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#FABRICA UTOPIA
rayssaicu · 3 years
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Eu descobri que há algo errado em meu cérebro. Não de forma poética, porque minha vida nunca foi uma poesia. Eu não sei bem, eu não entendo bem se é fisiológico, se é químico, se eu que vim com um defeito de fabrica.
Dizem que eu finalmente vou ficar bem. Se eu tomar minha medicação e fizer exame de sangue com frequência. Será que finalmente eu irei conhecer a utopia de "estar bem" na pele?
Dizem que todos meus traumas com o amor são frutos dessa desordem cerebral. Que toda lágrima que chorei foi sintoma. Que toda briga que entrei foi sintoma. Todo amor que senti? Mais sintoma.
Todos os meus gostos são sintomas. Minha personalidade é feita de sintomas. Cada marca dentro de mim é apenas um sintoma.
E a culpa? A culpa é latente. A culpa por ter nascido tão errada. Agora, mais do que nunca, eu tenho certeza. Agora, mais do que nunca, eu sei o quanto fui errada para todos aqueles a minha volta.
Meu cérebro é errado. E em noites como hoje, eu sou lembrada que nada em minha vida da certo. E como esse fracasso todo é a porra de um sintoma. E quero sumir. Me perder de mim mesma. Me desligar. Desligar esse cérebro que tá todo errado. Desligar essa Rayssa que tá toda errada.
E vamos do polo deprimido...
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iltrombadore · 4 years
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“Io, Claudio, Zevi e Palladio...”-Architetti a Roma anni ‘60.In memoria di Claudio D’Amato
di Duccio Trombadori
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L’amicizia, la collaborazione, la comunità di esperienza vissuta e ideali coltivati con Claudio D’Amato risale al 1964, quando cominciammo a salire i gradini di Valle Giulia da giovani studenti di Architettura, apprendisti stregoni pre-1968, carichi di ‘astratti furori’ di tipo palingenetico e desiderosi di interventismo rivoluzionario sul piano intellettuale e morale.
Abbracciammo tutti, così sulle prime, le ambizioni di rinnovamento pedagogico annunciate e introdotte da Bruno Zevi; leggemmo avidamente i suoi libri, ne restammo colpiti e suggestionati per l’ efficacia semplificante che tracciava linearmente i passaggi storici dal ‘classico’ allo ‘anti-classico’ come chiave di volta dei tempi architettonici moderni.
Ma le crepe culturali del codice modernista (tra gli equivoci di razionalismo, costruttivismo, funzionalismo, organicismo, neo-purismo, eccetera) si facevano già sentire e mettevano dubbi tra gli spiriti più avvertiti, soprattutto tra coloro che reclamavano un maggior rigore disciplinare in nome di una idea di architettura preservata come arte ‘autonoma’ irriducibile a vaniloquio informale e tantomeno a deriva sociologico-economica.
Senza saper dare risposte adeguate a queste domande basilari, cominciammo però, un po’ alla cieca, un lavorìo di coscienza che imponeva calibrati distinguo: volevamo addirittura riformulare, per conto nostro, un ‘vocabolario architettonico’ in grado di rispondere all’ esigenza di rigore e  rinnovamento sociale cui affidare una professionalità conseguente.
Questo esuberante trambusto ideologico accompagnò l’ inquieta formazione di tanti giovani nel passaggio difficile e traumatico degli anni ’60 al limitare del frastuono contestativo del 1968 che pregiudicò l’impianto della struttura universitaria mutandone sensibilmente funzioni e aspirazioni.
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Della ‘generazione anni 60’ Claudio D’Amato fu certamente tra i primi a prendere parte alla dialettica che oppose le personalità di Bruno Zevi, col suo pregiudiziale anti-accademismo, e Paolo Portoghesi, cultore di uno storicismo che metteva al centro la regola compositiva. Nascevano istanze revisioniste in materia di modernismo, tanto quanto si ripresentavano i valori fondanti e tradizionali della misura, della proporzione, della simmetria.  
Un interesse ‘archeologico’ scevro da romanticismi ci faceva riscoprire con Vitruvio l’ ordine classico alla base del pensiero costruttivo (“nascitur ex fabrica et  ratiocinatione") e rimettere in auge, con Canina, i Propilei di Villa Borghese, anticipando quasi un certo gusto postmoderno lontano a venire.
In questo clima di ripensamenti fu così che con Claudio D’Amato, Sergio Petruccioli e altri compagni di studio mi avvicinai ad una lettura ‘formalista’ (così Bruno Zevi) dell’ opera di Andrea Palladio che allora ci piaceva mettere in relazione con le mega-forme di archi e volute innalzate da Louis Kahn a Dacca e con l’ utopia geometrizzante di Le Corbusier a Chandighar.
Un viaggio di studio nelle provincie venete compiuto nel settembre del 1967 ci aprì alla conoscenza diretta delle grandi ville, delle basiliche, del Teatro Olimpico:  disegnammo, inquadrammo angolature fotografiche, studiammo Maser e Poiana e tutto il resto come abbeccedari del nostro comune viatico spirituale ad una idea di architettura in grado di associare il permanente e il transitorio, o, se, si vuole, la ricerca di un ‘pensare italiano’ (storia, tradizione) che fosse al tempo stesso uno stimolo alla innovazione. Di quel viaggio sentimentale di formazione conservo memoria nitida, una foto mi riprende sulle gradinate del Teatro Olimpico mentre prendo appunti, e accanto a me Claudio D’Amato è puntualmente occupato a disegnare una angolatura, un particolare dirimente, una simbiosi di effetto luminoso e giuntura compositiva.
Fu un’ esperienza entusiasmante ed altamente formativa, di cui ancora oggi conservo la lezione estetica e artistica. Ne ero orgoglioso. Elaborai una tesi per l’esame di storia dell’ architettura che tuttavia non lasciò per nulla soddisfatto Bruno Zevi ( fin troppo ’formalista’ e ‘crociana’, mi disse). Quella critica, che veniva da un maestro che stimavo molto, ad onta della sua enfatica propensione anticlassica, fu per me una delusione cocente. Non mutai il mio modo di guardare l’ arte di Palladio (frutto di un filologismo degli elementi architettonici a parafrasi delle teorie di Galvano Della Volpe sullo ‘specifico’ dei linguaggi visivi) ma certamente fu a partire da quell’ incidente di percorso che iniziai a distaccarmi dall’ ambizione di diventare un teorico e tantomeno un ‘professionista’ della architettura, mentre più dirompente interveniva l’ esigenza morale di un impegno nella vita politica e nella lotta sociale, come poi avvenne in pieno 1968.
Claudio D’Amato non approvò la mia decisione di abbandonare la facoltà. Ne parlammo a lungo. Avevamo idee comuni ma davamo a quelle stesse idee soluzioni opposte. E così accadde. Diversamente da me, Claudio concentrò la sua vita nella formazione di sé come architetto, inseguendo un modello pedagogico da incarnare, punto di incontro quasi ‘inattuale’ tra  storia, tradizione disciplinare e progettualità compositiva. Non si può dire che non sia stato coerente e non vi sia a modo suo riuscito. La nostra amicizia è stata contrassegnata in più di mezzo secolo da un periodico, continuo e vivace scambio di idee e di esperienze che sul piano artistico e civile hanno trovato sempre il modo di incontrarsi. Come se le premesse della formazione originale avessero comunque trovato il letto di un unico fiume in cui confluire.
A conferma di quanto detto c’è un numero della rivista Rassegna di Architettura e Urbanistica, dedicato nel 2004 alla formazione degli architetti negli anni Sessanta: vi si può leggere un prezioso memoriale scritto da Claudio D’Amato (titolo: ’Ideali architettonici’) dove in tralice figurano gran parte delle illusioni perdute, ma anche le idealità e le relative esperienze intellettuali e morali di cui ho già offerto un riassunto. A conclusione del suo resoconto autobiografico –che è anche la foto delle aspirazioni di una generazione- D’Amato se la prendeva, sul piano della didattica, in un primo momento con “i frutti avvelenati della politica destabilizzante di Zevi” (la ossessione ‘antiaccademica’ che pregiudicò secondo lui l’ ordinamento), e successivamente con gli effetti degenerativi delle facoltà di architettura seguiti al terremoto del 1968 ( fra questi, la fine dello sbarramento al biennio, la riduzione del numero degli esami). E ribadiva, per fissare i punti salienti di una possibile rinascita pedagogica, le seguenti priorità: culto della storia, continuità con la tradizione, culto della forma organicamente costruita e della geometria ad essa sottesa, convinzione piena della autonomia della architettura.
Tra il giovane D’Amato, rivoluzionario e ‘formalista’ degli anni Sessanta, e il D’Amato divenuto professore emerito di Composizione architettonica al Politecnico di Bari, vi era la distanza dell’ esperienza e del tempo che passa; ma non vi era divergenza di vedute e modo di sentire. Ad indicare la coerente ed esemplare linea di continuità operativa e teorica di Claudio D’Amato c’è quanto egli lascia come architetto, come insegnante, come assiduo organizzatore di cultura didattica finalizzata a tenere assieme una idea unitaria e organica della architettura, sintesi di storia, tradizione e ‘vita delle forme’.
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A proposito di questa intrinseca vitalità della morfologia conseguente alla compresenza delle tradizioni artistiche (Claudio fece subito suo all’atto della costituzione, il motto dell’INTBAU: “One World, many traditions”) vale la pena sottolineare come lo storicismo estetico di D’Amato non chiudesse alla innovazione, nel rispetto delle tecniche costruttive diverse, e degli incroci stilistici. Prova ne sia la sua attenzione dedicata al Mediterraneo, confronto e sintesi di civiltà, allo scopo di tramandare e preservare un sapere architettonico che, prima di ogni altra considerazione (tecnica, ambientale, etnica) è un atto di libera manifestazione spirituale.
Molto ancora ci sarebbe da aggiungere, più di quanto io non sia in grado di fare, sul valore di Claudio D’Amato come maestro, educatore ed accademico. A me preme ricordare come le nostre contiguità morali e intellettuali, cresciute nella Valle Giulia degli anni Sessanta, abbiano trovato la via di una convergenza nella elaborazione della mostra  ‘Città di pietra’, curata da Claudio nel 2006 per la X Biennale di Architettura a Venezia, cui presi parte con un saggio intitolato “Misura italiana e identità europea”, sintonizzato sul rapporto di passato e presente nell’arte del nostro ‘900, tema che collimava con l’appassionata attenzione di D’Amato per le tradizioni costruttive e la stereotomia nell’insegnamento delle fisionomie stilistiche. Quella collaborazione confermò qualcosa di più della nostra amicizia, e cioè una sostanziale affinità culturale ritrovata ad onta del tempo.
Di Claudio D’Amato resterà la sua missione straordinaria di insegnante, ma soprattutto il pregio di un carattere passionale, a tratti perfino irruente, dell’ uomo che credeva nel valore non corrivo della progettazione architettonica, da lui intesa e concepita sempre quale forma significante o ‘guida archetipale’, suggello ed arbitrato essenziale di ogni forma di convivenza e civiltà. Non era un carattere facile. Esigente prima di tutto con sé stesso, era alieno dai luoghi comuni, disprezzava la faciloneria intellettuale, il ’progressismo’ esibito come passe-par-tout ideologico. Quando è mancato, il dolore per la perdita dell’amico è stato in buona parte alleviato dalla certezza che la sua opera pedagogica in architettura, condotta nei dettagli quasi fino all’ultimo giorno della vita, resterà per le generazioni future, come quelle ‘città di pietra’ che intendeva custodire e preservare a modello di stile ed impronta morale.
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revistazunai · 6 years
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Esculturas Musicais 2: Antônio Moura
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OUVE O MUNDO      A Marcilio Costa
Cala, ouve o mundo, há sempre uma voz em tudo – um coaxo,
um sibilo, um crocitar, um zumbido, um gorjeio, um zurrar, um rumor
de água, um silvo, um vento, um far                     fa                 lhar,
um balido, um trino, um latido, um cicio, um grunhido, um grasnado,
um sussurro, um rosnado, um ron ronar, um rugido, um bater de asa,
um estalo na viga da casa, um ecoar, um latejo na têmpora, um temporal,
um trovão, um ranger de porta, um inaudível desabrochar, um cricrilo,
uma sílaba ci ci ci ci ci ci ci cigarra, um sino, um relógio, uma badalada,
um último suspiro, um novo ser a respirar, um gemido amante,
o som de uma lágrima que cai no olvido, uma vida inteira a murmurar – e no fundo
de todas as vozes inanimadas e animais a voz do espírito que a tudo anima.
Ouve – há sempre uma voz em tudo. Fica – um instante – mudo
JOAQUIM NABUCO
País                       transformado em porão, sua carga                       – cor, sangue, dor, perseguição
Navio           fantasma há séculos à deriva
Negreiro                       o uivo do mar que em volta vibra
POEMA PARA LER AO ANDAR COM CUIDADO
Você que agora caminha por este poema, não está ouvindo, além do som das silabas,
o som de sinistros passos ecoando secos em seu encalço, como que para encarcerá-lo,
como que para amordaçá-lo? Não está agora pressentindo atrás de sua própria sombra
uma outra sombra, que, aos poucos, se agiganta querendo, de forma réptil, cobrir tudo, todos,
com sua escura manta? Não está sentindo, agora, fazer ninho eu seus ouvidos a gralha
a rasga-mortalha da histérica pregação, que busca ensurdecê-lo com seu grasnado
para que ouça, unicamente, a voz intolerante, a voz fanática e prepotente do Deus demente?
Não está vendo uma venda que, lentamente, cai sombria sobre seus olhos, sobre sua mente?
Você que agora caminha por este poema, cuidado, aqui perto, no fim da Rua Extrema
a oficina do fascismo fabrica frias algemas
ONIPRESENÇA ONIPOTÊNCIA
     A Noam Chomsky
Júpiter Isis Baal Amon-Rá Thor Saturno Cronos Belus Vênus Odin Marte Plutão Hutzilopochtli Tezcatlipoca Moloch Gigantes ICBC China Construction Bank Agricultural Bank of China Berkshire Hathaway JPMorgan Chase Bank of China Wells Fargo Aplle ExxonMobil Toyota Motor Bank of America AT&T Citigroup HSBC Holdings
TANTO QUANTO
Um tanto de mentira, um quanto de verdade, assim vai se erguendo o mito, teia entretecida com os fios
da vida e da irrealidade, boca a boca, ouvido a ouvido e algumas manchas de escrito, assim vai-se fazendo
do finito, infinito – uma palavra e um caminho que sem se salvar do tempo consegue escapar do olvido, vida
e arte entrelaçadas em grandes travessias de oceanos, pequenos barcos por furos dentro das matas, algumas
visões extraordinárias, muito de banal e cotidiano, e no meio da vegetação emaranhada, no centro da clareira
borbulha o caldeirão da feiticeira, o aroma do amor, suas especiarias misturadas ao odor azedo da dor – gordura fria
e fundidos no ar o olor das flores e o odor das fezes, nuvens saindo dos olhos dos demônios e dos deuses
para chover e forjar o humano jardim que floresce e apodrece, floresce, apodrece, floresce, apodrece,
floresta queimando num tempo tenebroso em que os uivos dos famintos e refugiados ecoam pelos cômodos das casas
e em contraponto reverberam sobre o silencio que cobre os corpos mortos dos nossos vizinhos índios, pretos, pobres,
almas vagando pelos cômodos cômodos de nossas casas, ecos incômodos pelos cômodos cômodos de nossas casas.
A página escurece, o estrondo de um meteoro soa na sala e entre os astros e o desastre ergue-se o rumor do mito,
a doce mentira, o sal da verdade, a vida, a arte – o grito
THE INVISIBLE WAR
     Os fragmentos da guerra invisível entram pelas frestas das portas e janelas, fantasmas de gás inflamável evaporados de grandes banquetes onde são servidos terrorismo de estado à la carte, cozidos geopolíticos com uma pitada de fundamentalismo religioso e fatias de porcos totalitários à direita e à esquerda da mesa.      Multidões de refugiados cruzam o mapa de meu quarto, passam por cima de minha cama carregando seus trapos até saírem pela porta do espelho onde esperam encontrar um outro mundo.      Os minúsculos fragmentos desta guerra grudam na sola de meus sapatos onde quer que eu vá, onde quer que eu ande, na rua, debaixo da terra, pelos telhados, explodem em forma de estilhaços ultra silenciosos a cada passo e enquanto ando em minha parca velocidade de homem a guerra invisível viaja numa velocidade estonteante por dentro de pequenos telefones, deixando milhares de mortos e feridos por entre os escombros das telas de cristal líquido.      A guerra fantasma é um flâneur maligno do Vale da Sombra da Morte, está em toda parte e em parte nenhuma, às vezes, sem que ninguém perceba, passa, com suas armas de alta tecnologia, por entre crianças que brincam descalças numa abandonada praça de periferia. Às vezes passa, causando arrepios, um vento frio, nos animais da floresta.      Por toda parte e em parte alguma, impalpável, Deus Onipresente, vaga um vírus fabricado em laboratórios transnacionais pagos pela moeda de lata dourada que carrego em meu bolso.      Não se pode vê-la nem ouvi-la, só senti-la quando já está muito perto, entrando silenciosa e sorrateira por dentro dos pesadelos dos que dormem nas cidades que dormem sem dormir de olhos bem abertos quando fecham os olhos de medo, quando tapam os ouvidos, para não escutar, apavorados, o bater de botas e o trotar de cavalos adornados de fitas e penachos aproximando-se de suas cabeceiras.      Veja, de dentro da cortina de fumaça e poeira que se levanta do cyber front erguido eletrônico no meio da sala, a múmia de Tio Patinhas ressuscita ainda mais sovina, decretando o fim da história, o fim das utopias, nadando, cínico, em sua gigantesca banheira de dinheiro.      Em vários pontos estratégicos da nova guerra, tiranetes-fantoches esperam por novas ordens sentados em seus urinóis decorados por coloridas logomarcas.      Não se sabe onde ela está – o inimigo sou eu, o inimigo é você – a guerra feita de vento, que agora me faz andar como um cego que tateia o ar sem sua bengala.
YO Y EL SORDO
     A Goya, El Sordo      A Isadora
Não podes me escutar Para falar contigo basta apenas apalpar as paredes de tua arte e perceber que a maldade humana descansa em qualquer tipo de barro, que se ergue e dá alguns passos entre a espera e o desespero que o esboroa
Nós dois sabemos que a borra da miséria e o cristal da estrela residem em cada gota de tinta, que o mar e o amor só existem para quem não os atravessa e que o lugar em que parecemos reinar, o lugar em que parecemos reinar é um território inconquistado, um chão sobre o qual o trono e a coroa são dados no mesmo instante em que a trombeta e a voz de um arauto nos manda abandoná-lo, mal saboreamos o cheiro marinho da Alba deitada nua na areia da praia e vemos que o que aqui nos trouxe, o barco há pouco ali ancorado – vês? – já arde em chamas – queima a pergunta do marujo se o desamparo do mar é a única forma de voltar
ou, quem sabe, assim, pedindo emprestado um pouco de tuas tintas, o sonho da razão, o pesadelo de Freud cem anos antes, quando as corujas piam em volta de tua cabeça, que deita para deixar escapar monstruos, los desastres, los caprichos, los disparates, las pinturas negras nas paredes que não têm ouvidos
A OUTRA VOZ
Presente em tudo e sempre oculto, serpente verde e imóvel entre a folhagem, imagem
que não se vê nem ouve-se mas sente-se perpassar todas as formas que armam
nosso breve arco riscado a giz de nuvem sobre a impalpável escuridão do mundo
Enigma, da superfície ao fundo, vulto transparente atravessando o véu do tempo,
reunindo, em sua única voz todas as vozes do vento, céu vazio, rio sem foz e nascimento,
círculo invisível em volta de seu próprio mistério – eterno, terreno, intocável, aéreo,
o silêncio, Deus da poesia, diz mais um dia
Antônio Moura nasceu em Belém do Pará, 1963, residiu em São Paulo, Lisboa e atualmente vive em Belém. Poeta e tradutor, tem onze livros publicados, oito no Brasil e três no exterior. Poesia: Dez, edição do autor; Hong Kong & outros poemas, Ateliê Editorial; Rio Silêncio, Lumme Editor; A sombra da Ausência, Lumme Editor; A outra voz, Editora Patuá. Tradução: Quase-sonhos, Jean-Joseph Rabearivelo, Lumme Editor; Traduzido da noite, Jean-Joseph Rabearivelo, Lumme Editor; Contra o segredo profissional, César Vallejo, Lumme Editor. Rio Silêncio foi premiado na John Dryden Translation Competition, em tradução para o inglês de Stefan Tobler, publicado em pela editora Arc Publications, com o título de Silence River, com uma turnê de lançamento por oito cidades da Inglaterra. Publicado em Valéncia, Catalunha, Edicions 96, em tradução para o catalão por Joan Navarro, sob o título de Després del diluvi i altres poemes (Após o dilúvio e outros poemas). Editado no México, Río Silencio, em tradução para o espanhol por Victor Sosa, Editora Calligrammes. Tem sido publicado em diversas revistas e antologias nacionais e internacionais.
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visualsstuff · 7 years
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vimeo
Jane's Birthday A simultaneous low-definition/ high-definition spastic depiction of an attempted journey to the beach on my sister's birthday. Windshield wipers punctuate and jump-cut our rapid movement through white-knuckle moments of abstraction. Previously screened at: - Colour out of Space Experimental Sound and Film Festival (2013, Brighton, UK) - San Francisco Cinematheque's CROSSROADS Festival (2014, San Francisco, CA, USA) - VideoArt Festival Miden (2014, Athens/ Kalamata, GREECE) - Fabrica Utopia Festival (2014, Andros, GREECE) - Transient Visions: Festival of the Moving Image (2014, Johnson City, NY, USA) - Antimatter Film Festival (2014, Victoria, BC, CANADA) - Euroshorts Film Festival (2014, Warsaw/ Gdansk/ Katowice, POLAND) - Processo de Error: Festival Internacional de Video Experimental (2015, Valparaíso, CHILE) - Salón Internacional de la Luz (2015, Bogotá, COLUMBIA) - Montreal Underground Film Festival (2015, Montreal, QC, CANADA) - Surface Gallery’s SUMMER CINEMA (2015, Nottingham, UNITED KINGDOM) © Christine Lucy Latimer, 2013
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mjays · 7 years
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Noah Raford, an MIT PhD who is now the chief operating officer of the government’s Dubai Future Foundation — the Shingy of the Emirates — was tipped off to Tellart by a mutual friend of his and Matt Cottam’s who was stationed at Fabrica, Benetton Group’s internal research center and another node in the future design industry.
The Future Agency: Inside the big business of imagining the future
Who might it be, one wonders. Who might it be?
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exartist · 10 years
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Miden Festival > Fabrica Utopia
My work will be exhibit at Andros Island, inside the Miden Festival's program: Come as you are. The whole Fabrica Utopia festival will last from July 14 to August 3. Festival Miden screenings are scheduled July 26, 28 & August 2, 2014. Thank you Miden Festival & Fabrica Utopía.
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