Tumgik
#Pirandello aveva ragione
laststandx3 · 9 months
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Real life Pirandellian moment as I notice two small moles on my cheek I've never ever seen before but pictures from years ago confirm their existence. Who am I really?
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Imparerai dalle sconfitte che le vittorie saranno sempre meno delle cadute. Imparerai che non serve correre troppo per arrivare al traguardo se poi non sai la strada da percorrere, imparerai che non serve soffrire se non per chi davvero ne vale la pena, allora chiediti sempre se ne vale la pena davvero.
Imparerai che i «ti amo» vanno pesati e non lanciati a caso, che non sempre amiamo le persone con cui stiamo, che non sempre corrispondiamo all'etichetta che ci mettono.
Imparerai che a volte la solitudine serve più della compagnia, e che questa cazzo di quarantena ha fatto emergere il lato peggiore delle persone, quello che tende ad aver paura, e la paura non mostra gentilezza ma solo artigli, solo rabbia.
Imparerai che Pirandello in fondo aveva ragione, tante maschere e pochi volti.
Imparerai che alla fine di tutto dovrai fare i conti con te stesso e non con gli altri, e tu sai che cosa stai sbagliando anche se vuoi convincerti del contrario.
Imparerai che non sei tu ad ascoltare la musica giusta, ma è la musica giusta a trovare te quando ne hai bisogno. Imparerai che il silenzio a volte fa più rumore di una persona che urla.
Imparerai che non sempre i genitori fanno il nostro bene, per quanto vogliano e si sforzino di farlo, non sempre le loro scelte dovrebbero essere le nostre, non sempre quello che dicono deve essere lo stesso per noi: siamo umani, sono umani anche loro, sbagliamo tutti, e non tutti conoscono la persona che vorresti diventare. Imparerai che sei tu l'unico a sapere dove vorresti arrivare.
Impara a bastarti se serve, impara dagli altri se serve, impara a voltarti se serve, impara a odiarli se serve, impara ad amarti, questo sempre.
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olstansoul · 3 years
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Sacrifice, Chapter 29
Pairing: Wanda Maximoff & James Bucky Barnes
Il tempo passava lentamente, peggio di quando leggeva un libro. Ma lì era completamente diverso, li era sommersa. Era presa dalla narrazione del libro, dai personaggi che ne facevano parte e da quanto fosse coinvolgente. Ora, invece, non aveva modo per far passare il tempo e tutto quanto intorno a lei era grigio e triste. Senza la gioia che provava a leggere un libro, una storia che l'appassionava e l'immaginazione di poter vedere quelle scene nella sua mente. Non aveva nulla, se non il suo misero cellulare che proliferava di messaggi. Messaggi che non avrebbe mai letto perché se l'avrebbe fatto sarebbe tornata indietro nel tempo di solo poche settimane. Quando qualcuno era comparso improvvisamente nella sua vita e per un attimo gliel'aveva sconvolta. Solo per un attimo.
Come disse un vecchio saggio fu l'attimo ma l'eternità. Chi è che l'aveva detto? Giusto...Pirandello, ma il caro Luigi non capiva cosa significava quella sua frase per Wanda. Lei credeva che per un'attimo James avesse potuto cambiare la sua vita in meglio ma non è stato così. Anche a lui è toccato sapere la verità, nel peggiore dei modi, ma comunque l'ha saputa. È quello che Wanda temeva di più. Una volta che James avrebbe scoperto la verità, cosa sarebbe successo? Sarebbe rimasto tutto uguale o sarebbe cambiato tutto? Ma a tutte queste domande, a tutti questi dubbi Wanda non sapeva rispondere. Avrebbe dovuto trascorrere il tempo a pensare e già ne aveva trascorso abbastanza. E pensare avrebbe portato solo ad una cosa, ovvero a James e lei preferiva non farlo. Perché anche se tutto si sarebbe risolto oppure sarebbe andato diversamente, sapeva benissimo che l'unica soluzione da attuare era quella di dover allontanare James. In fondo non lo voleva, credeva che lui era capace di poter affrontare qualsiasi cosa da solo però lei doveva farlo. Doveva allontanare James per il suo bene. Doveva farlo, perché se un giorno lei sarebbe andata via per sempre, non gli avrebbe permesso tutto questo dolore. Anche se quel dolore non poteva essere per niente paragonato al dolore che lei avrebbe provato se non avrebbe dato aria ai suoi sentimenti verso James.
La porta della sua stanza che si aprì la distrasse dal suo cumulo di pensieri e i passi di sua madre poté riconoscerli anche a soli pochi centimetri di distanza. Lei era l'unica persona che le faceva compagnia mentre era stesa sul letto di quella clinica, collegata ad una flebo ed ad un glucometro che aveva all'indice sinistro. Si, ad una flebo. Wanda mangiava poco e niente e lo stesso le era stata somministrata.
"Credo che debba essere sveglia, vieni..."sentì sua madre parlare con un'altra persona.
Quando sua madre stava per avvicinarsi, provò ad alzarsi con l'aiuto delle mani che spingevano sul materasso ma quello che ottenne fu solo un lamento che uscì dalla sua bocca. Questa volta era peggio di tutte le altre e restare in un letto di ospedale non era la cosa migliore.
"Oh, ehi sei sveglia..."disse sua madre e di fianco a sé c'era anche Natasha che non vedeva da quasi dieci giorni.
"Si, lo sono...ciao Nat"disse lei un po' sorpresa di vedere la bionda che era completamente sistemata con un piccolo cartoccio in mano.
"Wanda..."disse lei alzando la mano in segno di saluto e con un sorriso sulle labbra.
"Io vi lascio sole"disse la mamma di Wanda che uscì dalla stanza.
Wanda era da un lato costretta a stare stesa sul letto mentre Natasha era ancora in piedi. Entrambe si guardavano, forse Wanda pensava che la bionda l'avrebbe fatto per pietà ma in fondo Natasha aveva un valido motivo per essere qui con lei.
"Sei sola?"chiese la castana.
"Si...sono venuta sola, anche se Steve e Sam ti portano i loro saluti"
Steve e Sam. E James? Perché non le aveva portato i suoi saluti? In quel momento non voleva pensarci, era già troppo per lei dover solo pensare a quel nome figuriamoci doverlo dire.
"Oh, okay...di loro che ricambio"
"Se avrò tempo di vederli..."
"Non li hai visti questa settimana?"chiese la castana.
Era come se non fosse successo nulla. Era come se Wanda in quel momento fosse a casa sua e una sua amica era venuta a trovarla ma diciamo che i sogni non fanno parte della realtà, almeno non i sogni che vuole Wanda.
"Si, ma con i compiti e i vari progetti è sempre troppo difficile doversi gestire il tempo insieme. Poi ora Steve è diventato il nuovo capitano della squadra di basket e quindi insieme a Sam ha più ore di allenamento...non che prima ne avesse poche"disse lei spiegando mentre prendeva una sedia per potersi sedere al suo fianco.
"Davvero? Steve ha preso il posto di..."
"Si, ha preso il posto di James. Dice che continuerà a giocare ma con i problemi che ha non vuole essere pienamente responsabile"
"Problemi?"
"Anche lui manca a scuola da un settimana, non sei l'unica...chiunque poteva pensare che fossi tu la ragione principale per cui lui fosse assente ma in realtà si sta occupando del processo di suo padre"
"Quale processo? Sapevo solo che sua madre aveva chiesto il divorzio"
"Era quello che sapevamo anche noi ma George Barnes non è stato solo accusato di molestie ma anche di frode. Il suo piano era quello di far ricadere i suoi debiti su suo figlio ma non ci è riuscito. Era la vendetta che aveva costruito perché suo figlio non avrebbe mai voluto entrare nell'azienda del papà di Sharon"
"E se fosse entrato? Non avrebbe fatto la stessa fine?"
"Non so dirtelo, so solo che James è distrutto non c'è la fa più ed è una delle motivazioni principali per cui non vedo Steve molto spesso. La madre di Barnes ripete sempre a suo figlio che non deve mettersi in mezzo ma lui è una testa dura come il metallo, potrà ascoltare la tua opinione anche mille volte ma farà sempre di testa sua"
"Giusto, ho provato a farglielo capire molte volte"
"Pensavi che dicendogli sempre che non avrebbe dovuto avvicinarsi a te, lo avrebbe allontanato davvero?"chiese Natasha schietta.
"Si...ma lo so che è stato fiato sprecato"
"James è davvero una testa dura si, ma quando si mette in testa quella cosa non c'è verso che possa fargli cambiare idea"
"Beh si è visto ma ci sono certe cose che è meglio lasciarle andare per fare in modo che tu stia bene davvero"
"Se parli di te, non pensare che quello che hai detto sia giusto. James non ti lascerà mai andare, credi che quello del processo sia l'unico motivo per cui lui non mette piede fuori da casa sua? Sei anche tu, non smette di pensare a ciò che è successo..."
"Allora cosa dovrei fare io Nat? Devo sperare che questo male mi uccida all'istante perché mi dimentichi di tutto il male che ho sofferto?"
"No, no, non ho detto questo! Io lo so che stai male, non hai mai desiderato questo. Non hai avuto la possibilità di doverlo fermare con le mani prima ancora che ti stravolgesse completamente. Non è colpa tua Wanda, devi ricordarti di questo..."
Le parole di Natasha la destabilizzarono, non ebbe il coraggio di risponderle, solo delle lacrime uscirono dai suoi occhi e Natasha a vedere questo le prese la mano e la tenne fra le sue.
"Io lo so che siete spaventati, io lo so che lui è spaventato ma io più di lui. James in queste settimane, prima ancora che succedesse tutto questo, era l'unico che avrebbe potuto salvarmi, ma se quello che facesse non fosse abbastanza? È sempre così...pronto a sacrificare se stesso che a volte penso che non potrò mai ricambiare lo stesso favore, capisci? Vivo con la costante paura che magari io possa andare via prima senza avergli detto che mi piace oppure che lo amo...e questo mi fa pensare che dovrò solo allontanarlo, che lui non si merita il dolore che gli provocherò per colpa di una mia dipartita. Anche se in fondo, quello che lui vuole con me è la stessa cosa ho sempre voluto e desiderato anche io..."
Se prima Wanda era rimasta destabilizzata ora invece quella che lo era, era Natasha.
"Quindi...lui ti piace?"chiese Natasha.
Per quanto per Wanda fosse difficile ammetterlo, per colpa della sua malattia, per colpa dei suoi mille pregiudizi su stessa decise di dire la verità, sarebbe stato un peso in meno nel suo cuore ma sapeva che quel peso non si sarebbe tolto facilmente da dentro la sua vita. E che neanche James era totalmente in grado di toglierlo completamente. Credeva che comunque in un modo o nell'altro lui poteva veramente farla sentire viva, o come poteva presumere.
"Si, troppo Natasha...così tanto che per quanto voglio che stia lontano da me lo voglio lo stesso vicino...non so cosa fare Nat, non lo so proprio"
Vedendo che la castana stava per piangere una seconda volta, lei si alzò per poterla abbracciare. Certo non era un vero e proprio abbraccio, considerando che Wanda era ancora stesa e bloccata su di un letto ma quel gesto sarebbe rimasto inciso nel suo cuore.
"Andrà tutto bene, vedrai. Ma devi pensare prima di tutto a te stessa, quando uscirai da qui affrontarai questo ostacolo,okay? Io ci sarò sempre..."disse Natasha prendendole la mano e Wanda sorrise sinceramente dopo tanto tempo.
"Grazie Nat, sei la prima persona che mi ha detto queste cose..."disse anche lei con sincerità.
"E tu sei la prima vera amica che io abbia mai avuto dopo..."
Natasha si era un attimo bloccata, Wanda poteva capire solo dalla sua espressione che c'era qualcosa che non andava in Natasha e qualcosa lei lo sapeva.
"Dopo Sharon?"chiese lei schietta, dopotutto era meglio essere sincere.
"Si, dopo di lei...quando mi avevi chiesto perché mi ero comportata così mentre andavano a casa di Sharon, Steve ti aveva aveva risposto che non era solo per colpa di lei che odio quel posto. Come ogni anno scolastico all'inizio ci sono quelle feste per poter inaugurare l'anno ed andai da sola, io e Sharon quel giorno stesso litigammo e non volle rivolgermi la parola...diceva che avevo baciato il suo ragazzo, ovvero Steve ma lei aveva frainteso le cose. Io e lui ci conosciamo da quando siamo bambini e il nostro è sempre stato un rapporto tra fratello e sorella ma lei era troppo accecata da questo e per farmela pagare mi ha..."
"È successo qualcosa quella sera, Nat?"
"Si, mi aveva chiesto un favore...prenderle un nuovo paio di scarpe, sai come è fatta, no? Le voleva perché diceva che quelle che aveva addosso si erano sporcate ed ero sorpresa che avesse chiesto a me di prenderle ma vorrei non averlo mai fatto...c'era Rumlow nella sua cabina armadio, o almeno mi aveva seguita..."
"L'ha fatto per fartela pagare? E perché avrebbe dovuto farlo così?"
"Niente e nessuno secondo Sharon dovrebbe ostacolare il suo cammino, anche se ciò che è successo l'ha macchiata di poco..."
"Come è andata a finire?"
"Steve, vedendomi strana mi portò fuori nel giardino della casa di Sharon e quando gli dissi tutto mi abbracciò. Sarei dovuta andare dalla polizia e denunciare il tutto ma dopo avrei dovuto dire la verità ai miei e non volevo che loro si preoccupassero cosi tanto...Steve non mi ha lasciato un secondo, è sempre stato con me e posso contare su di lui per qualsiasi cosa"
"Forse vuoi dire che è sempre con te"disse Wanda corregendola.
"Già hai ragione...l'altra volta gli ho parlato e..."
"E? Cosa?"
"E anche lui prova la stessa cosa per me, però dice che non vuole correre perché sa che potrebbe farmi male...ma domani abbiamo il nostro primo appuntamento"
"Sono davvero felice per te, Nat"
"Grazie Wanda...voleva che ci incontrassimo oggi visto che è il mio compleanno ma gli ho detto che avevo un altro impegno"
"È il tuo compleanno?"chiese Wanda un po' sorpresa.
"Si...ecco perché ho portato questo!"
"Nat scusami, io non lo sapevo. Sennò ti avrei fatto un regalo veramente..."
"Wanda...io il mio regalo già ce l'ho e già te l'ho detto! È stato davvero un regalo quello di averti incontrato"
Entrambe si sorrisero e Natasha prese la mano di Wanda tenendola fra le sue. Fino a che arrivò l'orario della fine delle visite Natasha rimase con Wanda e insieme risero e parlarono per oltre tre ore. Finalmente sia Wanda che Natasha si erano trovate entrambe e non si sarebbero mai perse se erano insieme
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abatebusoni34 · 3 years
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Mal di Facebook
La mia storia con Facebook inizia nel 2008, o lì attorno, all'epoca andavo al liceo e usavo MSN (poi Windows Live Messanger), che tra i miei coetanei andava alla grande - e per un primo periodo avrebbe perfino fatto concorrenza alla chat di Facebook, alla quale, dileggiata pubblicamente, si preferiva il concorrente di casa Microsoft.
Entrai su Facebook perché... beh, perché lo facevano tutti ovviamente. E nessuno mancava di fartelo sapere via posta. Qualcosa tipo: "Hey, mi sono unito a Facebook, guarda che lo dovresti fare anche te." Alla millesima mail, un pochino scocciato perché che-cazzo-è-questo-Feisbuc, mi sono ritrovato un po' con le spalle contro il muro e non ho resistito alla gentile ma opprimente pressione sociale, quindi in pochi passi mi consegnai a Zuckerberg. E vabbè.
Quel che facevo ai tempi su Facebook è giusto non venga divulgato - e poi nemmeno ci tengo a fare lo sforzo di ricordare, giacché gli sforzi dovrebbero essere ricompensati con sensazioni perlomeno un poco piacevoli, di certo non con una vergogna infinitamente dolorosa. Basti dire che se sono un poco capace di frenare la mia arroganza, oggi, lo devo al ricordo di quella cosa là che ero online.
A un certo punto comunque il profilo l'ho fatto saltare in aria. Mi piace l'idea di averlo fatto saltare in aria, perché era un coacervo di insulsaggini. E le insulsaggini non dovrebbero semplicemente limitarsi a sparire, non sarebbe molto gratificante; bisognerebbe imprimere loro sufficiente energia cinetica per perderle di vista un attimo prima che esplodano - e questa esplosione sì che dovrebbe essere visibile, abbastanza da abbracciare tutto il tuo campo visivo, e magari, se proprio non è chiedere troppo, scaldarti appena la pelle. Ecco. 
Ma divago.
Mi ricordo che non mi riusciva di essere popolare quanto altri (che comunque ci sono sempre, a prescindere, questi altri; ora lo so, ora) quindi giustamente me ne rammaricavo: cosa mai ci sarà di sbagliato in me, che sulla foto del profilo non ho 10, 20, 100 Mi piace o like che dir si voglia? 
Eh, evidentemente tanto da starci male.
Sì, starci male. Non esagero. È che bisogna chiarire cosa vuol dire stare male.
Non dico che mi saliva la febbre alta o che, piegato in due, petto sulle cosce, vomitavo sulle mie lacrime. No. Si sta male in tanti modi diversi, e spesso senza nemmeno accorgersi di stare male. Anzi, magari pensando di stare alla grande. Che casino.
Quindi il Facebook-uno non mi fece stare bene, ma il Facebook-due invece? 
Eeeh…
Innanzitutto sì, c'è stato un secondo profilo. Ovviamente. E qualche passo avanti lo feci. Tipo selezionare le amicizie. O meglio, gli amici, in corsivo. Però (sono molto banale in questo) meglio non chiamarli amici ora, meglio contatti, ché se no ci si confonde. Anche ai fini del mio discorso s'intende.
Infatti, mentre nel Facebook-uno avevo un profilo a porte aperte e lasciavo entrare - e speravo entrasse - chiunque, questo era senza dubbio più selettivo, anche se ancora mi presentavo con nome e cognome ed ero perfettamente rintracciabile. Però il numero dei contatti aveva smesso di essere uno status symbol; mi sforzavo anzi, di mantenerlo contenuto e riservato a "quelli con cui avrei avuto piacere di andare a cena" - agli Amici insomma.
Poi che uno si sappia scegliere gli amici è un altro paio di maniche.
Avanti veloce: Facebook-due non salta in aria, ma conosce uno sfoltimento importante, drammatico: mantengo pochissimi contatti, che però trovo occasione di nascondere e in seguito eliminare, per poi poterli contare su due mani… una mano… 
Zero contatti. A un certo punto il mio Facebook va oltre i contatti, e si focalizza sulle pagine. Sì, perché nell'ultimo periodo con contatti ormai non ne seguivo più nemmeno uno, di contatto: figuravano ancora tra i miei amici, potevano ancora interagire con me, ma io avevo deciso che non mi interessava nulla delle vite degli altri, e che quindi gli altri potevano andare al diavolo, anche se ci avrei mangiato volentieri una pizza. Quindi poi fu una transizione facile, quella da contatti a senza contatti: di fatto per me non cambiava nulla. La mia concezione di Facebook ora ruotava su contenuti che mi potessero far star bene e che mi dessero qualcosa. Entrambe le cose però, perché se si fosse trattato di stare bene e basta, avrei potuto guardare per ore video di salvataggi di animali; se si fosse trattato soltanto di avere qualcosa in cambio della fruizione, avrei potuto guardare giorno e notte video divulgativi che mi avrebbero via via reso sempre più cosciente di sapere sempre meno dell'argomento in cui mi cimentavo, frustrandomi.
In teoria era così, in teoria.
Avanti veloce: il Facebook-due salta in aria.
《Ma come, e la sua rivoluzione post-contatti?!》
Quella no. Quella era stata una mossa saggia e ammirevole della quale non mi pentii.
È che il Facebook-due era ancora troppo riconducibile alla mia persona. Cambiai le generalità e blindai tutto, sì, ma ancora riuscivano a rintracciarmi, specialmente persone che non volevo ci riuscissero: vecchi tag, vecchie conversazioni… andava fatto esplodere tutto. Quindi Facebook-ter. Nuova vita, daccapo, nel totale anonimato, io e le pagine più opportune, che via via andai selezionando in base ai criteri di cui sopra: dovevano darmi appagandomi. Quello che ne uscì fu una miscela di pagine di letteratura, cinema, divulgazione scientifica, satira politica… la fetta più grossa erano loro. Andava molto bene. Ma qualcosa ancora non mi convinceva.
《Che palle, non gli va mai bene niente a questo...》
Vado a votare regolarmente, quindi qualcosa me lo faccio andar bene. Non sono così schizzinoso. È che, come il protagonista del Fu Mattia Pascal di Pirandello, mi sentivo appagato dal e al contempo intrappolato nel mio anonimato. Interagivo con le persone, sì, ma cosa rimaneva dei miei interventi? Centinaia di like, cuori, ahah e qualche grr, a chi andavano? Io non ricordo nemmeno una persona alla quale abbia messo like o risposto. Non è facile nemmeno risalire alle conversazioni, su Facebook diventa tutto un minestrone.
E poi c'erano loro, i boomer. O, più in generale, gli analfabeti funzionali. Uscivano da tutte le parti, cagavano dappertutto sul loro cammino come un gregge di pecore. Poche volte mi sono sentito deluso, avvilito, depresso come dopo aver letto i commenti a un qualsivoglia articolo di un qualsivoglia quotidiano. Roba da farti arrabbiare con un'intera generazione di italiani, da renderti odioso l'intero corpo elettorale. Volendo sorvolare sul caps lock invadente, la punteggiatura inesistente, la grammatica stuprata… populismo, qualunquismo, gentismo, fascismo, xenofobia, omofobia, razzismo, odio, violenza… tutte belle cose figlie dell'analfabetismo (funzionale però).
Ogni tuffo in sezione commenti era un bagno di amarezza. Inevitabilmente provavo a rispondere per le rime, ma - vi assicuro - è dannatamente frustrante: non puoi vincere, solo pareggiare; nessuno ti darà ragione, al limite cancellerà il commento. Nemmeno Facebook gioca più di tanto questa partita, ma fa finta o lo fa comunque secondo criteri che non afferro bene: le bestie che segnalavo non venivano nemmeno rimproverate; io d'altro canto mi son preso ben più di un'ammonizione e anche un paio di espulsioni per aver risposto come si deve a qualche fascista. Una volta proprio per aver dato del fascista a uno che si definiva tale già da solo. Boh. L'attività poi è inutilmente onerosa, in termini di tempo. Virtualmente potrei fare solo quello h 24, anche se avrebbe lo stesso senso di mettersi al sole senza crema per dimagrire - nonché lo stesso risultato, il cancro.
《Non leggerli, no?》
Sì, vabbè, la si fa semplice così. Resta pochino del social network se non posso nemmeno leggere i commenti. Mi resta un flusso di notizie che architettando un pochino può darmi Google News.
Poi anche su questo aspetto credo d'aver fatto passi avanti. Le notizie può darmele un quotidiano, che - udite udite - sono disposto a pagare. Magari ci guadagno pure, dal punto di vista informativo: invece di un collage disarticolato ho una visione d'insieme e più coerente, e non mi faccio scegliere gli articoli da un maledetto algoritmo. Così ho fatto.
Per la divulgazione sorprendentemente vale lo stesso discorso: non si può sapere tutto di tutto; di sicuro la cultura non la costruisci con la divulgazione spiccia: disposto a pagarlo (pensa te), un benedetto libro sul tema, qualsiasi tema, è infinitamente meglio. Così ho fatto.
Facebook-ter è esploso. E così anche gli effimeri profili creati successivamente in qualche fugace momento di debolezza in cui dimenticavo il trade-off del reiscrivermi su quel social network.
Al momento non ho l'app di Facebook sul telefono, non ho alcun collegamento a Facebook su Chrome e Mentana lo seguirò su LA7. Va molto meglio.
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safamita · 5 years
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Secondo me ci si può fidare solo di noi stessi. Alla fine Pirandello aveva ragione: come ci possiamo intendere se ognuno di noi intende le cose con il proprio mondo? Come possiamo realmente sconfiggere i necessari fraintendimenti tra gli uomini? Dico necessari perché Dio o comunque chi ci ha fatti ci ha donato la coscienza, un pensiero, un cervello che ci permette di sviluppare un nostro mondo di realtà, credenze e convinzioni. Io posso star parlando di quanto sia buona la pizza, ma se tu nella tua mente per pizza intendi una focaccia io come posso saperlo e, soprattutto, come posso penetrare nel tuo mondo di associazione di idee e pensieri e immagini? É tutto un gran casino. Io a stare con me stessa sto bene perché mi aggiro nei meandri del mio cervello come se fosse la mia biblioteca privata o il mio studio personale e so esattamente dov'é quella cosa o quell'altra. É tutto organizzato e ben coinciso e chiaro. Nel momento in cui mi relaziono con un altro essere pensante peró tutto questo cade. Cade perché il mio mondo entra in conflitto con il vostro. Ed é giusto così, dopotutto. N.b. Comunque l'esempio della pizza faceva schifo, ma spero di aver reso il concetto.
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lamenteinnamorata · 5 years
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Niente, ora mi sembra di vedere fake ovunque ahahah
Ma forse aveva semplicemente ragione Pirandello.
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ladycrow72 · 5 years
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Non mi spaventano le maschere indossate, mi spaventano coloro che le indossano con disinvoltura, coloro che fanno della maschera la loro pelle, tanto da non riuscire a distinguere, essi stessi, dove termina la maschera e dove inizia il vero volto. In fondo aveva ragione Pirandello, "...Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti...” ✿ Alessia S.Lorenzi https://www.instagram.com/p/BzbD1wEI9AP/?igshid=15tb2uyqfcmaw
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x3ll3x · 5 years
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- -, - : -  - -
è che siete tutti veramente troppo uguali. parlate troppo e non dite niente. smetto di sentirvi dopo cinque secondi di conversazione, quando mi perdo nei miei pensieri. provo a costruire un discorso serio su qualcosa che mi rapisce e che non coinvolga trucchi da usare che servono solo per mascherare le nostre debolezze che ci rendono ciò che siamo. provo a parlare di un futuro lontano da qui, da occhi indiscreti pronti a giudicare e da persone che sanno solo parlare. parlo di un futuro da costruire, fatto non di certo da favolette e soldi di papà, ma da sogni piantati nel cuore e fatti crescere con le lacrime ed il sudore. parlo di stelle, pianeti, troppo lontani. di mondi paralleli, di cose che nessuno pare capire. mi guardate come se fossi pazza e da lì indosso una delle mie numerose “maschere”. abbiamo troppe maschere, Pirandello aveva ragione. ci proviamo ad inserire nella società prendendo in prestito le maschere della monotonia, fino a quando ci scordiamo chi realmente siamo, da dove veniamo, cosa amiamo, cosa sognamo. siete tutti troppo uguali e continuando di questo passo, sono convinta che morirò sola, senza avere nipoti a cui raccontare milioni di storie.
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pangeanews · 5 years
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Pirandello è il “grande frainteso” di cui nessuno conosce il segreto. Andrea Caterini sullo studio radicale di Pietro Mignosi
Cominciamo con la parola dei maestri. Giacomo Debenedetti, nel saggio che dedica a Luigi Pirandello in Verticale del ’37, principia con una presa di posizione e un atto d’accusa. La presa di posizione: «Chi dicesse che Pirandello fu, e rimane, un grande frainteso, passerebbe per uno stravagante, o per uno scandalista a buon mercato. Eppure avrebbe per sé una grossa percentuale di ragione». Poi l’atto d’accusa: «Salvo eccezioni, non lo si inseguì nella profonda, originale zona dell’anima, che si concreta nella parola: cioè là dove vanno esplorati i poeti. […] Critica ancella, però: critica, nel miglior senso, complice. La quale, di fronte all’artista di apparentemente difficile accesso, sentì il bisogno di chiarire più che di capire».
La chiave va cercata in quelle due parole messe in contrapposizione: «chiarire» anziché «capire». Nel 1935, a un anno dall’assegnazione del Premio Nobel, Pietro Mignosi, studioso di letteratura e filosofia, con un’attenzione particolare ai temi cristiani, non era stato da meno di Debenedetti, pure se il suo studio non ebbe la fortuna che invece meritava; anche lui, fin dalla prima edizione (poi ampliata e messa a punto due anni dopo, l’anno successivo alla morte di Pirandello) della monografia Il segreto di Pirandello, aveva accusato di «complicità» la critica pirandelliana. Il suo atteggiamento era l’opposto di quello di un’«ancella», l’opposto di un invito alla lettura di. Lo si capisce fin da subito: «Il cosiddetto relativismo pirandelliano ha una origine del tutto diversa da quella del relativismo contemporaneo, che è di natura dialettica e metafisica, cioè di natura formale. Esso invece è un continuo ricercare, oltre il paradosso dell’apparenza fisica e l’errore della persistenza psichica, un sentimento unitario di vita che dia finalmente un ordine ed una consistenza alla tragedia dello scorrere e del relativizzarsi dei fenomeni che la filosofia moderna ha condannato a diventare delle illusioni».
*
Provo a ragionare su una questione. Ho sempre avuto il sospetto che il problema di Pirandello fosse un problema identitario. Che il suo ragionamento sull’identità non fosse che un falso problema. Cioè, il desiderio di spostare l’identità da un “valore” identitario a un altro che ne fosse in qualche misura la rappresentazione.
Ma se pure gli stessi concetti di «identità» e «rappresentazione» non fossero che delle illusioni? Se pure questi concetti, voglio dire, non portassero ad alcuna verità dell’essere ma fossero altri schermi, altre forme, attraverso cui l’uomo imita il vero senza mai però poterlo davvero sostenere? Forse allora la verità in Pirandello è l’impossibile che ha bisogno di «identità» e «rappresentazione» per essere sostenuta. Identità rimanda, più che all’essere, all’essere identico. A qualcosa che si ripete nella stessa forma. Ma se è qualcosa che si ripete nella forma, di conseguenza, non potrà parlarsi di essere, ma di ciò che dell’essere non è che la scorza, come dire la sua esteriorità. Così la rappresentazione ha a che fare con l’imitazione (o l’evocazione), ovvero con il verosimile – qualcosa che la verità la indica pur non riuscendo ad abitarla.
Ecco il punto: una finzione che ne sostituisce un’altra, quasi potenziandola. Non solo, quindi, una società (specie la società borghese) che trova delle forme attraverso cui ingabbiare l’individuo per poterlo riconoscere (e controllare), ma un individuo che nel momento in cui tenta di evadere da una forma prestabilita se ne crea egli stesso una nuova per poter resistere alla verità di ciò che davvero è, o scopre d’essere. Lo stesso Pirandello lo afferma, in un’intervista: «La vita ha pur da consistere in qualche cosa se vuole essere afferrata. Per consistere le occorre una forma, deve darsi una forma. D’altra parte questa forma è la sua morte perché l’arresta, l’imprigiona, le toglie il divenire. Il problema è questo, per la vita: non restar vittima della forma. È qui tutto il tragico dissidio della storia della libertà». È a ben vedere il processo che determina la storia dei Sei personaggi in cerca d’autore (1921), di Così è (se vi pare) (1917), e pure, a pensarci, de Il fu Mattia Pascal (1904). In questo senso Pirandello ci appare ancora come il più moderno degli scrittori italiani del Novecento ma al contempo anche il più vecchio. Cosa significa? Che se fu tra i primi a comprendere che da una finzione mai ci si libera se non a patto di costruirne una differente (da qui anche il principio di comicità, quasi la messa in evidenza della connaturata condizione ridicola di ogni essere umano, schiavo, prima che della società in cui vive, del proprio io), dall’altra quella stessa finzione fa presto a invecchiare, così come invecchiano tutte le maschere comiche, comprese le maschere filosofiche.
*
Ma Mignosi ci mette in guardia. Secondo lui, dietro Pirandello c’è, come abbiamo letto, un «sentimento unitario di vita», che poi significa una ragione morale da difendere e prima ancora da riconoscere: «egli deve mostrare analizzando la vita dell’uomo moderno, come la religione della soggettività, l’istinto dell’azione come fine a sé stesso, la perdita di una coscienza morale come coscienza di rinunzia alla solitudine, alla carne, all’oro, alla gloria, conducano l’uomo a quel complesso di contraddizioni insanabili che solo potrebbero esser guarite o dalla morte volontaria, o dalla pazzia liberatrice». Mignosi alla sostanza sostiene che la pazzia, in Pirandello, è un rimedio all’assenza di leggi che governano la vita. Se i personaggi pirandelliani si sentono perduti perché privi di una riconosciuta unità di vita, quella unità vanno a cercarla o in una morte volontaria che li riconduca all’origine, oppure a qualcosa che li liberi da quella condizione di annichilimento dell’essere (ancora Mignosi in un altro passaggio: «Insomma tutta (e insisto nel tutta) l’opera di Pirandello può aver il valore pedagogico di questa scoperta e condanna: la società moderna che ha perduto Dio, che vive come se Lui non esistesse, che si costruisce delle morali provvisorie, che è fondata sull’economia del puro soggettivo ed individuale, è condannata alla sofferenza, alla perdita della stessa personalità su cui si fonda, all’odio, alla sensualità, all’infedeltà, alla morte, al suicidio»). Ma la follia può davvero portare a un principio di unificazione? A quale unità può mai fare ricorso un pazzo? Per Mignosi, Pirandello ha compreso che per l’uomo non può esserci vita fuori da un creatore che la governi. Deprivato di un creatore, l’uomo non può che fare affidamento sulla propria ragione. Ma la ragione non è capace di sostenere all’infinito l’assurdità della vita. Per questo motivo, dunque, l’uomo si fa pazzo. Come dire, accetta di porsi lì dove la ragione non può più trattenerlo, tentando così, con un gesto di rivolta, in definitiva con un atto volontaristico (ed è in questo atto volontario che, al contrario di Mignosi, a me sembra trattarsi di una illusione liberatrice, di un nuovo stato di falsificazione) di aderire assurdamente alle assurde leggi della vita stabilite da un creatore.
Ma la novità (ed è una novità ancora oggi, nonostante le sterminate pagine di bibliografia pirandelliana, da Adriano Tielgher a Giovanni Macchia, da Antonio Gramsci a Leonardo Sciascia – per dire nomi particolarmente rappresentativi), direi addirittura la forza dell’intera analisi di Pietro Mignosi, non va cercata nei singoli passaggi, in quelle illuminazioni del pensiero che, pure non mancando, non spiegano l’interezza del ragionamento, ma nell’aver cercato e trovato una architettura cristiana dietro tutta l’opera di Pirandello. Bisogna quindi leggere questo libro prestando realmente fede al suo titolo. Quel segreto è davvero tale perché è ciò che sorregge l’intera impalcatura del discorso. L’accusa di Pirandello alla società moderna, per Mignosi non è altro che una crisi della coscienza; la stessa coscienza dentro cui si annida il peccato. Ed è quello stesso peccato che ci fa temere, quella stessa colpa che ci fa avere paura. Ma paura di cosa? Questo mi sembra il nodo centrale dell’analisi di Mignosi, che rivela la natura tragica di ogni creatura pirandelliana: i personaggi di Pirandello hanno paura della verità, che per il critico non significa altro che timore di Dio e delle sue leggi. In un mondo senza Dio, pare dire Mignosi, è sempre a Dio, al nostro bisogno di interrogarlo, che desideriamo tornare. Ma tornare a Dio è, per il critico, tornare a sentire la vita in tutta la sua pienezza; una pienezza che ha certamente una natura religiosa; una natura che nessuna costruzione filosofica può mai davvero eludere o, peggio, rimuovere.
Andrea Caterini
*Si riproduce qui per gentile concessione il saggio di Andrea Caterini che introduce il libro di Pietro Mignosi, “Il segreto di Pirandello” (CartaCanta, 2019)
L'articolo Pirandello è il “grande frainteso” di cui nessuno conosce il segreto. Andrea Caterini sullo studio radicale di Pietro Mignosi proviene da Pangea.
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blacksunflower16 · 3 years
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mi manchi e non so come dirtelo, quindi lo faccio nel modo più facile possibile. Sei stata la cosa migliore della mia vita e lo sarai per sempre. Ho sempre amato i tuoi modi di fare. Il tuo modo di incazzarti, parlare, spiegarti. Il tuo modo di apprezzare le piccole cose. Il tuo modo di sostenermi quando crollavo, che volevo solo chiudermi in stanza e piangere, ma tu entravi senza bussare e ti sedevi vicino a me. Ho apprezzato un po’ meno il modo in cui te ne sei andata, per poi ritornare e andartene di nuovo come se niente fosse. Ho apprezzato il modo in cui ti prendevi cura dei miei sentimenti e altre volte no, come tu li abbia aggiustati. Ma soprattutto il modo in cui hai deciso di alzarti e camminare, lasciandomi lì seduta a guardarti andar via per sempre. Sarò una pazza, stupida, tutto ciò che mi si può dire, ma ancora mi manchi e forse anche qualcos’altro ed anche se lo nascondo continuando a coprirmi con una corazza di disprezzo per il mondo intero, con una corazza che finge di stare bene e di aver lasciato andare te dal mio cuore. E queste cose volevo dirtele prima, ma pensavo di non dover aprire il cuore di nuovo, perché poteva essere ferito e poteva star male. Ho sbagliato? Sì, forse, perché il cuore non sta più bene, non è più un cuore, sono solo frantumi di vetri rotti. Sto abbandonando tutto. Strano, vero? Io che dicevo di non abbandonare nulla, di non dare tutto a questo mondo di merda, che sono in grado di resistere a tutto, adesso sono qui a decidere se abbandonarmi in un sonno eterno o continuare a stare sveglia e seguirti. Pirandello aveva ragione: l’amore guarda il tempo e ride, perché mi è bastato un secondo verso di te per sapere cosa provavo, ma adesso è troppo tardi. Questa è la fine di un era, dei miei ideali, di una persona, di un cuore che batte solo per la persona che ti sta più a cuore, la fine dei sentimenti, dei ricordi, dell’esistenza. Le campane mi fanno capire che è giunta l’ora, guardò in giù e non vedo nulla. Non vedo più la tua mano che aspetta che appoggio la mia. Chiudo gli occhi, tengo una tua foto nelle mani, cado nel vuoto e penso “fin qui tutto bene”, ma la discesa non è il problema, perché il problema è l’atterraggio. Perché tu non ci sarai più alla fine di tutto ciò. Riapro gli occhi, il mio cuore sta cessando di battere, vedo il buio, il nulla. Io non vedo più niente.
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thetwofaces · 7 years
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"Pirandello aveva ragione: ogni persona indossa una maschera e recita la sua piccola parte in questo grande mondo."
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Ricordo di Leandro Ghinelli
di Paolo Vincenti
  Docente, letterato, scultore. Leandro Ghinelli (1925-2015), nato a Firenze ma salentino d’adozione, è stato un intellettuale poliedrico, multiversato, di quelli che forse a cagione di una enorme inventiva e della eterogeneità dell’ispirazione, a volte mancano di grandissimi riconoscimenti. Infatti, egli, pur appartenendo cronologicamente alla generazione del dopoguerra, non può essere assimilato a nessuna corrente artistica salentina o categoria letteraria ben definita, secondo il concetto inteso da Oreste Macrì di comune matrice archetipica, ideologica, metodologica, ambientale e amicale.
Se cioè dovessimo seguire la teoria generazionale formulata dal grande critico letterario (che compì al contrario il percorso di Ghinelli: da Maglie a Firenze), potremmo dire che in quel milieu che connota studiosi e artisti di una certa temperie culturale Ghinelli non rientra. Questo è sicuramente un vantaggio, perché per lui, come per altri oriundi salentini, non si corre il rischio di chiusura provinciale, più chiaramente di quel vieto provincialismo che condiziona gli studi di certi eruditi troppo autoreferenziali, né, di converso, di stucchevole, quasi estatica, acritica ammirazione per il territorio che sovente irrora l’ispirazione dei visitatori stranieri.
Ghinelli cioè si pone a metà via, fra l’amore unito alla gratitudine per questa terra che lo aveva accolto, e la consapevolezza dei suoi (di essa) limiti; lontano, sia nell’espressione artistica che in quella letteraria, dalla maniera, intendendo con questo termine tutto ciò che di specioso, affettato, ridondante, scontato, venga prodotto dalla gonfiezza del cuore.
Insegnava italiano e storia nelle scuole superiori. Per tutta la carriera, produzione artistica e scrittura hanno proceduto di pari passo, similmente ad altri suoi illustri colleghi come Vincenzo Ciardo, Lino Paolo Suppressa, Lionello Mandorino.
Fra le prime realizzazioni, vanno segnalati svariati ritratti in terracotta e bronzo: Leopardi (1963), Beethoven (1963), Paolo VI (1963), Petrarca (1964), Manzoni (1964), Verdi (1964), Dante (1965), D’Annunzio (1968), Pirandello (1968).
Importante, per Ghinelli, fornire una contestualizzazione teoretica alle proprie produzioni. L’autore cioè tiene a delineare i principi del suo orientamento artistico, “che non si esaurisce nell’abilità manuale di un raffinato mestiere, né tanto meno nella invenzione del nuovo a tutti i costi, ma coinvolge la meditazione sui fini e sui valori dell’esistenza umana.” [1]
Nel saggio Scultura. Il ritratto, scrive: “proprio la consapevolezza estetica dello scultore e la sua maturità di stile, di pensiero e di cultura lo rendono capace di realizzazioni d’arte che non sono semplici esecuzioni manuali o pedanti ripetizioni di modelli stereotipati, i quali possono ben rientrare in un canale di scuola antica o moderna, ma non fanno Arte, se non c’è l’Artista.”[2]
Negli anni Settanta, realizza sculture come la Maternità (1973), la Danzatrice (1977), l’Approccio (1977), Il volo (1977), la Creazione (1983), sempre con una costante attenzione all’interiorità dei personaggi ritratti, con una vereconda tensione verso l’armonia delle forme, un’armonia pacificatrice degli umani contrasti, di quel disorientante caos della vita moderna dal quale l’autore si dichiarava confuso, destabilizzato. E basta guardare le aeree linee delle sue sculture, le loro morbide volute, appena mutuate dall’arte classica ma al tempo stesso moderne, per rendersene conto.
Non ci sono, nelle forme stilizzate di Ghinelli, asprezze, stacchi improvvisi, ma soffici rotondità; come scrive Donato Valli “le opere di Leandro Ghinelli portano il segno di una istintiva gioia creatrice; l’imperante verticalismo che caratterizza in maniera decisa tutta la sua produzione più significativa è in effetti la traduzione concreta di un’ascesi che è insieme fiducia di comunicazione nel duplice livello della umana solidarietà e della divina ansia; è, cioè, volontà espressa di innalzamento spirituale, di speranza per sé e per gli altri, gioia di illuminazione attraverso la materia plasmata…”[3].
Una ragione superiore è la fede, intimamente vissuta dall’autore, che si esprime in quel verticalismo, di cui parlava Valli, che emblematizza l’ansia di ascesi di Ghinelli, la sua esigenza di mettersi in contato con il divino; e infatti le sue opere sono “caste nel loro ascetismo”, come scrive Giuseppina De Giosa, e “i suoi nudi levigati ed ariosi nella loro leggerezza quasi impalpabile”[4].
Nel 1980, realizza il busto bronzeo di Papa Giovanni Paolo II, poi collocato, nel gennaio del 1999, nel Duomo di Lecce in onore del Vescovo Cosmo Francesco Ruppi, nel decennale del suo episcopato.
Scrive Gigi Montonato su “Presenza Taurisanese” che “il Ghinelli ha colto Giovanni Paolo II in un atteggiamento di grande e intensa meditazione. Nel volto del Papa, teso nella concentrazione e nella preghiera, sono visibili i segni di una profonda sofferenza ma anche di una smisurata fede”. Quella di ritrattista diventa ben presto un’attività febbrile per la quale si rincorrono le commissioni da parte dei più disparati enti pubblici e privati.
Realizza il monumento al tenore Tito Schipa, collocato nella Villa Comunale di Lecce, nel 1980, i busti dedicati a Enrico Fermi, per l’ I.T.I.S. E.Fermi di Lecce, 1981, e a Grazia Deledda, per l’I.T.F.S di Lecce, nel 1985, il busto a Oronzo Massari nel 1983 e a Pietro Lecciso nel 1986, entrambi per il Tribunale di Lecce, quello a Padre Filippo Ciotta, che si trova nell’Istituto Calasanzio di Campi Salentina, 1984, quello a Enrico Mattei, nell’I.T.I.S. E.Mattei di Maglie, 1991. Si avverte lo sforzo di dare spirito, oltre che corpo, alla materia; nel tracciato che segue il suo modellare la scultura si piega all’ artefice solo quando questi riesca a imprimerle quel soffio, sappia trasfondere nell’opera il messaggio che vuole comunicare. Se questo messaggio è sostenuto da fermo volere, da incessante ricerca, il modellato dinamizzato da una sapiente resa plastica, l’opera, da artigianato, mera esecuzione, riceve quel fiat che la fa diventare arte, per la quale non sarà mai pronunciato invano il motto oraziano dell’ “exegi monumentum aere perennius”.
Negli anni, Ghinelli tiene moltissime mostre e riceve numerosi riconoscimenti.
Nel frattempo scrive poesie, racconti[5] e pubblica diversi libri. Nella scrittura, fin dagli esordi, la cifra stilistica che lo caratterizza è quella dell’ironia, che è però un’arma spuntata, cioè si stempera nel sarcasmo, nella leggerezza, raramente nel velato cinismo, se è vero che una vena giocosa percorre sottilmente tutta la sua produzione. La sua ironia non è una fiamma al calor bianco, come quella dei motteggiatori latini, per intenderci, né quella salace, irridente, di un Aretino. Ghinelli non è spirito maledico, la sua è poesia fresca che trova nei modi del suo apparente disimpegno il terreno coltivabile, l’humus insomma, per la sua creatività.
Nel 1999 pubblica Pensieri e riflessioni,[6] con Presentazioni di Aldo Vallone, Giovanni Invitto, Salvatore Valitutti e Enzo Marcianò, e con una Nota dell’autore, Cenni sul mio metodo, che ribadisce l’urgenza per Ghinelli di scritti di metodologia, come già accaduto con Il posto dell’ arte nella civiltá tecnologica, nella rivista “La Zagaglia”[7]  e poi con Perché si fanno ritratti, in “Espresso Sud”[8].
Il libro Pensieri e riflessioni raccoglie una serie di osservazioni critiche, a mo’ di diario, scritte dall’autore nell’arco temporale 1971-1987, alcuni delle quali piccoli saggi filosofici. Nel 2010 pubblica E apparve la donna, raccolta di poesie, in parte già edite su riviste[9]. Ma Ghinelli è anche un raffinato critico letterario: si legga la sua dottissima esegesi della raccolta di poesie Segni nostri, di Donato Moro[10], o quella di Una vita in versi di Lucio Romano[11], o ancora del poema Gerusalemme di Lidia Caputo[12].
“Scultore raffinato e poeta di profonda sensibilità, Leandro Ghinelli è sicuramente l’espressione di un inedito umanesimo che sa cogliere ed esternare gli aspetti più intimi, delicati e veri dell’animo e della vita”, scrive Mario De Marco, in ringraziamento per il dono di una piccola testa in terracotta di Michelangelo[13]. Nel 2007, viene inaugurato nel cortile di Palazzo Adorno a Lecce il busto di Aldo Moro – con una epigrafe commemorativa scritta da Giovanni Pellegrino -, frutto di un percorso cominciato nel 2004 quando il Nostro realizzò un piccolo busto in terracotta dell’illustre statista assassinato dalle Brigate Rosse, che allo scultore stava particolarmente a cuore.
Quella semplice opera, presentata a Maglie nel 2004, colpì molto l’On. Francesco Rausa, che si fece promotore presso la Provincia di Lecce, allora presieduta dal Sen. Pellegrino, dell’esigenza di realizzare un’opera più imponente dedicata al politico di origini magliesi. Dopo un certo iter burocratico, si giunse alla realizzazione del grande busto in bronzo e alla sua consegna alla Provincia di Lecce da parte di un commosso e grato Ghinelli. L’opera riscosse unanime approvazione ed anche il consenso dell’On. Giacinto Urso, dell’On. Giorgio De Giuseppe, e della critica specializzata, perché la statua esprime al meglio la figura dell’On. Moro, e quella “pensosità malinconica tipica del grande statista”, come scrisse Angelo Centonze in “Note di storia e cultura salentina”[14]. Soprattutto, questa statua costituiva un punto di concordia, come scrisse Gigi Montonato in “Presenza Taurisanese” [15], facendo riferimento alle polemiche che hanno accompagnato la realizzazione di altre statue ad Aldo Moro, come quella di Maglie che raffigura il leader della Democrazia Cristiana con “L’Unità” sotto il braccio, oppure quella di Acquarica del Capo che venne addirittura vandalizzata.
Negli anni Duemila, Ghinelli realizza i busti di Gerolamo Comi, Vittorio Bodini, Vittorio Pagano, Ennio Bonea. Nel 2013 esce Canti della vigilia (poesie), per le Edizioni di “Presenza Taurisanese”[16], una raccolta di poesie voluta e curata da Gigi Montonato, che raccoglie insieme componimenti poetici già editi. Negli ultimi anni, infatti, Ghinelli pubblica moltissime poesie su riviste come “Il Galatino”, “Presenza”, “Note di storia e cultura salentina” e on line su “www.culturasalentina.it”.
Sulla copertina del libro, un’opera dello stesso Ghinelli: “Le tre Grazie Madri”. Poesie che vivono in una dimensione sospesa, quasi rarefatta, queste, sempre sottese di un lirismo soffuso, ma sorrette da una conoscenza dei mezzi tecnici, gli strumenti del versificare, di cui la robusta formazione classica fornisce padronanza all’autore. E ancora, nel 2014, pubblica Disincanti (Versi), sempre nelle edizioni di “Presenza Taurisanese”[17].
Questa silloge, quasi a bilanciare l’impegno e l’intimismo della precedente, si compagina di poesiole più leggere, scherzose, bagatelle o “nugae”, come le definisce il curatore Gigi Montonato, che firma la Presentazione del libro. In quest’ultima opera, la vena giocosa dell’autore si esplica ben al di là e a dispetto dei suoi novant’anni di età, nei modi di un colto divertimento, come di chi giunto sulla soglia dei disincanti, appunto, non esita a mettere in berta e burletta il mondo e le sue storture e sceglie per far questo un linguaggio piano, scorrevole, che si avvale di versi liberi, con immagini tratte da quel mondo favolistico da cui più volte ha preso ispirazione. Ai componimenti, si accompagnano le opere in terracotta dello stesso autore, ritratte in calce agli scritti, come per un ultimo sinestetico messaggio di arte e scrittura compagne alla mèta.
  Note
[1] Dalla sua Pagina on line.
[2] Leandro Ghinelli, Scultura. Il ritratto, in “Contributi”, Soc. Storia Patria per la Puglia sezione Maglie, n.3-4, 1987, p.63.
[3] Donato Valli, Motivi ispiratori di Leandro Ghinelli, scultore, in “Sallentum”, E.P.T. Lecce, n.VI, 1983, pp.204-205.
[4]Giuseppina De Giosa, L’arte di Leandro Ghinelli, in “Il Secolo d’Italia”, 2 Giugno 1983.
[5] Leandro Ghinelli, Due vampire bionde, in “Note di storia e cultura salentina”, Soc. Storia Patria Puglia, sezione Maglie, n.VII, Lecce, Argo,1995, pp.279-286. Idem, Vino frizzante, Ivi, n. VIII, Lecce, Argo, 1996, p.36. Idem, Uno sguardo al cammino della storia, Ivi, n.IX, Lecce, Argo ,1997, pp.335ss. Idem, Lo scampanio del mondo nuovo, Ivi, n.XV, Lecce, Argo, 2003, pp.453-456. Idem, Ridiculez, Ivi, n. XVIII, Lecce, Argo, 2006, pp.253-258.
[6] Idem, Pensieri e riflessioni, Lecce, Argo Editore, 1999.
[7] Idem, Il posto dell’arte nella civiltà tecnologica, in “La Zagaglia”, n.42, Lecce, 1969, pp.184-196.
[8]Idem, Perché si fanno ritratti, in “Espresso Sud”, Aradeo, maggio 1985, p.17.
[9] Idem, E apparve la donna, Bari, Laterza Editore, 2010.
[10] Idem, Uno studio sulla poesia di Donato Moro, in “Note di storia e cultura salentina”, Soc. Storia Patria sezione Maglie, n. X-XI, Lecce, Argo, 1998-99, pp.213-256.
[11]Idem, Una vita in versi” di Lucio Romano, Ivi, n.XIII, Lecce, Argo, 2001, pp.189-196.
[12] Idem, Gerusalemme, un dramma di coinvolgente attualità di Lidia Caputo, Ivi, n.XVI, Lecce, Argo, 2004, pp.375-378.
[13]Mario De Marco, La scultura e l’arte di Leandro Ghinelli, Ivi, n.XVII, Lecce, Argo, 2006, p.341.
[14] Angelo Centonze, Un’opera del maestro Leandro Ghinelli nel Palazzo Adorno di Lecce, Ivi, n. XIX, Lecce, Argo,2007-2008, pp.186-187.
[15] Gigi Montonato, Il busto di Aldo Moro dello scultore Leandro Ginelli, in “Presenza Taurisanese”, n.203, Taurisano, giugno-luglio 2007, p.12, dove è riportato anche uno scritto esplicativo dello stesso scultore.
[16] Leandro Ghinelli, Canti della vigilia (poesie), I Quaderni del Brogliaccio, Edizioni di “Presenza Taurisanese”, Taurisano, n.10, marzo 2013.
[17] Idem, Disincanti (Versi), I Quaderni del Brogliaccio, Edizioni di “Presenza Taurisanese”, Taurisano, n.12, aprile 2014.
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pas--encore · 6 years
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Pirandello diceva che siamo dei vermucci abbrustoliti e aveva tanta ragione
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watercolour-blur · 4 years
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Pirandello disse che noi non ci intendiamo mai.
Caspio quanto aveva ragione.
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anna2002gio · 7 years
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Pirandello aveva ragione: ogni persona indossa una maschera e recita la sua piccola parte in questo grande mondo.
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cartofolo · 7 years
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È scientificamente provato che la realtà arriva alla nostra mente solo per un due per cento è che interroga e restante novantotto per cento o non arriva alla mente,oppure viene distorto da essa.Ed è per questo che non esiste un unica realtà,riallacciandosi a Pirandello,che ognuna proietta la sua realtà? Ed è per questo che esistono versioni e incomprensioni?Che il mondo non è come lo descriviamo?Che non è quello che proviamo o sentiamo e pensiamo gli altri provino o sentino?
Pirandello aveva ragione, Anon.Consideriamo che il nostro cervello possiede circa cento miliardi di neuroni, di cui pochissimi sono deputati ai sensi fisici. La maggioranza funzionano per elaborare le situazioni che derivano dalle informazioni che quei pochi ci permettono di ricevere.Inoltre queste poche informazioni sono tutte delle traduzioni limitate degli organi che le elaborano e interpretano in una forma del tutto illusoria.
Infatti sappiamo che i colori non esistono per come li vediamo; Il colore del fiore che noi osserviamo, per esempio, se ci si pensa bene, è l'unico che non appartiene a quel fiore. Quello che si percepisce, è quella parte dello spettro visivo che, come onda elettromagnetica, è stato "rifiutato" dal fiore, che, invece ha trattenuto le altre. Paradossalmente, si potrebbe dire che il fiore ha, in sè, tutti i colori, meno quello che vediamo.Anche i suoni sono una nostra interpretazione delle vibrazioni dell'aria.  Il tatto è altrettanto illusorio in quanto deriva da una particolare struttura della pelle.In fondo noi emuliamo la realtà, direi che "la ricostruiamo" attraverso dei meccanismi che abbiamo a disposizione, ma che non sono affatto precisi né probanti le verità che ci trasmettono. Stiamo conoscendo una verità che noi estraiamo ed elaboriamo in un riconoscimento a cui ci affidiamo totalmente per definire la nostra vita e quello che crediamo sia il mondo esterno.
A questo punto possiamo essere certi che quello che pensiamo della vita e dell'universo siano delle verità su cui fondare le nostre speculazioni ateistiche o di qualche filosofia che della scienza fa il suo baluardo?Così emerge la domanda di chi siamo davvero e se il nostro cervello abbia l'esclusiva del senso dell'essere, cioè di quella coscienza che travalica i sensi e che, se ci si pensa bene, ne appare costretta.Se la risposta la si cerca negli stessi limiti che ci hanno fatto formulare la domanda, si compie un errore di stupidità intellettuale, e si rimarrà sempre chiusi in un tecnicismo che ci farà conoscere meglio la macchina, ma non il suo costruttore né il suo guidatore.
Allora io invertirei il concetto, Anon.Non esiste una realtà che "arrivi" a noi, e noi, con la nostra mente limitata, interpretiamo parzialmente. Piuttosto esiste un centro di coscienza individuale che proprio attraverso i suoi limiti, caratterizzati anche dai sensi fisici, "disegna" una propria realtà, la quale è condivisa e condivisibile con chi ha analoghe limitazioni.
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