Moby Dick (bozza)
Appunti
Non ha trama, è un insieme di episodi e/o descrizioni.
Ciò che succederà lo si sa fin dal principio: Moby Dick uccide tutti. È l’esempio plastico che la trama è solo un elemento di un romanzo e può, se serve, anche essere semplice allo stremo.
Ha pezzi di saggio e teatrali, esperimento interessante.
Con sorpresa ho scoperto che vari capitoli sono in forma di pièce teatrale e altri in forma di saggio divulgativo. Esperimento interessante. Probabilmente ci sono ragioni filosofiche e letterarie specifiche per questa scelta, o comunque ci sono messaggi specifici che Melville voleva passare, ma io non ne so nulla. Mi è piaciuta la varietà dei capitoli, tutto qua.
Stile di scrittura.
Una particolarità che ho notato è l’impatto visivo che Melville vuole dare. Interi capitoli sono pieni di coinvolgimento del lettore: “Rovesciamo ora” “Ma adesso venite fuori”. Guida il lettore alla scoperta della barca e della balena. Rende molto bene.
Improvvisazione?
Un altro aspetto che mi ha stupito è che Melville ha scritto interi capitoli come se li avesse pensati sul posto. Non li aveva previsti ma, scrivendo, gli sono venuti in mente, e voilà, ecco un altro capitolo. È una scelta molto curiosa che rende la lettura stranamente leggera.
Lento.
Rispetto alla scrittura, prendo nota che la parte centrale l’ho sentita pesante. Un po’ per l’assenza di trama, un po’ per le digressioni meno interessanti, un po’ per la claustrofobia della scenografia.
600 pagine su una barca.
È la prima volta che leggo un libro lungo con una scenografia così limitata. Dopo pagina 50, all’incirca, non c’è altro luogo che non sia la barca, il Pequod. Da un lato è interessante come la barca cambi col lettore e col protagonista, come la si scopra nel tempo, pian pianino fino agli spazi più remoti e mai frequentati dai marinai; dall’altro lato, mi ha dato, in diverse occasioni, un forte senso di claustrofobia, come se mancasse l’aria. Ecco che le digressioni sui tipi di balene o sulla nave o sulla caccia alle balene, hanno saputo staccare lo sguardo e farmi tornare un po’ il respiro.
Scene d'azione confuse.
Rispetto alla scrittura, noto che le scene d’azione mi sono risultate tutte abbastanza confuse, come se lo sguardo fosse appannato, impreciso. Non so se è solo un’impressione mia o se fosse una scelta intenzionale di Melville.
Giochi di parole.
All’inizio del libro ho apprezzato i continui giochi di parole di Melville. Divertenti, inaspettati. Poi dopo il millesimo gioco di parole, dopo pagina 100.000, mi sono sembrati sempre di più giochi di parole un po’ ridicoli.
Leviatan
Noto, in ultimo, l’uso spasmodico di “Leviatan” o simili. C’è praticamente in ogni capitolo, anche più volte, con un’ossessione simile a quella di Achab.
La voce dell’autore è sempre presente. È chiara, limpida, giocosa, sarcastica, molto visuale.
In definitiva ho trovato Moby Dick un libro scritto molto bene.
Achab.
Ho due cose da dire su Achab. Innanzitutto non avevo capito che fin dal principio fosse chiara la sua mitomania. Sapevo che era pazzo ma pensavo lo sarebbe diventato lungo il libro; invece è pazzo dal principio in modo molto chiaro, tanto che tutti lo sanno.
La seconda cosa è che, talvolta, Achab non l’ho capito. Col suo linguaggio aulico e onirico mi è risultato davvero ostico.
C’è tensione erotica omosessuale.
Lo noto con sorpresa perché avevo il pregiudizio che non avrei mai potuto trovare cose simili in un libro simile di quell’epoca, e invece mi sono dovuto ricredere.
Bestemmie.
Noto divertito la presenza di vere e proprie bestemmie. Interessante la scelta di pavese.
Il famoso capitolo sulle balene.
Ci sono innumerevoli digressioni ma, forse, una delle più famose sta nel famoso capitolo dedicato alla spiegazione di tutti i tipi di balene. L’ho trovato interessante e per nulla pesante.
Pezzi
P 37
“Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto.”
P 41
“E dunque, per quanto il vecchio capitano mi dia ordini su ordini, per quanto io riceva pugni e spunzonate, io ho la soddisfazione di sapere che tutto va bene, che ogni uomo è, in un modo o nell’altro, servito esattamente alla stessa maniera, voglio dire, da un punto di vista fisico o da uno metafisico, e così l’universale spunzonatura va attorno e tutti dovrebbero fregare la schiena uno all’altro e restare soddisfatti.”
P 71
“Perché tutti i viventi si sforzano tanto di far tacere i morti, onde il semplice rumore di una bussata in una tomba atterrisce un’intera città? Tutte queste cose non sono senza significato.”
P 85
“Non più il mio cuore infranto e la mia mano esasperata stavano in guardia contro un mondo di lupi. Questo conciliante selvaggio me l’aveva redento”.
P 88
“Poiché nessuno può sentire in modo soddisfacente la propria identità se non ha gli occhi chiusi: come se l’oscurità fosse davvero l’elemento proprio delle nostre essenze, sebbene la luce sia più congeniale al fango che è in noi.”
P 93
“Finito un viaggio lunghissimo e pericolosissimo, ne comincia soltanto un secondo e, finito il secondo, ne comincia un terzo, e così via, sempre e sempre. Tale è l’interminabilità e, sì, l’intollerabilità di ogni sforzo terrestre.”
P 108
“Poiché tutti gli uomini tragicamente grandi sono tali attraverso qualcosa di morboso.”
P 114
Achab
P 138
“Osservai, con cordiale reverenza e timore, quell’uomo che, nel cuore dell’inverno, sceso allora da un viaggio di quattro anni pieno di pericoli, poteva con tanta irrequietezza di nuovo cacciarsi in rotta per un altro periodo di tempeste. La terra pareva scottargli sotto i piedi. Le cose più meravigliose sono sempre quelle inesprimibili, le memorie profonde non concedono epitaffi.”
P 148
“La cosa che forse tra l’altro faceva di Stubb un uomo così facile e senza paure, che così allegramente se ne faticava sotto il peso dell’esistenza in un mondo pieno di merciaiuoli cupi, tutti curvati a terra dai fardelli, la cosa che lo aiutava a portare in giro quel suo buon umore quasi empio, doveva essere la sua pipa.”
P 175
“Poiché sono le costruzioni piccole che possono venir terminate dai loro primi architetti; le grandiose, le vere lasciano sempre il soffitto all’avvenire. Che Dio mi guardi dal completare qualcosa; tutto questo libro è soltanto l’abbozzo di un abbozzo.”
P 186
“Per la massima parte di questa vita baleniera tropicale, vi circonda una sublime assenza di fatti: non udite notizie, non leggete giornali, nessun’edizione straordinaria con sorprendenti resoconti di banalità vi illude mai in agitazioni non necessarie; non sentite di dispiaceri domestici, di cauzioni fallimentari, di cadute di borsa, non vi preoccupate mai al pensiero di che cosa mangerete a pranzo, dato che per tre anni e più tutti i vostri pasti sono bellamente stivati in barili e la vostra lista immutabile.”
P 191
“Ed era così pieno del suo pensiero Achab che, a ogni voltafaccia uguale che faceva, ora all’albero di maestro ora alla chiesuola, si poteva quasi vedere quel pensiero voltarsi e camminare con lui; tanto completamente lo possedeva da non parer altro che la forma interiore di ogni suo movimento esterno.”
P 194
“Tutti gli oggetti visibili, vedi, sono soltanto maschere di cartone, ma in ogni evento, nell’atto vivo, nell’azione indubitata, qualcosa di sconosciuto, ma sempre ragionevole, sporge le sue fattezze sotto la maschera bruta. E se l’uomo vuol colpire, colpisca sulla maschera! Come può il prigioniero arrivar fuori se non si caccia attraverso il muro? Per me la Balena Bianca è questo muro, che mi è stato spinto accanto. Talvolta penso che di là non ci sia nulla. Ma mi basta. Essa mi occupa, mi sovraccarica: io vedo in lei una forza atroce innerbata da una malizia imperscrutabile.”
198
“Questa bella luce non mi rischiara più: ogni bellezza mi è d’angoscia, dacché non posso più goderla. Dotato della percezione superiore, mi manca la bassa potenza di godere: sono dannato così nel modo più sottile e più perverso; sono dannato in mezzo al paradiso!”
P 214
“Achab […] era giunto infine a identificare con Moby Dick non solo tutti i suoi mali fisici, ma ogni sua esasperazione intellettuale e spirituale. La Balena Bianca gli nuotava davanti con monomaniaca incarnazione di tutte quelle forze malvagie da cui certi uomini profondi si sentono rodere nell’intimo, finché si riducono a vivere con mezzo cuore e con mezzo polmone”.
P 235
“I più tra la gente di terra sono così ignoranti di certe delle più semplici e palpabili meraviglie del mondo, che senza un qualche cenno intorno ai semplici fatti storici e non storici della baleniera, magari disdegnerebbero Moby Dick come una favola mostruosa o, peggio e più detestabile, come una ributtante e insopportabile allegoria.”
P 257
“Ci sono certe bizzarre circostanze e occasioni in questa strana e caotica faccenda che chiamiamo la vita, che un uomo prende l’intero universo per un’enorme burla in atto, sebbene non riesca a vederne troppo chiaramente l’arguzia, e sospetti anzichenò che la burla non sia alle spalle di altri che le sue.”
P 329
“… e tutti sanno come certi campioni di epicurei, a forza di mangiar sempre cervelli di vitello finiscano per avere anch’essi un po’ di cervello, in modo da saper distinguere tra una testa di vitello e la propria: il che, sul serio, richiede un discernimento non comune.”
P 340
“Oh Natura, e tu, anima umana! Come le vostre analogie si distendono oltre quanto è dicibile! Non il più piccolo atomo si muove o vive nella materia, che non abbia il suo sottile riscontro nello spirito.”
P 349
“-Zenzero? È zenzero, che sento? - domandò Stubb sospettosamente, avvicinandosi. -Sì, dev’essere zenzero - sbirciando nella tazza tuttora intatta. Poi, fermandosi un istante come incredulo, camminò tutto calmo alla volta del dispensiere stupefatto, dicendogli adagio: -Zenzero? zenzero? e volete avere la bontà di dirmi, signor Panada, dov’è la virtù dello zenzero? zenzero! è lo zenzero il combustibile che usate, Panada, per fare un po’ di fuoco in questo cannibale gelato? Zenzero! Cosa diavolo è lo zenzero? carbone di mare? legna? fiammiferi? esca? polvere da cannone? Che cosa volo è lo zenzero, vi dico, da offrirne una tazza al nostro povero Quiqueg?
P 369
“Guardando fuoribanda si vedeva la testa prima inanimata palpitare e sussultare proprio sotto il pelo dell’acqua come se l’avesse presa in quel momento un’idea di somma importanza, mentre era soltanto il disgraziato indiano che inconsciamente rivelava con quei guizzi la pericolosa profondità cui era disceso”.
P 373
“Ma come? Genio in un capodoglio? Ha mai il capodoglio scritto un libro o pronunziato un discorso? No, il suo genio immenso si rivela in questo, ch’egli non fa nulla di speciale per mostrarlo”.
P 439
“Il mare aveva beffardamente sostenuto il suo corpo finito, ma annegato l’infinito del suo spirito.”
P 441
“Ch’io potessi continuare a spremere quello spermaceti per sempre! Poiché, ora per molte lunghe e ripetute esperienze mi sono accorto che, in ogni caso, l’uomo deve ultimamente abbassare o almeno mutare la sua idea di felicità raggiungibile, non collocandola in qualche regione dell’intelletto e della fantasia ma nella moglie, nel cuore, nel letto, nella tavola, nella sella, nel focolare e nella patria, ora che mi sono accorto di tutto ciò, io sono pronto a spremere la tinozza in eterno.”
P 447
“Gli aspetti abbronzati, ora tutti sufici di fumo e di sudore, le barbe ingarbugliate e il contrasto del barbarico splendore dei denti, tutto si rivelava stranamente nella decorazione capricciosa delle fiamme. Mentre costoro si narravano a vicenda le proprie non sante avventure, i loro racconti di terrore espressi in parole di allegrezza; mentre le loro poco civili risate forcheggiavano in alto, come le fiamme del forno; mentre, sotto i loro occhi, innanzi e indietro, i ramponieri gesticolavano selvaggiamente con le enormi forche puntute e i ramaioli; mentre il vento ululava e il mare balzava e la nave gemeva e tuffava la propria, trascinando fermamente il suo inferno rosso sempre innanzi nel buoi del mare e della notte, stritolando sdegnosa gli ossi bianchi tra i denti e sputacchiando malvagiamente intorno a sé; allora il Pequod scagliato, carico di selvaggi e pieno di fuoco, bruciante un cadavere e tuffatesi in quella nerezza tenebrosa, pareva il riscontro materiale dell’anima del suo monomaniaco comandante.”
P 478
“Si sente sovente di scrittori che s’innalzano e crescono con l’argomento, anche se questo può sembrare soltanto ordinario. Che cosa accadrà di me allora, scrivendo di questo Leviatan? Inconsciamente la mia calligrafia si espande in maiuscole cubitali. Datemi una penna di condor! Datemi il cratere del Vesuvio come calamaio! Tenetemi, amici! Poiché nel semplice atto di vergare i miei pensieri intorno a questo Leviatan, i pensieri mi stancano, mi spossano con la loro immensa comprensività, come per includere tutto il giro delle scienze e tutte le generazioni presenti, passate e di là da venire, di balene, di uomini, di mastodonti, con tutti i mutevoli panorami di potenza sulla terra e nell’intero universo, non esclusi i sobborghi. […] Nessun’opera grande e duratura potrà mai venire scritta sulla pulce, benché molti abbiano tentato.”
P 489
“Era un punto manipolatore: il cervello, se mai ne aveva avuto uno, doveva essergli colato nei primi tempi giù per i muscoli delle dita.”
P 511
“Nella vita non c’è un fermo progresso continuo, noi non avanziamo per gradi fissi verso la pausa finale: attraverso l’inconsapevole incanto dell’infanzia, la fede spensierata dell’adolescenza, il dubbio della giovinezza (il destino comune), e poi lo scetticismo, poi l’incredulità, noi ci fermiamo infine nel riposo meditabondo della virilità, del Se. Ma una volta finito, ripercorriamo la strada, e siamo bambini, ragazzi e uomini e Se, in eterno. Dov’è quest’ultimo porto, donde non salperemo mai più? In quale etere estatico naviga il mondo, di cui i più stanchi non si stancano mai? Dov’è nascosto il padre del trovatello? Le nostre anime sono come quegli orfani, le cui ragazze-madri muoiono dandoli alla luce, il segreto della nostra genitura giace in quella tomba e là dobbiamo conoscerlo”.
P 547
“Ma dalla sua marcia intermittente e dalla triste rotta serpeggiante si vedeva chiaro che questa nave piangendo di spuma restava tuttavia senza conforto. Era Rachele che piangeva i suoi figli perché non c’erano più.”
P 555
“Di sotto al cappello calcato, una lacrima cadde nel mare dall’occhio di Achab; tutto il Pacifico non conteneva tante ricchezze che valessero quella misera goccia.”
0 notes
“ Nella gola, dove a malapena ci stava un cannone, erano ammucchiati i resti di non meno di quattro. Essi avevano notato soltanto il momento in cui era stato ridotto al silenzio l'ultimo pezzo messo fuori uso; non era stato sostituito rapidamente per mancanza di uomini. I rottami erano disseminati sui due lati della strada; in mezzo ad essi gli uomini avevano trovato il modo di tenere aperto un passaggio per il quale ora stava facendo fuoco il quinto pezzo. Uomini? Sembravano demoni d'inferno! Erano tutti senza berretto, denudati sino alla cintola, le loro carni fumanti, nere per le macchie di polvere e gli spruzzi di sangue. Lavoravano come pazzi con calcatoio, cartocci, leva e cordoncino. Mettevano le spalle gonfie e le mani sanguinanti contro le ruote ad ogni rinculo e sollevavano il pesante cannone per rimetterlo in batteria. Non c'erano comandi; in quel terribile ambiente di schianti di bombe, scoppi di granate, frammenti di ferro sibilanti e schegge di legno che volavano per aria, non si sarebbe potuto udire la voce di nessuno. Gli ufficiali, se erano ufficiali, non si distinguevano dai soldati; lavoravano tutti insieme — ognuno finché durava — guidati dall'occhio. Passata la spugna, il cannone veniva caricato; appena caricato, era puntato e sparato. Il colonnello osservò qualcosa di nuovo per la sua esperienza militare, qualcosa di orribile, contro natura: il cannone sanguinava dalla volata! Per la temporanea mancanza d'acqua, l'uomo addetto alla spugna l'aveva immersa in una pozza di sangue dei suoi compagni. In tutto questo lavoro non c'erano scontri; il dovere del momento era ovvio. Quando uno cadeva, un altro, che aveva l'aspetto un po' piú pulito, sembrava scaturire dalla terra sulle orme del morto, per cadere a sua volta.
Con i cannoni distrutti giacevano gli uomini distrutti, accanto ai rottami, sotto e sopra di essi; e dietro, giú per la discesa, quei feriti che potevano muoversi, si trascinavano sulle mani e sulle ginocchia. Il colonnello — per pietà aveva fatto fare dietrofront alla sua cavalcata — dovette passare col cavallo sopra quelli che erano già morti per non schiacciare gli altri che erano ancora parzialmente vivi. In quell'inferno persistette ad andare; si portò di fianco al cannone e, nel fumo della ultima scarica, toccò sulla guancia l'uomo che impugnava il calcatoio, il quale subito stramazzò credendosi colpito a morte. Un demonio dannato sette volte saltò avanti a prendere il posto del caduto, ma indugiò e levò gli occhi all'ufficiale che era a cavallo con uno sguardo spettrale, i denti che lampeggiavano tra le labbra nere, gli occhi fieri e dilatati che ardevano come brace sotto la fronte insanguinata. Il colonnello fece un gesto imperioso e indicò la retroguardia. Quel demonio s'inchinò in segno d'obbedienza. Era il capitano Coulter.
Quando il colonnello fece segno di arrestare l'azione, simultaneamente sul campo cadde il silenzio. Il fiume di proiettili non si rovesciò piú in quella gola della morte perché il nemico cessò di far fuoco. Erano ore che il grosso dell'esercito si era allontanato, e il comandante della retroguardia, il quale aveva tenuto a lungo la sua pericolosa posizione nella speranza di ridurre al silenzio l'artiglieria federale, proprio in quel momento aveva fatto cessare la propria. “
---------
Brano tratto dal racconto Il fatto della Tacca di Coulter raccolto in:
Ambrose Bierce, Storie di soldati, traduzione di Antonio Meo, nota introduttiva di Francesco Binni, Einaudi (collana Centopagine n° 41, collezione di narratori diretta da Italo Calvino), 1976; pp. 83-84.
[Edizione originale: Tales of Soldiers and Civilians, San Francisco: E.L.G. Steele, 1891]
9 notes
·
View notes