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Ciao a tutti, sono una ragazza, ho 19 anni e adoro il cinema! Questo blog nasce con lo scopo condividere delle 'riflessioni' sui vari film che mi capita di guardare e per parlare, appunto, di cinema. Grazie in anticipo a chi lo leggerà :)
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steadybasementyouth-blog · 9 years ago
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Eh sì, è da tanto che non scrivo, lo so. Ma sono tornata, con la recensione di un film visto da poco che mi è piaciuto moltissimo. Davanti a "Neruda", da Ottobre 2016 nelle sale cinematografiche, ci troviamo al cospetto dell'ultimo lavoro, per la precisione al sesto lungometraggio, del regista cileno Pablo Larraín. Quest'ultimo, noto per i temi politici presenti nei suoi film (si veda il film del 2012 "No: i giorni dell'arcobaleno", nel quale racconta la nascita e lo sviluppo della campagna pubblicitaria dell'opposizione al governo di Pinochet nel suo Cile), in "Neruda" ritorna a parlare "indirettamente" di politica. Dico "indirettamente" perché questa volta decide di farlo attraverso il rapporto che il grande poeta ebbe in prima persona con essa. La scelta di Larraín è, in questo caso, di raccontare una parte della vita del poeta, ovvero quegli anni in cui viene perseguitato e costretto all'esilio dal governo cileno, in combutta con il governo statunitense, per il suo essere comunista. La storia è narrata in prima persona da Óscar Peluchonneau (interpretato da uno straordinario Gael García Bernal, già visto ne "I diari della motocicletta" di Salles, o "Babel" e "Amores Perros" di Iñárritu) l'ispettore che per tutta la durata del film dà la caccia al poeta, senza successo. Come effettivamente verrà detto in una scena, tutto il film ruota attorno al ruolo di protagonista di Neruda: gli altri personaggi (gli amici che lo proteggono, la moglie Delia) sono semplicemente "contorni" a un racconto che avrebbe anche aver potuto scrivere il poeta stesso. Colui che soffre di più di questa condizione è proprio l'ispettore Peluchonneau e ne soffre talmente tanto che il pubblico non riesce a comprendere se si tratti effettivamente di una persona reale o di un personaggio creato dalla mente del poeta. Il poliziotto, in una sorta di paradosso, se lo chiede nelle ultime scene, mettendo in discussione la sua intera vita, la falsa immagine di sé che si era costruito: figlio di una prostituta, non ha mai conosciuto suo padre e fantastica sull'identità di quest'ultimo, associandolo con Olivier Peluchonneau, il fondatore della polizia cilena, volendogli conferire una gloria in realtà inesistente. "Avrei potuto essere figlio di un Peluchonneau, ma in questo momento potrei anche essere un Neruda", parafrasando una battuta dell'ispettore, orfano di padre ed orfano della sua stessa identità, si impegna per a dare la caccia al poeta ma, in fondo, soprattutto a sé stesso. Il film è una testimonianza degli anni, successivi alla Seconda Guerra Mondiale, del governo di Gonzalez Videla, della persecuzione nei confronti dei comunisti in Cile e a come il poeta reagisce a tale momento della sua vita, con una sottile punta di ironia che sarà possibile percepire per tutti i 107 minuti. In conclusione, possiamo affermare che davanti a "Neruda" ci troviamo di fronte ad una perla rara, un film audace che, magari proprio per questo motivo, non sarà pubblicizzato ed esposto al pubblico come meriterebbe, ma che vale sicuramente tutto il prezzo del biglietto.
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steadybasementyouth-blog · 9 years ago
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Massimo Troisi e Olimpia Di Maio, “Scusate il ritardo” (1983).
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steadybasementyouth-blog · 9 years ago
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Philippe Noiret, “Il postino” (Michael Radford, 1994).
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steadybasementyouth-blog · 9 years ago
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Trainspotting (1996)
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steadybasementyouth-blog · 9 years ago
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Pif ritorna e va “In guerra per amore”, regalandoci un gioiello
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Dopo il successo di “La mafia uccide solo d’estate”, Pif ritorna al cinema con il suo secondo lavoro da regista, “In guerra per amore”.
La storia, ambientata nel 1943, parla di un giovane di nome Arturo Giammarresi (omonimo del bambino protagonista del precedente film, quasi a volerne rappresentare un ideale antenato), siciliano trasferito a New York, innamorato di Flora, una bella ragazza anche lei siciliana, purtroppo già promessa in sposa a Carmelo, figlio di un potente boss della zona, alleato del famoso criminale Lucky Luciano. Per i due ragazzi sembra non esserci alcuna via d’uscita: davanti alla parola e ai patti d’onore dei familiari c’è poco da fare; Flora sembra destinata definitivamente a sposare un uomo che non ama. In realtà, però, una soluzione c’è: Arturo dovrebbe andare a chiedere personalmente al padre di Flora la mano della figlia. L’unico ‘imprevisto’ è che il padre della ragazza si trova in Sicilia, terra che in quegli anni faceva da sfondo agli orrori della Seconda Guerra Mondiale, teatro di distruzione e miseria, martoriata dalla povertà e dalle bombe. Eppure, ad Arturo importa poco: per amore di Flora farebbe questo ed altro. Così, dopo aver casualmente scoperto che l’esercito americano cercava proprio volontari di origine siciliana in vista del famoso sbarco sull’isola, l’Operazione Husky, decide di imbarcarsi e raggiungere la Sicilia, in modo da poter coronare il proprio sogno d’amore.
Ciò che va sottolineato è che, ovviamente, davanti a “In guerra per amore” capiamo subito, fin dalle prime scene, di non trovarci davanti ad una semplice commedia romantica, bensì davanti ad un film che ha molto, molto di più da insegnare. Come sempre Pif è un maestro nel riuscire ad intrattenere ma allo stesso tempo informare e, soprattutto, denunciare, così come si può notare anche dallo stampo che ha sempre assunto “Il Testimone”, il programma grazie al quale un po’ tutti noi l’abbiamo conosciuto. Già dalle prime scene del film, in cui fondamentale è la presenza (chiaramente negativa) del gangster Lucky Luciano, si comprende l’aspra denuncia che Pif intende, come sempre, rivolgere alla mafia e, nel caso specifico del film, alle modalità attraverso le quali quest’ultima ha avuto la piena libertà di prendere il potere in una Sicilia distrutta dalla guerra; la gente aveva perso ogni fiducia nei precedenti governatori (in questo caso in Mussolini e nel suo regime fascista) e quindi non aveva più a chi o cosa aggrapparsi. Figura fondamentale della avversione alla mafia, all’interno del film, è il personaggio del luogotenente italoamericano Philip Catelli, il quale si rifiuta eroicamente di assecondare il governo alleato che, già d’accordo con Cosa Nostra, si stava ‘attrezzando’ per distribuire cariche amministrative importanti, all’interno dei governi di molte città dell’isola, ai vari criminali, ovviamente ‘graziati’ e liberati dalle loro colpe. Ciò contribuirà successivamente alla nascita della DC (Democrazia Cristiana) e al consolidamento della mafia sull’isola, che proprio in quegli anni ha piantato delle radici ancora oggi purtroppo molto difficili da sradicare. Un’azione silenziosa di consolidamento del potere mafioso alla quale l’America decide, omertosamente, di prendere parte; sicuramente erano troppi, in Sicilia, gli interessi della ‘grande potenza’ americana da salvaguardare...così si preferì non rischiare.
Insomma, dopo aver fatto un resoconto generale del film, non possiamo che ringraziare Pif per averci regalato una vera e propria perla, un film unico nel suo genere, che commuove e diverte allo stesso tempo ma che soprattutto insegna: ci insegna che non bisogna mai stare zitti, e che è necessario che ognuno nel proprio piccolo denunci, denunci ogni singola ingiustizia per far sì che questo mondo diventi un posto per il quale vale la pena lottare, in cui regnano la solidarietà, la compassione e la giustizia.
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steadybasementyouth-blog · 9 years ago
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FORREST GUMP
Fiumi di inchiostro sono stati versati per parlare di questo film. Per parlare dell'ingenuità, della purezza, dello sguardo sul mondo di un uomo perennemente bambino. Ma nessuno ha mai parlato di quanto sia vacca Jenny, di quanto sia nient'altro che una vacca tossica durante tutto il film e di quanto sia irritante il suo modo di fare da vacca. Vacca.
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steadybasementyouth-blog · 9 years ago
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”Choose your future. Choose life… But why would I want to do a thing like that? I chose not to choose life. I chose somethin’ else. And the reasons? There are no reasons. Who needs reasons when you’ve got heroin?”
Trainspotting (1996)
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steadybasementyouth-blog · 9 years ago
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Un viaggio verso la libertà - Sin Nombre
Quanto è caro da pagare il prezzo per raggiungere la libertà? Lo racconta bene il film del 2009 “Sin Nombre”, opera prima del regista statunitense Cary Joji Fukunaga. Non si sente molto spesso parlare di film del genere, gli argomenti riguardanti l'America Latina purtroppo a volte non godono della stessa fama che può avere ciò che riguarda da vicino il nostro Occidente: proprio per questo è giusto far capire che il cinema può fare molto di più che far passare due ore in modo diverso agli spettatori, facendo loro dimenticare per un po' la propria vita. Esso può unire i popoli e i cittadini del mondo, creando consapevolezza e comprensione. La storia di “Sin Nombre” inizia raccontandoci di un ragazzo messicano, Willy detto ‘il Casper’, membro di una potente gang della zona. Egli dimostra fin da subito una certa insofferenza nel fare parte di quell'ambiente, una scelta che più che essere voluta diciamo essere obbligata, per sopravvivere. Contemporaneamente viene raccontata la storia di Sayra, una ragazza dell'Honduras in procinto di scappare verso gli Stati Uniti con suo zio e suo padre, nella speranza di raggiungere la nuova famiglia che quest'ultimo era riuscito a crearsi nel continente. È proprio su quel treno, che per molti immigrati clandestini rappresenta disgraziatamente la morte, che i due ragazzi si trovano: 'Casper’ è stato costretto dal capo gang prendere parte ad una missione che li avrebbe portati lontano. Durante uno scontro sul treno il ragazzo uccide il capo e il suo destino è segnato: l'obiettivo principale dei restanti membri della banda è trovarlo ed eliminarlo, ovunque egli si trovi. Sayra, come molti compaesani, intraprende un viaggio che a tratti può sembrare infinito per raggiungere ciò che si può definire un sogno, un viaggio che intraprenderà “non nelle mani di Dio, ma tra le grinfie del Diavolo”, come recita una frase del film. Dopo essere stata salvata dall'aggressione del capo banda Sayra inizia ad avvicinarsi sempre di più a Willy, e tra i due si crea un legame di solidarietà e protezione tanto discreto quanto forte, che a causa di ciò che succede nel corso del film si accrescerà fino alla fine. Due ragazzi, un treno e un sogno: quello della libertà, una libertà che ancora al giorno d'oggi a molta gente, a molti immigrati proprio come i due protagonisti viene negata, in nome di una legge invisibile, creata dagli uomini solamente per distruggere il proprio prossimo. La storia della nascita di un amore tenero, commovente e semplice, che viene troncato dalla brutalità dell'uomo e della vita. Bravissimi gli attori, che nonostante la giovane età dimostrano di possedere l'esperienza e la capacità dei professionisti.
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steadybasementyouth-blog · 9 years ago
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La forza di inseguire i propri sogni - Tutto Può Cambiare
Questi sono anni difficili, anni in cui, soprattutto per i giovani, inseguire i sogni è una cosa difficile, se non impossibile. Anni in cui si è costretti a cambiare se si vuol sopravvivere e non farsi trascinare dalla marea, ed amalgamarsi a quello che dice o fa la massa. Proprio in questi anni è ambientato il film di John Carney Tutto può cambiare” (in inglese “Begin Again”, ricominciare, non a caso), con protagonisti Keira Knightley e Mark Ruffalo. Lei è una giovane cantautrice, Greta, trasferitasi a New York con il fidanzato, Dave, entrambi inseguendo il desiderio di sfondare nel campo della musica. Dopo che gli viene stato offerto un contratto con una nota etichetta, però, Dave lascia Greta e parte per la sua tournée, lasciandola praticamente sola in quella città che può rappresentare un porto sicuro quando si riesce a coronare il proprio sogno ma che si trasforma in un mare aperto quando si è prede della solitudine. Lui, invece, è Dan, un produttore discografico alcolizzato e insoddisfatto: ha lasciato la famiglia (la moglie e la figlia quattordicenne) un anno prima e, inoltre, il lavoro non va come dovrebbe: l'etichetta fondata da lui e da un suo amico di vecchia data non riesce a trovare una ‘voce’, un talento che gli porti successo, e a causa della sua mancanza di interesse e del suo atteggiamento sbagliato nei confronti del lavoro, Dan viene licenziato. Il caso vuole che una sera egli si ritrovi a passare per un bar nel quale, sotto insistenza di un amico, Greta si sta esibendo: lei era tutto ciò che lui cercava, l'unico talento che era disposto a lanciare. Una giovane cantautrice piena di doti, un uomo sull'orlo del baratro, New York ed una proposta bizzarra quanto geniale: con pochissimo budget, musicisti emergenti e molta improvvisazione, fare in modo che la città diventi il vero e proprio “studio di registrazione” nel quale incidere l'album di Greta, quello che le avrebbe finalmente portato il successo che meritava. Come finisce questa storia? Beh, non vi resta che guardare il film! Una cosa è certa: questo film insegna a portare avanti ciò in cui si crede, nonostante tutto il mondo sia contro e anche quando sembra che tutto debba andar male. Da un lato Dan, che si ostina a non accettare i tanti demo inviati da cantanti mediocri e facilmente piazzabili a livello commerciale per aspettare di trovare quella persona, quella voce che davvero sia diversa dalle altre, che sia speciale, e che lo aiuti ad uscire dalla fossa nella quale si era inconsciamente gettato. Dall'altro Greta, che nonostante abbia sofferto a causa della storia finita male, che è convinta di voler abbandonare tutto lasciando la città, alla fine si lascia convincere e accetta il folle piano di Dan. Una leggera commedia romantica che ci fa pensare che, anche se a volte sembra difficile, è proprio vero che nella vita Tutto Può Cambiare. In fondo, basta solo crederci.
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steadybasementyouth-blog · 9 years ago
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Tutto Può Cambiare (2014): appena visto, tra poco mi sa che scriverò qualcosa!
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steadybasementyouth-blog · 9 years ago
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Fight Club - riflessioni (attenzione spoiler)
-------———————  leggere solo se lo si è già visto --—————————
Inizio questo post premettendo che ho molti difetti e pecco in molte cose, ma una delle più gravi è che ho aspettato (e sto tutt’oggi aspettando) troppo tempo per vedere film “cult”, come si suol dire, come questo. In ogni caso, tutti conosciamo il famoso proverbio che recita “meglio tardi che mai” quindi fra ieri e oggi, a 19 anni appena compiuti, ho visto per la prima volta Fight Club (David Fincher, 1999, tratto dall’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk). Beh, che dire? Che sia un gran film non si mette in dubbio, ovviamente recitato alla perfezione (in più, modesta opinione personale, aggiungo che Edward Norton rappresenta un ottimo motivo per guardarlo), però devo confessare che per una ragione o per l’altra non mi sento di inserirlo nella classifica dei film che mi hanno fatta impazzire o che rivedrei, non so perché; forse per l’eccessiva crudezza di alcune scene (e ciò mi sorprende, perché sono abituata a vedere film o serie tv con scene altrettanto violente) o per la cupezza generale della quale è permeato (magari mi trovo in un periodo della mia vita in cui quello che mi serve è vedere film più allegri, che so) ma questa cupezza, questa crudezza, rappresentanti l’essenza del film, sono inevitabilmente necessarie. Non si può descrivere in altri modi il mondo di cui si parla nel film: un mondo di uomini che si credono liberi ma che in realtà altro non sono altro che schiavi: schiavi del lavoro, schiavi di un eccessivo consumismo, schiavi della voglia di apparire, apparire, apparire agli occhi degli altri mascherando ciò che si è veramente, di comprare all’infinito cose di cui non hanno veramente bisogno, un mondo che purtroppo sta raggiungendo il suo apice negli anni in cui viviamo e in cui la maggior parte di noi, volente o nolente, è intrappolato. Allo stesso modo ne è intrappolato il protagonista del film il cui nome, almeno nella parte iniziale, non è chiaramente comprensibile. Egli lavora come consulente nel ramo assicurativo di una casa automobilistica (che, com’è immaginabile, non si fa scrupoli nel compiere una serie di imbrogli) e, nel fare questo, si trova a contatto con situazioni in cui persone incidentate vanno semplicemente catalogate come elementi da tenere in considerazione per compiere l’ispezione del mezzo e non più come delle vite, come persone in carne ed ossa. Già da qui è possibile rendersi conto dell’ambiente in cui il protagonista è immerso. Essendo schiavo del lavoro, egli è vittima di una terribile insonnia che lo tiene sveglio anche per mesi e il suo unico conforto è partecipare a dei gruppi di sostegno frequentati da persone affette da malattie diverse, nei quali “si nutre” degli sfoghi e delle sofferenze degli altri per tentare di trovare una cura ai suoi tormenti. L’uomo, costretto a viaggiare per lavoro, incontra, durante uno dei suoi viaggi, un uomo dagli atteggiamenti più che originali e anticonformisti: il suo nome è Tyler Durden. I due parlano a lungo e la figura di Tyler si rivela sempre di più quella tipica del ribelle, che per nessun motivo al mondo voleva adattarsi a quella società che ripugnava. Tornato dal suo viaggio, il protagonista scopre che il suo appartamento (rigorosamente rifornito di un’ampia gamma di mobili Ikea), è stato completamente distrutto a causa di un esplosione. Dove andare, adesso? Il nostro protagonista non ha molta scelta se non quella di chiamare Tyler. Proprio da lì inizia il bello. Insieme, i due decidono di fondare il Fight Club, un gruppo di uomini per i quali la violenza diventa la valvola di sfogo ai loro problemi, gente che da luogo volontariamente a dei combattimenti per dimenticare, almeno per un po’, le vite nelle quali sono immersi. Da lì in poi i membri diventano dei veri e propri adepti che, comandati da Durden, invece di combattere tra di loro, decidono di mettere in pratica una serie di azioni in modo da sabotare la società capitalistica in cui vivono. Il protagonista, durante il film, capisce che la cosa sta iniziando a degenerare e, in un momento di assoluta crisi, dopo la morte di uno dei membri, Tyler scompare e lui si mette disperatamente a cercarlo: con non poca fatica arriva a capire che non ha altri posti dove cercarlo che dentro di sé, che Tyler in realtà è il suo alter ego, che era stato lui, soffrendo di disturbo dissociativo dell’identità, a dare inizio a tutto quello che era successo: era stato lui a ribellarsi a quell’odiosa società, facendo esplodere il suo stesso appartamento, minacciando il suo capo e lasciando il lavoro, era stato soltanto lui a fondare il Fight Club, lui solo era il ribelle, colui che andava contro, fino ad arrivare alla realizzazione del suo piano estremo, alla fine del film. Siccome ho spoilerato praticamente tutto, mi fermo qui. In ogni caso, dopo la visione, la domanda che è necessario che ognuno di noi si ponga, visto il mondo sempre più pieno di caos in cui viviamo, è essenzialmente una: dove arriverà la frustrazione di uomini ormai stanchi di essere governati dal consumismo?
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steadybasementyouth-blog · 9 years ago
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Dove può arrivare l’amore di un figlio per la propria madre? (Good Bye, Lenin! - riflessione)
Dove può arrivare l’amore di un figlio per la propria madre? In queste ultime notti (la scorsa notte e quella dell’altro ieri, per essere precisi) ho deciso di deliziarmi con un passatempo migliore del semplice e scontato andare a dormire: la buona vecchia abitudine di restare sveglia per guardare un film. Ovviamente si scherza, nessuno toglie al sonno la propria importanza, ma devo dire di essere proprio contenta di essermene privata un po’ ed averlo sostituito con il film che ho visto. Il film in questione si chiama Good Bye, Lenin!, del 2003, diretto dal tedesco Wolfgang Becker. Era da un po’ che dovevo vederlo ma, per una ragione o per l’altra, ho rimandato. Per fortuna non di molto, perché, ebbene sì, questo è uno di quei film che devi per forza vedere nella vita, una sorta di insegnamento, uno di quelli che ti aiuta a vivere bene. La storia comincia nel 1978 in Germania Est, caratterizzata (come tutti sanno) da un governo di stampo socialista, ben diverso da quello della Germania Ovest, aperto alle innovazioni capitaliste. Facciamo subito la conoscenza di una famiglia formata dai due figli, Alex e Ariane, e dalla madre Christiane, abbandonati dal marito, scappato nella Germania dell’Ovest. La madre soffre tantissimo per questa perdita, tanto che dopo essere rimasta in uno stato di depressione per alcuni anni, decide di riprendersi dedicando tutta sé stessa alla causa socialista e diventando una fervente e attiva sostenitrice della Repubblica Democratica. I figli, però, non la pensano allo stesso modo: nel 1989, quando ormai la popolazione stava diventando sempre più insofferente nei confronti del regime, Alex partecipa ad una manifestazione, venendo pestato e arrestato. La madre, che si trovava in quel luogo nello stesso momento, alla visione del figlio sviene ed entra in coma, risvegliandosi dopo 8 mesi. 8 mesi che saranno fatali: in quel relativamente breve periodo di tempo infatti tutto cambia radicalmente e, con il famoso evento della caduta del muro, le due Germanie cominciano a riunificarsi e la Germania dell’Est inizia ad aprire le porte al capitalismo. Il medico avverte Alex che, al suo risveglio, la madre non si era  ripresa del tutto, e che qualsiasi emozione forte avrebbe potuto esserle fatale; per questo il ragazzo decide di mettere in pratica quella che gli sembra essere l’unica soluzione: far credere alla donna che niente era cambiato, nel corso di quegli 8 mesi. Convince i medici e la riporta a casa, cambiando tutto l’arredamento della sua camera da letto e ricreandola esattamente com’era prima, tanto che la madre non nota effettivamente nessun cambiamento.
                          « – Che strano, non è cambiato niente.
                         – Perché, doveva cambiare qualcosa? »
                         (Dialogo tra Christiane e suo figlio Alex)
Nei giorni che verranno, il figlio cercherà in tutti i modi e con tutti gli stratagemmi possibili, anche abbastanza comici, grazie all’aiuto della gente che lo circonda (chi d’accordo con il suo piano, chi un po’ meno) di far credere alla madre che niente è cambiato, che tutto sia esattamente come lei l’aveva lasciato (il finale e i conseguenti colpi di scena sono da vedere). E qui ritorniamo alla domanda iniziale: dove può arrivare l’amore di un figlio per la propria madre? Una storia in cui un figlio arriva persino ad immaginarsi una realtà totalmente diversa da quella effettiva, a ricrearla per amore di quella madre che, nonostante i periodi bui, era sempre rimasta accanto ai propri figli. Una sorta di “regalo” che Alex, con perseveranza, (nonostante gli ostacoli che nel corso del film fanno credere alla madre che qualcosa sia effettivamente cambiato) porta avanti fino all’ultimo, per ripagare la madre di tutto l’amore che gli aveva donato. Uno spaccato di storia ma allo stesso tempo anche della vita quotidiana di una famiglia, in cui realtà e finizione si mescolano per regalarci una perla rara, un film come ce ne sono pochi.
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steadybasementyouth-blog · 9 years ago
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                                                 The Lobster
Non avevo mai pensato all'importanza delle aragoste fino al giorno in cui ho visto “The Lobster”, un film del regista greco Yorgos Lanthimos. Beh, l'impatto che ha avuto questo film nella mia vita non è stato poco rilevante. L'ho guardato in un momento in cui ne sentivo veramente il bisogno, e credo che mi abbia lasciato tante cose, ma parto prima col raccontare di che parla. Per dirla sinceramente, potremo semplicemente considerarla una storia d'amore. In effetti, il film si basa tutto sull'amore: è quello il tema principale, ma più che dell'amore vero e proprio, per come la vedo io il film parla di due delle sue sfaccettature: da un lato , la paura di perderlo o non averlo (e quindi, di conseguenza, l'ansia che uno si auto-infligge per trovarlo) e dall'altro invece il suo rifiuto completo, per un motivo o un altro. Quello che si può subito capire, quindi, è che non esistono vie di mezzo in questo film, come molto spesso non esistono vie di mezzo nelle follie dell'essere umano. Il protagonista è David, un uomo che è da poco stato lasciato dalla moglie e quindi, come di consueto nella società che vive nel futuro distopico nel quale è ambientato il film, essendo rimasto single dev'essere trasferito in un albergo pieno di altri single nel quale, in un tempo prestabilito, deve trovare la sua anima gemella e formare una coppia. E se non ce la fa? Beh, in quel caso il suo destino sarebbe…essere trasformato in un animale. Non a caso il suo compagno fedele, che lo segue nel trasferimento, è un cane, che si scopre subito essere suo fratello. Una delle prime domande che l'inquietante direttrice dell'albergo rivolge a David è se avesse già pensato all'animale in cui essere trasformato in un suo eventuale fallimento, e lui risponde prontamente: vorrebbe essere un'aragosta. Già, un'aragosta, ci avreste mai pensato? Non credo che, avendo la possibilità di scegliere un animale, in genere si sceglierebbe un'aragosta. Si preferirebbe, che so, un leone, una tigre, tutt'al più una balena, ma mai nessuno avrebbe pensato ad un aragosta. E già da qui si vede uno dei punti importanti del film, almeno per come lo interpreto io. L'aragosta può sembrare a primo acchitto un animale insignificante, perché allora il protagonista sceglie proprio quello? Bene, pare che l'aragosta possa vivere anche più di cent'anni, in certi casi, e la sua fertilità dura tutta la vita (piccola parentesi: senza contare, poi, che è incredibilmente buona). Quindi io lo sottolineerei non come punto importante, di più: anche in quello che all'apparenza può sembrare il più piccolo e insignificante essere, si nascondono delle grandi qualità. Ma tornando al nostro protagonista, nell'albergo tenta inutilmente di formare una coppia con una donna che più disgraziata non si può e, non riuscendoci, dopo una serie di eventi, la uccide. Aiutato da una cameriera, riesce a scappare nel bosco. Quest'ultimo è il rifugio dei Solitari, gruppo di ribelli formato da chi si ostina invece a voler rimanere solo in una società che aborrisce i single, e quindi principali oggetti di vere e proprie battute di caccia compiute dai residenti dell'albergo. Qui, sin dal primo momento, a David vengono annunciate le regole del gruppo: qualsiasi relazione d'amore, rapporto sessuale, bacio, stretta di mano, contatto malizioso o che so io, insomma, persino un semplice flirt, in quella realtà completamente al contrario rispetto a quella a cui lui è stato sempre abituato, è vietato e severamente punito in svariati modi (anche macabramente fantasiosi). Il problema è che, come ad un certo punto del racconto ci potremmo facilmente immaginare, proprio qui accade la cosa sbagliata: David si innamora, ricambiato, di una donna facente parte dei Solitari, la Donna Miope, della quale non viene mai rivelato il nome (come d'altronde succede alla maggior parte dei personaggi,  che viene riconosciuta semplicemente grazie ad alcuni loro segni particolari: segno che ancora una volta ci fa capire uno dei tanti flop della società, in cui vieni ricordato solo per le particolarità che hai, perlopiù difetti, e non per chi effettivamente sei). Questa è, a grandi linee, la trama del film. Perché mi ha colpito? Semplicemente perché, pensandoci, in un certo senso mi ha fatto capire cos'è l'amore, mettendo in scena tutto quello che invece non è: l'amore non è a comando, non è forzatura, non è costrizione, quella a cui sono sottoposti i residenti dell'hotel pur di trovare una persona con cui condividere la vita e in fondo per poterci restare, in vita; l'amore non è finzione: molti dei residenti si fingevano quello che non erano per poter farsi notare da qualcuno in particolare e convincerlo così che fossero “compatibili”, fatti l'uno per l'altra (una delle residenti soffre di perdite di sangue dal naso ed un ragazzo, in cerca di una scusa per avvicinarla, sbatte la testa periodicamente contro qualcosa fino a rompersi il naso e farselo sanguinare), l'amore non è “ho bisogno per forza di una persona al mio fianco per non restare solo”. L'Amore, quello vero, è il saper aspettare. L'amore è l'essere così come sei ed essere libero di farlo, perché sai che tanto colui o colei che hai accanto ti amerà e ti accetterà sempre per quello che sei. L'amore vero non è cambiare per farsi accettare e farsi dare una possibilità dall'altro. L'amore vero non si cerca ma arriva quando meno te lo aspetti e ok, lo so che sembra una frase fatta, ma è veramente così. Un'altra cosa che mi ha fatto molto rivalutare è lo stare da soli. I dirigenti e lo staff dell'albergo non facevano altro che ricordare ai residenti quanto fosse degradante e a volte anche umiliante stare da soli, cercando così di spronarli a trovare il giusto partner. Io ho sempre guardato allo stare soli come ad una cosa da temere, e ancora oggi uno dei miei più grandi sogni è comunque rimasto quello di trovare l'amore della vita e formare una famiglia: il sogno più semplice, ma allo stesso tempo il più profondo. Certo, detto così può sembrare il semplice obiettivo di una donna senza ambizioni concrete, ma per me non è affatto così: per me l'amore, in tutte le sue forme, è semplicemente la cosa più importante della vita, senza la quale non si potrebbe andare avanti, ma nonostante abbia questo grande desiderio dentro di me, grazie a questo film ho imparato che non si deve repellere il restare da soli, che ognuno di noi vale per quello che è e non diventa importante solo nell'ambito della coppia, quando viene valorizzato e vive solo per la persona che ha accanto. Soprattutto ho imparato che non bisogna pensarci sempre, che non bisogna forzare la mano: ripeto, l'Amore arriva quando uno meno se lo aspetta, e non quando lo cerca incessantemente. Io per prima dico che non pensarci  a volte può essere una cosa difficilissima da mettere in pratica,  ma bisogna imparare a vivere la vita senza aspettative, e il momento giusto arriverà. Per cui grazie, aragoste, e grazie registi greci, che non vi sentite molto dire in giro, ma ogni tanto tirate fuori dal cappello del mago film semplicemente meravigliosi. “Hello everyone. My mother was left on her own when my father fell in love with a woman who was better at math than she was. She had a post graduate degree I think, where as my mother was only a graduate. I was nineteen at the time. My mother entered the hotel, but didn’t make it and was turned into a wolf. I really missed her. I found out she had been moved to a zoo. I often went there to see her. I’d give her raw meat. I knew that wolves liked raw meat, but I couldn’t figure out which of the wolves was my mother so I used to give a little bit to each of them. One day I decided to enter the enclosure. I really missed her and I wanted a hug. I climbed the fence and jumped in. All the wolves charged at once and attacked me; all but two who stood motionless. My guess is that one of those two must have been my mother. The zoo guards got to me quite quickly and took me to the hospital. Thankfully I didn’t lose my leg. I just have this limp, which is also my defining characteristic. My wife died six days ago. She was very beautiful and I loved her very much. She had a limp too.” (The Limping Man - The Lobster)
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