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#Satori a Parigi
pangeanews · 4 years
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“Ti-Jean, non dimenticare che sei bretone!”. Jack Kerouac e l’ossessione per il suo antenato, il figlio di un notaio francese, de Kervoac, disonorato e vagabondo, capitato in Canada nel ’700
Quando Jack Kerouac si mise in viaggio verso la Francia, all’apice della fama letteraria, il suo obiettivo non era quello di promuovere un libro, né di farsi una vacanza. Dopo essersi interrogato per decenni, all’età di 43 anni, l’autore americano desiderava ritrovare le proprie radici. Atterrato a Parigi il primo giugno del 1965, per poi dirigersi in Bretagna, Kerouac, che narrò della sua spedizione in Satori a Parigi (1966), era deciso a scoprire tracce del suo antenato, un uomo bretone vissuto nel diciassettesimo secolo, che emigrò in Canada. Per generazioni i Kerouac avevano custodito il mito del loro progenitore, un nobile nullatenente di nome de Kervoach.
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Kerouac rastrellò gli archivi francesi in cerca di omonimi, ma, malgrado il titolo che diede al suo libro (“Satori” in giapponese significa illuminazione improvvisa), si ritrovò in un vicolo cieco. I suoi problemi di salute gli impedirono di tornare in Bretagna e morì il 21 ottobre del 1969, a quattro anni di distanza da quel primo viaggio. Passarono altri trent’anni prima che il mistero fosse svelato.  Nel 1999, la storica Patricia Dagier e il giornalista Hervé Quéméner ripercorsero in un libro gli intricati studi genealogici che diedero infine una soluzione alle ricerche di Kerouac.
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Kerouac affermava di essere “il primo Lebris de Kérouack che mai tornò in Francia in 210 anni”, ma non fu così. In realtà i Kervoac, Kirouac, e Kerouac (tutti cognomi derivati da Kervoach) del Nord America, da secoli erano in cerca delle proprie origini, alcuni si imbarcarono persino su navi a vapore per raggiungere la Bretagna, ma ogni ricerca fu vana. Nel 1978, i discendenti fondarono la Kirouac Family Association per “scoprire informazioni riguardo alle [loro] origini bretoni”. Le ricerche partirono dal certificato di matrimonio del 1732 tra “Maurice-Louis-Alexandre Le Bris de Kervoach, commerciante, figlio di sieur Le Bris de Kervoach, e dame Véronique-Magdeleine de Meuseuillac, da Beriel, nella diocesi della Cornovaglia francese” e Louise Bernier, in Nuova Francia (nell’attuale Québec). Di lui si sapeva che ebbe tre figli, morì il 5 marzo del 1736 e che la sua vedova, avendo ereditato cospicui debiti provò per tutta la vita a prendere contatto con i parenti dell’aristocrazia bretone, senza successo.
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Quando nacque Kerouac, nel 1922, con il nome di Jean-Louis, erano già due secoli che la sua famiglia stava cercando di risalire al proprio nobile antenato Kervoach, mi ha rivelato Hervé Quéméner, 74 anni. Figlio di immigrati canadesi stabilitisi a Lowell, in Massachusetts, la madrelingua di Jean-Louis Kerouac era il francese, solo quando cominciò ad andare a scuola imparò l’inglese, e diventò “Jack”. Suo padre coltivava le tradizioni bretoni, ripeteva continuamente: “Ti-Jean, non dimenticare che sei bretone!”. Anche negli anni trascorsi sulla strada non mancano riferimenti alla Bretagna, ma nel 1965 l’abuso di alcol e droga cominciava ormai ad avere conseguenze su Kerouac. Come spiegò Quéméner, “Sentendo la morte che incombeva, cominciò a sviluppare una monomania per le sue origini. Per due volte emigrato, una vita intera passata a vagabondare da un luogo all’altro, [Kerouac] aveva fatto della Bretagna la sua ancora”.
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Indizi della sua ossessione per la Bretagna sono disseminati nella produzione letteraria di Kerouac. Ancora non era stato incoronato “Re dei Beat” quando firmò la sua raccolta di poesie in francese La vie est d’hommage (1940) come “Principe della Bretagna”. In Big Sur (1962), la storia della sua estate in una capanna nella West Coast, il suo alter-ego Jack Duluoz (un altro nome bretone) urla all’oceano: “Sono bretone!”. Le poesie di “MARE”, in appendice a Big Sur, sono animate da suoni bretoni (“Ker plasc”, “Kerarc’h”), che ricordano il rumore del mare mentre si infrange contro le rocce. Kerouac scrive: “I pesci nel mare/ Parlano bretone / Io sono Lebris / De Keroack”. Quéméner si augura che un giorno gli studiosi analizzino le opere di Kerouac “alla luce della sua ossessione bretone”.
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Non c’è pagina in Satori a Parigi in cui Kerouac non ribadisca che la sua “gente viene dalla Francia, e che il loro nome era de Kerouac”. Tuttavia l’identità dell’antenato era impossibile da trovare e Jack si spazientì: “E poi è tutto di troppo tempo fa”, scrisse, e “senza senso a meno che non ritrovi i sacrari della famiglia, ma dovrei rivendicare i sanguinosi dolmen di Carnac?”. Il racconto è come un insieme di voci di viaggio meravigliate: Kerouac che fuma dentro la biblioteca nazionale francese, che vaga per Parigi prima di partire per Brest, una città portuale all’estremità occidentale della Bretagna, il Finistère (“dove la terra finisce”). Arrivato lì condivide cognac e racconti con un libraio di nome Le Bris, presumibilmente un cugino alla lontana. Un’altra falsa pista.
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Tornato a New York, Kerouac strinse amicizia con l’autore bretone Youenn Gwernig di Huelgoat, nel Finistère. Insieme discutevano della Bretagna, mentre passavano da un bar all’altro. Nel 1967, Kerouac scrisse a Gwernig: “Devo vedere la Bretagna con te […] Vediamo cosa riusciamo a trovare su les pirates Lebris de Kerouac questa volta!”. I due amici avevano in programma di partire per Huelgoat, ma la prematura morte di Jack stroncò i loro piani.
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Kerouac non seppe mai che lui e Gwernig, erano stati a un passo dalla verità. Nel 1996, Clément Kirouac, un membro canadese della Kirouac Family Association, si mise in contatto con i genealogisti francesi per avere informazioni su “Le Bris de Kerouac”. La storica Patricia Dagier ne rimase affascinata; dal momento che non si trovò traccia del nome, dedusse che “l’identità dell’antenato e quella dei suoi parenti era falsa” e spostò quindi l’attenzione sul luogo di nascita. In questo modo scoprì che “Beriel”, come era stato segnato dal sacerdote canadese nel 1732, era in realtà “Berrien”, della parrocchia di Huelgoat. Non c’era nessuno che si chiamasse Bris de Kerouac, ma emerse una famiglia dal nome Le Bihan de Kerouac. Di cui faceva parte Urbain-François Le Bihan de Kervoac, figlio di un notaio, scomparso dagli archivi intorno al 1729, la cui morte non fu mai registrata.
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Dagier si chiese il motivo che avesse spinto un giovane facoltoso a emigrare in Canada. Gli archivi dei tribunali locali custodivano la risposta; il nome di Urbain-François fu associato allo scandalo per via di accuse di furto e leggerezza. Disonorato, si imbarcò per ricostruirsi una nuova vita commerciando pellicce in Québec. Negli archivi canadesi apparve con nomi diversi e nel 1732 fu costretto a sposare una giovane che portava in grembo suo figlio. Per proteggere il suo patrimonio in Bretagna, spiegò Dagier, cambiò il suo nome da “Le Bihan” a “Le Bris” e dichiarò di essere nobile, che all’epoca garantiva protezione legale. Forse Urbain-François avrebbe desiderato tornare a casa, ma morì in Canada quattro anni dopo. La sua firma intricata, la stessa sia a Huelgoat che nel Québec fu la chiave. Dagier poté finalmente dichiarare: “L’antenato della famiglia Kerouac in America non era altri che il figlio del notaio, il cui nome nel 1720 era sulla bocca di tutti a Huelgoat: Urbain-François Le Bihan de Kervoac”.
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Non scorreva sangue blu nelle sue vene; Urbain-François, come il suo famoso discendente, fu un girovago con una straordinaria creatività e un’inclinazione all’infiorettatura. Quéméner, che scrisse il libro insieme a Dagier, ricorda con affetto questa “caccia al tesoro”. “Lo abbiamo inseguito tra gli archivi”, ha osservato. “Il nome lo puoi cambiare, ma la firma no”. La strategia di Urbain-François funzionò a meraviglia. Dagier ha affermato: “I suoi discendenti furono condannati a cercarlo ad nauseam”. Nel corso degli anni, inflessioni dialettali e analfabetismo fecero nascere una miriade di variazioni del nome Kerouac, mentre “Le Bris” scomparve. Sebbene non fosse che “pura fantasia”, il mito della nobiltà sopravvisse, nutrendo in Kerouac le fantasticherie di un passato nell’aristocrazia bretone.
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L’opera di Dagier e Quéméner, ripubblicata nel 2019, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Kerouac, intreccia la sua storia con quella di Urbain-François, per meglio enfatizzare la “convergenza di destini” tra due mistificatori che sognarono, peregrinarono e sfuggirono ai posteri. Kerouac non pagò mai gli alimenti per la figlia e tantomeno riconobbe l’influenza dei Beat sul movimento hippie. Però forse sarebbe stato orgoglioso degli omaggi che gli ha reso la Bretagna dal 1999. Oggi a Huelgoat, una targa ricorda Urbain-François e a Carhaix, nel Finistère, gli artisti salgono sul “palco Kerouac” durante l’annuale festival di musica locale. La leggenda di Jack è ormai radicata.
Pauline Bock 
*Il testo, pubblicato in origine qui, è tradotto da Valentina Gambino; le citazioni tratte da “Satori a Parigi” sono riportate nella traduzione di Silvia Stefani, per l’edizione Mondadori
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Satori a Parigi
di Jack Kerouac
Kerouac cerca le sue radici ma perde treni, aerei, valigie
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pangeanews · 5 years
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“E io sono un pazzo Che Ama Dio”: Ipotesi per un Dizionario Kerouachiano. Parte seconda: dalla M di Madre alla Z di Zen
“Fu da cattolico […] che un pomeriggio andai nella chiesa della mia infanzia (una delle tante), Santa Giovanna d’Arco a Lowell, Mass., e a un tratto, con le lacrime agli occhi, quando udii il sacro silenzio della chiesa (ero solo lì dentro, erano le cinque del pomeriggio; fuori i cani abbaiavano, i bambini strillavano, cadevano le foglie, le candele brillavano debolmente solo per me), ebbi la visione di che cosa avevo voluto dire veramente con la parola ‘Beat’, la visione che la parola Beat significava beato”.
È una frase tratta da Scrivere bop di Jack Kerouac che deve inchiodare per sempre ogni lettore del grande romanziere, statunitense sì ma quebecois ergo francofono, con profondo legame col paese d’origine dei suoi avi, con la sua lingua, con i suoi autori. È una frase che deve inchiodare anche nel viaggio, sulla strada, in un letto, nelle ebbrezze date da donne, alcol e droga, nelle visioni più o meno deliranti o lucide, altrimenti non si avrà mai in mano un libro del vecchio, piccolo Jack, ma uno stereotipo…
C’è chi, come Alberto Beretta Anguissola, tra gli infiniti fiumi d’inchiostro profusi per le molte possibili interpretazioni della Recherche du temps perdu, ha osato proporre l’ipotesi di un Proust quasi fulminato da una visione cristologica nei paraggi di Balbec, vicino forse a una conversione mai realizzata, anche se la forma della madeleine resta quella della conchiglia di Santiago alias San Giacomo e la pietra d’inciampo sarà tra i piedi del suo narratore fino alle ultime pagine della sua grande esplorazione nella memoria. Invece molto poco pare esser stato scritto del più evidente, a un tempo fragile e potente, schietto ma anche zigzagante, confondente, stordente cattolicesimo di Kerouac. Un tema da riscoprire, per non cadere nei cliché imposti dai suoi primi lettori e promotori, da scelte ideologiche, distrazioni, superficialità e mode ormai molto vecchie. La madeleine, oggetto nascosto, sotterraneo del blues apocalittico e visionario anche nei suoi di romanzi, è d’altronde ciò che i cliché li spezza, come notava Deleuze.
Kerouac non solo generazionale ma anche eterno. Kerouac non solo stelle e strisce ma anche francese. Kerouac non solo beat ma anche proustiano. Kerouac non solo nomadista ma anche sedentario. Kerouac non solo droghe e alcol ma anche cattolico. Kerouac non solo scrittore ma anche pittore. Kerouac non solo celibe in macchina sulle strade d’America. Kerouac anche a scrivere nella casa di sua madre. Kerouac anche alla ricerca del padre nelle chiese di Francia. Kerouac da rileggere, riscoprire e ridefinire, dalla A alla Z…
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Dizionario Kerouachiano (parte seconda):
Madre – Al termine di ogni suo viaggio attraverso gli Stati Uniti, Kerouac faceva ritorno alla casa della madre e qui componeva i suoi libri. I suoi periodi di sedentarietà a fianco della madre furono indubbiamente più lunghi di quelli dei nomadismi sulle strade d’America. Morì nella sua dimora a St. Petersbourg in Florida. Con lei condivise la passione maledetta per il bere. Cf. Alcol.
Neal – Neal Cassady. Il grande amico di Jack. Il Dean di Sulla strada… “E così in America quando il sole tramonta e me ne sto seduto sul vecchio molo diroccato del fiume a guardare i lunghi lunghi cieli sopra il New Jersey e sento tutta quella terra nuda che si srotola in un’unica incredibile enorme massa fino alla costa occidentale, e a tutta quella strada che corre, e a tutta quella gente che sogna nella sua immensità, e so che a quell’ora nello Iowa i bambini stanno piangendo nella terra in cui si lasciano piangere i bambini, e che stanotte spunteranno le stelle, […] e che nessuno, nessuno sa cosa toccherà a nessun altro se non il desolato stillicidio della vecchiaia che avanza, allora penso a Dean Moriarty, penso perfino al vecchio Dean Moriarty padre che non abbiamo mai trovato, penso a Dean Moriarty”.
Orfismo, Orrore – Se il primo romanzo pubblicato, nel 1951, appena un anno prima di Sulla strada, fu La città e la metropoli, tra il 1944 e il 1945 Kerouac scrisse Orfeo emerso, edito negli Stati Uniti soltanto nel 2002. Orfica è tutta la sua opera, costante discesa agli inferi e riemersione per raccontare le visioni, spesso allucinate, apocalittiche. Tra nomadismo e staticità. Tra metropoli e provincia. Tra isolamento e amicizie. Tra gioia e disperazione. Tra estasi e desolazione. Tra ebbrezza e lucidità… Kerouac dionisiaco. Kerouac apollineo. (“Senz’Apollo, chi saprebbe che Dioniso è passato?”, scrive Pierre Drieu La Rochelle in un testo sulla poesia, tradotto anch’esso ne L’eroe da romanzo). Orfismo di Kerouac. Orrore del mondo. Ricerca della pace. Big Sur è esemplare. Cf. Alcol; Beato; Madre.
Proust e il Padre – Al di là delle divagazioni sincretiste nel nichilismo orientale, ogni pagina di Kerouac è colma di una brama quasi mistica di Dio, presenteassente, figura umana e divina, corporea e spirituale a un tempo, fondamentalmente compassionevole e legata a quella del Padre che lo scrittore sempre ricercò lungo le strade d’America e credette identificare nelle radici europee del suo sangue, materializzate nelle cattedrali di Francia. Altre analogie con l’amato (al pari di Louis-Ferdinand Céline) Marcel Proust cui fa riferimento quale modello l’intera opera di Kerouac, che appare come una vera e propria ricerca del tempo, e del padre, perduto, in versione americana. “La mia opera forma un unico grosso libro come quella di Proust soltanto che i miei ricordi sono scritti di volta in volta. A causa delle obiezioni dei miei primi editori non ho potuto servirmi degli stessi nomi di persona in ogni libro. […] non sono che capitoli dell’intera opera ch’io chiamo La Leggenda di Duluoz […] veduta attraverso gli occhi del povero Ti Jean (io), altrimenti noto come Jack Duluoz” (in esergo a Big Sur). Cf. Cattolicesimo, Francia e Francofonia; Neal.
Québec – Kerouac era figlio d’immigrati canadesi di origine francese. Il padre nacque Saint-Hubert-de-Rivière-du-Loup nel 1889. La madre era cugina di René Lévesque, primo ministro dello stato francofono canadese tra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta. Cf. Francia e Francofonia.
Route 66 – La grande strada che va da Chicago, Illinois, a Santa Monica, California, attraversando il Missouri, l’Oklahoma, il Texas, il Nuovo Messico e l’Arizona, parte del viaggio di Sulla strada. Ben più breve la strada percorsa in dieci giorni di Francia, da Parigi alla Bretagna con volo aereo, Rennes, Saint-Brieuc, dov’è sepolto lo scrittore Roger Nimier, Brest e infine Chartres.
Sedentario – Eterne alternanze di Kerouac. Tra nomadismo e staticità. Tra isolamento e amicizie. Tra metropoli e provincia. Tra la madre e le altre donne. (Satori a Parigi: “Le donne mi amano – così mi pare – ma poi capiscono che sono ubriaco ebbro di tutto il mondo e che non posso dedicarmi a loro, solo a loro, per molto, e questo le rende gelose, e io sono un pazzo Che Ama Dio. Sì”). Negli ultimi anni, tra il 1966 e il 1969, visse per lo più in modo stabile con la madre e la moglie Stella in una classica villetta della provincia statunitense, bevendo i suoi amati ma famigerati shot and a wash, giocando a biliardo con amici, e scrivendo. L’esperienza in Francia del 1965, pagato dalla sua casa editrice Grove Press e vissuta per lo più vagabondando, bevendo, contemplando le chiese e le strade, e trovando compagnia nelle puttane, come testimoniato dalle pagine di Satori a Parigi, non porterà a nuovi stimoli letterari e di viaggio. Cf. Madre; Orfismo, Orrore.
Tradizione – Quella di Kerouac è una ribellione contro il tradizionalismo della middle-class borghese americana per riabbracciare la vera Tradizione nello spirito cristiano-cattolico, il Padre sempre bramato, anche attraverso la ricerca delle radici europee e con uno “sregolamento dei sensi” stile voyant di Rimbaud… Cf. Beato; Cattolicesimo; Proust e il Padre.
Updike – Kerouac, a parte la tra l’altro poco spiegabile eccezione de I vagabondi del Dharma, ebbe sempre critiche negative. John Updike si spinse fino a scrivere una breve parodia dello stile kerouachiano in un breve testo, On the Sidewalks. Sono aperte le scommesse su chi verrà dimenticato per primo, se l’autore di Corri, Coniglio! o quello di Sulla strada.
Viaggi, Visioni, Vanità – Viaggi in movimento. Viaggi sul posto. Visioni in movimento. Visioni sul posto. Satori in strada. Satori in chiesa. Satori sui monti. (L’ascesa de I vagabondi del Dharma, il Desolation Pick in Angeli di desolazione…). Rivelazioni zen. A chiudere la Recherche kerouachiana, “La Leggenda di Doluoz”, nello stesso anno di Satori a Parigi, ecco Vanità di Duluoz, l’ultimo libro pubblicato in una vita di cui ripercorre alcuni episodi fondamentali dalla giovinezza a Lowell agli anni alla Columbia University, al servizio nella marina durante la guerra, al movimento Beat. Vanità di un ego. Vanità del satori. (La parola giapponese significa “illuminazione improvvisa”, “improvviso risveglio”). Vanità dello zen. Verità del Cristo. Cf. Zen.
Zen – Leggere Satori a Parigi per comprendere il senso dello pseudo buddhismo zen di Kerouac, di un Kerouac pseudo orientalista per ciò che riguarda lo spirituale. Cercare il satori. Andando, dove? A Rennes, o a Chartres, o a Parigi, alla Madeleine, alle Tuileries, a un Requiem di Mozart nella chiesa di Saint-Germain-des-Prés, “coi violinisti rapiti trasognati dai gomiti frementi di gioia perché i banchi e persino i posti riservati erano affollati di tanta gente distinta”, o alla Sainte-Chapelle o in Saint-Louis-en-l’Île, per ritrovare l’eterna infanzia, il tempo perduto, la vera religione: “Morivo dalla voglia di visitare la Sainte-Chapelle dove San Luigi, re Luigi IX di Francia, aveva collocato un frammento della Vera Croce. […] E morivo dalla voglia di vedere la chiesa di San Luigi di Francia nell’isola di San Luigi sulla Senna, perché così si chiama la chiesa dove fui battezzato a Lowell, Massachusetts”.
Marco Settimini
*la prima parte del Dizionario Kerouachiano è stata pubblicata su “Pangea” qui
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pangeanews · 5 years
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50 anni senza Jack Kerouac! Ipotesi per un Dizionario Kerouachiano. Parte prima: dalla A di Alcol alla L di Lowell
A cinquant’anni dalla pubblicazione di Satori a Parigi, resoconto del viaggi in Francia di Jack Kerouac, a trenta dalla traduzione edita da Mondadori, e per ricordarsi anche che l’anno che viene segnerà il cinquantennale della morte del grande romanziere d’origine quebecuoise, tanto famoso quanto male incasellato autore di Sulla strada, I sotterranei, Big Sur, Il dottor Sax, Angeli di desolazione, Visioni di Gerard e di versi come quelli di Mexico City Blues, un abbozzo di dizionario, una ventina di spunti per riscoprirlo.
Una sincopata esplorazione di temi standard su cui è bene tornare, aspetti più o meno noti di un autore vittima dei cliché ideologici imposti dalla sua prima, pur meritoria, promotrice, Fernanda Pivano, e dallo spirito del tempo, degli anni che certo incarnò ma da cui volle anche prendere risolutamente le distanze, e in cui scrisse, fu letto e si appropriarono della sua poesia, delle sue visioni, fino a farne un santino hippie, sinistrorso, rivoluzionario, progressista. Una cantonata.
Non che ne sia stata l’unica vittima. La lista è lunghissima e prestigiosa. Tra gli altri Hemingway e Chatwin. E un altro beat, William Burroughs, di cui Kerouac scrive che: “aveva un debole sentimentale per l’America dei vecchi tempi, soprattutto degli anni Dieci, quando […] il Paese era selvaggio, rissoso e libero, libertà di ogni genere in abbondanza per tutti. La cosa che odiava di più era la burocrazia di Washington; subito dopo venivano i progressisti; poi i poliziotti.”
Kerouac non solo generazionale ma anche eterno. Kerouac non solo stelle e strisce ma anche francese. Kerouac non solo beat ma anche proustiano. Kerouac non solo nomadista ma anche sedentario. Kerouac non solo droghe e alcol ma anche cattolico. Kerouac non solo scrittore ma anche pittore. Kerouac non solo celibe in macchina sulle strade d’America. Kerouac anche a scrivere nella casa di sua madre. Kerouac anche alla ricerca del padre nelle chiese di Francia. Kerouac da rileggere, riscoprire e ridefinire, dalla A alla Z…
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Dizionario Kerouachiano (parte prima):
Alcol – La ricerca di paradisi visionari per via artificiale finì male per Jack. La prossimità con la madre, a sua volta alcolista, non gli fu d’aiuto. Ciò non toglie che pagine apocalittiche come ultime di Big Sur non possono esser lette solo come un episodio di delirio alcolico. Lo attestano le immagini, simili ma ben più lucide, de Il dottor Sax. Si tratta di testimonianze di visioni che sono pari a quelle di Dostoevskij, l’epilettico… Che ne L’eterno marito scriveva: “Uno beve la propria tristezza e quasi se ne ubriaca”. Nel caso di Jack si tolga il quasi. Tra Parigi e la Bretagna, cognac. Proprio in Satori a Parigi scrive: “E io, a volte detestabile, so essere dolce. Invecchiando divenni un ubriacone. Perché? Perché amo l’estasi della mente. / Sono un Disastro. / Ma amo l’amore”.
Beato – Kerouac era un beat. Anzi inventò il beat. Da non confondere con beatnick, illegittima appropriazione da parte di gruppetti hippie di una parola che il romanziere aveva radici antiche, medievali, chiaramente cristiane, nella “beatitudine”. Quella dei santi cattolici. Non dei guru New Age…
Cattolicesimo – Tutta la vita, l’opera, le idee, le radici, le ricerche, le visioni di Kerouac sono profondamente permeate dal Cattolicesimo dei padri, a tratti sincreticamente fuso con meditazioni, affermazioni, letture, episodi legati alle discipline d’Oriente, zigzag attorno alla linea cui fu sempre fedele.
Droga – Morfina, anfetamine, marijuana, funghi allucinogeni. Oltre a bere, Kerouac provò molte sostanze tossiche. Passò d’altronde gran parte della vita con dei drogati. Fu una delle ragioni delle sue crisi e della sua morte. Lui che a destra seppe farsi soltanto acerrimi nemici. (Verso la fine della sua vita, in uno show televisivo raccontò ridendo d’essere appena stato fermato da dei poliziotti per decay e vale a dire “decadenza”). Lui che non ebbe remore a dirsi avverso alla sinistra. (Altro aneddoto, negli Cinquanta si divertì a guardare in televisione la “caccia alle streghe” fumando marijuana e tifando per il senatore Joe McCarthy). Lui che, come molti cattolici, rimane inclassificabile.
Europa – Viaggiando sulle strade degli Stati Uniti: “Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati” – “Dove andiamo?” – “Non lo so, ma dobbiamo andare”. Così in Sulla strada. E in Satori a Parigi: “Insomma stavo cercando di scoprire qualcosa della mia famiglia, io fui il primo Lebris de Kérouack che mai tornò in Francia in 210 anni e meditavo di andare in Bretagna e poi in Cornovaglia Inghilterra”. (Pierre Drieu La Rochelle in una recensione ad Addio alle armi di Hemingway, tradotta ne L’eroe da romanzo, parla di “dolente bisogno dell’Europa”).
Francia e Francofonia – La Francia, e più precisamente Bretagna e Normandia, era la terra d’origine degli antenati di Jack, il cui vero nome era d’altronde Jean Louis, e Kirouac il cognome originario, modificato dal nonno Jean Baptiste quando sbarcò nel “Nuovo Mondo”. La lingua madre di Kerouac non era dunque affatto l’inglese americano bensì il francese dei canadesi spregiativamente detti canuck, ovvero francofoni del Quebec. Il soprannome che si dette, “’Ti Jean”, è poi la forma contratta di “Petit Jean”, Piccolo Jean. Anche la parola beat è meglio comprensibile se si pensa alla sua versione francofona, béat. Jack era solito chiamare in francese, mémêre, ovvero mammina, la madre Gabrielle Ange. Tra i francofoni che ha letto, Pascal, Voltaire, Balzac, Chateaubriand, Céline, Montherlant. La sua prima raccolta di versi, ancora inedita, l’ha scritta in francese, in contemporanea a Sulla strada, e s’intitola La Nuit est ma femme [La notte è la mia donna]… In Satori a Parigi afferma che il suo nome originale sarebbe Jean Louis Lebris de Kérouac, e di recarsi in Francia proprio per trovare, senza riuscirci, né alla Nationale né alla Mazarine, delle prove a questo proposito (“Sicuramente de Kérouack dovrebbe esistere in Francia visto che è registrato nel British Museum di Londra”) e in particolare del fatto di essere un discendente dai principi di Bretagna e di un ufficiale di stanza a Montcalm, Quebec, a metà Ottocento.
Gerard, Gatti e Gargolle – Visioni di Gerard, l’esile romanzo dedicato alla figura del fratello maggiore morto a soli quattro anni, è assieme a Pic uno dei libri più struggenti e misconosciuti delle lettere nordamericane. Appunti a riguardo: – La visione compassionevole di Kerouac verso il mondo e le creature ha accenti francescani. – La compassione di Kerouac è inscindibilmente connessa a un profondo senso di malinconia. – L’amore dello scrittore è universale, nei confronti del fratello come dei gatti, e su tutti Tyke. – I più grandi autori moderni sono stati fotografati con gatti, quando non ne hanno pure scritto. – Ricordarsi di Poe e Baudelaire, Twain e Lovecraft, Eliot e Neruda, Drieu e Céline, Nimier e Bukowski, Kerouac e Burroughs. – Necessario sarebbe un fotoritratto di ogni grande scrittore moderno in contemplazione delle gargouille delle cattedrali francesi. Tra gatti e gargolle: – Leggendo di Gerard si ha l’impressione che il romanziere più che un gatto tra le braccia abbia una gargolla distesa sul ventre, a fargli vibrare di fusa il ventre, a piantargli gli artigli nel cuore.
Holmes, Hipster, Huncke – John Cellion Holmes, poeta e docente universitario americano, considerato uno degli iniziatori del genere Beat (con Go e con l’articolo This is Beat Generation, entrambi del 1952), in un saggio intitolato The Name of the Game sottolinea la grande capacità che Kerouac ebbe di descrivere lo stato mentale dei giovani hipster (nulla a che vedere con gli ininteressanti hipster degli anni Duemila), che come lui camminavano lungo le strade di New York, “guardinghi, come dei gatti, rasenti ai palazzi, nella strada ma non della strada”. Un po’ dei Gesù Cristi. Cf. Giovanni 15,15-19. Nel suo articolo Holmes attribuiva la paternità del nome Beat allo stesso Kerouac, il quale l’attribuì invece a Herbert Huncke… Altro figlio del Massachussets trasferitosi a New York, dove alla Columbia University incontrò Kerouac, Burroughs e Ginsberg.
Icone – Grande appassionato d’arte, lo scrittore studiò tanto la pittura degli informali newyorkesi quanto l’arte europea dei secoli passati. Di suo realizzò, in forme tra l’astratto e il figurativo, una serie di ritratti di personaggi famosi, da Joan Crawford a Truman Capote. Negli ultimi anni della sua vita si dedicò in particolare a ritrarre uomini di Chiesa, tra i quali anche il cardinal Montini, Paolo VI. Sue opere sono state esposte presso il Museo d’Arte di Gallarate, in provincia di Milano, in occasione della mostra Beat Painting.
Lowell – Leggere Il dottor Sax: Kerouac lo considerava il suo miglior romanzo. Questo è il suo incipit: “L’altra notte ho sognato che mi trovavo seduto sul marciapiede di Moody Street, Pawtucketville, Lowell, Massachusetts, con carta e matita in mano e mi dicevo: ‘Descrivi l’asfalto grinzoso di questo marciapiede, e anche i paletti di ferro dell’Istituto Tessile, oppure il portone dove Lousy e tu e G. J. vi mettete sempre a sedere, e non soffermarti a pensare alle parole quando ti fermi, soffermati solo per immaginare meglio la scena – e lascia vagare libera la mente in questa storia’”. Guardare in rete qualche fotografia della cittadina in cui Jack nacque e visse tutta la sua infanzia. (I fiumi, il canale, gli alberi, i ponti, le strade, gli edifici di mattoni rossi, la neve). Sognare della propria. A Lowell è ambientato anche il romanzo Maggie Cassidy, che dà conto della partenza dalla città. (Sempre a Lowell sono nati anche l’attrice Bette Davis e lo scrittore Tom Sexton).
Marco Settimini
*continua
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