, a torto, veniamo spesso sottovalutate, ma anche ci divertiamo e andiamo forte in discesa. Purtroppo la percentuale femminile è ancora molto bassa, però vedo con piacere che stiamo crescendo sempre più.
Come ti alleni e quanto? Mi alleno cercando di andare in bici più che posso, autunno e primavera vado molto con l'enduro e d'inverno cerco di andare in pump track più che posso, è un ottimo allenamento per la dh sia a livello fisico, sia per la tecnica e la confidenza che si acquisisce.
Quali altri sport pratichi e quanto sono utili nella DH? Durante la stagione invernale arrampico e vado in snowboard. L'arrampicata è molto utile anche per la dh per mantenere una buona forza esplosiva, spalle e braccia allenate, fisico tonico e coscienza dei movimenti del proprio corpo. Lo snowboard è un buon modo per staccare un po’ dalla bici e tenere allenato equilibrio e percezione.
Parlando dei tuoi successi nell'IXS European Cup, la gara che ti è piaciuta di più quest’anno quale è stata e perché? Ogni gara è bella di per se, ogni volta un'avventura diversa e sempre emozionante. Tutte le gare del circuito IXS European Cup a loro modo mi sono piaciute molto, forse quella più divertente è stata in Francia durante i Cranckworx a Les2Alpes. La pista era strana, molto polverosa, il tracciato in se non era difficile, il difficile era andare veloci e trovare il ritmo giusto. Erano iscritti anche numerosi atleti di Coppa che hanno reso la gara ancora più interessate. Ho concluso quarta alle spalle delle atlete internazionali. E' stato bello vedere come la città era piena di bikers, atleti e non, tutti riuniti per festeggiare all'insegna della bici.
Sei supportata da Mangusta Bike, ci puoi parlare di questo piccolo marchio? La Mangusta è una bici artigianale creata dalle mani di Beppe, una bici in continua evoluzione, adesso stanno testando il nuovo prototipo, un nuovo sistema che ultimato ne farà una bici molto interessante. Il Mangusta Bike Team è stato il primo che ha creduto in me e nelle mie potenzialità, prima dandomi un telaio 26 e poi un 27.5 che mi ha dato grandi soddisfazioni.
Cosa fa Ele Farina quando non corre in mtb? Gestisco una palestra d'arrampicata, una sala boulder indoor dove passo numerose ore durante la stagione invernale. Mi piace stare in montagna camminare, pedalare, sciare, arrampicare, sfruttarne il fascino per tutto l'anno.
Quando non sei alle gare, dove giri o ti alleni di solito e con chi? Questa stagione le gare sono state così tante che mi hanno lasciato poco tempo per girare nella mia zona, ma quando riesco mi piace allenarmi a Torbole, con i ragazzi di AGBA (l'associazione che gestisce i sentieri) e al Paganella Bike Park vicino a casa, ottima scuola tra radici e pezzi tecnici. Cerco sempre la compagnia di amici, in modo che l'allenamento sia anche divertimento.
Quale altra disciplina della MTB ti attrae o pratichi? Pratico anche l'enduro per allenarmi fuori stagione; nell'Alto Garda dove abito ci sono parecchi itinerari molto belli da fare, belle salite che ti portano in sentieri tecnici e divertenti, perfetti per l'allenamento.
Tre itinerari delle tue parti che ci consigli da fare in MTB? Nell'Alto Garda ci sono così tanti trail divertenti da fare che è difficile selezionarli. In DH il mio preferito è sicuramente la Val Del Diaol a Torbole, con l'enduro invece c'è l'imbarazzo della scelta, mi piace molto il versante sopra Riva del Garda la mattina illuminato dal sole, mentre nel pomeriggio le coste sopra Torbole e Nago che regalano un panorama mozzafiato al tramonto e sentieri rocciosi che mettono alla prova, consiglio il Coast Trail, molto divertente e caratteristico. Vicini a casa, nella zona di Terlago ci sono i trail della Terlago Enduro, meno rocciosi e caratterizzati da un bel sottobosco, tracciati molto divertenti che consiglio. E per chi non è mai stato al Paganella Bike Park un giro merita proprio di farcelo!
0 notes
Photo





La Magia del Cervino. Foto by Alessio “Aliosha” Zappatore, 500px
1 note
·
View note
Text
Danilo Callegari: La mia Africa (estrema)
Da ottobre l'iron-man friulano tenterà un’impresa impossibile, tra nuoto, corsa e alpinismo - pubblicato su RedBull Adventure ottobre 2015

Come si può definire uno che, per professione, ha scelto di misurarsi con imprese al limite dell'umano, sfidando se stesso in solitaria? Un temerario alla ricerca di sfide impossibili, forse. Ma il concetto di impossibile è, per Danilo Callegari, decisamente relativo.
Prendete l'impresa che lo terrà impegnato (giusto un filo) dal 2 ottobre al 21 novembre, Africa Extreme: Danilo partirà dall'isola di Zanzibar, nuotando circa 50 chilometri, fino alla costa africana della Tanzania, per poi percorrere, di corsa, 1.200 chilometri attraversando pianure, altipiani e la savana, fino a raggiungere la base del Kilimangiaro; il tutto in 27 giorni, che al netto equivale a una maratona al giorno (42 chilometri). Ma non è finita. Una volta raggiunta la base della montagna più alta d'Africa, a quota 1.600 metri, Danilo scalerà la cima a 5.895 metri con discesa dal versante opposto in completa autonomia, senza avvalersi di campi, tende e sacchi a pelo. Il tutto previsto in 24 ore.
Pazzo? Di sicuro non sprovveduto: dietro ogni impresa di questo ragazzo di 32 anni si nasconde una preparazione incredibile, sia fisica che tecnica. Oltre a una determinazione che lascia di sasso. Lo raggiungiamo al telefono prima della partenza verso l'Africa, la terza impresa dell'ambizioso progetto “7 summit solo project”, scalare le sette vette più alte dei sette continenti in solitaria. Progetto che ha visto Danilo già in Sud America nel 2011, con la scalata dell'Aconcagua dopo quattro lunghi mesi di viaggio e, nel 2012, la cima più alta d'Europa, l’Elbrus nel Caucaso. Ma con l'Africa l'asticella si alza.
Raggiungiamo Danilo per raccontarci personalmente della lucida follia che sta dietro il progetto Africa Extreme, della (enorme) preparazione, della paura per gli squali e di quella volta che è stato rapito dai contrabbandieri boliviani...

Ho letto che sei stato un paracadutista e hai fatto una missione in Iraq. Si, sono stato in missione per oltre cinque mesi nel deserto iracheno. Vivere in prima persona la cruda e triste realtà della guerra è stata un’esperienza importante che mi ha insegnato a vivere la vita in modo diverso e a vedere il mondo con occhi vigili e attenti. Un approccio che mi ha permesso di affrontare le avventure sportive in modo razionale e programmato, avendo impressa la consapevolezza che l’imponderabile e l’alea della vita sono sempre in gioco.
Scalare la cima di una montagna è solo una scusa per affrontare il viaggio... In parte. Il progetto “7 Summit” non si limita solo alla scalata in solitaria di una singola montagna in stile alpino, ma la particolarità sta che attorno a ogni montagna creo delle grandi avventure che mi portano ad attraversare laghi, foreste, deserti, eccetera. Da solo e utilizzando mezzi non motorizzati. In base al territorio studio cosa fare e quali mezzi poi scegliere: bici, kayak, parapendio, corsa, nuoto.
Facci qualche esempio... Il progetto è partito nel 2011 in Sud America. L'obiettivo era l'Aconcagua in Argentina. Sono partito da Lima, Perù, in bicicletta arrivando fino al lago Titicaca facendo 1.400 chilometri. Ho attraversato il lago in canoa facendo 200 chilometri in 15 giorni, per poi proseguire in bicicletta per altri 650 chilometri e raggiungere il più grande lago salato del mondo, il Salar de Uyuni. Sulla sua superficie, accecante e ustionante, ho percorso 100 infiniti chilometri. Per poi continuare per altri 950 chilometri di strade andine in bicicletta, fino ai bordi della zona più arida del mondo, dove per due settimane e un principio di disidratazione abbastanza grave, ho attraversato buona parte del deserto dell'Atacama. Una volta a Santiago mi sono portato fino a Mendoza e da lì è iniziata la scalata dell'Aconcagua sulla Diretta dei Polacchi. Tutto questo dopo quattro mesi e 4.500 chilometri percorsi in bicicletta e in canoa.

Per la tua prossima missione in Africa farai delle cose diverse! "Sì, il nuoto e la corsa. È la prima volta che mi misuro con il nuoto. Ho voluto alzare l'asticella della difficoltà perché il Kilimangiaro è considerato una montagna relativamente facile da scalare. Purtroppo sono dovuto rimanere all'interno di un solo Stato, la Tanzania, così da limitare i problemi burocratici. L'Africa è un continente molto complicato".
Sei l'esempio vivente che, con una buona dose di preparazione e coraggio, si può affrontare qualsiasi disciplina... Questo mio essere multidisciplinare me lo porto da quando ero nei paracadutisti. L'idea di operare nei tre ambienti – aria, acqua e terra - è quella che mi affascina tantissimo e mi dà il gas per continuare le mie avventure.
Domanda semplice ma dovuta: chi te lo fa fare? È una cosa che mi fa vivere ed è una passione che è diventata lavoro. Al mio ritorno dall'Africa svilupperò dei progetti legati alla motivazione data dagli obiettivi e poi ho in progetto di scrivere un libro. Quello che vorrei divulgare al pubblico, attraverso le mie imprese, è che se si vuole si può. Mi piace l'idea che chiunque può fare qualcosa se lo desidera veramente (e ci lavora).

È anche una questione di andare oltre, come disse qualcuno: i limiti sono solo nella tua mente? Il fatto di superare i limiti è una cosa soggettiva. Nel mio caso il fattore rischio è un aspetto fondamentale. Nel rischio io do importanza alla mia vita, nel rischio mi motivo ad andare a fondo, nel godere dell'incognita, del fare qualcosa di cui non conosco l'esito.
Come ti sei preparato all'impresa? Dopo essere tornato dall'Himalaya a febbraio dell'anno scorso, ho cominciato a fare tanto nuoto e corsa in pianura. Nel nuoto sono seguito da Marco Lorenzo Bellino, ex azzurro, che ha seguito tutta la mia preparazione. Ho iniziato con la tecnica e poi, una volta acquisita, ho lavorato sulla quantità. Tanta piscina e tanto mare.
Quando hai capito che eri pronto? Alla fine di quest'estate, quando ho terminato tre test sulle tre discipline, passati tutti positivamente. Il primo a Lignano, dove ho nuotato per 22 chilometri per 7 ore. L'altro test in Val d'Aosta, dove sono partito da Gressoney, a 1.380 metri, e in 23 ore sono salito e sceso da 4.560 metri, una punta del Monte Rosa. La terza prova a fine agosto con le 5 maratone in 5 giorni in Slovenia.
Una spedizione di questo tipo quanto può costare? Se si esclude il materiale tecnico siamo intorno ai 50.000 euro.
Una persona a cui ti ispiri? Mi ha sempre affascinato Patrick de Gayardon. Nelle sue imprese, per quanto diverse dalle mie, ha sempre cercato la perfezione. È una persona che mi ha sempre fatto sognare.
Per tutti gli aggiornamenti sul progetto potete seguire il sito ufficiale di Danilo e la sua pagina Facebook
0 notes
Text
L’equipaggiamento nell’outdoor: Columbia

Inutile girarci intorno, quando qualcuno ti regala qualcosa è sempre ben accetto, sopratutto se si tratta di abbigliamento e scarpe outdoor. In questo caso il mio ringraziamento va a Columbia che mi ha fatto provare numerosi capi, estivi e invernali. Il mio primo pensiero va alle sue giacche tecniche ideate per la pratica di sport outdoor.
Le Giacche
Le giacche per il trekking Columbia sono tutte realizzate con le tecnologia Titanium. La peculiarità è la microfibra tubolare, un tessuto che offre numerosi vantaggi, tra cui l'alta traspirabilità unita alla protezione solare (filtrano i raggi u.v.a) consentendo in maniera immediata il trasporto del vapore acqueo che si forma sulla pelle verso l'esterno. La rapidità con cui si asciugano, è circa cinque volte più veloce di un comune capo in cotone. In soldoni se fai trekking, bici o corsa in montagna sono l’ideale. Non temono la pioggia (e io ne ho presa tanta) e dopo numerosi lavaggi sono ancora lì a tenermi compagnia nei miei giretti outdoor.
Le Scarpe

Sull’importanza delle scarpe non si discute. Anzi, potendo scegliere se spendere qualche soldo in più per le scarpe o per altro materiale tecnico non avrei dubbi. Scarpe tutta la vita. Quest’estate Columbia mi ha fatto provare le Ventrailia, una scarpa da mid trekking molto leggera, ben ventilata e comoda grazie anche all'Omni-Grip, il sistema di Columbia che garantisce un ottimo grip. Il primo test è stato su un trekking per raggiungere il rifugio Ponti, ai piedi del Disgrazia, in alta val di Mello. Grip eccellente su rocce e radici, anche umide. In discesa mi hanno dato un senso di confort e sicurezza che altre scarpe, magari con suola Vibram, non mi hanno dato. Ho usato le Ventrailia anche in MTB con pedali flat. La gomma morbida è stata perfetta per aderire perfettamente ai pin dei pedali con il risultato di tenuta del piede sul pedale ottima, sopratutto in discesa. L’ottima traspirabilità, sui trail di Livigno nel periodo più caldo dell’anno, quest’estate, ha fatto il resto.
0 notes
Text
Montanus: il lato selvaggio della MTB
Due amici, due compagni di avventura, una filosofia: la bici come mezzo per scoprire la natura - Articolo scritto su RedBull.com luglio 2014

Quando penso all'essenza della mountain bike mi torna in mente il motivo che mi ha avvicinato a questa disciplina sportiva: l'esplorazione, l'entrare nella natura in punta di piedi per scoprire angoli di paesaggio inediti, scampoli di libertà e felicità.
Le stesse emozioni che mi hanno trasmesso i video e le foto di Montanus, il progetto diFrancesco D’Alessio e Giorgio Frattale, che racconta le avventure vissute da due amici nel “wild side” e condivise sui social network con i followers di tutto il mondo.
Montanus vuole riportare la Mountain Bike nella sua essenza originaria, nell'ambiente che, nel nome stesso, la distingue da altre tipologie di bici, fondendo il mondo MTB con quelloOutdoor, dove tenda e sacco a pelo sono sempre al seguito. “The Call of the Mountain” (Il Richiamo della Montagna) è il primo video di Montanus girato in Abruzzo, uscito pochi giorni fa.
Francesco e Giorgio vengono dall'esperienza di Clorophilla del 2006, film sul freeride che ha fatto il giro del mondo, tutto autoprodotto, anche nelle attrezzature (qui il trailer). Montanus arriva 8 anni dopo Clorophilla e nel frattempo molte cose sono cambiate: “i supporti di fruizione sono cambiati (Clorophilla è uscito in DVD, prodotto negli USA) e anche il nostro riding si è evoluto” ci confida Francesco nel suo ufficio a l'Aquila dall'altra parte del telefono.

In Montanus abbiamo voluto unire la bici all'esperienza adventure e outdoor. Siamo dell'Aquila e il territorio abruzzese in questo si presta molto avendo molti posti non antropizzati
Luoghi che evocano il terremoto passato, ma che a volte aprono prospettive positive: "In tanti si sono avvicinati all'outdoor e alla montagna solo dopo il terremoto” ci svela Francesco, come se quel evento avesse risvegliato una parte dell'essere che fino ad allora era stata messa da parte.
Il progetto è nato a gennaio sui social (Facebook e Instagram) e l'essenza sta tutta nella condivisione:
Sul concept ci siamo ispirati a Christopher McCandless, viaggiatore conosciuto dalle masse grazie al film “Into the Wild” che poco prima della morte scrisse “Happiness is only real when shared”. L'essenza di Montanus sta tutta in quella rivelazione
"Il progetto sta crescendo. Il prossimo step sarà la versione invernale sulla neve”. I ragazzi saranno sempre dalle parti del magnifico comprensorio del Gran Sasso e non vediamo l'ora che esca. Stay wild, stay foolish!
0 notes
Text
Paola Gianotti: il giro del mondo in bici e la Trans Siberian Extreme (unica donna)
L'intervista a Paola Gianotti, l'unica donna a partecipare all'ultra marathon in team con Paolo Aste - Stralcio di intervista pubblicata su RedBull del 6 luglio 2015

Classe 81, Paola è una recordwoman: partita da Ivrea a marzo 2014, è la prima italiana ad aver compiuto il giro del mondo in bici, seconda donna al mondo e Guinness dei primati (in fase di convalidazione). Fatiche indicibili e esperienze estreme che hanno forgiato un carattere già tosto di suo.
“Ho vissuto 29.430 km di emozioni sui pedali, quattro continenti e venticinque paesi in 144 giorni. E’ stata la più grande esperienza umana, sociale e sportiva che potessi vivere e che ha cambiato il mio modo di vedere le cose e di affrontarle” - Paola Gianotti
Quest’estate ha affrontato la prima edizione della Red Bull Trans-Siberian Extreme: l’ultra stage bicycle race che partita da Mosca il 15 luglio è terminata 9.200 km e 3 settimane dopo a Vladivostok sull’Oceano Pacifico. La stage race più lunga del pianeta. Un'impresa titanica che ha affrontato in team con Paolo Aste.
Dopo la pubblicazione del libro “Sognando l'Infinito”, parliamo con Paola del giro del mondo e delle motivazioni che l'hanno spinta a mettersi in gioco in un tipo di gara che fino a ieri era considerata ad esclusivo appannaggio degli uomini.

Quali sono state le difficoltà maggiori nel portare a termine il giro del mondo?
“Tra tutte, le condizioni climatiche, la variabile più ignota. In Asia ha piovuto 15 giorni. Nei 3 deserti le temperature andavano da 0 a + 50 gradi. Sulle Ande faceva freddissimo e non dimenticherò mai il vento contro percorrendo la pampa, pedalando a 10 km/h per tantissimi chilometri. E poi l'incidente stradale in Arizona che mi ha causato la frattura della quinta vertebra cervicale, e, 4 mesi dopo, la ripartenza nello stesso punto. Ma tutto è stato parte di un grande viaggio stupendo. Credo che l’idea di girare il mondo in bici sia una conseguenza di esperienze vissute negli anni, che mi hanno lasciato un bagaglio di emozioni, ricordi e sogni”.

Cosa ti ha spinto a partecipare alla Trans Siberian Extreme?
“La voglia di mettermi in gioco in questa nuova impresa della TSE (Trans Siberian Extreme) è la prosecuzione naturale di un percorso iniziato dalla più giovane età. L'idea che più mi ha attratto è stata quella del percorso, che non ho toccato nel mio giro del mondo. L'idea di percorrere la mitica via Trans siberiana ha esercitato un fascino enorme su di me, da sempre.
Come ti spieghi che sei l'unica donna a partecipare?
“Una endurance di ultra cycling è una gara molto impegnativa, sia a livello fisico che mentale. A differenza del giro del mondo, dove la componente determinante era soprattutto mentale, qui la componente fisica gioca un ruolo chiave e spaventa parecchio. Essere l'unica donna comunque mi inorgoglisce e mi infonde coraggio".
1 note
·
View note
Text
Volare con il parapendio e il volo d'angelo
Niente motore. Si vola librando nell'aria con la forza del vento e della gravità. Dal deltaplano al dive coaster a picchiata verticale. Ecco le esperienze a prova di pauroso - Articolo uscito su VanityFair il 25 maggio 2015
Diciamolo subito: buttarsi da un aereo con un paracadute non è da tutti. E nemmeno lanciarsi da una gru con l'elastico alla caviglia. Le esperienze estreme, per il momento, le lascio a persone più motivate (e coraggiose). Ma io volevo volare. Sì,volare. Con l'aria tra i capelli, libero come icaro, nel blu dipinto di blu. Così ho optato per il parapendio e il volo d'angelo. Entrambe esperienze di volo dolci, senza strappi o traumi particolari. Ma di grande emozione. Si perchè nel volo libero, altrimenti detto parapendio, tutto è rassicurante: la compagnia dell'istruttore in primis (si vola sempre in tandem) e il fatto che statisticamente le cadute da parapendio sono pochissime, se non lo si pratica ovviamente in condizioni atmosferiche estreme. Ma non è il nostro caso. Qualunque istruttore di buon senso si informa sempre, prima di un lancio, sulle condizioni del tempo e se è prevista pioggia o forte vento non vi vola. Categorico. La scelta del posto è fondamentale. Un bel panorama è il modo migliore per godersi il volo, tanto quanto la scelta di una scuola “certificata” che opera con istruttori qualificati. Nel mio caso ho scelto il lago di Garda (il monte Pizzocolo per l'esattezza, sopra Salò). Ma andiamo al nocciolo: il volo. L'istruttore ci rassicura subito: "Il sensore del nostro equilibrio che regola le vertigini si attiva solo quando siamo in piedi ma non da seduti”. Io non soffro di vertigini, ma saperlo è come avere un asso con una doppia coppia a poker: rassicurante. Una volta “saltati” con il parapendio non si sente minimamente il “vuoto” da caduta. Semplicemente perchè non c'è nessuna caduta. Seduti dentro l'imbrago, la sensazione è la stessa di quando, da piccoli, papà ci portava a spasso nel marsupio. Per quello che riesco a ricordare. E comunque un modo per non farsi venire vertigini e nausea un modo c'è: quello di non guardare mai in basso, ma concentrare lo sguardo sull'orizzonte. La fase di atterraggio il momento più “eccitante”. Lo metto tra virgolette perché se paragonato ad esperienze più estreme, come il paracadutismo o il bungee jumping, sembra di essere dentro una bolla d'aria che si muove lenta nell'aria. Per non parlare poi dell'atterraggio: pensa a tutto l'istruttore, basta solo alzare le gambe. Insomma: una passeggiata di salute. E di meraviglia.

Il Volo d’Angelo
Pochi giorni dopo aver provato il parapendio mi sembrava di aver raggiunto l’estasi e l'idea di attraversare una valle in volo - questo è il volo d'angelo - non mi entusiasmava. Mi sono dovuto ricredere. Una volta giunto ad Albaredo San Marco, in Valtellina, la località che offre l'esperienza “Fly Emotion” con ben due percorsi, i più lunghi d'Italia, ho percepito subito che sarebbe stato molto coinvolgente. Prima del lancio ti pesano (se sei sotto i 70 chili devi volare in tandem), ti imbragano, ti danno alcuni semplici consigli e, infine, ti legano alla carrucola che viene fissata sul cavo. Qui un po' di strizza ti viene, più per l'ansia di capire cosa sarà di te dopo lo sgancio. 3, 2, 1: via, in un secondo la paura svanisce e ti trovi ad urlare di piacere. Un minuto e mezzo di puro divertimento dove si possono raggiungere anche i 110 km orari. Finito un giro si parte per la seconda “tratta”, più lunga, più eccitante. Altro giro, altro orgasmo. In un attimo divento Superman. Non ho salvato nessuno, ma ho capito cosa provano quelli che si buttano con le tute alari giù dai dirupi. O almeno mi piace pensarlo.
0 notes
Text
La Ciclovia Alpe Adria Radweg, una delle più belle ciclabili d’Europa
Focus su una delle piste ciclabili più belle ed affascinanti d’Europa. Dall'Austria al Friuli, dalle Alpi al mare. L'ideale per chi voglia avvicinarsi per la prima volta al cicloturismo

Considerata una delle piste ciclabili più belle ed affascinanti d’Europa, l'Alpe Adria Radweg - "Pista ciclabile dell’anno” alla fiera “Fiets en Wandelbeurs” di Amsterdam - promette di percorrere in una settimana otto tappe. Da Salisburgo a Grado, dalle Alpi al mare, attraversando la valle del Salzach e la valle di Gastein fino a Böckstein. Da qui, con il treno navetta, in 11 minuti si raggiunge Mallnitz (1.191 m), e quindi di nuovo in bicicletta si attraversa la Carinzia toccando Spittal, Villach e Arnoldstein, al confine italo-austriaco. E poi, in territorio italiano, giù fino al mare Adriatico: 412 km asfaltati, che sono diventati un esempio concreto di cooperazione transfrontaliera per lo sviluppo della mobilità sostenibile.
In territorio italiano il percorso dell'Alpe Adria Radweg tocca le ultime tre tappe e si snoda in parte sul tracciato della vecchia linea ferroviaria dismessa, che da Tarvisio tocca Gemona, Udine, Aquileia e infine Grado sul mare Adriatico.
La sesta tappa dell'itinerario ciclistico, da Tarvisio - uno dei più importanti poli sciistici e località montane del Friuli Venezia Giulia - va a Venzone, antica cittadina rasa al suolo dal terremoto del 1976 e ricostruita così come era nel Medioevo, dichiarata Monumento nazionale.
Nel mentre il paesaggio si apre sulle Alpi Giulie, le sue ampie vallate e i boschi, come la Foresta di Tarvisio, con i suoi 24.000 ettari, la più grande foresta demaniale d'Italia, che comprende le riserve naturali integrali di Rio Bianco e Cucco, situate tra i 700 e i 1900 metri di altitudine, tra pareti rocciose a strapiombo e boschi di abete rosso, pino nero e larice.
Scendendo dolcemente verso Udine, la Ciclovia offre la possibilità di visitare l'Ecomuseo delle Acque del Gemonese, un'area ricchissima di ambienti umidi, che si propone di documentare e valorizzare i siti naturali (sorgenti, laghi, fiumi, torrenti), nonché rogge, canali, mulini, fontane, lavatoi e la cultura contadina e rurale della zona.
Infine, l'ultima tappa, i 59 km che separano Udine da Grado, sono un susseguirsi di scoperte sorprendenti: l'area archeologica di Aquileia è una di queste, considerata dall'Unesco Patrimonio dell'Umanità. E infine Grado, l'Isola d'oro dalle fattezze veneziane, è impreziosita da un dedalo di isolotti che formano la sua suggestiva laguna, da conoscere anche in occasione di eventi enogastronomici.
Info: http://www.alpe-adria-radweg.com/it/picturetrack/
0 notes
Text
Tirol Bike Safari, mtb epico
Il più lungo MTB tour d'Europa alla scoperta del Tirolo austriaco. Il foto-racconto - uscito su RedBull.com luglio 2014

Ad oggi molte località montane hanno capito l'importanza del potenziale turistico della Mountain bike. L'Austria in questo ha giocato un ruolo da pioniere già molti anni fa, introducendo servizi dedicati al turista come il noleggio delle MTB, i bike hotel e strutture dedicate ad agevolare il viaggio usando il treno per i collegamenti tra una località e l'altra.
Oggi con il Bike Safari il Tirolo precorre, ancora una volta, i tempi. Un lungo tour MTB a più tappe grazie al quale è possibile percorrere quasi tutto il territorio alpino del Tirolo da ovest a est, da Nauders a Walchsee, permettendo ai ciclisti di superare grandi dislivelli e ripide salite anche con l'aiuto degli impianti di risalita.
Questi consentono di alleggerire la fatica attraversando comodamente circa 12.000 metri di dislivello (su un totale di 25.000) sull'intero percorso. Il Tirol Mountain Bike Safari è lungo in tutto 660 km e percorribile in 15 tappe.

Quando mi hanno invitato a fare le prime tre tappe ero scettico: 120 chilometri totali non sono una bazzecola, specie per un non-faticatore come me, che al massimo si permette di fare 40 chilometri in una giornata per poi arrivare devastato al giorno successivo. Però, mi che mi piacciono le sfide, e accettai. E feci benone.
Stage1: Nauders - Toesens
La prima tappa con partenza da Nauders, praticamente dopo il confine italiano. Località avamposto per 80 chilometri di trail per ogni tipo di rider con l'opportunità di valicare 3 paesi usando un solo pass cumulativo. Cosa che l'anno scorso fece piacere a quelli di Mountain bike holiday che elesse questa località “Approved Bike Area”. Noleggiate le nostre bici (Scott Genius 2014), partiamo in mattinata con un nutrito gruppo subito verso il valico italiano, dopo aver preso la cabinovia Bergkastelbahn che porta a quota 2200 m. Vicino Plamort Plataeu la sorpresa: esiste ancora il confine italo-austriaco e la no-mens land che include anche un bunker e spuntoni anti-carro risalenti alla prima guerra mondiale. Qui la storia parla ancora di guerre e di confini invalicabili. Oggi tutto ciò appare obsoleto, ma non dimentichiamo che le frontiere erano presidiate fino agli anni 60. Oltrepassato il confine si giunge allo Reschenpass (Passo Resia) (2298m), il punto panoramico sopra l'omonimo lago in territorio italiano. Davvero suggestivo. Immancabile foto sopra lo sperone (foto sopra) e giù, ancora in sella fino a valle dove scorre il fiume Inn, attraversando single track di rara bellezza. Dopo una comoda pista ciclabile e un passaggio alla fortezza svizzera Finstermünz, già punto di passaggio della via romana Claudia Augusta, arriviamo a Toesens, sfiniti ma felici. In totale totalizziamo 44 chilometri e 1500 metri di dislivello, 800 senza impianti di risalita. Dopo cena crollo a letto con la cartina in mano studiando il percorso di domani: mi aspettano 50 km, ma ormai sono rodato. Forse!

Stage 2: Toesens – Landeck
Si comincia a bomba: verso il punto più alto del Bike Safari, 2385 metri. Da programma è richiesto “un buon livello di allenamento” per effettuare la lunga salita in modo profittevole (leggi, senza che vi scoppino le coronarie). La salita è tosta, ma non impossibile, e una volta in cima la vista che si staglia ripaga di tutte le fatiche (e non è una frase fatta). Dopo la grande cronoscalata è la volta del divertimento puro: 1500 metri di downhill fino a Fiss, dove ci aspetta una birretta e una sosta al Bikepark Serfaus-Fiss-Ladis per provare l'adrenalina della DH. Bello il bike park, curato e divertente con una pump track e un tracciato slopestyle. Riconsegnate le nostre Kona, dopo aver provato il percorso blu e rosso (quest'ultimo un vero sballo), si inforca la nostra enduro bike fino a Fliess, attrversando l'Inn, dove imbocchiamo la gloriosa via Claudia Augusta, già incontrata il giorno prima. Qui un tempo passavano soldati, viandanti e carretti. Si partiva da Augusta, Germania, così fino Venezia. Oggi è parte dellaTransalp, altra impresa famosa dai biker teutonici. La imbocchiamo fino a Landeck, famosa località turistica, città principale del Tirolo dell'Ovest, dove finiamo (esausti) la tappa totalizzando 48 km e 1200 metri di dislivello totali (2000 con la funivia). In questa città il ciclismo è una religione e non stupisce socializzare con biker che arrivano dalla Svizzera e dalla Germania. Un paio di birre, una cena deliziosa (perchè qui si mangia bene, è bene ricordarlo) e poi nanna presto, domani c'è l'ultima tappa.

Stage 3 – Landeck – Imst
A questo giro nessun supporto di impianti di risalita. Dal paese che prende il nome dal fiume si comincia a rampegare su un'asfaltata che si conduce a Zams. La strada sembra dolce, ma è solo un'illusione, una salita costante e faticosa che mette a dura prova la nostra buona volontà. Considerando che è il terzo giorno ci lasciamo andare a considerazioni azzardate: "si sente meno la fatica e le gambe spingono di più". Sarà, ma la salita è sempre killer e servirebbe un altro killer per farla fuori. Alla fine si contano 34 km con 1400 m di dislivello. Una tappa moderata con tanta salita e discese mai estreme (se non scegliate le varianti single track). Visto il livello ormai diventato “expert” del nostro gruppo si decide però di fare una pezzo dello stage 4, salendo con la seggiovia di Hochimst, nell'omonima località turistica, per poi scendere dalla Untermarkter Alm giù fino a Imst su single track veloci ma insidiosi a causa delle pietraie. Finiamo indenni con un meritato bagno nel laghetto diLinserhof. Il giorno dopo si torna in patria. Penso all'esperienza, al fatto che in MTB si possono percorrere centinaia di chilometri agevolmente e che vorrei continuare il viaggio fino alla fine.

Quanto costa Impianti di risalita. Secondo le esigenze, si possono utilizzare carnet da un minimo di 2 salite per Euro 18 a un massimo di 17 salite per Euro 153. Le info qui.
La bici Apprezziamo la Scott Genius 2014 27,5, montata top con il collaudato sistema Twin-Loc che permette di bloccare le sospensioni, aprirle o tenerle in posizione intermedia. Noleggiata a Nauders presso il Bikesport Hutter (prezzo: 33€ al giorno, 7 giorni 198€). Peccato mancasse il reggisella telescopico che in all-mountain di tal caratura non dovrebbe mancare.
Testo e foto di Marco Trabucchi
0 notes
Text
Alpinismo: Tamara Lunger, gli 8 mila in rosa
L'anno scorso ha raggiunto la vetta del K2, seconda donna italiana nella storia dell’alpinismo. Ma Tamara non si ferma mai. L'intervista su VanityFair.it uscita il 7 aprile 2015

Più che un'alpinista - con l'apostrofo, mi raccomando - ama definirsi «Heidi». Perché la montagna, lei, la ama davvero. Ci va fin da piccola con il babbo, che l'ha iniziata allo sci d'alpinismo, ma da un po' Tamara Lunger, altoatesina, classe 86, si è data l'obbiettivo di diventare una grande alpinista, in un mondo che per definizione è piuttosto maschile. E ci è riuscita. L'anno scorso l'impresa: ha conquistato la vetta del K2 senza ossigeno e senza assistenza, seconda donna italiana nella storia. Poi, dopo avere salito il K2, ha corso una gara di sky running di 14 km di dislivello e nei giorni scorsi ha ritentato la scalata del Manaslu, sull'Himalaya, insieme aSimone Moro (putroppo, però, sono stati bloccati dalla neve). Noi la abbiamo raggiunta a Kathmandu per farci raccontare il suo amore per la montagna e la sua proverbiale irrequietezza.
Ha iniziato da adolescente con lo sci alpinismo, seguendo suo padre. Che ricordi ha? «Ricordo la mia prima uscita con gli sci, che abbiamo fatto sul Corno Nero in Val d’Ega. Erano 600 metri di dislivello e salendo stavo ancora bene, ma nella discesa ho fatto una caduta dopo l’altra e mio papà mi ha spiegato che basta saltare nelle curve».
Come si è avvicinata all’alpinismo? «Nel 2003 lessi un articolo che raccontava la salita sull’Everest di Manuela Di Centa: ci pensai e decisi che un giorno lo avrei fatto anche io. Due anni dopo conobbi Simone Moro, mi promise che mi ci avrebbe portata. Poi nel 2009, senza avermi visto neanche una volta in azione, Simone mi portò con sé in spedizione (prevista al Cho Oyu, poi finita al Islandpeak). Con questa spedizione mi sono innamorata dell’alta montagna e ho cominciato ad organizzarmi per realizzare i miei sogni personali».
Cosa fa quando non scala una montagna? «Poiché voglio essere un’atleta e non solo la Tamara che va volentieri in montagna, mi alleno ogni giorno con gli sci da alpinismo, la corsa, l’arrampicata su roccia o ghiaccio. Ho sempre bisogno di azione fisica: non solo per rimanere in forma, ma perché è questa la vita che amo. Ho fatto anche la cameriera all'Oktoberfest. Quella è stata un'esperienza fisicamente massacrante, ma molto divertente».
Essere donna le ha in qualche modo limitata o magari si è mai sentita discriminata dai suoi colleghi maschi? «All’inizio ho cercato di imparare al meglio possibile, poi ho sempre cercato di non essere una “donna” ma un’alpinista: di conseguenza, avevo le stesse responsabilità e possibilità di prendere decisioni dei miei colleghi uomini, e dovevo portare il mio materiale come tutti gli altri. Mai mi sono sentita più debole di un uomo, anzi, a volte può valere ancora di più che una donna riesca a fare lo stesso lavoro o gli stessi sforzi per una spedizione di successo».
Si ispira a qualcuno in particolare? «Io sono un po' una Heidi. Ho il mio papà, che ha già ispirato tutta la mia carriera sportiva, poi volevo scalare il mio Ottomila a 23 anni, come Gerlinde Kaltenbrunner. Ma devo dire che ho un po’ un carattere speciale: non mi interessa cosa fanno le altre persone, perché io ho i miei sogni, le mie visioni e cerco sempre di evitare invidie».
L'alpinismo è davvero una scuola di vita e nel suo caso cosa le ha insegnato? «Ho imparato ad essere me stessa, ad andare per la mia strada senza ascoltare le persone che non ci credevano. Durante spedizioni ho avuto il tempo per conoscermi fino in fondo: un processo che ad ora non è ancora completato. Inoltre, conoscere varie culture, vedere la povertà ma anche l’opposto, come alcune spedizioni che esagerano con il lusso. Dopo aver visto tanto, ho potuto creare il mio stile di scalata, ma anche il mio stile di vita, in cui mi sento a casa, felice, orgogliosa e soddisfatta di me stessa».
Quest'estate ha qualche scalata in programma? «Quest’anno ho in mente di scoprire di più le miei origini, le Dolomiti. Simone Moro mi ha proposto la maratona verticale delle Dolomiti, che non sarà una prestazione di velocità o di difficoltà, ma un viaggio nella storia di casa mia, l’Alto Adige. Vorremmo percorrere 42,195 km verticali (dislivello complessivo) scalando delle vie storiche».
La top 3 delle sue scalate e le tre cime che vorrebbe scalare in futuro? «I miei top sono sicuramente il Lhotse, perché è stata la partenza della mia “carriera” in alta quota, il K2 e poi le 2 cime inviolate in Pakistan nel 2013 con mio papà. Per il futuro mi piacerebbe fare non solo gli 8000, ma vette anche più basse in meno tempo. Gli obiettivi saranno comunque il Kanchenjunga, il Nanga Parbat e magari anche l’Everest, ma sempre senza ossigeno e senza portatori, che per me è fondamentale. Beh, poi c'è il Manaslu che tanto ci ha fatto tribolare».
Marco Trabucchi
1 note
·
View note
Text
L’ultramaratoneta Francesca Canepa: «Correte tanto, ma senza strafare»
I consigli e i segreti dell’atleta per affrontare gli allenamenti senza rischi - Intervista pubblicata su OGGI.IT 5 novembre 2014

La corsa viene definita la regina di tutti gli sport ed è la disciplina che ha preso più piede negli ultimi anni. Non tutte le corse sono uguali ma sono sempre di più gli appassionati alle prese conprogrammi di allenamento e alimentazione più adatta. Abbiamo incontrato un mito dei runner: l’ultramaratoneta Francesca Canepa. Corre per vocazione, corre sempre. Ovunque: che sia una strada asfaltata o un trail montano a 3000 metri. Ma anche nella vita Francesca corre, veloce.
A Milano sogna la Scala da ballerina classica. Poi il trasferimento in montagna, un timido inizio a 12 anni da pattinatrice poi la svolta: atleta di snowboard con un palmares da prima della classe: “tante gare, tante vittorie, e sempre però un senso di vuoto”.
Poi lo stop all’agonismo: diventa mamma e maestra. Anni tranquilli in cui Francesca soffoca l’istinto da atleta. Dura poco: si iscrive alla Gran Paradiso di Fondo e la scintilla divampa: la sua carriera da runner prende forma e l’istinto da atleta ritorna prepotente. Muoversi, correre, competere, vincere. In primis l’epica ultramaratona del Tor De Giants nel 2013 e di numerose altre maratone in giro per il mondo. Di recente, dopo aver dominato la 100 km di Millau, in Francia, concede il bis sull’asfalto aggiudicandosi anche la 100km delle Alpi, da Torino a Saint-Vincent. Appena tornata dall’impresa la raggiungiamo al telefono per farci spiegare come si diventa una maratoneta.
Come si allena un’ultramaratoneta? «In primis mi alleno ascoltando il mio corpo, tutti i giorni, senza mai superare l’ora. Un’altra cosa che non faccio è contare i chilometri. Diciamo intorno ai 10, massimo 12. Naturalmente in quell’ora faccio anche preparazione atletica: addominali, step, skip. Vario molto e in generale cerco di non stressare troppo il corpo. Un ritmo che consiglio anche a chi vuole mantenersi in forma; un’ora va benissimo; è un tempo che garantisce anche al cuore di lavorare bene senza subire stress».
Quali consigli daresti ad una persona che vuole cominciare a muovere i primi passi nella maratona e nello skyrunning? «La cosa migliore è porsi i giusti obiettivi, chiarire con se stessi che traguardi si vuole raggiungere. Se si parte da zero, da sedentari, bisogna scegliere un obiettivo raggiungibile, alla propria portata. Un obiettivo di massima e tanti piccoli traguardi da raggiungere via via.Registrate l’allenamento e ogni 2 settimane fate un bilancio dei miglioramenti. Serve anche da incoraggiamento. Fate sempre molta attenzione ai segnali del corpo. Ogni fisico ha un tempo di adattamento suo. Tendini e legamenti hanno bisogno di tempo per essere efficienti al massimo. Non correre mai sul dolore, mai sulla fatica. Inoltre è importante curare gli aspetti dell’equilibrio, la propriocezione, il senso di posizione e di movimento degli arti e del corpo. Si trovano esercizi specifici su internet».
Ci sono dei rischi nel correre troppo? «I rischi sono su 2 fronti. In primis quello fisico: l’usura di ginocchia e articolazioni dovuta al fare troppo e troppo in fretta. Il secondo riguarda la mente: allenarsi troppo provoca disturbi del sonno e dell’alimentazione, anoressia e mancanza di appetito. Anche la necessità (spesso infondata) di perdere chili può essere molto pericolosa se non controllata. Io sono psicologa e posso dare un consiglio, forse banale, ma efficace: essere sempre felici di quello che si fa. Se si inizia ad essere più stanchi che felici è un campanello di allarme».
Cura molto l’alimentazione? Qualche dritta? «La prima è fondamentale: bisogna cercare di fare una sana e abbondante colazione tutti i giorni. A prescindere dall’allenamento. Fare colazione alza il metabolismo e crea energia. Intendo una colazione equilibrata tra proteine e carboidrati. Cappuccio e brioche, ad esempio, non vanno bene. Ci vuole anche l’apporto proteico: uova, formaggio e prosciutto per esempio. Anche a pranzo e cena bisogna sempre avere un giusto apporto proteico e tanta frutta e verdura, perché tolgono acidità».
Le dà fastidio il fatto che la corsa è diventata di moda? «Mi fa molto piacere che sempre più persone si avvicinano a questa disciplina perché correre è bello. Quando si iniziano a fare confronti con il campione di turno però bisogna fare attenzione. Io sono nata per correre, ma non tutti lo sono. Mi viene in mente un’analogia: quando imiti un cantante non ti verrà mai una canzone uguale.
Mai porsi degli obiettivi che non si possono raggiungere: bisogna essere realisti. Quando capisci il tuo dna di partenza ti poni degli obiettivi in quella direzione. In questo modo non c’è un limite, c’è gente che corre fino a 80 anni».
La gara piu dura che ha affrontato? «Non è che ci sia una gara più dura in assoluto. E’ più difficile sopportare situazioni avverse che non gare. Per quelle sono sempre preparata».
Marco Trabucchi
0 notes