Tumgik
#Due notti dormendo poco e niente
apropositodime · 1 year
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Stamattina il mal di testa che si è svegliato con me, avrei preferito altro ma c'aggia fa 😝🤕
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Tornerò sempre...
Perché è tutto così difficile? Mi sento così sporca,così cattiva e ingiusta nei suoi confronti...
Per me c'è sempre...
Come faccio a dirgli che non lo voglio perché non è te?
Ma non è te.
È dolce e simpatico e mi tratta come se fossi l'unica donna al mondo e forse per lui lo sono davvero...
Ma,ripeto,non è te.
Nessuno sarà mai come te perché solo tu hai quei difetti stupendi che mi hanno fatto innamorare fin da subito.
Solo tu sai farmi aspettare ore,se non giorni,per un messaggio,magari anche senza senso.
E la cosa peggiore è che io aspetto mentre un'altra ragazza ti avrebbe mandato a fanculo fin da subito.
E io aspetto non perché non abbia nulla da fare ma perché ci tengo un casino a te.
Te che mi sei entrato nel cuore ad una velocità allarmante.
Te che sei intelligente e colto e dolce ma anche stronzo e menefreghista e soprattutto orgoglioso.
Te che mi fai accapponare la pelle quando mi scrivi "ti amo".
Chissà se mi ami ancora.
Io si.
Non ho mai smesso.
Anzi,sono stata la prima ad iniziare.
Io ti aspetto.
Sempre.
Da sempre.
E non importa quanto la nostra relazione possa essere complicata e instabile,io sceglierò sempre te.
Anche con la distanza di mezzo.
Anche coi miei che di sicuro ti odiano.
Anche con il tuo maledettissimo orgoglio che prima o poi ti allontanerà da me per sempre.
E non importa quanto lui possa essere fantastico e dolce e gentile e disponibile,io tornerò sempre da te.
Nonostante tutte le lacrime che mi hai fatto versare.
Nonostante tutte le notti in bianco a riempirmi la testa di immagini di noi insieme in quella casetta tra le montagne innevate.
Nonostante le mattine a scuola stanca morta perché dormivo poco o niente solo per stare con te a far nottata e tu puntualmente ti addormentavi col cellulare in mano.
Nonostante tutte le canzoni che ci siamo dedicati che se le riascolto un brivido arriva sempre e comunque al cuore.
Nonostante i miei tentativi disperati di porre fine a questa sofferenza chattando con tutti i ragazzi possibili ed immaginabili pur di distrarmi dal pensiero che costantemente volgeva a te.
Nonostante la dieta ferrea che mi sto imponendo insieme ai tantissimi esercizi fisici perché voglio dimagrire in modo da non farti schifo.
Nonostante i "ti amo" scritti sul banco con mille colori diversi perche è così che succede quando mi parli:le mie giornate si colorano di emozioni.
Nonostante tutte le volte che ho deciso di mandarti via,ma che ho avuto paura di farlo definitivamente perché sapevo che non saresti tornato perché ne potresti avere altre 1000 e tutte migliori di me in tutto.
Nonostante le mie amiche che dicevano di dimenticarti perché sei capace di fare solo del male.
Nonostante tutti i poemi che mi hai scritto quando ancora non eravamo nient'altro che due conoscenti.
Nonostante i miei messaggi che ti intasavano whatsapp quando credevo mi stessi ignorando perché offeso mentre invece stavi solo dormendo.
Nonostante la mia timidezza che spero sparisca prima che ci vedremo perché,dio io voglio godermi ogni singolo istante con te perché non so se e quando ce ne saranno altri.
Nonostante i mille sorrisi che mi fai spuntare quando quel led si illumina di giallo anche se non ci speravo più e forse più belli proprio per questo.
Nonostante io sia un casino assillante e fastidioso.
Nonostante tutto questo,bello o brutto che sia o sia stato,io sceglierò sempre te.
Io tornerò sempre da te.
Io vorrò sempre te.
Te e nessun altro.
Sempre.
@fraluceetenebre
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ilapond · 7 years
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Le gobbe in giardino
Quando è scesa la notte a me piace fare una passeggiata nel giardino. Non crediate io sia ricco. Un giardino come il mio lo avete tutti. E più tardi capirete il perché.
Nei buio, ma non è proprio completamente buio perché dalle finestre accese della casa un vago riverbero viene, nel buio io cammino sul prato, le scarpe un poco affondando nell'erba, e intanto penso, e pensando alzo gli occhi a guardare il cielo se è sereno e, se ci sono le stelle, le osservo domandandomi tante cose. Però certe notti non mi faccio domande, le stelle se ne stanno lassù sopra di me stupidissime e non mi dicono niente.
Ero un ragazzo quando, facendo la mia passeggiata notturna, inciampai in un ostacolo. Non vedendo, accesi un fiammifero. Sulla liscia superficie del prato c'era una protuberanza e la cosa era strana. Forse il giardiniere avrà fatto un lavoro, pensai, gliene chiederò ragione domani mattina.
All'indomani chiamai il giardiniere, il suo nome era Giacomo. Gli dissi: «Che cosa hai fatto in giardino, nel prato c'è come una gobba, ieri sera ci sono incespicato e questa mattina appena si è fatta luce l'ho vista. È una gobba stretta e oblunga, assomiglia a un tumulo mortuario. Mi vuoi dire che cosa succede?»
«Non è che assomiglia, signore» disse il giardiniere Giacomo «è proprio un tumulo mortuario. Perché ieri, signore, è morto un suo amico.»'
Era vero. Il mio carissimo amico Sandro Bartoli di ventun anni era morto in montagna col cranio sfracellato.
«E tu vuoi dire» dissi a Giacomo «che il mio amico è stato sepolto qui?»
«No» lui rispose «il suo amico signor Bartoli» egli disse così perché era delle vecchie generazioni e perciò ancor rispettoso «è stato sepolto ai piedi delle montagne che lei sa. Ma qui nel giardino il prato si è sollevato da solo, perché questo è il suo giardino, signore, e tutto ciò che succede nella sua vita, signore, avrà un seguito precisamente qui.» «Va', va', ti prego, queste sono superstizioni assurde» gli dissi «ti prego di spianare quella gobba.»
Dopodiché non se ne fece nulla e la gobba rimase e io continuai alla sera, dopo che era scesa la notte, a passeggiare in giardino e ogni tanto mi capitava di incespicare nella gobba ma non tanto spesso dato che il giardino è
abbastanza grande, era una gobba larga settanta centimetri e lunga un metro e novanta e sopra vi cresceva l'erba e l'altezza dal livello del prato sarà stata di venticinque centimetri. Naturalmente ogni volta che inciampavo nella gobba pensavo a lui, al caro amico perduto. Ma poteva anche darsi che fosse il viceversa. Vale a dire che andassi a sbattere nella gobba perché in quel momento stavo pensando all'amico. Ma questa faccenda è piuttosto difficile da capire.
Passavano per esempio due o tre mesi senza che io nel buio, durante la passeggiata notturna, mi imbattessi in quel piccolo rilievo. In questo caso il ricordo di lui mi ritornava, allora mi fermavo e nel silenzio della notte a voce alta chiedevo: Dormi?
Ma lui non rispondeva.
Lui effettivamente dormiva, però lontano, sotto le erode, in un cimitero di montagna, e con gli anni nessuno si ricordava più di lui, nessuno gli portava fiori.
Tuttavia molti anni passarono ed ecco che una sera, nel corso della passeggiata, proprio nell'angolo opposto del giardino, inciampai in un'altra gobba.
Per poco non andai lungo disteso. Era passata mezzanotte, tutti erano andati a dormire ma tale era la mia irritazione che mi misi a chiamare: Giacomo, Giacomo, proprio allo scopo di svegliarlo. Si accese infatti una finestra, Giacomo si affacciò al davanzale.
«Cosa diavolo è questa gobba?» gridavo. «Hai fatto qualche scavo?»
«Nossignore. Solo che nel frattempo se ne è andato un suo caro compagno di lavoro» egli disse. «Il nome è Cornali.»
Senonché qualche tempo dopo urtai in una terza gobba e benché fosse notte fonda anche stavolta chiamai Giacomo che stava dormendo. Sapevo benissimo oramai che significato aveva quella gobba ma brutte notizie quel giorno non mi erano arrivate, perciò ero ansioso di sapere. Lui, Giacomo, paziente, comparve alla finestra. «Chi è?» chiesi. «È morto qualcuno?» «Sissignore» egli disse. «Si chiamava Giuseppe Patanè.»
Passarono quindi alcuni anni abbastanza tranquilli ma a un certo punto la moltiplicazione delle gobbe riprese nel prato del giardino. Ce ne erano di piccole ma ne erano venute su anche di gigantesche che non si potevano scavalcare con un passo ma bisognava veramente salire da una parte e poi scendere dall'altra come se fossero delle collinette. Di questa importanza ne crebbero due a breve distanza l'una dall'altra e non ci fu bisogno di chiedere a Giacomo che cosa fosse successo. Là sotto, in quei due cumuli alti come un bisonte, stavano chiusi cari pezzi della mia vita strappati crudelmente via.
Perciò ogniqualvolta nel buio mi scontravo con questi due terribili monticoli, molte faccende dolorose mi si rimescolavano dentro e io restavo là come un bambino spaventato, e chiamavo gli amici per nome. Cornali chiamavo, Patanè, Rebizzi, Longanesi, Mauri chiamavo, quelli che erano cresciuti con me, che per molti anni avevano lavorato con me. E poi a voce ancora più alta: Negro! Vergani! Era come fare l'appello. Ma nessuno rispondeva.
A poco a poco il mio giardino, dunque, che un tempo era liscio e agevole al passo, si è trasformato in campo di battaglia, l'erba c'è ancora ma il prato sale e scende in un labirinto di monticelli, gobbe, protuberanze, rilievi e ognuna di queste escrescenze corrisponde a un nome, ogni nome corrisponde a un amico, ogni amico corrisponde a una tomba lontana e a un vuoto dentro di me.
Quest'estate poi ne venne su una così alta che quando fui vicino il suo profilo cancellò la vista delle stelle, era grande come un elefante, come una casetta, era qualcosa di spaventoso salirvi, una specie di arrampicata, assolutamente conveniva evitarla girandovi intorno.
Quel giorno non mi era giunta nessuna brutta notizia, perciò quella novità nel giardino mi stupiva moltissimo. Ma anche stavolta subito seppi: era il mio più caro amico della giovinezza che se n'era andato, fra lui e me c'erano state tante verità, insieme avevamo scoperto il mondo, la vita e le cose più belle, insieme avevamo esplorato la poesia i quadri la musica le montagne ed era logico che per contenere tutto questo sterminato materiale, sia pure riassunto e sintetizzato nei minimi termini, occorreva una montagnola vera e propria.
Ebbi a questo punto un moto di ribellione. No, non poteva essere, mi dissi spaventato. E ancora una volta chiamai gli amici per nome. Cornali Patanè Rebizzi Longanesi chiamavo Mauri Negro Vergani Segàla Orlandi Chiarelli Brambilla. A questo punto ci fu una specie di soffio nella notte che mi rispondeva di sì, giurerei che una specie di voce mi diceva di sì e veniva da altri mondi, ma forse era soltanto la voce di un uccello notturno perché agli uccelli notturni piace il mio giardino.
Ora non ditemi, vi prego: perché vai discorrendo di queste orribili tristezze, la vita è già così breve e difficile per se stessa, amareggiarci di proposito è cretino; in fin dei conti queste tristezze non ci riguardano, riguardano solo te. No, io rispondo, purtroppo riguardano anche voi, sarebbe bello, lo sa, che non vi riguardassero. Perché questa faccenda delle gobbe del prato accade a tutti, e ciascuno di noi, mi sono spiegato finalmente, è proprietario di un giardino dove succedono quei dolorosi fenomeni. È un'antica storia che si è ripetuta dal principio dei secoli, anche per voi si ripeterà. E non è uno scherzetto letterario, le cose stanno proprio così.
Naturalmente mi domando anche se in qualche giardino sorgerà un giorno una gobba che mi riguarda, magari una gobbettina di secondo o terzo ordine, appena un'increspatura del prato che di giorno, quando il sole batte dall'alto, manco si riuscirà a vedere. Comunque, una persona al mondo, almeno una, vi incespicherà.
Può darsi che, per colpa del mio dannato carattere, io muoia solo come un cane in fondo a un vecchio e deserto corridoio. Eppure una persona quella sera inciamperà nella gobbetta cresciuta nel giardino e inciamperà anche la notte successiva e ogni volta penserà, perdonate la mia speranza, con un filo di rimpianto penserà a un certo tipo che si chiamava Dino Buzzati.
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sportpeople · 7 years
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In un girone che non spicca certo per tifoserie blasonate e interessanti da vedere, per i tifosi romanisti la trasferta di Londra col Chelsea conserva forse una piccola aurea di fascino rispetto alle altre due (sebbene quella col Qarabag sia stata spettacolare per la sua unicità e la sua particolare ubicazione geografica). Se non altro perché Stamford Bridge, a differenza dell’Emirates Stadium ad esempio, non è un impianto ultra moderno nella sua concezione e la tifoseria blues si porta dietro un’ormai anacronistica fama. Insomma, niente per cui stropicciarsi gli occhi, ma varcare la Manica dà sempre una motivazione in più.
I tagliandi riservati ai sostenitori capitolini sono 2.300 e, come immaginabile, sono stati velocemente esauriti in prevendita.
Non mi soffermerò per scelta su tutti i rumor che hanno preceduto e seguito questa gara. Fantasticando, descrivendo, blaterando e, perché no, anche ricamando su presunti incontri tra romanisti e napoletani. Non lo farò innanzitutto perché da sempre mi è impossibile descrivere un qualcosa che non vedo (e questo dovrebbe essere comune a tutti quei giornaletti da quattro soldi che per tre giorni consecutivi hanno tentato di spammare la notizia per ingrossare del 50 percento il proprio misero traffico).
Ma non lo farò soprattutto perché una delle poche regole del movimento ultras a cui ancora credo – e a cui crederò fermamente per tutta la mia vita – è quella del silenzio e della discrezione. Dispiace sapere che molti, oggigiorno, si siano fatti plagiare dalla tecnologia e utilizzino social, whatsapp e quant’altro senza comprenderne la potenza e, giocoforza, la pericolosità. Lo sviluppo multimediale è un bene prezioso per tutti. Diventa a dir poco mortale quando se ne fa uso improprio.
E qui chiudo.
Manco a dirlo è una giornata fredda e piovosa ad accogliermi una volta arrivato all’aeroporto di Stansted. Per me che porto ancora addosso i 26 gradi di Roma e la relativa maglietta a maniche corte è un colpo duro da digerire. Figuriamoci poi se ciò si concilia con un periodo della mia esistenza in cui ho iniziato a odiare il freddo e la pioggia manco fossero i miei nemici giurati.
Mentre l’autobus della National Express si immerge nel classico caos che preannuncia l’ingesso nella capitale inglese, cerco di pensare a quello che ho sempre invidiato a questa città: la moltitudine di squadre disseminate in ogni quartiere. Ognuna con la sua identità e il suo seguito. Ognuna col suo stadio e i suoi particolarismi. C’è chi viene a Londra per ammirare l’Arsenal, il Tottenham e il Chelsea. C’è stato un periodo della mia vita in cui ogni volta che vi ho messo piede ho velatamente sognato di rivedere giocare il Wimbledon risorto dalle ceneri di quel fetido mostro chiamato Milton Keynes o fare una puntatina allo stadio del Brentford.
Eppure, a differenza di altri miei desideri calcistici, questi non li ho mai assecondati fino in fondo. Chissà, forse manca quella spinta propulsiva che mi fa passare due o tre notti fuori casa, dormendo poco e vivendo alla giornata, per vedere un Dinamo Zagabria-Hajduk Spalato o uno dei tanti derby italiani. Mancano gli ultras da queste parti. E per me è una discriminante fondamentale. Sebbene ammiri la passione che i sudditi di Sua Maestà ripongano attorno alla sfera di cuoio. Del resto “l’hanno inventata loro” e, anche se di vittorie – almeno a livello di Nazionale – ne hanno viste proprio poche da (e pure dubbie, gol di Hurst docet), l’amore paterno che le riservano è innegabile.
Da Paddington a King’s Cross, passando accidentalmente per Piccadilly Circus, sono tante le sciarpe sangue e oro che sin dalle prime ore del pomeriggio sfilano all’impazzata. Se volessimo paragonare le trasferte europee a quelle italiane potremmo inserire Londra nella classica scampagnata a cui un po’ tutti vogliono partecipare. I prezzi più che accessibili per raggiungerla e l’impostazione mentale ormai abituata al viaggio dentro al continente hanno fatto il resto. Oltre a quello che accennavo in precedenza: il mito che resiste (almeno per me inspiegabilmente) attorno al pubblico britannico.
La Tube si inerpica lentamente fino a Fulham Broadway. La District Line è quanto di peggio ti possa capitare a Londra. “Sembra la Linea B!” sussurro tra il serio e il faceto a mio fratello. Effettivamente non ci va molto lontana in quanto a efficienza. Ovviamente è un’eccezione a un sistema di trasporti che fa impallidire quello romano, ma è un’imperfezione che fa piacere sottolineare. Solo per il gusto di smontare, a ogni minima occasione, questo alone di perfezione con cui molti italiani descrivono tutto quello che avviene da queste parti.
Più lo stadio si avvicina e più l’assembramento di steward si fa massiccio. A breve capirò che qua, ancor più di altri stadi visti Oltremanica, sono veramente loro a gestire il tutto. Nel bene e nel male.
Un commento voglio riservarlo all’ubicazione di Stamford Bridge: letteralmente incastonato tra i palazzi. Nel nostro Paese spesso si alzano polveroni e si creano problemi facendo riferimento alla difficoltà nel gestire l’ordine pubblico in stadi simili. Ecco, se vogliamo confrontare i due modelli e smentire le tante dicerie esistenti su quello inglese, potremmo cominciare proprio da qui: penso che finora a nessuno sia venuto in mente di smantellare la casa del Chelsea per un simile motivo. Ma, ancor meno, a nessuno è venuto in mente di vietare una trasferta o limitare l’accesso ai tifosi ospiti per carenze strutturali (in Italia avrebbero partorito anche questo lampo di genio, stiamone certi).
Mentre a destare la mia sorpresa è anche il prezzo applicato dalla società londinese agli ospiti: 35 pounds. Circa 40 Euro. Un passo indietro che rispecchia gli ultimi anni di contestazione serrata portata avanti dai tifosi locali contro il caro biglietti. Negli ultimi mesi, infatti, la Federazione ha imposto un tetto massimo di 40 pounds per i tifosi ospiti. Una scelta saggia, che arriva dopo anni caratterizzati da un progressivo ma inesorabile allontanamento della working class dalle gradinate. Una decisione che è praticamente opposta a quanto succede da noi in questo periodo storico. Basti pensare ai 40/50 Euro richiesti per tanti settori ospiti della Serie A. Senza dimenticare, ovviamente, che quando parliamo di Inghilterra dobbiamo tener conto di salari e costi della vita differenti. 35 Sterline per un biglietto  potrebbero esser paragonate ai nostri 20/25 Euro richiesti in settori ospiti come quelli dell’Olimpico di Torino. Anche facendo un rapido rapporto qualità prezzo/qualità stadio. Ognuno tragga le proprie conclusioni.
Prima della partita c’è da registrare qualche problemino tra tifosi giallorossi e polizia in zona Kensington. Ne farà le spese un supporter italiano, arrestato dai bobbies.
Tornando sulla petulanza degli steward, invece, segnalo diversi problemi a far entrare alcune pezze, ritenute da loro “non conformi alle misure consentite”. Mentre appare ormai ai limiti del ridicolo il messaggio presente sui biglietti: “Persistent standing is not allowed” (non è permesso stare in piedi continuamente). Basta guardare la Matthew Harding Stand e buona parte dello Shed End riservato ai londinesi per capire come ormai tale prescrizione non sia rispettata nemmeno più dagli inglesi. Del resto quella del ripristino delle standing area è una delle richieste più discusse da queste parti. Club e istituzioni sembrano essere pienamente favorevoli e l’ufficializzazione di questi spazi sembra sempre più prossima. Intanto lo Shrewsbury Town ha adibito una zona del proprio stadio a stending area e ciò fa ben sperare per le altre tifoserie, che auspicano un veloce effetto domino. Del resto anche la ferrea mentalità britannica conosce la logica. Che in questo caso è sicuramente quella del business (stadi più caldi costituiscono senza dubbio un maggiore spettacolo). Ma sempre meglio ciò che imposizioni assurde e bigotte. Stare in piedi non c’entra un bel nulla con la violenza. Sarebbe quasi superfluo ribadirlo, ma in questo mondo di moralizzatori e tuttologi mai entrati in uno stadio, val bene ricordarlo.
La casa del Chelsea al suo interno risponde alle classiche caratteristiche degli stadi inglesi. Ed è ovviamente molto bella a vedersi proprio perché – come accennavo in precedenza – è un impianto funzionale e perfetto per il calcio ma non scade nel pacchiano e nell’artefatto tipico degli stadi moderni. Ha una sua anima e una sua conformazione. Quanto basta per renderlo simbolo di un’identità. Lo sanno bene a pochi chilometri da qua quanto perdere questo sia deleterio e controproducente. Ovviamente mi riferisco al West Ham e al suo insensato e pessimo passaggio dallo storico Upton Park al dispersivo e inanimato stadio Olimpico.
I tifosi della Roma cominciano a farsi sentire già in fase di riscaldamento mentre quelli di casa sin da subito mostrano tutta la propria pacatezza/apatia. A tal merito evado immediatamente il commento su di loro: difficile giudicare un silenzio di almeno 87 minuti su 90. Veramente un ambiente inesistente, non me ne voglia nessuno. Ogni volta che metto piede in uno stadio inglese ne esco forgiato e rinfrancato pensando alle tifoserie italiane. Spesso ci lamentiamo (giustamente) del calo di passione e spettatori. Ma paradossalmente anche un nostro stadio mezzo vuoto produce più rumore di questi silenziosi templi. È vero che in Inghilterra non è mai esistito un qualcosa di simile al movimento ultras (hooligans è assai differente e a mio avviso non paragonabile al nostro tifo organizzato) e non c’è mai stata una vera e propria entità in grado di concepire un tifo continuativo e non spontaneo. Ma qua parliamo proprio di 40.000 manichini. Se qualcuno ancora osa parlare di “maestri inglesi” ne rimango davvero sconcertato. Se questi sono i maestri preferisco rimanere analfabeta a vita!
Di contro, ovviamente, sono gli ospiti a recitare il ruolo dei leoni. In uno stadio dove anche un sussurrio genera rumore amplificato è facilmente immaginabile come canti, manate e cori a rispondere possano rimbombare veementi. Volendo dare un giudizio più “tecnico” c’è da dire che il settore ospiti parte un pochino a rilento, impiegando un po’ di tempo per sistemarsi e prendere le misure del proprio spazio. Forse, mi permetto di dire, il posizionamento dei gruppi nell’anello superiore avrebbe giovato di più alla coordinazione del tifo (se non altro perché il secondo anello era occupato da più persone). Di certo l’avvio catastrofico della Roma non aiuta molto. I giallorossi dopo 37 minuti sono già sotto per 2-0 grazie alle reti di Hazard e David Luiz. Ci pensa un gran gol di Kolarov prima dell’intervallo a riaccendere le speranze e far mettere definitivamente in moto il settore ospiti.
Nella ripresa è infatti un monologo romanista. In campo e sugli spalti. Una Roma autoritaria riesce addirittura a ribaltare il risultato con una doppietta di Dzeko, provocando due tra le più belle esultanze viste negli ultimi anni. Hazard pareggia nel finale, stabilendo il risultato sul 3-3. Ma ormai il sostegno vocale dei supporter capitolini è lanciatissimo e non ne risente. Si vede che la conformazione dello stadio fomenta e inietta nelle vene la voglia di cantare e urlare. Si percepisce che lo stare attaccati al terreno di gioco può influire ancor più sull’andamento della partita. E non ci si fa sfuggire l’occasione.
A fine gara gli applausi sono tutti per la squadra allenata da Eusebio Di Francesco, che va a raccogliere i complimenti dai propri tifosi ancora impegnati nell’esecuzione di “Don’t take me home”, hit del momento per la Curva Sud.
Tempo di respirare le ultime sensazioni, mentre lo stadio si è completamente svuotato e i giardinieri sistemano meticolosamente le zolle, e anche per me è tempo di lasciare Stamford Bridge. 
Mi imbatto in una coda infinita davanti all’entrata dell’Underground. Tanto da optare per un autobus. Ci sono ancora tanti tifosi italiani in giro sebbene la pioggia abbia iniziato a bagnare copiosamente Londra. Devo attendere l’alt di Giove Pluvio per potermi incamminare verso Finchley Road e riprendere un autobus in direzione aeroporto. È notte fonda e per le strade ormai non v’è anima. Posso soltanto frazionare il mio sonno tra pullman e aereo prima di rimettere piede sul suolo patrio. Dove fortunatamente mi accolgono sole e caldo.
Simone Meloni.
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Dopo più di un mese che non scrivo qui ho poco e niente da dire, ma quello che ho ha un certo peso e ho bisogno di elaborarle prima di metterle giù con sicurezza; Le ultime settimane soprattutto sono state un po’ turbolente.
Di due persone devo parlare in particolare: Marie e Marco. Come sempre, direte voi. Io invece preferirei non farlo.
Marie.
Marie sta male, la mia piccola Marie. Soffre di depressione, ormai è ovvio e palese, ormai è certo che è malata e questa sua malattia ha raggiunto livelli alti.
Ci sono vari sintomi della depressione, per quanto io ne sappia su questo argomento: le persone affette da questa malattia - che è una vera e propria malattia che va curata con farmaci e visite specializzate, che non se ne va semplicemente perché lo vuoi - hanno difficoltà a vivere normalmente, fare le cose come le facevano prima, mangiare, sentirsi importanti, dormire bene e il giusto (dormono troppo o troppo poco), concentrarsi. Sono nervose o fin troppo pigre, e hanno spesso pensieri suicidi.
Bastano solo cinque di questi sintomi perché si possa diagnosticare la depressione clinica.
[Per sapere dove ho letto queste cose cliccate qui, è tutto scritto/detto in inglese ma se traducete è questo, più dei consigli su come aiutare qualcuno affetto da depressione clinica]
Marie, per quel che mi dice distrattamente e per quel che riesco a notare io pur sentendola solo per telefono, ne ha forse più di cinque, ma me ne sono resa conto solo dopo che lei m’ha detto che la madre del suo moroso le ha detto che non è guarita dalla depressione e mi sono convinta a informarmi un minimo.
Qualche giorno fa il suo ragazzo m’aveva scritto allarmato dicendo che non gli rispondeva più e che la stava cercando, io e Amber abbiamo passato mezz’ora d’inferno muovendo mezzo mondo per cercarla.
Alla fine stava dormendo, Camille nel chiamarla l’ha svegliata. Parlando con lei, qualche ora dopo l’incubo (fissavo il vuoto e e quando provavano a parlarmi piangevo, ripensavo a tutte le volte in cui m’aveva detto “Me ne vado” o “M’ammazzo” ed era inquietantemente seria), mi ha detto che era viva solo perché quella notte non erano passati treni sui binari a pochi passi da casa sua.
Mi sono messa a litigare con lei, a dirle che la volevo nella mia vita ancora per tanto tempo, che volevo darle in braccio i miei bimbi, al mio matrimonio girarmi e vederla lì vestita da testimone che mi guarda con gli occhi lucidi, che volevo aiutarla a superare questi anni di inferno, volevo farle guardare ciò che avrà costruito in futuro e dirle: “Visto che hai fatto bene a continuare a combattere?”
“Porterai i tuoi figli al cimitero, parlerai loro di me davanti alla mia tomba. Ti guarderò da lassù.”
“Sono atea, Marie, io di una cazzo di lapide non me ne faccio niente. Per me le persone ci sono da vive, non da morte.”
Domenica ho ancora litigato con lei per questo, aveva riniziato a dire queste cose. 
Io ho cercato di farla ragionare e quando non ce l’ho fatta mi sono chiusa in camera e ho pianto. Avevo parenti a casa, ed è arrivato anche mio cugino Jace con mia zia. Quando sono venuti a salutarmi avevo appena smesso di piangere, e entrambi hanno capito che c’era qualcosa che non andava.
“E’ successo qualcosa in casa o fuori?” ha chiesto mia zia.
“Fuori, ma non è niente, tranquilla.”
Jace ha indicato le scale e ha detto: “Madre, scendi che io e mia cugina dobbiamo parlare.”
“No, deve scendere a salutare zio.”
Siamo scesi e alla fine con Jace non ho parlato. Meno male, perché conoscendolo sarebbe partito e andato da Marie senza preoccuparsi due volte di sua madre, della compagnia, di me che lo avrei pregato di non dire a Marie che gli avevo detto una cosa del genere.
In compenso credo avesse capito che stavo in quel modo per Marco. Ieri ho capito il perché, ma è un’altra storia.
Ora comunque, Marie cerca di evitare l’argomento. Credo che quando le vengono le ricadute eviti di parlarmi, o almeno di dirmi tutto quello che le passa per la testa come faceva prima.
Quando le ho detto dell’episodio di domenica con Jace mi ha detto di non piangere per lei, che sono solo ricadute.
“Era solo per il nevoso, non ci sono abituata ma sto cercando di farlo perché ti voglio stare vicino anche quando spari cazzate perché è il minimo che io possa fare.”
“Lo so, Michele (il suo ragazzo) me l’ha detto che stai facendo anche più di quello che sei in grado di fare solo perché mi vuoi bene.”
Quelle parole mi hanno confortato, perché a me sembrava di non riuscire a fare nulla di concreto. Più che dirle che deve farsi aiutare e che non deve pensare di non avere un futuro non so bene come comportarmi. Lo stress e tutte le responsabilità che mi carico da sola mi fanno piangere per il nervoso e comportarmi male con gli altri, ma non voglio smettere di preoccuparmi.
Perché ho paura di non prenderla sul serio un giorno e perderla così, in un battito di ciglia. E anche se sono andata a letto un paio di sere temendo che mentre io ero sdraiata nel mio letto lei stava per fare l’irreparabile, non voglio non pensarci.
Voglio provarci fino all’ultimo, anche sbagliando.
Voglio provarci perché lo merita, voglio provarci perché è la persona più importante della mia vita e voglio stare al suo fianco fino all’ultimo, voglio averla al mio fianco. Le ho promesso che ci sarei stata, e non manco alle promesse.
Non con lei.
Marco.
Marco dopo l’ultima volta che ho scritto su questo diario non l’ho sentito per quattro/cinque settimane. Nel corso di questo tempo ha fatto di tutto per attirare la mia attenzione visualizzandomi alcune storie di instagram, whatsapp e facebook (con vari profili, ho motivo di credere), mettendomi quegli insopportabili like su facebook non solo alle mie foto ma, come è successo una sera, anche ad uno stato dove scrivevo: “Ora che so quel che voglio la domanda che più mi preme è: tu lo sai?”.
Dopo l’ultimo like, non messo su facebook ma su instagram, pensavo di essere immune, di essere sì innervosita dal suo comportamento ma completamente indifferente.
Sapevo in cuor mio che erano piccoli gesti in modo da spingermi a scrivergli, a ricordarmi di lui, e proprio perché lo sapevo mi sono trattenuta dal farlo.
So che sembrano cose stupide, ma lo conosco abbastanza da sapere che lui gioca proprio su questo per non avere colpe. Gli stratagemmi per uscirne pulito li sa tutti, e sa esattamente come rigirarmi per ottenere quello che vuole.
Fatto sta che ieri sera mentre guardavo le notifiche di Instagram mi è capitato il suo nome sotto agli occhi per la decima volta e, cedendo, ho guardato il suo profilo: non lo usa spesso, quindi quando ho visto una nuova foto (dove aveva una barba orribile e in mano un attestato) mi sono messa a ridere.
Non capendo che cosa fosse, senza pensarci gli ho mandato un messaggio per chiedergli informazioni.
“Che hai preso?”
“Ehhh.”
“Eh cosa? Dai che voglio farti i complimenti se è qualcosa di importante.”
“Ehh ma come mai mi scrivi? Il diploma comunque.”
“Ma non l’avevi già preso?”
“Si ma era la consegna.”
“Allora congratulazioni, visto che alla fine non te le ho fatte. Comunque così. Ti ho sognato due notti di fila.” gli ho detto, per rispondere alla domanda, in uno slancio di sincerità sul quale non ho pensato molto. E’ stato tutto questione di pochi minuti, perché ha subito visualizzato e risposto. Probabilmente aveva il cellulare in mano, d’altronde la foto era stata caricata una mezz’ora prima.
“Sono fidanzato” mi ha risposto lui, così dal nulla, senza che c’entrasse molto.
Io ho letto quelle due parole e ho sentito un dolore lancinante, simile a quando avevo visto la foto che aveva caricato su facebook dove posava la mano su quella di un’altra ragazza.
Ho cercato di pensare velocemente a una risposta perché non volevo che pensasse che quell’affermazione mi avesse fatto l’effetto che probabilmente si aspettava.
“Ah, finalmente!” sono riuscita a scrivere, anche se a posteriori penso che avrei potuto chiedergli da quanto o un “Davvero?” un po’ sarcastico.
“Eh, tu non ti sei fatta più sentire..”
“Guarda che non devi giustificarti con me. Non avevamo nessun impegno, quasi me lo aspettavo. Io volevo solo chiederti cosa avessi preso perché ho visto il like e per curiosità sono andata sul tuo profilo, tutto qui.”
“Ah ok ok.”
Non gli ho risposto, stavo già dormendo. Quando mi sono svegliata alle cinque di mattina ho visualizzato il messaggio e innervosita ho archiviato la chat.
Non avevo nient’altro da dirgli, e orgoglio e rispetto mi hanno impedito di continuare quella che non so se davvero fosse una conversazione.
Sono stata un bel po’ a rifletterci sopra, a chiedermi che significasse quel “tu non ti sei più fatta sentire”: l’aveva di nuovo rigirata come se fosse colpa mia, e io ho dovuto ripetermi più volte che la colpa in realtà era sua, che se avesse voluto mi avrebbe cercato, e non solo una volta come aveva fatto. 
Sono stata un bel po’ a pensarci perché quelle due parole m’avevano fatto male non perché ora fosse di un’altra, ma perché dopo un anno passato a dirmi che non poteva darmi quello che volevo ora stava dando tutto quello che avrei voluto a un’altra.
Sono stata un bel po’ a chiedermi se davvero fosse colpa mia, ma poi sono arrivata a realizzare che quel che potevo l’ho fatto. E ho ancora qualche domanda da fargli e mi sa che probabilmente nel giro di ventiquattro ore gliele faccio, devo solo trovare il coraggio.
Stamattina ero un po’ assente e apatica perché mi chiedevo se davvero si è fidanzato, con chi, e se era per questo che cercava di attirare la mia attenzione così, se era questo che aveva da dirmi. 
 Poi pian piano sono riuscita a non pensarci, o almeno non lasciare che tutta questa situazione mi facesse star male; ora devo solo capire, ma nel complesso so di stare bene.
So che se davvero se n’è andato, so che se stavolta m’ha davvero perso, è la mia chance per andare avanti e stare bene.
Finalmente.
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ginevra-malcolm · 8 years
Text
Chapter 54 - St. Charles Avenue Presbyterian Church, Audubon Park
Malcolm
L’indirizzo che Malcolm ha mandato via messaggio a Ginevra è quello della St. Charles Avenue Presbyterian Church, situata vicino all’Audubon Park, struttura imponente risalente ai primi decenni del secolo scorso. All’interno, seduto ad uno dei banchi di legno più o meno al centro della fila a destra, c’è appunto il nostro giornalista, la compostezza fatta persona come sempre. Indossa un completo grigio scuro – giacca, panciotto e pantaloni – una camicia bianca e una cravatta rosso cupo di cui si vede solo la metà superiore. Sta ovviamente aspettando la donna e nell’attesa legge un passo della Bibbia, motivo per cui indossa gli occhiali e sta col capo leggermente chino, rivolto alle pagine. Ha con sé anche la borsa da lavoro, poggiata al suo fianco, dalla parte opposta all’accesso centrale al banco, quindi alla sua destra. All’anulare della mano sinistra c’è la fede ed anche un cerotto sulla parte più larga del dito, dove si era fatto male strappando via l’anello violentemente. In chiesa non c’è quasi nessuno, giusto qualche visitatore occasionale, forse fedeli o semplicemente gente attratta dall’architettura niente male.  
Ginevra
Ha raggiunto a piedi il luogo, camminando con calma, ci è èassata davanti tantissime volte. Stava ancora dormendo quando ha ricevuto l'sms con solo un indirizzo e avrebbe continuato a dormire per altre dodici ore almeno, convinta di averlo sognato, se non fosse salita Korinne per liberare il gatto che miagolava, furiosamente, dietro la porta chiusa della casa. E' rientrata tardissimo, davvero ubriaca, tanto che è dovuta scendere Maman per farle infilare la chiave nella toppa della libreria, rimproverandola, dicendole di diavoli dell'inferno e facendola piangere terrorizzata, mettendosi a nominare il Barone Samedi. Indossa un abito vintage azzurro chiaro, a pois bianchi piccolissimi, La gonna ampia che ricade in morbide pieghe, le maniche corte leggermente a palloncino e il collo simile a quello di una camicia, aperto. Ai piedi ha delle scarpe da tennis bianche e anche la borsa, di pelle morbida, è bianca e la porta a tracolla. I capelli sono raccolti dietro la nuca in una mezza coda, le ciocche davanti sono portate indietro e legate, lasciando gli altri capelli ricadere liberi dietro la schiena. Ha l'espressione accigliata, perché ritiene che sia un dispetto personale, quello del sole, di puntarle sugli occhi... con il mal di testa che ha! E poi i bambini che non sono mai stati tanto urlanti nei loro giochi... Insomma la città ha deciso di essere più rumorosa e più luminosa del solito. Quando arriva all'esterno della chiesa si guarda intorno, nemmeno l'ombra di Malcolm e così guarda verso la porta «e che cazzo, prenderò fuoco» borbotta rendendosi conto che deve entrare. Resta così qualche minuto all'esterno con aria ancora più imbronciata di prima, litigando silenziosamente con una folla di gente immaginaria che le dice di pentirsi. Sbuffa infine e va verso l'ingresso, cautamente, rivolge lo sguardo intorno come se si aspettasse che qualcuno la riconosca (?) e le dica che no, lei no, non può mica entrare. Ma chi si vuole che la riconosca? Per fortuna non abbiamo il cartello dei peccati appeso al collo e quindi... fa in suo ingresso in chiesa. Osserva i pochi, pochissimi, presenti ed individuato Malcolm va nella sua direzione. Si ferma di fianco al banco in cui siede, in difficoltà, per via del luogo, osserva la bibbia che il giornalista sta leggendo e istintivamente scuote il capo, un movimento appena accennato, frutto di un pensiero legato ai testi antichi. Resta in silenzio, è certa che se anche bisbigliasse si girerebbero tutti a guardarla.
Malcolm
Si avvede dell’arrivo di Ginevra solo quando lei compare al banco: pur non voltandosi completamente verso di lei col viso, interrompe la lettura, chiude la Bibbia, la posa fra sé e la borsa, si toglie gli occhiali e li rimette nella tasca interna della giacca dove li tiene solitamente. L’espressione dell’uomo è come sempre compassata, statuaria, eppure si vede benissimo che non chiude occhio da almeno due notti, si vede benissimo che si sente triste e perso. Anche per questo non mostra del tutto il volto a Ginevra, non lo alza completamente per guardarla. «Vuoi sederti?» le domanda a voce bassa e piatta, non come domanda retorica. E’ proprio quello che significa: sapere se vuole sedersi o meno, c’è ovviamente un invito di fondo, manifestato indicandole l’abbondante spazio fra lui e la fine del banco dove sta Ginevra. Non un sorriso sul suo volto, solo un silenzioso dolore chiuso in quel guscio di freddezza e distacco emotivo, benché le parole siano in qualche modo confidenziali e affettuose. Aspetta che lei prenda una decisione, sta con lo sguardo e il capo basso, anche se voltato in sua direzione.
Ginevra
Segue con lo sguardo ogni movimento di Malcolm, in silenzio ancora. Alla sua richiesta sposta lo sguardo intorno, ad osservare i pochi presenti, ruberà il posto di qualcuno? Ci sono poi i posti assegnati come a scuola? Non ne è sicura, ricorda che da bambina, quando sua nonna la portava in chiesa le persone sedevano sempre negli stessi posti. Arriccia le labbra verso destra, afferrando l'interno della guancia sinistra tra i denti. Espira poi dal naso, lentamente e silenziosamente e si infila nel banco, si siede a metà tra Malcolm e la fine del banco, appoggia i piedi sull'inginocchiatoio del banco davanti e guarda verso la vetrata centrale, quanto meno si sono risparmiati il cattivo gusto dell'esposizione millenaria del cadavere di un uomo crocifisso. Nessuna croce con un uomo seminudo appeso in bella vista al centro. Sospira quasi sollevata da questa cosa. Resta ancora in silenzio, non solo perché è certissima che, se anche bisbigliano, tutti sentano, ma anche perché non ha nulla da dire o forse avrebbe molte cose da dire e non sa come farlo o, meglio, non vuole nemmeno impegnarsi a trovare il modo di farlo. Non è cattiva volontà, ma ha mal di testa ed è seduta in una chiesa e non sa perché.
Malcolm
Attende e la vede sedersi . Sta in silenzio, tiene lo sguardo basso, sulle proprie mani che tiene congiunte, con le dita incrociate alla metà superiore, posate sulle gambe. Stringe un po’ i denti e le labbra fra loro, per poi andare a sfilare la fede dall’anulare. Lo fa lentamente e con autentica sofferenza, con dei pensieri concreti e tangibili, anche se non si possono indovinare, che gli incupiscono il volto. La toglie e la tiene sul palmo della mano sinistra, quella più vicina a Ginevra, la avvicina un po’ a lei. «Non riesco a stare lontano da te.» dice lentamente «Perché ti amo, anche se tu non riesci a capire quanto e come. Ti amo da quel poco, quel mai abbastanza che sono, ti amo dall’anima in pezzi che cerco di darti sperando che tu la guarisca, senza disgustarla.» continua, senza poter controllare delle lacrime che scendono su queste parole, terribilmente reali. «Ti amo dai miei limiti che cerco di superare solo per vederti contenta. Ho paura e sarebbe così facile starmene al sicuro, senza vivere col timore costante di essere disprezzato per i miei limiti,  e nonostante ciò ti amo. E non sono capace di passare oltre a nessuna delle persone che amo.» inspira in modo frammentato e morde il labbro inferiore, tirando su col naso, senza asciugare le lacrime che scorrono. «Per alcune persone, essere accettati è la cosa più bella che si possa desiderare.» visto che lei ha menzionato che la ama solo per la necessità di essere accettato. «Ho provato molti tipi di dolore, ma mai come ora quello di gridare e non essere sentito.» inspira di nuovo, profondamente, per frenare la sensazione di pianto che nasce dietro agli occhi. Per tutto il tempo ha tenuto sospesa la mano che tiene la fede sul palmo, e lo fa ancora. «Non ti amo in sostituzione, ti amo in aggiunta, per provare ad andare avanti, nonostante sia difficile, nonostante io fallisca tante volte. Ti trovo attraente, ho solo un rapporto difficile con la fisicità, e sto cercando di superarlo per te.» dice ancora, mordendosi di nuovo il labbro inferiore, per poi tacere.
Ginevra
Tiene lo sguardo basso, il movimento delle mani di Malcolm lo attira. Osserva il gesto che lui compie pressoché immobile, in silenzio. Lo ascolta senza mai staccare gli occhi dalla fede che lui tiene sul palmo della mano, quel semplice cerchietto d'oro che di semplice non ha nulla, caricato di significati da chiunque, assunto a una sacralità che lei non comprende, né è in grado di accettare. Anche lei ha paura adesso, perché ha scoperto, suo malgrado, che le cose non possono essere dette tutte, che c'è sempre qualcosa da tacere ed è per lei un modo disallineato dal giusto. Quante altre volte scoprirà, troppo tardi, che la vasca è stata svuotata? Non ne ha idea, la fronte si corruga appena mentre ogni parola detta da Malcolm fa breccia e si sedimenta. Solleva la mano destra e la posa sul palmo del giornalista, la chiude a pugno poi andando così a stringere la sua fede, ma non allontana la mano, la lascia posata lì sulla sua «Ti fidi di me?» glielo domanda in un bisbiglio, senza ancora alzare lo sguardo, restando ad osservare la propria mano chiusa che stringe un anello di promesse scambiate con un'altra donna.
Malcolm
Quando Ginevra mette la mano sul suo palmo stringendo la fede ha un brivido, perché è così difficile per lui rompere quella promessa di fedeltà eterna, sebbene il “tradimento” ci sia già stato, sebbene non sia stato lui ad interrompere il matrimonio. Il punto a cui non vuole mai guardare, nel suo modo di proteggersi dal dolore e dal senso di colpa, è che quell’anello è ormai privo di significati, è solo un non riuscire a staccarsi – volontariamente o involontariamente – dai ricordi, quelli troppo belli da non amare e quelli troppo brutti da non esserne torturati. Prende un respiro alla sua domanda, il respiro che si potrebbe prendere quando si è terrorizzati e persi, perché bisogna saltare nel vuoto e nel buio per sperare in qualcosa di meglio, una salvezza. “Come un perdono” scriveva Pessoa. Annuisce, ricacciando indietro le lacrime che comunque continuano a scendere sul viso vecchio, dagli occhi stanchi, sull’espressione spezzata e pur sempre dignitosa, altera. «Voglio fidarmi.» aggiunge, dopo aver annuito. Ed ecco, resta sospeso a vedere cosa succede. Se morirà o vivrà.
Ginevra
La sua risposta sembra essere sufficiente, allontana la mano dal palmo di Malcolm, chiusa a pugno, l'anello al suo interno, chiuso come in uno scrigno. Non per la sacralità dell'anello in sé che lei non conosce e non riconosce come possibile, ma per la sacralità che lui, Malcolm, assegna a quell'oggetto. E' qualcosa che ha valore perché lui gliene dà, lei non ravvede valori assoluti, ma non ha nessuna importanza ora. Non dice nulla solo porta la mano verso la borsa con lentezza, Malcolm può strapparle via l'anello in qualsiasi momento, e con l'altra che va ad aggiungersi, manovra all'interno, probabile stia riponendo l'anello in una pochette o qualcosa di simile. Sicuramente riposto meglio di come ripone i suoi soldi, accartocciati e sparsi nella borsa, anche quelli privi di alcun valore assoluto per lei. Alza lo sguardo su di lui, finalmente, per posare gli occhi sul suo viso, cercando i suoi occhi «perché siamo qui?» non loro due insieme in un posto, perché sono proprio lì, in quel posto, seduti ai banchi di una chiesa.
Malcolm
Vedere allontanarsi quell’anello che ha tenuto al dito per trent’anni, fa parecchio effetto, si sente nudo senza quella fede, si sente vuoto, sperduto e vulnerabile in mezzo al campo di battaglia che ha nell’anima, un campo desolato dove ora aspetti solo, a pezzi, che nasca o che venga qualcosa. D’altronde sua moglie è sempre stata tutto per lui, una fortezza incrollabile, una casa, una famiglia, tutto ciò che bastava a completarlo e a realizzarlo, come ha scritto nella lettera lasciata a Ginevra. Eppure la cura che lei riserva a quel cerchio d’oro lo rassicura un po’ in ciò che sta vedendo allontanarsi da sé, come se si convincesse che il fatto che non venga buttato via come fosse qualcosa da disprezzare, sia un segno positivo. Segue il viaggio di quell’anello fino al suo nuovo luogo, come si segue, con gli occhi lucidi, la dipartita di una persona cara che va via, e in questo rinnova il suo dolore di essere distaccato da sua moglie una seconda volta. Tutta la differenza sta in cosa si può trovare dopo.  E se la prima volta il mondo gli è crollato addosso riducendolo all’inimmaginabile, ora, al di là di una stoica resistenza al dolore, c’è solo una domanda ad attenderlo dietro l’angolo. Solo quando la sente, si accorge degli occhi che  lo stanno fissando e che lui invece non guardava, dato che fissava l’anello e poi il posto in cui era finito. Realizza la domanda con un certo ritardo, come se perdere l’anello lo avesse lasciato confuso, intontito. «Sono cresciuto qui, a questo banco, in questo punto.» dice lentamente, come se si svegliasse da una sorta di torpore. «I miei genitori erano presbiteriani.» spiega solo questo in un primo momento. Come se dovesse essere una giustificazione a tutto.
Ginevra
Si acciglia, è un accigliarsi appena accennato perché, dopotutto c'erano davvero i posti assegnati e nella sua mente sta passando l'immagine di una anziana signora con bastone che arriva a scacciarla accusandola a gran voce di averle rubato il posto. Scaccia via questo pensiero che non va bene, che non c'entra niente, prima che si infili nell'autostrada che va dal pensiero alla parola. Cerca la sua mano, per afferrarla, stringerla... stringerla come se non volesse lasciarla mai più «andiamo via» è quasi una supplica «non c'è niente qui, lo sai» le sembra scontato che lui lo sappia che non c'è niente in una qualsiasi chiesa, perché è uno che vive analizzando fatti; fa anche per alzarsi senza lasciare la sua mano se è riuscita a prenderla. Quella supplica espressa nel tono di voce è presente sul suo viso anche, negli occhi che fissano quelli di Malcolm quasi volesse perdersi in essi «ti porto a vedere una cosa...» aggiunge mormorando, non era in programma questo, si percepisce dalla leggera incertezza con cui lo dice, attende quindi il suo assenso per lasciare la chiesa e tutti i vincoli che riguardano un luogo come quello.
Malcolm
Si lascia prendere e stringere la mano, ricambia solo lievemente perché sono stati momenti molto duri e la mano è quella dove manca l’anello, la sente quasi intorpidita e ha bisogno di tempo per mettere arrischiarsi a mettere in  ordine dentro la sua anima. Sente quella supplica, la guarda con quella sua aria salda e granitica, col dolore represso nelle profondità, negli occhi lo smarrimento di chi non sa più bene la propria identità. «Volevo solo mostrarti dove sono cresciuto.» afferma, pur annuendo alla richiesta di andare. «Volevo mostrarti perché sono chi sono.» aggiunge piatto, forse rassegnato, andando a posare la Bibbia nella borsa – visto che era ancora fuori – e lo fa soltanto con la destra, in modo da lasciare l’altra a Ginevra. Quindi prende la borsa e si alza, dando uno sguardo ancora, lento, alla chiesa, all’altare. Stringe le labbra per poi seguire Ginevra, senza discutere o chiedere nulla a proposito di cosa intenda fargli vedere. «Non capisco mai cosa tu voglia o non voglia sapere di me. Forse nulla.» conclude, sentendosi confuso a riguardo, su come ogni volta Ginevra pare voler fuggire dal passato di Malcolm, come se fosse qualcosa da accantonare, il più possibile, da non guardare, da trattare con spavento. Resta in perfetto silenzio proprio facendo una serie di pensieri a riguardo, mentre la segue uscendo fuori dalla chiesa.
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