Tumgik
#ambientarsi non è poi così difficile
dilebe06 · 3 years
Text
Drama Challenge: Reset
Episodio 7
Tumblr media
Ho aspettato questo episodio con più enfasi del solito perché la curiosità di sapere se anche L'apostolo fosse entrato nel loop era tantissima. E ci speravo lo ammetto.
Dunque:
La puntata si apre con il tizio dei cocomeri - lo chiamerò così perché il nome vattelapesca - che dalla galera e il pensiero corre a Prison Playbook parla alla moglie comunicandogli la lieta novella: tra 2 mesi finalmente uscirà. E mentre l'uomo eccitato e felice pontifica di quello che lui e la famiglia faranno una volta riuniti, la moglie gli stoppa subito l'entusiasmo:
in poche parole gli dice che dopo quello che il marito ha combinato, loro non lo vogliono più vedere. Parla di aver dovuto vedere la casa, che si sono dovuti traferire...
L'uomo ci rimane comprensibilmente male ma comprende la decisione di moglie e figlio.
Tumblr media
Stacco e torniamo al presente - più o meno...con sti loop il presente è relativo - dove i due lead più l'Apostolo finiscono di essere interrogati. E la loro versione viene confermata. Quindi tutto ok, no?
No. Perché all'agente Zhang non si sfugge. E a lui non sfugge come Li Shi sia troppo nervosa. O come le dichiarazioni dei due lead siano troppo strane. Pertanto decidono di tenere l'Apostolo - eresia - e Xiao come fermi e lasciare andare la lead per vedere le sue prossime mosse.
Tumblr media
Intanto i due lead indicano alla polizia due dei loro sospettati: l'uomo con la valigia e quello dei cocomeri. Quest'ultimo in particolare.
Gli agenti chiamano i familiari delle vittime e si fermano a parlare con la moglie ed il figlio del tizio dei cocomeri. Viene fuori una storia abbastanza triste: l'uomo anni prima, aveva ucciso un compagno di classe del figlio ed era scappato. Nonostante le insistenze della famiglia perché si costituisse, lui si era sempre rifiutato dandosi alla macchia. Ma la polizia alla fine l'aveva catturato e portato in carcere, lasciando alla famiglia il compito di risarcire tutto e fare i conti con tutto quello che l'uomo aveva combinato. Una volta uscito - come abbiamo visto - moglie e figlio si sono rifiutati di vedere e riallacciare i rapporti con l'uomo.
La moglie è turbata e preoccupata da quello che è successo e si domanda se davvero sia colpa del marito anche questo incidente e come faranno a ripagare tutto, mentre il figlio è più visibilmente dispiaciuto. Parlando con Li Shi, il ragazzo rimpiange la sua decisione passata di non aver aiutato suo padre una volta uscito di prigione. Anche se sapeva che l'uomo aveva bisogno di aiuto per ri-ambientarsi nella società odierna, lo ha sempre ignorato.
La lead appunto, scopre tutto questo. Sia che l'uomo dei cocomeri era stato in carcere, sia del suo difficile rapporto con la famiglia. la lead s'allena come futura detective
Tumblr media
Ma ecco sopraggiungere un problema improvviso: la madre dell'Apostolo irrompe nella stanza degli interrogatori dopo aver trovato la lettera/testamento del figlio e terrorizzata chiede informazioni dell'esplosione trovata scritta nella lettera.
Capendo che i tre dell'Ave Maria nascondono qualcosa allora, la polizia li interroga separatamente tutti e tre ed alla fine stremati, dicono la verità. Quella del loop. E mentre i due lead raccontano per la quinquesima volta la stessa storia, l'Apostolo dà spettacolo: ingiunge la polizia a dirgli tutto sull'esplosione perché almeno lui può salvare tutti al prossimo ciclo, essendo un salvatore. unto dal Signore Raccomanda gli agenti di fare in fretta perché il suo tempo sta scadendo e mentre lo dice, vediamo la lead cadere addormentata e...
Tumblr media
Risvegliata sul bus. Altro giro altra corsa. I due lead si risvegliano e parlano di cosa è successo, decidendo di vedere se l'Apostolo è nel loop assieme a loro e di scoprire se l'uomo dei cocomeri ha davvero la bomba con se.
L'apostolo sale sul bus alla sua fermata ma da come si comporta è ovvio che non sia nel loop con loro. (NOOOOOOOOOOOOOO) Ma Xiao ci tranquillizza tutti, dicendo che comunque possono convincerlo dopo e poi tirando fuori un piano per scoprire il bombarolo.
I due lead allora fanno finta di litigare e nel processo il lead rompe - nel modo più palese possibile - i cocomeri dentro la sacca dell'uomo. Scoperta la verità e dopo aver scansato una rissa, l'uomo dice che i frutti erano per il figlio: aveva sentito da un parente che al figlio mancavano i cocomeri del padre e lui prontamente glieli aveva portati. Usandoli anche come scusa per poterlo finalmente vedere.
Tumblr media
Compreso l'errore, Xiao si abbandona nei sedili preparandosi all'inevitabile morte mentre Li Shi usando una scusa, si avvicina all'uomo e lo conforta dicendogli che anche al figlio manca suo padre. Usando quello che ha imparato durante la conversazione con il ragazzo, riesce a far tornare il buonumore ed il sorriso all'uomo, che felice, condivide il cocomero con tutti i passeggeri.
L'ambiente gioioso però, viene interrotto dall'esplosione.
Andati in un nuovo ciclo, i due lead capiscono che rimangono due sospettati: l'uomo con la valigia e la donna di mezz'età. Chi tra loro è il bombarolo?
Tumblr media
Considerazioni Sparse:
1) Credo che siamo arrivati al 16° o 17° loop. Me lo confermate? io ho perso il conto onestamente.
2) Il tizio dei cocomeri e la sua storia. Dunque, devo ammettere che è bella. Parecchio. Toccante e raccontata in modo anche delicato. C'è tutta la tematica del perdono, della famiglia persa e della solitudine. Di un uomo che cerca di riallacciare i rapporti con il figlio soprattutto e questo figlio che lo rifiuta. E' commovente come il padre sia felice sul finire dell'episodio, quando la lead gli rivela che anche al figlio lui manca molto. Al di là del bel gesto della lead - dare conforto prima della morte - sicuramente l'uomo avrà sentito la speranza rifiorire e si sarà sentito perdonato.
Purtroppo a me questa storia pur trovandola bella non mi ha toccato tanto quanto quella dell'Apostolo, credo per due ragioni. Il primo è che l'uomo non mi è mai parso dispiaciuto per aver ammazzato quel ragazzo e esser scappato. Le sue uniche parole sono rivolte alla famiglia e non sembra dare un pensiero per il ragazzo. L'altro problema è che oramai avevo capito che ci sarebbe stato un approfondimento per ogni personaggio e che le loro storie sarebbero state tutte tristi.
3) Ho onestamente compreso come la moglie e il figlio dell'uomo abbiano voluto allontanarsi da lui salvo poi rimpiangere - il figlio sopratutto - il suo gesto. Il rimorso deve essere forte. Ma quando la moglie va a parlare con l'uomo in prigione e gli dice le sue volontà, non me la sono sentita di darle della stronza. La capivo.
Tumblr media
Ia4) E' bellissimo come la polizia in un modo o in un altro riesce sempre a beccare i due lead. XD Trovo molto umano anche il fatto che sia stata Li Shi a farsi beccare perché nervosa e agitata. D'altronde parliamo di ragazzi, civili normali. E' ovvio che siano tutti nervosi e facciano degli errori.
La polizia è bravissima comunque.
5) Ho adorato come fosse Xiao per una volta a tirare fuori un piano. Purtroppo trovo che sia un pò passivo rispetto alla lead ed io voglio davvero vederlo in azione. Per adesso gran parte del lavoro l'ha fatto Li Shi ma poichè anche Xiao è nella storia mi aspetto che faccia di più che da spalla alla lead.
6) Bello il fatto che il padre dell'Apostolo si sia schierato con il figlio contro la madre. Il padre capisce che il ragazzo ha bisogno di respirare, di autonomia. La madre ha bisogno del valium invece. Comprendo che sia rimasta traumatizzata dal leggere il testamento del figlio ma come tratta questo ragazzo è davvero, come dice il padre, senza rispetto.
Tumblr media
7) Adoro anche come i due lead facciano investigare la polizia al posto loro. XD
8) Sono rimasta male invece per il fatto che Li Shi dica a Zheng che sospetta dell'uomo dei cocomeri perché nel video postato dallo Youtuber, i commenti dicevano che aveva uno sguardo spaventoso. Onestamente mi pare un pò poco. Mi aspettavo qualcosa di un pò più pensato.
9) Andiamo alla ciccia. Sarò pazza io, ma l'esplosione di oggi è stata strana. Niente schianto contro l'autocisterna ne musichetta. E' solo esplosa dal nulla. Con @ili91-efp si ragionava che probabilmente la bomba è a tempo e scoppia quando c'è la musica. Ma che se succede qualcosa nel bus, può esplodere lo stesso. Questa volta però non c'erano le condizioni perché esplodesse. E in realtà nemmeno la prima volta che è successo. A sto punto pare che la bomba possa esplodere sempre, in base all'umore del bombarolo. E allora la musichetta?
10) In questo episodio l'apostolo diceva alla polizia di non avere tempo e che stava scadendo...guardando l'orario dietro di lui. Ed erano le 23 e 56.
All'inizio pensavo che l'apostolo fosse così matto che preso dal suo ruolo di Salvatore del Mondo pensasse davvero di essere Cenerentola e che a mezzanotte il mondo finisse. Però...però la lead si addormenta subito dopo e la serie continua a non farci vedere che ore siano. Davvero, ci ho fatto caso che ogni volta che la lead si è addormentata nella stanza degli interrogatori, l'inquadratura sfumata impediva di vedere che ore fossero.
Tumblr media
Ora, mettiamo caso che davvero fossero le 24 e che davvero ci fosse la sindrome da Cenerentola. Una volta raggiunta la mezzanotte si torna tutti nel loop. Questo apre a discutibili pensieri: prima di tutto rende l'avventura a tempo. Ossia avrebbero dalle 14 alle 24 ore per risolvere il caso. E questo rende tutto più difficile anche considerando la collab con la polizia. In secondo luogo, sarebbero costretti - tramite addormentamento - a tornare nel loop. Ma io pensavo che la dormita fosse volontaria. No che qualcuno dall'alto dei cieli mi costringesse a dormire. E' quel "qualcuno" che mi stranisce parecchio. Come puoi "obbligare "qualcuno ad addormentarsi a mezzanotte precisa?
Riporto questa teoria dell'apostolo non solo per la questione dell'orologio sfumato ma anche per altri due motivi: il primo è che la lead in questo episodio sembrava sotto sonniferi. Seriamente, non teneva gli occhi aperti nel finale. Ed era sotto interrogatorio. E non da ore come la prima volta. E la seconda è perché i due lead tornano nel loop alla stessa ora.
Mi spiego: Se la lead si fosse addormentata ma il lead no e avesse vissuto che sò...un altra ora in centrale dove la polizia scopriva qualcosa e poi si addormentava, allora quando si ritrovavano nel loop, lui avrebbe avuto notizie che la lead non poteva avere.
Se così non fosse, i due lead potrebbero vivere la giornata in modo diverso: la lead potrebbe addormentarsi alle 9 di sera ed il lead alle 4 di mattina per poi ritrovarsi entrambi alle 13 e 40 ( circa ) nel bus. Ma nello stacco di queste ore c'è troppa variabilità. Ecco perché la teoria dell'Apostolo darebbe un senso livellando tutto alle 24.
Ma appunto è solo teoria basata sul nulla. Vediamo cosa dice la serie prima. XD
Tuttavia c'è un altro motivo nascosto del perché io tifi per questa teoria ed è collegata alle parole che Xiao disse tempo addietro: quando esplodono non sentono dolore. @ili91-efp questa la lascio qui. XD
A questo punto a me sembra un videogioco: i due giocatori iniziano il livello ed hanno tot ore di tempo per risolvere il caso. Se non riescono ricominciano da capo. E ovviamente non soffrono perché sono pixel.
Ma davvero, forse è il caso che io raggiuga l'Apostolo nel circo della follia perché ci sto andando vicino mi sa. XD
13 notes · View notes
anybodybutlebron · 5 years
Text
Tumblr media
Cari compagni proprietari, una nuova stagione si sta schiudendo avanti a noi, ma quale nuova annata sarebbe senza il power ranking di benvenuto? Si, certo, avete visto quello di Mario, avete sentito parlare di quello di Ale (mai pervenuto), ma siamo sinceri, è questo il solo e l’unico che attendevate con ansia, e quindi ecco la risposta ai vostri desideri più incofessati, che come la rete nella notte del draft arriva all’ultimo istante così da essere ancora più anelato.
1. TEAM GUARNERI: 2013, e ho detto tutto, è da 6 anni che Giuseppe non vince, ormai è l’unico campione a non essersi ripetuto, tanto che in molti si domandano se non sia stato più il caso che altro nella notte dei tempi a portarlo al trionfo. Quest’anno Giuseppe non si è presentato alla notte del draft (come successe nel 2013), si dice perché altrimenti avrebbe dovuto noleggiare un camion per trasportare tutto il materiale consultabile, e questo spiega anche perché si sia preso tutti i 120 secondi per ogni singola presa. Non ci sono punti deboli e la panchina è la più profonda, è l’anno del riscatto per il venerabile maestro?
2. FRANCOFORTE LINCI: Primo nel power ranking dell’anno scorso ed in quello di 3 anni fa, Daniele porta sempre a casa un draft solido, ma a fine anno i risultati non riflettono le aspettative; non fraintendete, siamo di fronte ad uno dei proprietari più competitivi: la seconda media vittoria più alta e due regular season vinte, ma solo un terzo posto come risultato migliore. CP3 a OKC e Beal a Washington predicano nel deserto ed in logica fantasy questo non è necessariamente un male.
3. CREMONA 3TITANS: Mario arriva da una stagione difficile: partito con un draft sospetto ha sistemato il roster con 37 mosse di mercato (record della stagione passata), giunto ai playoff (unico proprietario a non averli mai mancati) è uscito al primo turno in modo anacronistico. Nessuno più di lui è capace di rimestare nel torbido dei bassifondi per trovare le gemme nascoste e con il passaggio a 14 squadre questo talento diventa un super potere. Dalla sconfitta all’ultimo canestro contro Giacomo di 3 anni fa non si è ancora ripreso pienamente; quest’anno può contare su un gruppo di guardie con molti punti nella mani ma sembra un po’ leggerino sotto canestro.
4. BEOGRAD JUGOSLAVIA: L’annata del matrimonio è sempre difficile per tutti, è complesso coniugare bomboniere e palle rubate; il draft di quest’anno è molto più imponente con tanti ma tanti chili a rimbalzo e nonostante il peso ridotto delle stoppate i centimetri hanno storicamente innalzato le nostre franchigie alla meta dei playoff. Le spalle di PG13 sono la grande incognita mentre lo spogliatoio di Boston detossificato da Kyrie dovrebbe garantire a Kemba la solita stagione iperproduttiva.
5. DARK SIDE: Stefano agisce nell’ombra da tanti anni, ha visto i suoi sforzi sprecati dalle scelte scombinate del compagno di professione, ma ora è giunto il suo momento di brillare nella luce della ribalta. Ci piace il suo gruppo in cui in tanti sanno fare tanto, ed anche nelle notti in cui il tiro sarà un po’ fuori fase potranno contribuire nelle altre categorie. Certo Kanter non è detto che arrivi a fine stagione, Porter Jr non ne ha ancora iniziata una, e molti dovranno ambientarsi in nuove realtà ma le triple doppie di Westbrook sono come la morte e le tasse.
6. LAGUN ARO MARISCOS: Ale ha lottato per 4 anni per giungere ai playoff, poi si è ripetuto in back to back ma gli manca ancora quell’elusiva prima vittoria. De’Aaron in tutte le guide per il draft era il giocatore “da prendere” ma il suo compagno di backcourt Donovan Mitchell dopo aver spezzato il cuore del commissioner si è prodigato in un mondiale storicamente deludente. Anthony Davis ha dimostrato negli anni di valer per tre, quattro anche cinque giocatori ma poi non lo abbiamo visto in campo per lunghi mesi, lo scorso anno si è vigliaccamente riposato per cui parte fresco ma ormai sappiamo che la lebronite ha azzoppato le statistiche di innumerevoli compagni.
7. G FORCE: Dario è stato in fuga per tutta la prima parte del campionato, ha iniziato a gozzovigliare ed è arrivato bolso alla fine mancando clamorosamente la finale. Ci riprova quest’anno con tanti giocatori dal nome poco sexy ma molto abili a fare quello che devono fare. Drummond e Gobert metterebbero paura a chiunque, Rozier è chiamato ad onorare un contratto per molti insensato e LeVert deve provare ad una squadra praticamente nuova che l’infortunio è ormai cosa vecchia.
8. CREMONA BIG CREAMERS: Lore ha studiato per giorni e giorni prima del draft ed i risultati si vedono, Lamb è stata la sorpresa fantasy della scorsa stagione ed ha permesso a Giak di alzare la coppa, Lillard domina da anni la regular season e se non fosse al confino in terra di Portland non sarebbe costretto a vergognarsi di pubblicità discutibili ma sarebbe il volto della NBA e Draymond Green può finalmente smettere di essere la brutta copia del vaso di coccio Bosh schiacciato tra i vasi d’acciaio della Miami di Lebron e tornare a macinare triple doppie.
9. NORTH LONDON BULLS: Il draft di Maffo è ovviamente influenzato dall’entità dell’infortunio di Zion che fino ad ora si è dimostrato sospettosamente delicato nonostante la stazza ercolinea, purtroppo al fantasy non vanno bene campioni trattati con i guanti bianchi, servono onesti lavoratori che ogni sera timbrano il cartellino, detto questo il commissioner è segretamente innamorato di Zion per cui promuoviamo comunque la scelta purtroppo sfortunata (il record del commissioner non è particolarmente di buon auspicio). Tante novità impattano i giocatori di Maffo che potrebbe avere un inizio di stagione complicato: Conley deve abituarsi al deciso cambio d’aria dopo tanti anni di Memphis che nel frattempo ha accolto Valanciunas, Brook Lopez si è reinventato sharpshooter ed Ibaka deve scoprire la vita senza Kawhi ma crediamo che a regime il nostro rookie potrà togliersi molte soddisfazioni.
10. READY FOR GO HOME: Che anno sarebbe se il dottore non partisse fuori dalla zona playoff? Tanto lo sappiamo che come ogni volta assisteremo alla stessa trama: un inizio di campionato da incubo seguito dall’interminabile sequela di infortuni seguita da una sfilza di vittorie inspiegabili per poi terminare in una amara sconfitta nei playoff. Sempre la stessa solfa con in più l’aggravante dell’assenza dell’essenza segreta di questa franchigia che ora è diventato proprietario indipendente.
11. NEW YORK KNICKERBOCKER: Prima figlia, prima maratonina e soprattutto prima finale di fantasy basket. Solo un Giacomo con un squadra irreale ha fermato Andrea ad un passo dal triplete. Manca poco e scopriremo se l’effetto delle ceneri del vulcano islandese intossicherà anche il nostro campionato; RJ Barrett e Coby White sommati assieme non fanno l’età del proprietario ma saranno chiamati ad avere in mano le chiavi dell’attacco dei Knickerbocker della bassa. Ma più che l’inesperienza, sono i giorni di riposo che saranno concessi a Kawhi sulle spiagge californiane che pongono dubbi sulle possibilità di ripetere il successo nella postseason.
12. CHEZ CHAMOIS: “the pick heard around the world”: dopo un’annata che più anonima di così quasi non ci si accorgevamo che avesse partecipato, il commissioner ha deciso di farsi notare subito da tutti nel modo più eclatante possibile, senza badare agli effetti a lungo termine: per cui porte aperte alla gragnuola di triple by the bay e poi per non farci mancare nulla abbiamo deciso di andare in Africa ed ai Caraibi, se stessi preparando un piatto di cucina fusion potrebbe saltare fuori qualcosa di interessante peccato che si stia giocando a fantabasket e la pallacanestro sia stata inventata negli Stati Uniti...
13. DEPORTIVO LA CORUNA: L’altro Splash Brother ha condiviso gli onori della cronaca la notte del draft ma ha creato ancora più sgomento perché non vedremo Klay fino alla fine della regular season. Una terza scelta arruolabile sarebbe tornata decisamente utile a Ciccio per raggiungere finalmente i playoff al sesto tentativo ed evitare che i nuovi rookies gli possano bagnare il naso nella corsa alla terra promessa dei playoff. L’unicorno si presenta ai nastri di partenza in forma smagliante e Herro parte come favorito per il trono di Rookie of the Year ma non sono loro a preoccuparci quanto l’effetto LBJ che intristisce tutto ciò che tocca.
14. RASTA SUPERSONICS: Gli opposti si attraggono, gli estremi si toccano, l’eterna competizione tra discepolo e maestro si ripete con una nuova declinazione: Giacomo tenta di replicare la mossa del Barone, che l’anno dopo il trionfo si accaparrò la coppia di Philadelphia, per dimostragli di riuscire dove l’altro si è dimostrato mancante. Siamo troppo severi con il Campione? Se nessuno è mai riuscito a ripetersi ci sarà un perchè: Mario ci è andato vicino, Gasta sembrava destinato, sarà il giovane orobico a porre termine al sortilegio? Se l’abbiamo messo qua è perchè noi lo riteniamo tanto probabile quanto che Ben Simmons vinca la gara del tiro da 3.
1 note · View note
Text
Scalando il muro
Squadra: Manchester City (prima del 2015) Genere: sentimentale, slash Rating: 18+ Pairing: dzelarov. Kolarov X Dzeko Edin è il sorriso di Aleks, ma all'inizio è stato molto difficile arrivare a lui!
Tumblr media
PARTE I La prima cosa che notarono uno dell'altro fu che tanto uno sorrideva, quanto l'altro non lo faceva mai. Non poteva proprio capire cosa gli prendesse quelle ventiquattro ore su ventiquattro da stare sempre così rigorosamente serio. Per Edin era così bello quello che stava vivendo. Era un calciatore di successo, giocava in una grande squadra, nel campionato migliore del mondo... perchè essere seri? Era bello, era divertente, era un sogno... insomma, ci si divertiva davvero, i ragazzi erano tutti simpatici... ma Aleks sembrava incapace di godersela. Edin era appena arrivato a Manchester, Aleks c'era già da un anno e proprio quando realizzò che lui era sempre così serio, anche mentre giocava a calcio, si rese conto che l'unico che in effetti avrebbe potuto aiutarlo con la questione della lingua, era lui. Aleks era serbo mentre Edin bosniaco, le loro lingue erano uguali anche se erano ognuno la definiva a seconda del proprio stato. Di fatto, essendo che una volta erano tutti sotto lo stesso 'tetto', erano uguali. Fra i vari nuovi stati non correva proprio buon sangue e fra alcuni era una situazione davvero tesa e critica. A lui queste cose non interessavano, ma nel constatare che sarebbe stato naturale farsi aiutare da lui per ambientarsi e per la lingua, si chiese se per caso non ce l'avesse con lui per colpa delle loro origini. All'ennesimo discorso mancato coi suoi nuovi compagni di squadra per incapacità di comprensione, esasperato, si rivolse proprio ad Aleks nella loro lingua madre. - Aleks, come si dice che non capisco niente e di parlare più piano? Sto ancora imparando l'inglese e loro parlano velocissimi! - Edin, che fremeva per partecipare ai discorsi di spogliatoio perchè demenziali e divertenti, si rivolse senza rifletterci ad Aleks il quale, pronto per andare in doccia e quindi nudo e crudo, si fermò e lo guardò impassibile, come se non avesse detto nulla. Edin, siccome non riceveva risposta, si girò verso di lui per vedere come mai non lo aiutava. Aleks era ancora fermo per capire se davvero aveva parlato con lui. Non che la sua espressione dimostrasse qualcosa. La sua faccia era neutra, anzi piuttosto tendente al torvo. - Aleks, non ho altri sistemi di comunicazione! Aiutami! - Ripeté in serbo-croato, come un tempo veniva definita la loro lingua prima che ogni nuovo stato le cambiasse il nome a piacere. Aleks a quel punto si decise a comunicare con lui e lo fece con la sua voce bassa e profonda, poche parole roche udite forse per la prima volta. - What the hell! - Disse solo questo, non era nemmeno chiaro se era davvero la traduzione od un commento... In ogni caso chiuse il discorso e se ne andò come se gli avesse dovuto fare chissà quale discorso faticoso. A quel punto Edin seccato lo seguì a ruota in doccia, spogliandosi in fretta e furia e dimenticando tutti i discorsi che voleva fare fino ad un minuto prima. Quando lo raggiunse proprio in quella vicino alla sua, lo guardò arrabbiato. Gli capitava di rado, ma questa volta era mosso proprio da quello che definiva sacro fuoco. Gli si accendeva ogni tanto, dipendeva dai casi, e quando lo bruciava faceva disastri. Andava spedito e duro senza guardare in faccia nessuno. Poi così come aveva preso fuoco, si spegneva velocemente. - Che problemi hai con me? - Chiese di nuovo sempre nella loro lingua, l'aria furiosa, gli occhi fiammeggianti ma vivi. Aleks rimase impassibile come sempre, ma lo guardò, il suo sguardo era molto penetrante e anche inquietante, in certi casi, perchè era impenetrabile. Non si poteva mai capire se provasse qualcosa, ma di certo non erano mai sentimenti positivi. Si poteva leggere un costante tormento. - Perchè? - Chiese impassibile continuando a lavarsi e passarsi la spugna sul corpo atletico. Edin voleva insultarlo e dirgli di non prenderlo in giro, però seguendo automatico le sue mani, si perse sui suoi tatuaggi e sul suo inguine. La prima volta che lo vedeva nudo. A quel punto, dopo la serietà ed i tatuaggi, notò anche il suo corpo perfetto e decisamente piacevole. Rendendosi conto che gli stava piacendo quel che guardava, arrossì e si zittì senza più rispondere. La sua pelle era molto chiara e lui era biondo, quindi se arrossiva, seppure sotto la doccia, si vedeva subito. Distolse lo sguardo alzandolo veloce su Aleks, ma ormai era già imbarazzato e l'altro se ne era immediatamente accorto. Inarcando un sopracciglio, la prima vera espressione che gli vedeva fare, rimase ad osservarlo senza però dire nulla. In attesa, forse. Edin, estremamente a disagio, ma anche ovviamente eccitato per qualche stranissima ed incomprensibile ragione, si girò e borbottando un 'Fa nulla, scusa' uscì senza essersi lavato, ma solo sciacquato. Aleks rimase ad osservarlo andarsene a gambe levate senza capire, ma una volta svoltato l'angolo e tornato di là, un sorrisino aleggiò sul suo viso. Un istante troppo breve per essere catturato da chiunque. Sarebbe comunque stato il primo in assoluto. Edin aveva voglia di chiedere informazioni su Aleks a qualcuno, il problema era che non sapeva come chiederlo visto che il suo inglese era ancora pietoso. Per cui c'era un solo sistema per capire meglio quel ragazzo. Doveva studiarselo da solo e, nel caso in cui non arrivasse da nessuna parte, chiedergli direttamente cosa gli succedeva e perchè fosse sempre così astioso verso l'universo e nella fattispecie verso di lui. Edin imparò a memoria tutti i suoi tatuaggi nel giro di due giorni, anche il colore particolare della sua pelle, ogni fibra muscolare e l'inclinazione delle sue non espressioni, la sfumatura scura dei suoi occhi color pece, quanti capelli avesse e quanto fossero neri, se di giorno in giorno la barba era cresciuta e quanto. Edin imparò tutto di Aleks evitando con cura di parlargli, l'intento era capire se ce l'avesse con lui, ma in realtà si trattò di capirsi. Era stato attratto da altri ragazzi in passato, per lo più suoi compagni di squadra. Più che attratto aveva sempre avuto problemi a guardarli nudi, non tutti, alcuni. E si sentiva particolarmente predisposto all'abbraccio con questi nello specifico. Ora era difficile continuare a fare finta di nulla... con Aleks la cosa fu così chiara da essere impossibile ignorarla. Gli piacevano i ragazzi, alcuni, non tutti e non sempre nello stesso modo. Comunque ne era fisicamente attratto, questo era sicuro. Gli piacevano anche le donne, ma anche lì non tutte. Dipendeva. Appurato che era attratto da Aleks, appurò anche una seconda cosa, all'ennesimo approccio fallito grazie alla freddezza dell'altro. “Beh, non deve mica piacermi anche caratterialmente! Fisicamente mi piace, come persona lo odio. Che c'è che non va?” Con questo Edin liquidò il problema e si impegnò da solo ad imparare la lingua inglese, cosa complicata perchè pareva non essere molto portato e preferiva divertirsi e girare per la città piuttosto che stare sui libri ad imparare una lingua. Da lì in poi lo ignorò... limitandosi a rifarsi gli occhi cercando di non farsi notare. Non era bello come un modello ed il suo fisico non era super pompato, ma era perfetto, muscoloso al punto giusto, addominali scolpiti quando li tirava ed in generale era tutto al punto giusto, giustissimo. Forse subiva il fascino dei tatuaggi o quello del tenebroso. Il suo viso non era bello, aveva un suo perchè. Se avesse sorriso sarebbe stato anche più bello, ma ovviamente poteva solo immaginarlo. Edin non capiva cosa gli piacesse in particolare di lui, ma certe cose scattavano da sole senza motivo. Purtroppo un motivo per odiarlo l'aveva, visto che era antipatico da morire, non parlava, rispondeva a monosillabi e come se gli facesse un favore. Non potevano andare d'accordo. A decidere le cose, comunque, fu la prima intervista a cui i due furono chiamati insieme proprio per la loro provenienza. Sapevano la difficoltà di Edin di parlare l'inglese ed invece di usare un traduttore, avevano deciso di farla anche ad Aleks per aiutarli nella comprensione. L'obiettivo era conoscere meglio Edin e visto che loro avevano quasi le stesse origini, era logico pensare che avessero legato. Pensando di facilitarli, la fissarono insieme. Ovviamente, le cose erano ben diverse da quello che tutti pensavano. Il servizio era qualcosa riguardante gli animali, per cui erano invitati a portare i loro se ne avevano. Edin, in qualità di grande amante di animali, aveva sia cani che gatti ed essendosi appena trasferito in Inghilterra, aveva voluto prendere un altro cucciolo. “Quasi quasi li porto tutti e due, così Aleks non fa una figura di merda!” Pensò convinto che la sua insensibilità si estendesse anche a quello. “Beh, che faccia! Se lo merita! Così impara a non socializzare con me!” per lui era un grave affronto. Quando si trovò Aleks già arrivato in compagnia di un cane, Edin rimase interdetto. “Ma non sarà mica suo... non può esserlo...” Era sicuro che non fosse così sensibile da averne, era quasi categorico. Non era nemmeno accucciato con lui a carezzarlo, ovvio che non era suo. Il piccolo scorrazzava libero per conto proprio, felice e contento. Quando vide un altro cane, quello di Edin ancora al guinzaglio, i due si andarono incontro felici scondinzolando bassi sulle zampe, iniziarono ad annusarsi e a saltellarsi intorno. Nel giro di poco guaivano, si rotolavano e si saltavano addosso felici come se si conoscessero da una vita. Edin ci rimase così di stucco che non trattenne un commento del tutto spontaneo nella loro lingua originale. - Sono molto meglio di noi in quanto a socializzazione! - Aleks, che non aveva seguito l'atto canino, si girò e lo guardò sempre senza dimostrare inclinazioni di alcun tipo. Aleks, che di norma non si intrometteva nemmeno se pregato, mentre intorno a loro il via vai dei tecnici che avrebbero eseguito il servizio si muoveva come se loro non ci fossero, fece una cosa sensazionale. Gli parlò di sua iniziativa! - I cani sono fatti per socializzare. - Edin trattenne il respiro sorpreso, ma decise di sfruttare l'occasione per parlargli e vedere di demolirlo con un bel battibecco che aveva sempre sognato di fare! - Anche gli uomini! - Quella per lo meno era la sua convinzione. - Anche se ad alcuni riesce male... - Aleks, invece di borbottare e starsene zitto, rispose ancora una volta facendo quasi svenire Edin, che comunque sbavava non poco sulla sua voce bassa e profonda. - Gli uomini sono complessi, pieni di troppe cose. Sono tutti diversi. - - Beh, ma anche i cani hanno i loro caratteri, non sono uguali... - Continuò Edin nel primo vero dialogo... e per di più nemmeno litigavano come aveva sempre pensato di dover fare un giorno. - Il loro scopo è lo stesso. Amare il padrone. Per cui sono socievoli di natura. Se sono aggressivi è perchè sono cresciuti male. - Edin voleva ribattere e zittirlo, ma alla fine si rese conto che dopotutto aveva ragione. Era così. I cani erano socievoli, nascevano con lo scopo di amare il padrone, per questo erano amabili e capaci di amare. Se erano aggressivi era colpa di come erano cresciuti. Edin pensò che però anche in questo ci fosse una similitudine con gli uomini e pensieroso lo disse: - Però anche i bambini nascono per essere felici e quindi per amare ed essere amati. Purtroppo se subiscono traumi questo non diventa possibile, ma è lo scopo dell'uomo l'amore. Perchè con l'amore poi sei felice. - Aleks ebbe un piccolo impercettibile sussulto, poi distogliendo lo sguardo -impossibile dire se a disagio- liquidò in fretta il discorso come se gli scottasse continuare. - Succede troppo spesso. - Edin stava per chiedere delucidazioni su cosa si riferisse, ma in quello venne interrotto dai tecnici che li salutarono e iniziarono a dargli indicazioni su cosa fare. In un istante Edin cambiò obiettivo. “Altro che guerra, qua bisogna approfondire!” Cercò di capire il senso di quella frase a mezza voce, ma durante il servizio Aleks si rivelò il solito mummificato individuo che si limitava ad eseguire tutte le richieste senza mai sorridere. Durante l'intervista, tradusse tutto ad Edin il quale stava per avere un infarto visto che era la prima volta che lo sentiva parlare tanto, anche se praticamente obbligato. Mano a mano che lo sentiva parlare, serio ma comunque parlava, era sempre più conquistato dalla sua voce. Per la fine si trovarono a fare delle foto insieme anche ai cani e rimasero venti minuti solo perchè lui non voleva saperne di sorridere. Riuscirono a strappargli solo qualcosa di un po' meno 'assassino', quello fu il meglio. Edin ci rimase male sia per il mancato sorriso da foto, sia perchè nell'intervista aveva detto poco di sé, se non proprio il necessario. Gli piacevano gli animali, ma in un servizio che li riguardava era impossibile dire il contrario. Quel cane era proprio suo, questo stupì Edin che comunque non ottenne molte altre informazioni. In passato aveva avuto altri cani, uno nella sua infanzia era morto in un incidente, adesso ne aveva appena preso un altro. Edin voleva prendere il microfono e mettersi ad intervistarlo al suo posto, ma alla fine le domande rimasero inutili ai fini della sua personale conoscenza e Aleks si scompose poco e nulla. Alla fine si decisero a concentrarsi su Edin, molto più disponibile del serbo. Conclusa l'intervista, i due recuperarono i cani e si avviarono all'uscita insieme in silenzio. Edin dentro di sé sentiva di dover cogliere l'occasione di parlargli, visto che l'aveva fatto per tutto il tempo. Anche se sotto costrizione. Nella sua mente aveva mille domande, ma le vagliava velocemente capendo che non poteva sceglierle tutte. Alla fine optò per quella più facile alla risposta. - Avevi un cane anche da piccolo? - Chiese facendo finta di essere noncurante. - Sì. - Ovviamente non poteva sbilanciarsi ed approfondire da solo. - Come è morto? Investito? Anche a me è successo, ma con un gatto... qualche anno fa. Da piccolo avere animali era impossibile... - Stava per spiegare il motivo, quando Aleks tagliò corto come se non vedesse l'ora di scrollarselo di torno. - L'incidente è stato la guerra. - Con questo arrivò in auto e fece salire il proprio nel sedile posteriore. Quando si girò per mettersi davanti ed andarsene, lo vide fermo immobile, come shockato. Aleks conosceva quel tipo di sguardo e lo odiava. Per questo evitava di dire qualunque cosa di sé che potesse provocare quell'espressione. - Anche tu... - Aleks stava per scaricarlo bruscamente, quando si rese conto di quel che aveva detto. - Anche tu? - A quel punto aggrottò la fronte. La prima vera espressione. Stavano parlando, stava mostrando inclinazioni particolari. Edin sarebbe morto dallo stupore se non fosse stato occupato con il suo flash che l'aveva appena colpito come un fulmine. - Non ci avevo pensato! Che era questo! Non... non ci avevo proprio... cioè, anche io ho vissuto la guerra da piccolo ed ormai è così parte remota di me che non ci faccio più caso. E tu vieni dai miei stessi posti e sei mio coetaneo, quindi è normale che anche tu li hai vissuti. Non ci avevo pensato... e poi forse è anche che per me sono così sepolti che non realizzo che qualcuno li può aver vissuti diversamente, che magari possano essere segnati per sempre e... mi dispiace! - Edin parlò spontaneo e sconvolto, come cadesse dalle nuvole e fosse mortificato. Aleks ci rimase di sasso e fu una specie di seconda espressione. Davvero si stava dispiacendo per una cosa simile? - Ma è ovvio che non ci pensi, non ci conosciamo! Perchè dovrebbe importarci cosa abbiamo passato? - Per lui era pura coerenza, non si capacitava di come lui ci potesse rimanere male per quello. Edin spalancò i suoi occhi azzurri rimanendo a fissare i suoi neri con scandalo. - Ma siamo compagni di squadra! Veniamo dallo stesso posto, è normale cercare di legare fra di noi! A tutti serve un punto d'appoggio, legami, rapporti... sono queste cose che aiutano a far bene il proprio lavoro... anche se è un lavoro stupendo! - Edin era partito e parlava a ruota libero, infervorato, sentendo molto quello che diceva. Aleks non riusciva a capire se era una posa o se era vero, rimase a fissarlo per capirlo, ma non ne venne a capo. - Beh, ma si può lavorare bene anche senza legare. Non devi sentirti in obbligo a legare con me per le nostre origini! - - Ma cosa dici! Non mi sento obbligato, ma penso sia normale, dovrebbe esserlo! - Aleks aggrottò ancora le sopracciglia, di nuovo. Con lui gli stavano uscendo un sacco di espressioni continue. - Mi pare che non sia tanto normale visto che non ci riesci! - Aleks era terribilmente diretto ed Edin, sconvolto per il fatto che pensasse quelle cose e per quel che aveva realizzato, allargò le braccia teatrale. - Sei tu che me lo impedisci! Io cerco ma... - L'altro lo interruppe secco, tornando alla sua freddezza e ad un muro inscalfibile. - Se non succede, non serve farlo succedere per forza! Io vado, a domani! - Con questo Aleks lo lasciò e salì in auto partendo prima che l'altro riuscisse ad infilare un'altra frase snervante. Non capiva proprio come mai quel tipo dovesse darsi tanto da fare per socializzare. A cosa serviva? Tanto erano lì per giocare a calcio, il calcio era il loro lavoro. Era bello e piacevole, ma un lavoro. Non serviva legare e fare amicizia per forza, specie se era solo per le loro origini. “Che poi un bosniaco ed un serbo che fanno amicizia perchè da piccoli facevano parte dello stesso stato che ora non c'è? Insomma, che stronzate!” Si disse da solo sfrecciando per le strade inglesi. Voleva chiudere e andare oltre, purtroppo non fu possibile perchè tanto continuò a pensare ad Edin per tutto il resto del tempo, fino al giorno dopo, quando alle dieci lo incontrò negli spogliatoi in procinto di prepararsi per un poco di palestra per conto suo prima degli allenamenti con tutti gli altri. Aveva le occhiaie ed una faccia decisamente stralunata, di solito arriva splendendo e portava il sole coi suoi sorrisi ed i suoi 'wh?' perchè non capiva quel che gli altri dicevano, ma fremeva per imparare. Aleks veniva sempre a quell'orario per fare un po' di attrezzi da solo, vedendo Edin arrivare scuro come di solito era lui, si chiese se lo stesse perseguitando. Non era nel suo stile andare a dirgli qualcosa, anche solo ammonirlo. Però lo trapassò con uno sguardo a dir poco raggelante. Quando si resero conto di essere soli, Aleks filò subito in palestra. Non era tipo da ascoltare musica, ma se lo fosse, sarebbe stato un sistema perfetto per isolarsi. Cominciò a correre sul tappeto con un'aria concentrata fissa davanti a sé, la mente rivolta all'unico che non voleva considerare. Non capiva perchè da quando era arrivato, lo tormentava tanto. Era sempre a guardarlo e studiarlo, se ne era accorto. Però poi nemmeno lo avvicinava sul serio. Per cui cosa voleva, di fatto? Lo infastidiva essere fissato, dovevano farsi i fatti propri. Quando si accorse che la macchina accanto alla sua era in funzione e qualcuno ci correva sopra, gli venne quasi un colpo. Era bravo a trattenere. Lo guardò, ovviamente era Edin ed ovviamente osava anche sorridergli come se ormai fossero amici. Lo salutò, Aleks fece un cenno e tornò a fissare davanti e a correre in silenzio. Ci mise un po' a trovare il coraggio di riprendere il discorso da dove ieri l'aveva interrotto, ma alla fine la faccia tosta esplose. - Senti, a proposito di ieri... - Aleks lo interruppe subito tagliando corto, freddo e secco. - Non importa. Corriamo e basta. - Ma Edin poteva morire se non avesse detto la sua! - No senti... sono stato invadente! Sempre! Da quando sono arrivato sono invadente e ieri ho esagerato. Per cui mi scuso. Però se ti sto sulle palle voglio che me lo dici chiaro e tondo. - Aleks pensò che se glielo avesse detto, poi avrebbe voluto sapere il motivo. Di fatto non gli stava davvero sulle scatole. - E' tutto a posto. Non ho nulla contro di te, non ti conosco. - Edin però, convinto che invece qualcosa dovesse esserci, riprese imperterrito, sempre correndo, sempre guardandolo fisso. - No, ma sono bosniaco! Magari questo ti scoccia! - Dopo una notte a pensarci, aveva elaborato questa conclusione. Aleks rallentò e lo guardò sorpreso, di nuovo un'espressione nel viso che parlava di quanto per lui fosse strano quel tipo con cui parlava da ben un giorno intero. - E cosa c'entra? - In realtà per un momento l'aveva pensato, ma non voleva alimentare polemiche. - Beh, non siamo proprio amici... dopotutto la Jugoslavia si è divisa perchè la gente si odiava e... - Edin cominciò un discorso contorto che non sapeva nemmeno dove andare a parare, alla fine Aleks lo interruppe di nuovo, secco. - Senti, non è comunque così, quindi smettila di dire stronzate! - Edin smise di correre, fermò il macchinario e lo guardò, visto che Aleks continuava fermò anche il suo obbligandolo a ricambiare il suo sguardo, il che si verificò insieme ad un fulmine oscuro. - E allora cos'è? Perchè mi respingi? Io le ho pensate tutte, ma non ci conosciamo, non ti posso stare sulle palle per qualcosa in particolare. Non sai nulla di me, tranne che sono bosniaco! - Aleks alzò gli occhi al cielo esasperato, di nuovo mostrava qualcosa di sé. - Non hai nulla che non va. Io sono così e basta. Con tutti. Sempre. Non c'è un motivo. Sono così. Punto. Lasciami in pace. - Con questo Aleks andò ad un altro macchinario per le gambe e sedutosi, si incastrò iniziando gli esercizi sotto lo sguardo sconvolto e per nulla convinto di Edin che, dopo due secondi, gli fu in quello vicino a fare lo stesso. Sempre senza togliergli gli occhi di dosso. - Nessuno è così punto e basta. C'è sempre qualcosa dietro. E nessuno può stare bene da solo. Come fai ad isolarti a calcio? Capisco che quel che hai vissuto ti abbia reso chiuso e cupo, però anche io l'ho vissuto e guarda! Sono socievole, allegro... - Aleks cominciava ad odiarlo davvero. - Buon per te. - Lo liquidò sperando la smettesse. Prima o poi doveva mollare. - E quindi? - - E quindi cosa? - - E quindi cosa c'è? - - E quindi... - Aleks cercò qualcosa che chiudesse definitivamente il discorso, non ne poteva più, era furioso e voleva solo smetterla con quegli inutili e stupidi dialoghi che non portavano a nulla, ma anche una litigata per lui era troppo. Non gli piaceva litigare perchè poi esagerava sempre e tendeva alla cattiveria pura. Non era il caso, lo capiva razionalmente, ma se lo provocavano era un po' come cercarsela. - Non so perchè dovrei ridere ed essere allegro e se non la pianti di rompermi i coglioni ti do un motivo per odiarmi, così mi starai alla larga! - Edin si zittì stupito, incredulo che gli avesse detto una cosa simile... Forse non poteva davvero cavare un ragno dal buco. Forse. Ma a lui Aleks per qualche strana ragione piaceva ed era sicuro che questo suo allontanare le persone fosse una richiesta d'aiuto, a maggior ragione se era così perchè non riusciva a liberarsi del passato. Avendo vissuto le sue stesse tragedie, si sentiva in dovere di aiutarlo, lui le aveva superate ed era l'unico a poterlo capire. Doveva farsi aiutare. Edin non sapeva come fare, ma non avrebbe mollato facilmente. Per il resto decise di risparmiarsi l'occhio nero e rimase in silenzio, ma ci pensò l'ora dopo, a calcio, a mettersi in coppia con lui. In fondo doveva tradurgli le direttive del mister, Edin aveva mandato via di proposito il suo traduttore dicendo che ci avrebbe pensato Aleks. Questi, vedendoselo piombare in coppia negli esercizi da fare in due, alzò gli occhi al cielo. Adesso cominciava ad essere pesante. Ma veramente pesante. Non aveva tutta quella pazienza, ma solitamente lo lasciavano in pace perchè la sua espressione tetra era un chiaro messaggio. Non pretendeva nulla, solo che gli altri facessero le loro cose per conto proprio. Perchè doveva coinvolgerlo? Perchè lui, novellino, doveva per forza, per forza, per forza coinvolgerlo? Lui non aveva voglia. Non gli interessava. Voleva vivere la sua vita da solo, per conto proprio, come aveva sempre fatto. Perchè doveva rompergli l'anima così? In nome di cosa? Della fratellanza che le loro regioni avevano avuto una volta? O di una lingua che anche se si chiamava in modo diverso era uguale?Perchè doveva per forza tormentarlo? Durante gli esercizi Edin riprese a parlargli a macchinetta come se nulla fosse successo, come se non ci fossero precedenti. “Dannazione, e sì che sono stato chiaro! Alla fine gliel'ho detto!” - Cosa sta dicendo ora? - Chiese Edin indicando uno dei preparatori che spiegavano una cosa sull'esercizio che stavano eseguendo a coppie. Aleks, seccato, tradusse. - Puoi chiedere se lo sto facendo giusto? - Era una domanda inutile, Aleks capì che stava usando tutte le scuse possibili per parlare ed interagire con lui. - Sentì, smettila! - Sbottò alla fine. Edin non sapeva come interpretare questo suo scatto, da un certo punto di vista era una conquista, ma dall'altro era un passo indietro. Lo odiava sempre più. Lo guardò meravigliato fingendo di non capire, gli occhi azzurri sgranati per bene. - Di far cosa? - Aleks sospirò. - Di far di tutto per socializzare! Ti ho detto che non mi va! Non dobbiamo forzarlo! - Rispose ancor più secco e questa volta anche sgarbato. - Ma io non lo sto forzando! Lo voglio davvero! - Per Edin era così chiaro e semplice e soprattutto non c'era niente di male. Aleks sbuffò e scosse il capo ammutolendosi per il resto del tempo. Edin tornò a parlare a macchinetta di tutto, ma fu un monologo senza più risposta. Aleks continuò a guardare da tutt'altra parte e basta. Alla fine degli allenamenti, Vincent, il capitano, avvicinò Edin e gli diede una sonora pacca sulla spalla, complimentandosi con lui per la sua costanza e determinazione. Edin cominciava a capire appena certe cose. Le congratulazioni le capiva, ma non il resto. Quindi con aria chiaramente incerta, chiese con la sola espressione per cosa e Vincent indicò ironico Aleks. A quello Edin capì e gli venne su un'enorme desiderio di chiedergli mille cose su di lui, ma l'incapacità linguistica lo frenò. A fatica riuscì a chiedergli perchè era così, tutto quel che il suo sapere fu in grado di far fuoriuscire dalla sua bocca e Vincent, capendo che gli stava chiedendo questo, si grattò la nuca guardando pensieroso Aleks. Chiaramente stava cercando una risposta da dargli, ma dopo i primi secondi fu chiaro ad Edin che nessuno sapeva nulla su di lui. Così l'eloquente stretta di spalle e l'aria di scuse, fu sufficiente. Specie per decidere solennemente che invece lui sarebbe venuto a capo del rebus Aleks. “Certo, ha vissuto la guerra. Ma anche io. E sono una persona serena, felice, socievole. Lui allontana chiunque voglia fare amicizia con lui, nemmeno ci prova. Non vuole proprio! Non capisco perchè! È come se continuasse a fare la guerra dentro di sé!” A questo pensiero fulminante, Edin si illuminò e fu come se riuscisse a decodificare un codice impestato. Finalmente, guardando Aleks cambiarsi, lo capì. In lui gli anni della guerra non erano mai passato, continuava a combatterli ancora ed ancora senza capire che invece era tutto finito. Se l'era letteralmente portata dietro. “Ma la deve estirpare o non sarà mai felice...” Non poteva comunque stupirsi che per alcuni gli esiti fossero quelli. Sapeva i segni che poteva lasciare, ma vedendolo un calciatore affermato che viveva un gran bel sogno, aveva pensato che la guerra, in lui, fosse ormai morta e sepolta. Chiaramente si sbagliava. PARTE II "la mia Chiesa non offre assoluzioni mi dice “prega in camera da letto” l’unico paradiso al quale verrò spedito è quando sono solo con te" - Hozier - Take me to Church - Aleks non ne voleva sapere di Edin, non tanto per lui quanto per quel che voleva fare. Voleva farlo aprire. Era convinto che chiuso com'era stesse male, ma lui non capiva, aveva un altro carattere. Se Aleks avesse tirato fuori tutto quel che teneva chiuso a chiave dentro di sé, poi non sarebbe stato meglio ma peggio, molto peggio. Se non fosse stato per quello, non gli sarebbe dispiaciuto osservarlo di nascosto. Edin era carino, non era il più bello della squadra, ma lo trovava molto interessante. Forse erano i suoi occhi azzurri e la sua pelle chiara o forse quel sorriso sempre pronto anche se era in una terra sconosciuta dove non capiva nemmeno una sillaba di quel che dicevano. Gli piaceva come persona e gli piaceva guardarlo quando non se ne accorgeva, ma odiava quel suo carattere positivo, ottimista e socievole. Forse in realtà lo invidiava. Magari se fosse stato come lui ora sarebbe anche stato felice. Erano un insieme di cose che contrastavano una con l'altra. Non si era mai soffermato su nessuno, si era sposato perchè sì, perchè era questo che si faceva, era la cultura, era l'usanza, era un po' il dovere di ogni uomo. Era stato cresciuto così. Sopravvivere, produrre denaro lavorando, sposarsi e fare figli. Si viveva per questo. Per cui Aleks si era sposato con una donna che sapesse stare al suo posto e che non pretendesse di far parte del suo mondo, se fosse stata insistente come Edin non l'avrebbe mai sposata. Fare figli faceva parte dei doveri di un uomo, ma al di là di questo non provava nulla per lei, né l'aveva mai provato per altre donne. Con gli uomini non si era fermato un secondo di più, aveva sempre allontanato tutti per partito preso, questo aveva portato ad una ovvia conseguenza: Aleks non aveva idea di chi gli piacesse, se gli piacesse qualcuno o qualche tipo di persona e non aveva nemmeno mai ascoltato i propri istinti. Nessuno era riuscito a farsi guardare da lui come ora faceva Edin. A volte lo guardava per insultarlo, altre perchè... beh, era curioso. Come poteva lui, che aveva vissuto la guerra a sua volta, essere così felice e sereno? Oltre a questo a volte gli sembrava che il suo sguardo fosse calamitato da lui, non voleva approfondire oltre questo genere di cose, non serviva a nulla, non voleva proprio. Fu così il turno di un altro servizio insieme. Adesso Edin sapeva meglio l'inglese, era passato un po' di tempo, ma non c'erano state evoluzioni. Edin insisteva col fare amicizia con Aleks, questo scappava a gambe levate. Quando si ritrovò obbligato a fare un servizio fotografico con lui, preceduto da una breve intervista doppia, mentre Aleks si chiedeva quando avrebbero smesso di convocarli insieme, Edin organizzava la serata, questa volta assolutamente insieme. Concluso il servizio che si era poi svolto nel più normale dei modi, Edin gli prese le chiavi dalle mani proprio mentre le stava tirando fuori per schiacciare il pulsante ed aprirla. Aleks lo guardò fulminandolo, niente inclinazioni particolari, ma era chiaro che non aveva gradito. Edin fece finta di niente e sorridendo solare, si mise le sue chiavi in tasca tirando fuori le proprie. - Adesso vieni via con me, la famiglia è via per qualche giorno, possiamo stare soli e tranquilli da me! - Aleks voleva dirgli se era impazzito, ma si limitò a mugugnare: - Dammi le chiavi che vado a casa mia. - La mano tesa davanti a sé, l'aria seria ed impassibile. Edin fece finta di aver ricevuto la domanda sensata. - Perchè così ci conosciamo e non va a discapito della tua privacy! Saremo solo io e te, nessun orecchio indiscreto! Ci conosciamo bene e facciamo amicizia! Ne abbiamo bisogno! Specie tu! Sono un ottimo cuoco, voglio cucinare qualcosa delle nostre parti! - Aleks chiuse gli occhi due secondi, gesto che introduceva il suo nervoso e la sua contrarietà. - Non mi va! Dammi le chiavi. - Disse laconico e secco. Edin in risposta gli prese la mano testa e lo tirò verso la propria auto, Aleks si divincolò come se fosse fatto di carboni ardenti e cercò di prendergli le chiavi dalla tasca, cosa che non gli riuscì perchè Edin, velocissimo, le riprese e se le infilò nelle mutande. - Per prenderle mi devi stuprare e anche se sembri un criminale fatto e finito, sono sicuro che non sia il tuo passatempo preferito! - Edin sperava che prendesse spunto per ridere e alleggerire la situazione, ovviamente Aleks grugnì che era un grandissimo rompipalle e che rischiava un occhio nero comunque, ma Edin andò alla propria macchina tutto contento e salendo dentro l'aspettò sapendo che non aveva scelta. Fu questo che Aleks pensò. Di non avere scelta. Così salì e rassegnato si vide trascinare verso casa di Edin. In realtà una volta in macchina avrebbe potuto infilargli le mani nei pantaloni e riprendersi le chiavi, ma alla fine pensò che avrebbe potuto innescare un meccanismo pericoloso. Quando lo pensò capì che era in qualche modo assurdo attratto da Edin e dai suoi occhi azzurri e la sua pelle lattea. Non gli era mai capitato, ma nessuno gli si era avvicinato tanto, con tale insistenza. La casa di Edin non era ancora stata arredata del tutto, o meglio i mobili c'erano, ma mancavano ancora alcune delle cose personali sue e di sua moglie. Aleks entrò rassegnato in casa, ma non la guardò, rimase a fissare Edin sperando che rinsavisse e che lo liberasse da quella che per lui era una vera e propria tortura. - Puoi appoggiare le tue cose lì... - Disse indicando un mobile d'ingresso dove Edin aveva appoggiato chiavi, portafoglio e telefono. Aleks, che non aveva molta scelta, fece la stessa cosa sempre in rigoroso silenzio, del resto ci pensava il bosniaco a parlare anche per lui e a riempire ogni possibile momento morto. - Col trasloco appena fatto certe cose ci mancano ancora, sai... - Aleks non disse nulla. - Vieni, intanto cucino. Non ci vorrà molto, io sto morendo di fame... vuoi bere qualcosa intanto? - Iniziò facendo l'elenco di tutto quello che aveva in casa da bere, tutto analcolico. Aleks finalmente si decise a rispondere, accettando in qualche modo quella serata imposta. Ormai era lì e a meno che davvero non gli abbassasse pantaloni e slip a forza, era costretto a rimanerci. Edin, contento di aver ottenuto una specie di benestare, gli versò da bere, fece altrettanto con sé e dopo aver sorseggiato, si voltò iniziando a preparare la cena. Per prima cosa parlò del piatto tipico delle proprie parti, poi gli chiese se l'aveva mai mangiato, al suo 'no', partì con un sermone su che tipo di piatto fosse e da lì proseguì con la storia della sua vita. Chi glielo preparava, chi glielo aveva insegnato, come poi era proseguita la sua vita, quello che ricordava da bambino, le bombe, i botti, gli spari, la guerra. Tutto come se fosse naturale, come se raccontasse un film e non la propria vita. Aleks non voleva ascoltare, non voleva proprio saperne, ma non sapeva come farlo smettere. Quando si misero a mangiare, Edin aveva superato la parte difficile della propria vita ed era passato a quella meno brutta, la fesa della ricostruzione. - Non so come ho superato quei momenti, amici e familiari mi sono rimasti vicini. All'inizio non volevo parlarne, ma poi quando gli stessi che avevano passato le mie stesse cose si misero a parlarne, capii che provavano quel che provavo io. Era uguale. Quel che pensavano, che sentivano, che gli era rimasto. E capii che non ero solo. Questo mi ha aiutato, la consapevolezza di non essere solo, che altri capivano. Ne ho parlato a mia volta e quando l'ho fatto ho smesso di piangere. All'inizio ogni rumore improvviso mi faceva saltare su, mi sembrava tutto uno sparo. - Aleks, contro la propria volontà, aveva finito per ascoltare e assorbire le sue parole. Non voleva riversarle a sé stesso, ma era inevitabile farlo. Dopo cena, si spostarono sul divano, seduti vicini, a sorseggiare ancora qualcosa da bere mentre Edin aveva avuto la geniale idea di mettere un brucia essenza con un profumo tipico delle loro parti. Aleks non aveva ancora detto una parola, ma aveva ascoltato tutto ed ora, silenzioso e serio, annusava quel profumo che lo riportava alle sue origini che spesso aveva cercato di cancellare e distruggere. - Perchè adesso sorridi? - Chiese finalmente dopo ore di silenzio e di rifiutare un dialogo scomodo ma doveroso. Edin non mostrò gioia, ma ovviamente lo era. Finalmente una domanda, finalmente gli importava. Si girò verso di lui a guardarlo mentre rispondeva con la sua aria davvero serena, gli occhi limpidi come se non fossero mai stati oscurati. Anche Aleks lo guardava per capire come, come fosse possibile che quei cieli azzurri fossero un tempo stati coperti da nuvole nere. - E' stata dura scacciare la paura e l'angoscia, ma quando la vita ha ripreso a scorrere serenamente, piano piano... beh, non so come dire. Mentre ricostruivo, riconquistavo quanto perso... costruivamo case distrutte, noi giovani ed in forze. Vedendo come venivano su, mi sentivo meglio. Era stato tutto distrutto dalla guerra, però adesso era di nuovo tutto rifatto. E la gente che lo faceva con me, sapeva come ci si sentiva. Erano uguali a me. Piano piano io... sono tornato alla vita. Non c'è stato un qualcosa di particolare, non c'è un sistema. È così e basta. - Aleks, che non riusciva a staccare più gli occhi di dosso dai suoi, rimase incatenato. Era autentica serenità, quella che vi leggeva. - Ma i ricordi... gli incubi... non ti divorano? Non ti sembra ancora di essere là? - Edin non abbassò lo sguardo, rimase alto sul suo, contento di parlarne ancora. - Quando lo sogno sì, ma mi sveglio, accendo la luce e vedo dove sono e tutto passa. L'ho superato. Sono sopravvissuto. Sono forte. Sono più forte. Non posso crollare. Se ho superato le bombe che volavano sopra casa mia, quelle che poi l'hanno distrutta, allora supero ogni cosa. - Aleks scosse la testa amaro ed in disaccordo distogliendo lo sguardo che puntò ora davanti a loro. - Per me non è stato così... - Finalmente la magia cominciò. Edin sapeva cosa ci voleva, perchè l'aveva vissuto a suo tempo. Solo che nessuno aveva avuto il coraggio di scalfire il muro di Aleks. - Ero traumatizzato ed ho reagito chiudendomi, divenni aggressivo. Nessuno poteva parlarmi, nessuno poteva osare. Ero convinto che non parlandone, non ascoltando nulla a riguardo, sarebbe stato più facile dimenticare. Ma era sempre tutto lì. Chiudevo gli occhi e vedevo le case distrutte, dormivo e mi ritrovavo fra le bombe che volavano sopra la mia testa, i miei pensieri erano pieni di quello... io lo vivevo e lo rivivevo di continuo e non riuscivo a smettere. Crescendo, dopo aver subito dei sonori pestaggi, divenni bravo a rispondere e a farmi rispettare. Nessuno mi toccava più, nessuno mi avvicinava. Mi lasciavano in pace e quello, pensai, era il meglio a cui potevo aspirare. Facevo paura a tutti e tutti mi lasciavano in pace, mentre comunque non riuscivo a dimenticare, ma almeno non cercavano di tirarmelo fuori. Parlarne era impensabile. - Edin, piano e delicato, parlò. - Ma non l'hai mai superato. - - No, non c'è un momento in cui posso dire d'averlo messo via. Per questo non capisco come tu faccia... - Edin gli mise una mano sul mento e lo girò verso di sé, si guardarono. Uno era delicato e pieno di attenzioni, dolce. L'altro tormentato, attento, stranito. - Ne hai appena parlato. L'unico modo per affrontarlo è parlarne e se è con qualcuno che ha passato le tue stesse cose, è più facile perchè poi sa quello di cui hai bisogno. - Aleks, catturato ed ammaliato dalla sua delicatezza, disse piano. - E cos'è che ho bisogno? - Confuso, incapace di capire lui stesso come ora si sentisse e cosa volesse davvero. Parlarne era sempre stato impensabile, ma sentirne uno che lo faceva nonostante il suo rifiuto ed i suoi tentativi di allontanamento, gli fece capire a forza perchè aveva sempre sbagliato. Edin a quel punto, incapace di spiegarlo in modo efficace per non essere rifiutato, sapendo cos'era, sapendo qual era la sola cosa utile ad Aleks in quel momento, un momento in cui era in procinto di cadere di nuovo, lo baciò. Aderì le labbra alle sue e gliele aprì senza chiedere alcun permesso. L'istante dopo faceva capolino nella sua bocca, mentre gli teneva il viso con le mani. Aleks non si rese conto di stare rispondendo al bacio, ma quando Edin ebbe la lingua intrecciata alla propria, gli salì sopra a cavalcioni in un gesto del tutto spontaneo, Aleks lo prese per i fianchi e lo tenne a sé approfondendo quel bacio e quel momento che lo riempì di caldo con una vampata improvvisa, bollente e splendida. In un istante Aleks riconobbe il Paradiso, quello guardato dal fondo dell'Inferno per lunghissimi ed infiniti anni. Adesso ci era dentro e non se ne era nemmeno mai reso conto. Non si era mai concesso nulla che andasse oltre il dovere. Il calcio era una via di mezzo, gli piaceva ma era sempre un sistema per far soldi, lo vedeva comunque come il suo lavoro e lo confermava il fatto che non socializzasse e non si divertisse. Il matrimonio era stata una cosa doverosa, non c'erano mai stati momenti gioiosi e fatti per il puro piacere. Anche il sesso era un compimento dei doveri matrimoniali ed uno sfogo fisico, ma non era mai stato vissuto da lui come un piacere puro. Aleks, confuso e colto dalle mille ondate di piacere calde che l'attraversavano inebriandolo, non riusciva a capire cosa gli avesse fatto Edin, ma chiaramente non ne poteva fare a meno. Era una cosa impensabile, ora come ora, mandarlo via. Gli piaceva baciarlo, giocare con la sua lingua, tenerlo per i fianchi e infilare le mani sotto la maglia leggera, sulla sua pelle liscia che gli lasciava intuire quanto tonica fosse. E gli piaceva sentire il suo bacino contro il proprio che si strofinava perchè gli era seduto sopra. Gli piaceva tutto. Le sue mani sul proprio viso. Quei tocchi inconsapevolmente sensuali. Non aveva mai immaginato che nella vita qualcosa potesse essere così piacevole e semplicemente bello. Non voleva più smettere. Non voleva. Edin, febbrile e colto dall'eccitazione per il fare finalmente qualcosa che aveva voluto da settimane, spostò le mani e si prese dietro il collo la propria maglia tirandola su oltre la testa. Si separò dal baciarlo e Aleks l'aiutò a liberarsene. Le dita scivolarono sulla sua pelle, sulla schiena dove poi tornò a carezzarlo per sentire quanto veramente bello fosse toccarlo. Edin, dopo essersi tolto la propria, gli tolse la sua senza troppi complimenti ed una volta rimasto a torso nudo, lo guardò compiaciuto, guardando i tatuaggi che ora poteva finalmente toccare e che nel corso degli anni sarebbero aumentati. Li passò uno ad uno, attratto da essi, come se li dipingesse leggero una seconda volta. Sui pettorali, sulle spalle, sulle braccia. Aleks chiuse gli occhi eccitato a quel contatto incredibilmente seducente. Quanto poteva essere ancora bello tutto quello? Non si era mai concesso nulla pensando di dover adempiere solo a dei doveri, pensando che la vita fosse solo quello. Per questo non trovava il senso del liberarsi dei fantasmi e del provare ad essere felice. Ridere. Ridere era stato lontano dal suo modo di vedere la vita, ma adesso il piacere che stava provando era la cosa più bella di tutte e non capiva più perchè fosse vietato. Perchè non concederselo? Stava tradendo una donna per cui non provava nulla? Forse era così, dopotutto. Ma cosa importava, se era così bello? Scese con le mani sul basso della sua schiena fino ad infilarsi nella cintola dei jeans. La cintura li stringeva e gli impediva di addentrarsi a piacimento, quindi mentre riprendevano a baciarsi, gliela aprì. Se c'era un altro modo di vivere la vita oltre ai propri doveri e quel modo era il piacere, allora non si sarebbe fermato. Si poteva provare piacere. C'era. Esisteva. Non c'era solo il dolore, i ricordi di un incubo infinito e la freddezza. C'era molto di più. Ed ora l'aveva fra le mani. Aperta la cintura, gli slacciò i jeans e finalmente poté infilarsi sotto, tornando dietro. Si appropriò dei suoi glutei sodi che spesso gli aveva osservato trovandoli ben modellati. Li strinse fra le dita e si infilò fra essi, andando sotto gli slip. Trovò l'ingresso e non fece complimenti. Edin, sentendolo già dentro con il medio, smise di baciarlo e si inarcò gettando la testa all'indietro, sospirando di piacere. Era tremendamente bello. Non l'aveva mai fatto con nessuno, ma aveva spesso fantasticato su alcuni compagni particolarmente attraenti. Da tempo aveva capito che era quanto meno bisessuale se non proprio gay. Gli piacevano gli uomini e ci avrebbe fatto di tutto. E di tutto, ora, intendeva farci. Ormai si sentiva stringere i pantaloni, anche se erano aperti, l'eccitazione era tale che non ce la faceva più a tenerli addosso, ma gli piaceva avere le sue dita che si muovevano dentro senza dolcezza, solo volendo possederlo. E lui voleva. Voleva essere posseduto da Aleks, lo voleva spasmodicamente. - A...aspetta... - Mormorò faticosamente per fermarlo e permettersi di spogliarsi del tutto. Aleks, il quale ormai era partito e non intendeva certo fermarsi, smise di toccarlo e lo guardò seccato con quel suo tipico modo intimidatorio. Edin ridacchiò. - Devo liberarmi di tutto o muoio... - Aleks lo fissò senza capire e così si alzò sfilandosi da sopra. Si tolse i jeans e solo quando se li fu tolto fu chiaro il motivo. Aleks lo guardò da seduto alzando le sopracciglia incredulo e malizioso. Non lo era mai stato ed Edin se ne sconvolse per poi eccitarsi ancora di più. Con quell'espressione era tremendamente erotico, era quasi la sua aria naturale. Rimase in piedi davanti a lui a farsi guardare l'inguine gonfio, stretto negli slip bianchi e solo a quel punto si rese conto di qualcosa che aveva ancora dentro. Ridacchiando con la stessa malizia, abbandonò le mani lungo i fianchi e guardandolo disse: - Pensi di riprenderti le tue chiavi o le lascerai qua? - Solo allora anche Aleks si ricordò che Edin si era messo le proprie chiavi nelle mutande e finalmente rise. Anche quella era la prima volta che lo vedeva, Edin si mise una mano sulla bocca. Era incredibilmente bello il suo sorriso. Oltretutto ci era riuscito. Era come vincere una coppa di fine campionato. Si sentì allo stesso modo e mentre Aleks gli abbassava gli slip prendendo le chiavi, si morse il labbro, cosa che poi fece anche l'altro nel vedere che cosa c'era lì, oltre alle sue chiavi che abbandonò disinteressato sul tavolino più indietro. Aleks lo prese per i fianchi guardando la sua erezione eccitata davvero notevole. - Anche a riposo si nota, ma non pensavo che in tiro fosse così. - Non era certo uno che filtrava le cose da dire. Del resto parlava così poco che quando lo faceva di solito era inappropriato! Edin comunque rise a quella sua uscita da persona compiaciuta, maliziosa e rilassata. Tutto l'opposto di quello che era sempre stato. Forse ora avrebbe potuto liberare l'autentico Aleksandar. - Se ti vuoi fermare... - Cominciò Edin. Aleks lo guardò come se fosse matto. Di nuovo stava avendo delle espressioni. Era incredibile cosa, dopo averne parlato, era successo in lui, come si era liberato. - Sei matto? Adesso voglio tutta l'altra faccia... - Con questo leccò l'inguine, intorno al suo membro eretto. Edin sussultò e parlò con fatica. - L'altra faccia della vita? - Aleks gli mordicchiò un altro punto, sulla coscia, sempre lì vicino e molto sensibile. Edin gli mise le mani sulle spalle sospirando ancora. - Sì... - Fece quindi leccando ancora tutt'intorno. - il piacere. La vita non è solo sofferenza e dovere. Dopo tutto questo, c'è anche il piacere puro e crudo. Ed io ora lo voglio. Perchè fanculo, lo merito! - Edin sorrise. Sperava che un giorno arrivasse anche a parlare di amore, ma ovviamente era un discorso lontano da lui anni luce. Andava bene comunque. Si iniziava col piacere. Onestamente anche da parte propria per ora era quello, ma era felicissimo del suo sorriso. Quel sorriso che aveva mostrato solo a lui. Aleks a quel punto gli leccò anche l'erezione partendo dalla base e risalendo su tutta la lunghezza. Raggiunse la punta e ci giocò. Era la prima volta che lo faceva ma lo trovava bello, voleva andare avanti, voleva averlo tutto, prenderselo, farlo suo. Lui, i suoi cieli azzurri, il suo sorriso spontaneo, la sua pelle lattea. Lo voleva assolutamente e l'avrebbe avuto. L'avvolse con le labbra ed iniziò a succhiare stringendo e tirando, Edin perse il contatto col mondo in quel momento e gemendo, affondò le dita fra i suoi capelli, sulla sua nuca, accompagnandogli la testa su e già. Lo prese e lo fece suo e l'ebbe, l'ebbe senza riserve. Ebbero entrambi il piacere più intenso delle loro vite e quando Edin, alla prima esperienza omosessuale, si rese conto di quanto incredibile fosse, raggiunse l'orgasmo al primo colpo. Incontrollato, incapace di gestirlo e trattenersi, com'era normale succedesse. Aleks ridacchiò vedendo che si macchiava dopo essersi tolto dalla sua bocca per non venirgli dentro. Adesso era era libero, non c'era nessuno a controllarlo ed Edin era lì per lui. Pensandolo, iniziò a leccargli la mano, succhiando dito per dito, appropriandosi anche del suo sapore. Edin lo guardò sconvolto per la prima volta e quasi svenne, tornando ad eccitarsi piano piano. Mordendosi il labbro, decise di ricambiare e lo alzò mettendosi seduto al suo posto. Aleks apprezzò molto di più questo, incapace di concepire un piacere simile. Sua moglie glielo faceva, con lei faceva tutto, era un buon sesso, ma aveva la sensazione che fosse sempre mancato qualcosa ed ora ne aveva la conferma. Era mancato il coinvolgimento interiore, la spinta, la voglia, il perdere il controllo. Avere la bocca di Edin sul proprio membro era diverso, non capiva in cosa, ma lo era, e guardandolo dall'alto, guardando la sua testa bionda muoversi sul proprio inguine, fu chiaro. Fu chiaro quanto sensazionale fosse. Quanto bello. E quanto volesse tutto il resto. - Edin, non voglio fermarmi... - Disse sentendo che era vicino l'orgasmo e volendolo avere dentro di lui. Edin smise di succhiare e capì a cosa si riferiva ed emozionandosi come non gli era mai successo, annuì. Era la prima volta, si ripeteva, ma andava bene con lui. Voleva farlo con lui. Per qualche ragione, voleva lui. Così si separò ed attese che Aleks assumesse la posizione che preferiva e prendesse il controllo. Lo guardò dall'alto qualche istante, incerto, indeciso sul da farsi, ma poi gli prese le mani, intrecciò le dita alle sue e si sedette al suo posto tirandoselo sopra a cavalcioni come prima, solo che ora erano nudi. Lo prese per i fianchi e se lo strofinò contro, aiutato da Edin che gli si muoveva sopra eccitato, stimolando la sua erezione ancora di più, una contro l'altra mentre anche la sua ora tornava a farsi sentire. - Allora cosa vuoi fare? - Chiese ancora Aleks sulla sua bocca, mentre la succhiava scivolando sul suo mento e poi sul suo orecchio. Le mani di nuovo giù, fra i suoi glutei, penetrandolo prima con uno e poi con due dita. Edin non riusciva più a contenersi, da tanto che era eccitato e lo voleva a sua volta. - Lo devi anche chiedere? - Chiese spontaneo. Aleks tornò a ridacchiare in quello che era il secondo miracolo della loro vita. Aspettando solo quello, lo prese e lo spinse steso sul divano, gli si mise sopra e gli alzò le gambe scivolando sotto con la testa a prepararlo meglio. Questa fase fu ancora meglio di tutte le altre ed il ragazzo che subiva tale piacere, era alle prese col suo quasi secondo orgasmo. Le sue dita alternate alla lingua proprio in quella parte era deleteria, si eccitò oltre ogni limite tanto da non capire più nulla in mezzo agli ormoni sparati furiosamente nel corpo. Quando fu pronto, Aleks gli tornò sopra, gli sfiorò le labbra ed un secondo prima di entrare, lo guardò. Aspettò che Edin aprisse gli occhi e quando li ebbe sui propri, quando ebbe agganciato quei cieli azzurri, allora entrò. Nel riceverlo, anche lui si emozionò per un istante capendo che aveva voluto guardarlo per farlo con una specie di pace trasmessa dai propri occhi. Fu diverso quella volta, il sesso. Aleks capì la differenza entrando ed uscendo ed immergendosi in lui sempre di più, capì quanto splendido fosse prendere qualcuno che sceglievi di prendere. Capì quanto splendido fosse fare sesso con qualcuno che ti piaceva sul serio, che ti faceva ridere, che ti voleva a sua volta tanto da fissarsi su di te e rischiare l'osso del collo. Capì cosa significava fare sesso in attesa di fare l'amore. C'erano delle emozioni dietro, quello scambio avuto prima, scambio intimo, personale, doloroso. Quei fantasmi denudati, quei fantasmi esorcizzati col semplice parlarne e poi con la capacità di sopravvivere. Aleks si perse in Edin e vi si trovò così bene da non volerne più uscire, ma al tempo stesso ad ogni spinta c'era sempre più piacere, più elettricità. C'era sempre più trasporto. Ne voleva di più. Tutto bruciava espandendosi in ogni molecola. Le voci si unirono nei gemiti di entrambi, meno piacevole per Edin, ma comunque significativo e bello a modo suo, fino a confondere dolore e piacere nel finale, nel toccare quel punto speciale dentro di sé che lo faceva impazzire. Nessuno l'aveva mai toccato, nessuno gli era entrato dentro. Aleks adesso era lì e non voleva farlo scappare, non voleva se ne andasse. Si sentiva in qualche modo a posto, completo. In quel caos, in quella mescolanza di sensazioni contrastanti, Aleks raggiunse il suo orgasmo in Edin e tutto tornò pace, dopo una tempesta molto strana. Una bella tempesta. E la pace fu bella, dopo. Fu così bella che uscì e gli crollò addosso nascondendo il viso contro il suo collo, cercando di soffocare un'emozione salita a tradimento fino agli occhi. Edin non capì subito, pensò fosse normale e lo abbracciò carezzandolo dolcemente, quello fu anche peggio perchè a quel punto le lacrime di Aleks uscirono sul serio, bagnando la pelle sensibile del collo del compagno. Quella era la risposta alla domanda di prima. 'Perchè adesso sorridi?' Perchè Edin era riuscito a provare nella sua vita quei sentimenti, quelle sensazioni, quelle emozioni che valevano la pena di essere provate. 'Cos'è ciò di cui ho bisogno?' La pace dopo le tempeste. La pace dopo il male. La pace dopo il piacere bruciante. La pace e la tranquillità. Sapere che qualunque cosa si faccia, ormai, è tutto a posto. Edin capì che Aleks piangeva e per poco non pianse anche lui. Mentre con una mano l'accarezzava, con l'altra si coprì la bocca cercando di non strillare dall'emozione. Si impose a fatica di rimanere calmo e non rovinare tutto. Non lo fece certo alzare. - Perchè piangi? - Disse piano. Aleks, a quel punto, con la voce rotta dal pianto che non voleva saperne di smettere, mormorò a fatica: - Non avevo mai capito... - - Cosa? - Chiese Edin. - Che la guerra è finita. - E fu così che anche lui pianse dopo anni che non ne aveva più bisogno. Fu un pianto di fine. Di punto e a capo. Di ricordo. Un pianto che onorava un passato difficile e sconvolgente, ma superato e vinto. Fu un pianto giusto. Per Aleks fu purificazione e liberazione. Singhiozzò e pianse a lungo, senza riuscire a smettere, stretto ad Edin. Senza bisogno di dire nulla, perchè sapeva che lui ci era passato, lui capiva, lui era consapevole. Non aveva bisogno di spiegare. Edin già sapeva. Edin ci era passato e l'aveva superato ed ora l'aveva fatto superare anche a lui. Dopo anni chiuso dietro al muro, Aleks poteva tornare alla vita perchè Edin l'aveva scalato e gli aveva mostrato come abbatterlo. Quando i giorni seguenti i compagni di squadra videro Aleks ridere con Edin, se ne sconvolsero fino a svenire, quasi, dallo shock. Lo conoscevano da un anno, perchè era arrivato lì quello precedente, ma anche prima aveva la fama di essere uno serio, cupo e silenzioso, uno che non rideva e non scherzava. Nemmeno se gli capitava di segnare, non rideva. Poteva esultare, ma sempre senza sorrisi. Quando lo videro ridere con Edin, pensarono ad un miracolo. Del resto si trattava proprio di quello. Quando due anime, due spiriti affini, che aveva passato lo stesso inferno, poi riuscivano a incontrarsi in paradiso, quello era un miracolo. La capacità di resuscitare. Nel loro caso, Aleks fu resuscitato da Edin e questo lo legò indissolubilmente ed eternamente a lui. Senza possibilità di alternative. Quello che Edin aveva acceso in Aleks, crebbe lentamente ma inesorabilmente fino a diventare amore vero, puro e potente, quell'amore incrollabile che vince tutto. Quello capace di far ridere una persona solo con la propria metà e mai con altri. Quello capace di farlo parlare loquacemente solo con lui e pochissimo con gli altri. Quello capace di fargli esternare manifestazioni d'affetto puro davanti a tutti e comunque solo con lui. Quello che lo vedeva baciarlo sulla guancia in pubblico, mentre gli altri doveva accontentarsi a malapena di una pacca sulle spalle. I loro compagni, che avevano visto la nascita di quel rapporto, ne furono stupiti inizialmente, ma poi capirono che solo una cosa poteva far cambiare tanto qualcuno. L'amore. Contenti per loro, li aiutarono e li coprirono nei momenti di bisogno conquistandosi così anche loro un posto speciale in Aleks che finalmente si era aperto al mondo ed aveva capito che poteva godere delle cose che faceva e che aveva. Aleks ormai rideva solo con Edin, parlava tanto solo con Edin ed addirittura lo baciava quando si festeggiava. Di rado con gli altri e comunque mai allo stesso modo, anche se non era più sempre serio ad ogni costo. Edin divenne ben presto il suo unico mondo, la sua seconda vita, la sua rinascita e nessuno avrebbe mai osato toccarglielo. FINE 
3 notes · View notes
25ora · 8 years
Text
Antonietta: una terrona testona da Bari a Londra
Tumblr media
LONDRA
Ventotto anni. Laurea in Ingegneria Edile - Architettura (che solo il nome ti fa venire il mal di testa). Centodieci e Lode. Premio nazionale per la tesi di laurea (chi l’avrebbe mai detto). Inizio a “lavorare”  in uno studio di architettura piuttosto affermato (“il più affermato” della città, dicono). Collaborazioni con professionisti di tutta Italia (e non solo). Partecipazione alla stesura del piano urbanistico della città (addirittura?). Cinquanta ore di lavoro alla settimana (in media). Cinquecento euro al mese (quando al capo gli avanzano, quei cinquecento euro).
Risultato a tre anni dalla corona di alloro: non ho messo da parte un euro bucato, e soprattutto la mia crescita professionale è meno di zero.
Io ero una quelli che da Bari non se ne voleva andare. Una di quelli che al pesce crudo e alla focaccia “in gann’al mare” non ci avrebbero rinunciato per nulla al mondo. Una di quelli che a cui non interessava avere il lavoro più figo del mondo, ci bastava avere UN Lavoro, una di quelle attività in cui tu produci qualcosa per il quale ti viene riconosciuto un compenso. Una di quelli che si dicevano “Dai, vai avanti, la gavetta va fatta, all’inizio è la crescita la vera ricompensa”. Una di quelli che si dicevano “Se se ne vanno tutti da qui, chi lo sostiene questo paese?”. E così la Lady Oscar che è in te ti dà forza per andare avanti e ti ripete che devi impegnarti anche tu per migliorare le cose.
Ma, dopo tre anni in cui hai puntato i piedi, ti sei ripetuta tutti i giorni che il lavoro prima o poi paga, che il merito viene riconosciuto e che il tuo impegno servirà a qualcosa, a un certo punto arriva un momento in cui non ne puoi più.
Non ne puoi più del lavoro/volontariato, della mancanza di fiducia e di crescita, della superficialità con cui si lavora anche ad “alti” livelli.
E allora inizi a guardarti intorno, e vedi che chi è andato via è anni luce più avanti di te, anche se è partito in ritardo o se alle spalle non aveva né lodi, né premi, né riconoscimenti, e non è tanto più avanti in termini di carriera, quanto in fatto di competenze e di professionalità. E allora la testa ti si riempie di domande, e inizi a renderti conto che l’età va avanti, che tre anni sono preziosi e se ne passano altri tre così, raggiungerai i trenta con un pugno di mosche in mano.
Inizi a sentire che a trent’anni all’estero si è già Associate Director, mentre qui i tuoi colleghi di quaranta sono ancora ad elemosinare una paga regolare e un briciolo di rispetto professionale. E allora è troppo, e il rispetto per te stessa inizia a prevalere sull’amore per il tuo paese, e inizi a pensare che le cose devono cambiare, non perché vuoi stare meglio, non perché “meriti di più” come a volte ti hanno detto quando tu continuavi a dire di voler restare; ma perché ti sembra che lo schiaffo lo stai dando non tanto a quelle “qualità” che a volte ti sono state riconosciute, quanto a tutto il lavoro che non solo tu hai fatto per arrivare ad avercele, quelle qualità.
E quindi parti. Ventotto anni, una laurea in ingegneria e tre anni di esperienza.
Parti e ricominci da zero, con un master in “Progettazione Sostenibile” (ma le fanno davvero queste cose altrove?), sperando che possa esserti da trampolino di lancio per un mercato del lavoro al quale non hai niente da vendere.
Parti, e arrivi in una città fredda, dove i pomodori hanno il sapore del detersivo alla menta e dove una stanza di sei metri quadri a cinquanta minuti dall’università costa quanto un loft in centro a Milano. Certo, l’inglese lo parli bene, hai anche un certificato con un bel “Proficient” stampato su, ma poi ti rendi conto che i tuoi professori e i tuoi colleghi hanno un ventaglio di accenti diversi e incomprensibili grazie ai quali non riesci a seguire né il filo logico di una lezione né le battute e le risate tra amici.
Insomma, per un anno la tua vita è una somma di battaglie che combatti per la prima volta: combatti contro la lingua, combatti contro le deadlines, combatti contro il ritmo frenetico della città, combatti contro la fretta di iniziare a mandare curriculum e fare colpo su quel mondo del lavoro che sembra il paese dei balocchi, combatti contro la voglia di lasciar perdere tutto e tornare ad abbracciare i tuoi.
Per un anno riesci a vedere, e a vivere, solo gli aspetti negativi del cambiamento.
Vedi il cibo che fa schifo e il clima freddo e umido, ma non hai tempo di girare per ristoranti etnici e di passare una giornata al parco. Vedi la freddezza degli inglesi a lavoro e la loro falsa cortesia, ma non hai modo di esplorare la Shoreditch piena di colori e di culture. Non hai tempo di uscire, figurati se riesci a prendere uno dei mille voli che partono ogni giorno dai quattro aeroporti della città. Solo dovere, niente piacere, perché sai che un investimento così (e non solo di soldi) deve essere sfruttato fino all’ultima goccia. Per fortuna iniziano a spuntare i primi alleati: per esempio nascono nuove famiglie, come quella che mi sono ritrovata intorno dopo pochi mesi, e grazie alla quale la battaglia sembra meno invincibile.
E alla fine arriva la luce. Ancora prima di iniziare la tesi, una delle quattordici aziende che hai contattato ti risponde, e cavolo! È  anche bella grossa!  E ti dicono che ti offrono un contratto a tempo indeterminato DA SUBITO (siamo pazzi?), e che capiscono che hai la tesi da portare avanti per cui puoi lavorare part-time per i primi tre mesi (ma davvero??), e che capiscono anche che ambientarsi in questa città è difficile, soprattutto a livello economico, per cui prima ancora che inizi a lavorare ti offrono anche quattromila sterline di benvenuto (no, qui stiamo delirando!). E quindi dai il tutto per tutto per lo sprint finale: per tre mesi lavori e studi per finire la tesi, prendi informazioni dal lavoro e li trasferisci alla tesi, prendi informazioni dalla tesi e le applichi sul lavoro, esci ancora meno e sogni il mare, ed evochi tutti gli antenati dei tuoi amici di Bari che ti inondano di foto di aperitivi in spiaggia al tramonto. Lavori come una formica impazzita fino alla consegna, e lì, finalmente, ti sembra che si aprano le porte della gabbia e possa finalmente correre verso la libertà.
E all’improvviso è proprio così che ti senti. Libera.
Libera di gestire il tuo tempo. Libera di gestire il tuo denaro. Libera di passare del tempo libero (libero??) con i tuoi amici. E libera di lavorare producendo qualcosa di utile e di significativo. Ti senti parte di una rete in cui davvero il lavoro premia, in cui puoi orientare la tua crescita professionale nella direzione che preferisci e in cui la collaborazione a tutti i livelli porta davvero a risultati di qualità. Ti rendi conto che il tuo capo ha trentotto anni ed è Associate Director, ha una moglie, due figli, una casa di proprietà. E poi ti rendi conto che nell’azienda sono tutti come lui! Non è un’eccezione! E allora inizi a capire che ti bastano pochi anni e neanche troppo impegno per raggiungere gli stessi traguardi, e inizi a pensare che quella sia addirittura la normalità da queste parti!
Pian piano inizi a vedere cos’altro c’è, oltre ai “Can I help you?” di plastica e ai pomodori acerbi. Inizi a capire che ogni sera puoi provare un ristorante etnico diverso. Che i weekend non ti bastano per fare tutte le mille cose che vuoi e che puoi fare a Londra. Che non hai abbastanza cene e pranzi liberi per incontrare tutte le persone che hai conosciuto nell’ultimo mese. E ti rendi conto che questa parte di vita merita davvero di essere vissuta per un periodo della tua esistenza.
Ecco, per un periodo. Perché, del resto, lo so che non ce la voglio passare tutta, la vita, in questa città.
Perché per ogni cosa che amo qui, ce ne saranno sempre dieci che amo della mia città e del mio paese, e perché in fondo il mio desiderio è sempre quello di tornare e portare con me quello che di bello e di importante ho potuto imparare.
E tutte le volte che torno a Bari, per un weekend, per Natale o per l’estate, c’è sempre una malinconia ed un malessere, a cui ormai sto cercando di abituarmi ma che credo di non poter sconfiggere: perché ogni volta che torni, il desiderio di restare torna a farsi sentire, e ripensi a tutte le volte che un tuo amico inglese ti ha chiesto “Ah, ma vieni dalla Puglia??Ma è bellissima! Perché sei venuta qui?!” e tu non sai bene che rispondergli. O meglio, lo sai, ma un po’ ti vergogni a dirglielo, che il vero motivo è che nella tua città non ti hanno permesso di diventare adulta e di vivere la tua vita in maniera autonoma. Perché è un po’ come dire ai tuoi amici delle medie che non puoi uscire da sola perché papà e mamma non vogliono. Perché è solo questo ciò di cui una ragazza a trent’anni non può fare a meno: l’autonomia. La libertà di poter vivere la propria vita con indipendenza e con dignità, senza dovere niente a nessuno.
E tutte le volte che torno la mia testa è sempre un po’ da un’altra parte, lassù, a scervellarsi su come e quando potrò riconquistarmela qui, per essere adulta anche in Italia. A pensare ad altre possibilità. A cercare esempi da seguire e idee da concretizzare. A provare a inventarmi un modo per essere adulta anche qui, dove ormai essere adulti sembra addirittura un privilegio.
SOSTIENI
#GliAnniInTasca è un progetto autofinanziato. Puoi partecipare anche tu sostenendoci con un piccolo (o grande) contributo. Questo il link per partecipare al crowdfunding su Paypal: https://goo.gl/mdcPRr
2 notes · View notes
gryffsophia · 5 years
Text
⁖  ♡  Sophia & Ezra @ Corridoi di Hogwarts / 13 Gennaio.
Non aveva dubbi sul fatto che il cappello parlante l'avrebbe smistata nella casata dei grifondoro, ché è proprio quella più appropriata a Sophia, anche se una parte di sé per un attimo ha sperato che il cappello urlasse / corvonero / , così da poter stare insieme — perché Ezra sa quanto è difficile ambientarsi in quella scuola e così almeno la strega sarebbe stata in sua compagnia. Non che sia una tipa che ha difficoltà a socializzare eh, però... non si sa mai! ❪ ... ❫ Non appena termina di cenare, il giovane Parker si dirige fuori dalla sala grande ed è proprio lì che la aspetta, appoggiato con le spalle al muro in un angolo buio, dal quale sbuca improvvisamente quando la vede uscire « BUUU!!! » urla, scoppiando poi a ridere. « Ah, no! Sei grifondoro ormai, non dovresti spaventarti per così poco. » la casata dei coraggiosi, ricordate?
Lei tutto sommato è contenta della scelta del Cappello, ché forse quella è la casata migliore per lei –– no? Quella in cui riuscirà ad integrarsi di più! Perché dopotutto socializzare ed integrarsi sono due cose completamente diverse, e per un motivo o per un altro lei nell'ultima non è mai stata troppo brava. Ed è questo ciò a cui sta pensando, mentre s'infila nella calca di studenti per raggiungere l'uscita della Sala Grande –– senza premurarsi di aspettare suo fratello, ché tanto è già scontato stanotte finirà con l'infilarsi nel suo letto, quando... vuoi perché sia sovrapensiero, vuoi perché non se lo aspetterebbe mai... ma sobbalza! ‹ Ma vaffanculo! › è la prima cosa che le viene da esclamare, ridendo appena, mentre si porta ambo le mani al petto, ché il cuore ha iniziato a battere più velocemente. Solo adesso si prende la briga di avvicinarsene, gli occhi un po' assottigliati...
Il fatto che Sophia Urquhart stia ridendo rassicura un poco il corvonero, dato che credeva che non gli avrebbe più rivolto la parola per un po' dopo quella loro piccola discussione — poteva poi essere definita tale? Ezra non è proprio sicuro, perché non è durata nemmeno molto visto che la strega nel giro di poco se n'è andata da casa sua, smaterializzandosi con un colpo di bacchetta. Comunque se lei ride, anche lui non può far altro e perciò è tutto passato — o meglio, non che Ezra si sia dimenticato della questione / Macmillan / , però... non vuole tenerle il muso, ecco tutto. Non avrebbe proprio senso! « ... o forse mi sbaglio! Sei una cagasotto come sempre. » e ridacchia un po', facendosi avanti nella sua direzione.
Non che tendenzialmente Sophia sia una che si dimentica le cose. O che sia troppo incline al / perdonare /, però... stasera si sente un po' magnanima. Solo perché è il suo primo giorno ad Hogwarts. E quindi si limita a non far troppo la scorbutica, no? Anche se il suo sguardo ancora un po' sull'attenti la dice lunga, sul suo stato d'animo. Mica l'è passato di mente, il modo in cui le si è rivolto! ‹ Chi lo sa. Forse non lo sapremo mai. › E scuote le spalle, le braccia che si incrociano sotto al seno... un po' ad indicare il suo stato d'animo un po' combattuto. Lo sta fissando in modo un po'... truce.
Ecco, come non detto. La risata non significava niente, ché basta guardarla un po' meglio in viso e vedere la postura che ha assunto per capire che ancora non le è andata giù la questione della serata precedente. Dunque il corvonero sa già che dovrà armarsi di tanta, ma / tanta / pazienza. « Bé, io lo so. » risponde quindi alle sue parole con convinzione, inclinando un angolo delle labbra all'insù. L'affianca poi e porta un braccio attorno alle sue spalle, cominciando a camminare senza meta lungo il corridoio. « Vieni fuori a fumare con me? »
‹ Ho forse scelta? › son le uniche parole che pronuncia, perché tanto la sta già trascinando lungo il corridoio –– grazie a quel braccio che le ha posato sulle spalle. E Sophia è estremamente esile, quindi non v'è dubbio che non abbia realmente scelta. Quindi si limita a voltare il capo per guardarlo, il naso che si arriccia, come a volergli chiedere cosa voglia. Oltre punzecchiarla, ovviamente. E quindi... ‹ Quindi? Che c'è? › Non appena mettono piede fuori il cortile.
« No. Se vuoi ribellarti fai pure, ma tanto lo sai come va a finire... » replica il corvonero strizzando l'occhio, con tono sicuro di sé — sicurezza che è appunta dovuta al fatto che vi è una notevole differenza di statura fra i due, che permette quindi al Parker di sollevare l'americana e portarsela dove vuole. Comunque al momento non fa niente di tutto ciò e continua a camminare insieme a lei, il braccio sempre posato attorno alle sue spalle, finché non raggiungono il cortile esterno. Si siede quindi su un muretto, mentre tira fuori dalla tasca della felpa il tabacco. « Ci deve essere per forza un motivo per il fatto che ti chiedo di farmi compagnia? »
Ovvio che lo sa, ed è per questo che non dice niente –– e se l'altro prende posto sul muretto, lei resta in piedi: ha ancora un po' lo sguardo assottigliato, la fronte corrucciata, ché non è ancora propriamente convinta di queste dinamiche. Si sa che Sophia è permalosa. ‹ Non solitamente. Ma dopo quella scenata? Probabilmente sì. › ed il tono di voce è piatto. Non è arrabbiata, adesso, non più di tanto, però... si sa, che non è proprio il tipo di persona che subito perdona o dimentica.
« Ci risiamo... » borbotta fra sé e sé il Parker, soffiando un sonoro sbuffo, per poi passarsi una mano sul viso. La conosce troppo bene, sapeva che prima o poi avrebbe ritirato fuori l'argomento permalosa com'è. « Puoi sederti anziché stare lì in piedi, intanto? »
❪ APPESA ❫
0 notes
pizzetterosse · 6 years
Note
Non voglio fare la scelta sbagliata perché se poi mi pento sarà più difficile rientrare. Però davvero non ce la faccio più. Mi manca la mia famiglia, il mio ragazzo, la mia vecchia vita. Mi sento tremendamente sola qui, e la cosa peggiore è che io se ci fosse qualcuno nuovo lo aiuterei ad ambientarsi e invece di me vedo che non importa a nessuno. È davvero difficile continuare a vivere così. Fare tutti questi sacrifici e non avere neanche un po’ di tranquillità.
Ohw, mi dispiace..Aspetta altre due settimane e vedi come va, poi decidi con calma cosa fare
0 notes
diana-mars22 · 7 years
Text
Capitolo 7 (Water Stars)
La maledizione del lago di Toblino
Col tempo ebbe anche modo di conoscere il resto della servitù e della sua famiglia. Come promesso dalla zia, i cinque cuginetti che un giorno incontrò in cucina a pranzo, lo tartassarono. Ricordava che stava mangiando il proprio panunto con provatura fresca quando si ritrovò circondato. Il panunto si otteneva facendo rosolare nel burro già caldo le fette di pane, precedentemente arrostito. Poi messo su ognuna una fetta di mozzarella e grigliate. Quando il formaggio era fuso e dorato, veniva spolverato sui crostini con una miscela di zucchero e cannella tritata, spruzzati di acqua di rose e serviti ben caldi. Non che amasse particolarmente quel cibo. Però ritrovarsi quei cinque bambini allegri che a tratti somigliavano alla zia e altri lo zio, lo sconcertò. Anche perché gli erano arrivati alle spalle senza che se ne fosse minimamente accorto.
Se si accorse di loro fu solo perché li sentì ridacchiare. Perciò, quando si volse e li vide, sobbalzò scatenando le loro aperte risa. I bambini in questione non erano più grandi di lui. Il maggiore avrà avuto al massimo dieci anni, mentre il più piccolo sei. Erano tutti maschi. Ma portavano la chioma lunga ed erano vestiti tutti allo stesso modo. E alcuni di loro avevano la boccuccia sdentata tipica dei bambini di quell’età. Poi il più grande prese l’iniziativa e disse, con la sua vocetta stridula: «Tu sei il cugino Agostino!» E subito gli balzò in grembo per abbracciarlo, seguito dagli altri fratellini, che fecero quasi a gara per accaparrarsi una parte del ragazzo, neanche fosse stato una fetta di pane col formaggio. Suo malgrado il ragazzo non si mosse nel timore di far loro del male. I bambini cominciarono a stropicciarlo tutto. Agostino sentì delle manine pizzicare e giocare con le sue guance, altre che gli tirarono le orecchie. Gli facevano domande cui al momento non era importante rispondere. Perché poi uno di loro cominciò a dire: «Giochi con noi?» E tutti gli altri fecero subito eco. Il poveraccio fu costretto a dire di sì.
Il resto della servitù guardava quella scena divertita.
Quelle piccole pesti avevano trovato un nuovo giocattolo da vessare.  
Addirittura, il più audace della nidiata si era arrampicato sullo schienale e adesso aveva sottratto il cappello al cugino, scoprendo la sua chiazza bianca. Suscitando stupore e meraviglia nei bambini. I quali presero a tempestarlo di domande fino a rintronarlo. Finché poi il capobanda non si era separato dal gruppo con un balzo, si era girato verso di loro e aveva urlato: «Nascondino!» I piccoli avevano urlato il loro assenso e avevano coinvolto anche il cugino. Fecero contare proprio lui. Non gli dettero nemmeno il tempo di finire la colazione che lo trascinarono subito nel gioco. Il poveretto provò a cercare di svincolarsi ma non ce la fece proprio. Quelle piccole pesti l’avevano messo con le spalle al muro. «Ma non so neanche come vi chiamate! Come faccio a riconoscervi?» Doveva ammettere che, nonostante le differenti età ed altezze, tra quei cinque non c’erano moltissime differenze. Il secondogenito li presentò tutti: «Io sono Basilio, questo è Antonino, questo è Gregorio, questo è Gervasio e lui è Alcibiade. Ora ci riconosci. Giochiamo!» Dichiarò a gran voce con lo stesso tono che se avesse detto: «Facciamo festa!»
Due pesti si misero a saltellare mentre Agostino roteava gli occhi e si volgeva verso il muro e cominciava a contare. «Fino a quanto?» Domandò, interrompendo il conto.
«Trenta!» Sentì esclamare in risposta.
Roteò gli occhi, scosse il capo e tornò a contare. Il problema era che sapeva contare a malapena fino a venti. Perciò, una volta che ci arrivò riprese il conto e finì per contare fino a quaranta.
 Proprio in quel momento arrivò in cucina lo zio con in mano il libricino di tutti i suoi conti. Al suo fianco stava il fido Armando. Stavano discutendo degli affari di palazzo quando videro quella scena: il povero Agostino costretto dai cinque a giocare a nascondino. Uno si nascose sotto al tavolo. Uno sgattaiolò dietro Armando e gli fece cenno di stare zitto. Un altro ancora uscì dalla cucina e si nascose di fianco alla porta. Uno si nascose dietro la catasta di legno e il più piccolo di loro sotto le sottane dell’anziana Tea, che ridacchiò sotto ai baffi, indecisa se essere divertita o imbarazzata, ma stette al gioco.  
Lo zio restò di stucco quando sentì il nipote contare due volte venti invece che fermarsi a trenta.
Ma si sedette al tavolo e uno dei figli approfittò della situazione per nascondersi tra le gambe del padre, infilate sotto al massiccio tavolo. Armando si accomodò davanti a lui e osservò a sua volta il nipote del maggiordomo senza dire niente, mentre i cuochi e qualche domestico servivano loro la colazione.
 Agostino finì di contare e poi, quando si volse, trovò la cucina come prima che arrivassero i masnadieri. La differenza erano le occhiatine e i sorrisetti divertiti dei cuochi e dei servitori. Il giovane li cercò vagamente con gli occhi, nel vago tentativo di individuarli. Ma non ci riuscì. Perciò si arrese e cominciò a cercarli. In realtà non aveva molta voglia di giocare. Doveva ambientarsi ed era sicuro di aver appena dimostrato alla servitù la sua scarsissima cultura scolastica. Non sapeva neanche scrivere il proprio nome. Il massimo che poteva fare era tracciare una X su un foglio. E anche lui lo sapeva. E, a causa di questo pensiero, non si accorse che le pesti gli sgattaiolavano alle spalle e gli facevano degli scherzi. Uno, addirittura, osò nascondersi sotto le sottane di una delle anziane cuoche. Ma si vedeva benissimo che era lì, nonostante le precauzioni. E la signora guardava il poveraccio come se lo sfidasse a sollevarle l’abito per verificare l’esattezza della sua teoria. Agostino non provò mai un imbarazzo più grande di quello che provò in quel momento. Molte cose da piccolo avrebbe potuto fare un’anziana, tirarle i capelli o scioglierle il grembiule di nascosto per il semplice gusto di farglielo cadere. Ma arrivare a sollevarle la gonna così, mai.
A salvarlo fu proprio lo zio. «Quando hai finito di importunare la povera Tea, vieni qui, per favore».          
Il ragazzo sussultò. E lo zio quando era entrato? «Da quanto siete lì?» Domandò, colto alla sprovvista. «Abbastanza per vedere quello che combini».
«Non è colpa mia, i miei cugini mi hanno chiesto di giocare a nascondino.» Disgraziatamente si era già dimenticato come si chiamavano. Altrimenti li avrebbe nominati.  
«Bè, allora finisci in cinque secondi di cercare e poi vieni qui».
«In cinque secondi? Ma è impossibile».
«Davvero? Basilio e Antonino, tornate qui, Gervasio, esci da sotto al tavolo,» ciò detto mollò un calcetto al figlioletto che era proprio sui suoi piedi. Il poveretto batté la testa contro il tavolo e lanciò un versetto di dolore. «Gregorio, per amor del cielo, dimmi che non ti sei nascosto dietro la catasta di legno e Alcibiade, per favore, non mettere in imbarazzo tuo cugino. Esci fuori dalle sottane di Tea!» E un coro di cinque bambini al quale era appena stato rovinato il gioco si fece sentire mentre la masnada si radunava protestando scontenta contro il genitore. Il piccolo che aveva battuto la testa uscì da sotto al tavolo massaggiandosela. Gli occhi lucidi di lacrime trattenute. Il genitore lo prese in braccio e il bambino si ritrovò a guardare male il genitore. Ma non disse niente.
«Ci hai rovinato il gioco.» Fece Antonino incrociando le braccia con una smorfia infantile buffissima. «Perché, padre?» Fece un altro dei cuginetti. Alcibiade si ficcò il pollice in bocca. E a seguito di un piccolo gesto del maggiore, tutti e cinque si accanirono contro il genitore. Il quale però non si lasciò intimidire e li rimise in riga alzando di un’ottava la voce.    
Agostino osservò sbigottito i ragazzini tacere immediatamente. Improvvisamente attenti. «State tranquilli. Per oggi devo parlare con lui e basta, solo cinque minuti. Poi ve lo restituisco.» Ciò detto si rivolse al nipote: «Perché hai contato due volte fino a venti?» Il ragazzo non capì bene la domanda. «Come, scusate?» Fece battendo le palpebre.
«Non è una domanda così difficile, ti ho chiesto perché non hai contato fino a venti. Che c’è?»
Agostino si aggrappò al legno e abbassò lo sguardo, arrossendo. E ora come glielo diceva? «Avanti, rispondi.» Lo incoraggiò lo zio, guardandolo incuriosito.
«E’ che, che io…Ehm…» L’uomo lo guardò aggiustando meglio la presa sul bambino che teneva sulle ginocchia. Il quale si volse a guardare prima il cugino e poi il genitore. Incuriosito. I fratellini sembravano non nutrire molto interesse per lui. «Io…Io non so scrivere».
«Però sai contare».
«Solo fino a venti.» Ammise con un certo sforzo. Il viso in fiamme. Temeva che qualcuno scoppiasse a ridere. Ma soltanto i cinque sogghignarono sotto ai baffi. Era umiliante essere superato così persino da dei ragazzini. Anche se quei ragazzini erano i suoi cuginetti.
«Ma con il tuo conto ho visto che sei riuscito ad arrivare fino a quaranta».
«Un mio vecchio amico mi insegnò questo trucco, quando avevo sei anni. Suo padre spostava i sacchi di grano che coltivavamo e aveva incaricato lui, che frequentava la scuola dei frati, di tenere il conto.» Raccontò.    
Ciò detto il silenzio cadde su di loro come una cappa. Silenzio rotto soltanto dal lavoro nella cucina.
«Sai leggere, almeno?» Domandò a un certo punto Etienne, che con l’altra mano non aveva fatto altro che carezzarsi il mento col pizzetto tutto il tempo. Si vedeva che stava riflettendo.
«No, signore».
«Però hai buona memoria. Per esserti ricordato una cosa del genere dalla tenera età di sei anni».
«Sì, credo, suppongo di sì. Se lo dite voi».
«Padre.» Intervenne a quel punto il bambino seduto sulle sue ginocchia. Il genitore, il cugino, i fratelli e il cocchiere lo guardarono. Il piccolo disse, con una vocina supplicante: «Adesso possiamo tornare a giocare?»
«Certo. Andate pure.» E ciò detto fece scendere il bambino dalle sue ginocchia mentre gli altri quattro cominciavano ad esultare. E due di loro si tuffarono sotto al tavolo per sbucare dall’altra parte, dove era accomodato Agostino. E cominciarono a tirarlo per le maniche della camicia, incitandolo ad alzarsi. Il quale guardò spaesato i cuginetti e cercò con gli occhi l’approvazione dello zio, che alla fine gliela concesse: «Vai anche tu, Agostino. Per oggi non ti darò niente da fare. Pensa a divertirti ed esplorare il castello. E non vi preoccupate, avete il mio permesso per farlo.» I bambini esultarono. Il ragazzo ringraziò, incredulo. Non ricordava più quando era stata l’ultima volta che aveva avuto una giornata libera. «Io… Grazie.» Riuscì a sorridere alzandosi. I cuginetti con l’argento vivo addosso, lo trascinarono via immediatamente, reclamando subito la sua attenzione.  
«E vedete di non rompermelo troppo. Quando si sarà ambientato un po’ lo metterò subito al lavoro.» Si raccomandò lo zio prima che la masnada uscisse dalle cucine.
Agostino non ebbe neanche il tempo di domandare cosa intendesse che si ritrovò a far da balia a quei piccoli scalmanati.
Cambiavano gioco ogni cinque minuti e lo costrinsero a giochi che non aveva mai visto. Completamente inventati di sana pianta. Non gli davano il tempo di abituarsi alle regole che eccoli cambiare di nuovo. Non capiva neanche più a che stessero giocando. Il peggio arrivò quando giocarono a palle di neve tra i frutteti. Ed erano sleali, e molto. Più di una volta riuscirono a farlo inciampare, non gli dissero dove erano le buche, non lo aiutarono quando scivolò, e non gli dettero neanche il tempo di aggiustarsi i vestiti pesanti addosso. Che aveva indossato alla bell’e meglio uscendo, sotto quelli di foggia elegante che la zia gli aveva fatto trovare quella mattina appena alzato. Ormai irrimediabilmente fradici di neve. Persino sulla schiena, visto che gli infilarono una palla di neve nel colletto a sua insaputa, facendolo saltellare per il freddo come un pesce fuor d’acqua. Boccheggiava persino come un pesce fuor d’acqua. Poi i piccoli gli si gettarono addosso e lo seppellirono sotto al peso dei loro corpi, facendolo affondare ancor più nella neve.
Ma proprio allora gli tornò in mente un gioco simile che aveva fatto anche lui, molto tempo prima. Per un attimo fu come se il tempo si fosse riavvolto su se stesso. E si ritrovò per le colline della sua infanzia coi suoi amici, in inverno, che giocavano con le prime nevicate della stagione. Così secche e farinose da somigliare più a brina che a neve vera e propria. E poi sentì le voci dei suoi genitori chiamarlo. Il ragazzo si rizzò a sedere di scatto facendo cadere i cuginetti che lo guardarono spaesati. Il cuore che gli batteva forte in petto. Si guardò attorno cercandoli con gli occhi. Ma il paesaggio era diverso e quella non era casa sua.  
E il rimpianto e il dolore si fecero sentire più che mai proprio allora.
 Agostino però restò chiuso nel suo mutismo. I cuginetti non capivano che cosa avesse e cercavano di parlargli e di coinvolgerlo ancora nei loro giochi. Il piccolo Alcibiade era quello che esternava la sua preoccupazione più degli altri: infatti piangeva a dirotto e domandava: «Che cosa abbiamo fatto? Perché Agottino» non riusciva ancora a dire bene alcune parole «non gioca più con noi?»
E la madre non sapeva che cosa rispondergli. Si limitava a guardare il marito in una muta supplica ma neanche lui sapeva che cosa fare. Per questo di solito rispondeva: «Abbiate pazienza, vedrete che è solo un brutto periodo. Si riprenderà».
«Ma quanto dura un periodo?» Chiese Antonino.
Maria Patrizia prese in braccio il più piccolo della nidiata. Il quale la guardò succhiandosi il pollice. E la madre gli dette uno schiaffetto. Intimandogli di smetterla a mezza voce. Il piccolo obbedì.
«Non lo so; dipende da persona a persona.» Rispose il genitore intingendo il pane nel vino.
«E il suo?»
«Non lo so.» Ripeté laconico il genitore. Poi non aggiunse più nulla e si concentrò sulla masticazione. E il piccolo domandò alla cuoca se per caso fosse rimasto un po’di panettone. Visto che lei ne preparava sempre uno in più.
Il panettone, per chi non lo sapesse, affondava le sue radici nel 1200 - 1300 circa. Non era così raro che qualcuno ne conoscesse la ricetta anche allora. E Tea era la migliore cuoca della regione. «Non a pranzo, Alcibiade!» Esclamò la madre.
Il bambino emise un piccolo lamento.  
Etienne inghiottì, cercando di estraniarsi dalla vita famigliare. Di solito gli riusciva abbastanza bene. Ma non quel giorno. Non sapeva da dove venisse quel dolore che avvolgeva il nipote come la nuvola di fumo il suo vulcano. Poteva solo immaginarlo, anche se non poteva averne la certezza. Non era mai stato molto affettuoso. Da che ricordava non lo era stato più di tanto neanche con suo fratello. Era sempre stato un tipo più pragmatico che sentimentale. Ci aveva messo tantissimo per affezionarsi ai propri figli, ma solo perché i primi mesi e i primi anni di vita erano molto incerti per dei bambini. Adesso si pentiva di non essersi concesso prima il lusso di amarli fin da subito. Ma persino lui arrivava a capire che se l’avesse lasciato sprofondare ancor più di così avrebbe dovuto presagire il peggio. E sinceramente non desiderava la morte di un altro membro della sua famiglia. E doveva salvarlo. Capiva che farlo partecipare alla vita famigliare non sarebbe bastato. Anche metterlo al lavoro nel castello non sarebbe bastato. Doveva approfittare di quei momenti per dargli un’istruzione. Il confronto con un’altra persona poteva essergli utile. D’altronde anche lui era stato molto affezionato al suo vecchio maestro.
Bevve un sorso di vino dal suo calice, si alzò, baciò la moglie e i figli e andò al lavoro.
Fortunatamente che aveva già mandato un messaggio a un suo vecchio amico che viveva a Bologna.  
Era un professore universitario e gli aveva chiesto di venire.
Si sistemò alla scrivania e cominciò a sfogliare le varie scartoffie che ingombravano la sua scrivania. Il fido Armando sempre accanto a lui. Era il suo migliore amico e l’unica persona di cui davvero si fidasse. E poi, mentre lavoravano, un servo bussò alla porta. I due uomini dissero «Avanti» all’unisono e si guardarono divertiti, mentre il giovane entrava. Si chiamava Uberto ed era stato assunto da poco come sguattero. «E’giunto questo messaggio per voi, mio signore.» Annunciò.
L’uomo seduto alla scrivania si alzò, fece il giro del tavolo e si appoggiò di fronte al medesimo, incrociando le braccia e le caviglie. Era una posa che aveva appreso tempo prima dal suo vecchio maestro. Funzionava sempre per intimidire i giovanotti di primo pelo. E lui amava scherzare a quel modo. Il giovane, non sapendolo, sussultò e lo guardò incerto, torcendosi la berretta direttamente sulla chioma riccia.
Lo fissò a lungo e poi disse: «Grazie, Uberto, e, per favore, non chiamarmi mai più mio signore. Non son degno di lucidare gli stivali alla famiglia Da Campo neanche se mi mettessi in ginocchio e baciassi la terra dove camminano».
Il giovane si tolse la berretta e cominciò a stropicciarsela tra le mani: «Sì, signore, cioè, scusatemi, Mastro Etienne».
«Così va meglio. Puoi andare».    
Il giovane, incerto, fece un piccolo cenno col capo che doveva essere un inchino, e se ne andò.
«Ci provi proprio gusto a terrorizzarli così.» Commentò l’amico quando la porta fu chiusa.
L’altro curvò le labbra in un sorriso beffardo.
Etienne aprì il messaggio e lo lesse: era la risposta che attendeva dal suo amico professore. Con suo sommo dispiacere non sarebbe potuto recarsi da lui. Non era più uno studentello come tutti gli altri. Adesso era un docente e non poteva insegnare a qualcuno fuori dell’università. Però, aggiungeva anche, che gli avrebbe mandato il suo assistente: Lucenzio Fosari. E che quest’ultimo era già in viaggio e sarebbe giunto a castel Toblino in poco tempo.
Etienne alzò le spalle.
«Qualcosa non va, Etienne?» Chiese Armando avvicinandosi, che non si era perso nessuna espressione dell’amico. Era raro, infatti, che lo zio di Agostino leggesse a voce alta i messaggi che riceveva e che si consultasse con lui. E di solito accadeva solo per i fatti più gravi. Ma evidentemente quello non doveva essere uno di questi.
«Niente, soltanto una fastidiosa bega con un mio vecchio amico. L’avevo invitato a insegnare ad Agostino ma dice che non può venire. Invece sua ci manda il suo assistente, Lucenzio Fosari.»
«Mai sentito».
«Ad ogni modo sta arrivando. Penso che sia il caso di preparare un’altra stanza anche per lui. Non credi?» E lo guardò con una lunga occhiata obliqua. La voce carica di sottintesi che l’altro non afferrò: «Certo.» Poi, accorgendosi del modo in cui lo guardava fece: «Oh, intendevi dire che me ne devo occupare io?»
«Ne sarei lieto, sì. E anche mio nipote».
L’amico lo guardò stupefatto: «Ma, scusami, che importanza ha occuparsi della stanza di un maestro che oltretutto non verrà mai a sapere chi l’ha sistemata?»
«Nessuna, per te. Ma penso che sia un buon modo per cominciare a far fare qualcosa in concreto ad Agostino».
«E lo stai mettendo sotto le mie direttive?»
«Precisamente».
«Ho capito.» Sospirò l’altro, infastidito. Ma dallo sguardo che gli rifilava si capiva che era offeso e che non avrebbe chiesto niente di meglio che sferrargli un pugno sul naso. Tanto gliel’aveva già rotto una volta. Parecchi anni prima ed Etienne aveva dovuto farselo raddrizzare. Che differenza avrebbe fatto se glielo rompeva un’altra volta? Ed Etienne, che non aveva smesso di guardarlo, lo sapeva, ma non ne tremava.
«Vuoi che gli faccia fare anche qualcos’altro, dopo che avrà sistemato?» Domandò.
«Vedi te se ti sembra necessario».
«D’accordo, allora vado.» Disse lasciando il suo fianco.
«Buon lavoro».
L’altro uscì dalla stanza salutandolo sarcastico e il maggiordomo rispose alzando il dito medio, poi tornò a occuparsi delle proprie faccende. Appuntandosi come promemoria di scrivere una lettera di ringraziamento all’amico, quando avrebbe finito.
 Il giovane stava pranzando quel giorno, quando a un certo punto Armando venne da lui e gli disse che quel giorno lo avrebbe aiutato nei lavori domestici. Il giovane lo aveva guardato perplesso ma, alle parole: «Ordini di tuo zio» non aveva fiatato. Aveva smesso di mangiare, si era pulito le mani alla casacca e aveva domandato, quasi sospirando: «Ditemi cosa devo fare».
«Ora finisci di mangiare, e quando hai finito raggiungimi nel mastio. Lì ti spiegherò tutto».
Quando finì lo raggiunse e rimase stupito di sapere cosa avrebbe dovuto fare. «Ma io non so come si tiene una casa!» Protestò quasi indignato. Soprattutto quando gli venne ficcato in mano un secchio pieno d’acqua con uno straccio per pulire e una scopa. A malapena era riuscito a tenere la sua prima che intervenisse lo zio e lo portasse via da lì.
Armando alzò le spalle e gli disse: «Imparerai. Qui c’è tanta gente disposta a insegnarti».
Gli spiegò brevemente quello che avrebbe dovuto fare e poi lo lasciò lavorare. I servi attorno a lui che lavoravano alacremente per arredare la nuova stanza. «Ma chi deve alloggiarci, qui?» Domandò il ragazzo. Ma nessuno gli rispose e quei pochi che si volsero a guardarlo alzarono le spalle: «Non lo sappiamo. Ci hanno solo detto di pulire quest’ala».    
Il giovane lavorò di buona lena. Alla fine della giornata aveva le mani arrossate. Fortuna che era abituato al lavoro. Anche se a un lavoro di tutt’altro genere. E si compiacque nel vedere gli altri servitori stupirsi della sua mancanza di fatica a quelle nuove faccende. Sapeva anche lui delle malelingue che avevano cominciato a girare nel castello da quando era arrivato.  «Il nipote del maggiordomo», «chissà quali privilegi.» Dicevano. Per quel che gli riguardava non ne aveva visto neanche mezzo. A volte rimpiangeva la sua vita come floricoltore e giardiniere. A volte gli capitava di sognare di occuparsi di nuovo dei suoi amati giardini.        
Una volta finito svuotò il secchio dalla finestra, rischiando di bagnare le guardie, le quali, per lo spavento, si girarono e gliene urlarono di tutti i colori. «Ma che diavolo!», «E sta un po’più attento!», «Razza di idiota!», «Guarda quello che fai!», «Che schifo!»
Ma anche; «Ma guarda qui, non bastavano l’umidità e la neve, adesso ci mancava anche il freddo». Il ragazzo urlò, di rimando, imbarazzato: «Scusatemi!» E si affrettò a richiudere la finestra e con essa gli strepiti delle guardie centrate in pieno: «Belle scuse!», «Ma guarda qui…»
Sperò che poi le suddette non cercassero vendetta. Sospirò.
«Ehi, ragazzo!» Si sentì chiamare e sobbalzò. Era Armando: «Quando hai finito vieni qui che abbiamo ancora molto da fare».  
Lo fece sgobbare tutto il giorno. A fine giornata il ragazzo aveva la schiena  e le mani a pezzi. E la lingua piena di bestemmie che indirizzava tutte contro l’amico dello zio. Il quale, dal canto suo, ignaro, l’aveva incoraggiato a pregare per allietare le proprie fatiche. «Proprio come i monaci.» Aveva scherzato. Forse scherzava a questo modo con le fantesche. Ma lui non era né una fantesca né una donna. A dir la verità non era neanche un fedele eccellente. Gli mancava proprio il dono della fede così come la maggior parte delle persone intendeva.
Peccato solo che ad Agostino venissero più facilmente in mente tutti i coloriti improperi appresi durante quel suo breve arco di vita che le preghiere. Si domandò persino se suo zio sapesse della vena tirannica del suo amico - e forse braccio destro.  
A fine giornata, mentre accendevano le candele, il suddetto ispezionò il suo lavoro e gli sorrise compiaciuto: «Dovremmo farti pulire più spesso: non ho mai visto questa zona risplendere così tanto».
Il ragazzo si morse la lingua per evitare di rispondere. Ma lo fissò malissimo. Poi Armando scoppiò a ridere, scosse il capo e se ne andò, scendendo le scale. Dritto verso le cucine.
 Un giorno, per la precisione una domenica sul finire di febbraio giunse al castello il precettore. Il suo arrivo gettò il castello nella curiosità. Quella mattina Agostino si era appena svegliato. Era stato trasferito dalla stanza che l’aveva ospitato la prima notte a un’altra, che divideva con altri servitori.
Molti di quegli uomini erano giovani, ma più grandi. E a volte capitava che qualcuno proprio non venisse a dormire. Se non dopo parecchie ore.
Agostino se ne chiese spesso il motivo. Finché quella mattina, prima dell’arrivo del maestro di scuola, non ne parlò con Santiago, lo spagnolo vicino di letto. Era un ragazzo di diciotto anni coi capelli neri, ricci che gli coprivano le orecchie, il naso adunco e gli occhi color ambra sulla pelle brunita dal sole. L’uomo rise: «Si è fatto una bella scopata.» Il ragazzo arrossì confuso. Ma la sua espressione spaesata non sfuggì al ragazzo che cominciò a sbeffeggiarlo: «Come, non hai mai fatto una scopata?»
«No».
«Ma ti sei masturbato qualche volta?» Il ragazzino arrossì di brutto. Ma che glielo andava a dire fare? Sembrava che quegli occhi della stessa luce del caminetto gli stessero leggendo dentro. Oh, come si stava pentendo di aver posto quelle domande. Il suo interlocutore, sembrava deciso a carpirgli ancora più segreti per farsi beffe di lui alle sue spalle. Perfetto. Così in breve tempo tutta la Valle dei Laghi avrebbe scoperto che era ancora vergine e, soprattutto, inesperto.
E sicuramente sarebbe riuscito a fare di meglio di così, se poi non fosse arrivato il trambusto. I due ragazzi si voltarono cercando di capirci qualcosa. «Che sta succedendo?» Chiese Santiago. Una serva gli rispose: «E’ arrivato il precettore.» Rispose la donna e poi andò verso l’uscio. I due ragazzi invece andarono alla finestra e da lì lo videro entrare.  
«Il precettore?» Chiese Santiago mentre Agostino, mezzo arrampicato sulla sua spalla, cercava di intravedere l’uomo che stava scendendo da cavallo, avvolto nel mantello pesante da viaggio e lo zio che gli andava incontro e che cominciava a confabulare con lui.
«Sarà sicuramente per uno dei suoi figli.» Sputò Santiago dopo aver buttato lì una mezza imprecazione nella sua lingua natia. «Sei spagnolo?» Domandò il giovane per cambiare discorso, guardandolo. Ne aveva incontrati quattro o cinque nella sua vita, fino ad ora. L’altro sporse indietro il collo e, senza staccare gli occhi dalla sua postazione annuì: «Di Santiago de Compostela. Guardalo là, il maggiordomo» sputò con livore la parola «Come parla con il maestro. L’avrà chiamato sicuramente per uno dei suoi figli, ah, come se sperasse che uno di loro possa prendere il suo posto».
«Che hai contro i suoi figli?» Chiese tra l’incuriosito e l’arrabbiato. Non gli piaceva sentir parlare male della sua famiglia.
«Niente. E’solo che quell’uomo non ha una sola goccia di sangue nobile nelle vene e si atteggia a nobile quale non è. Posso sopportare di servire e lavorare alle dipendenze di una famiglia nobile. Ma lui ha i pasti migliori e sta in cima alla catena alimentare. Non sopporto che usi il denaro per arricchirsi così».
Agostino si arrabbiò con quel ragazzo. E lo fulminò con gli occhi, stringendo le dita sulla spalla di lui. Ma il giovane non se ne accorse. «Dimmelo se cadi, non appigliarti alla mia camicia, me la strappi.» Disse invece. In effetti lo spagnolo era molto più alto di lui. «Che ti prende? Sembra quasi che ti abbia offeso.» Aggiunse quando lo guardò. Agostino continuò a fissarlo, irato. L’altro gli domandò: «Che ti prende? Il gatto ti ha mangiato la lingua?» Domandò, perplesso. Il ragazzino si staccò da lui.    
«Stai zitto e non ti azzardare mai più a parlare della mia famiglia a quel modo».  
Lo spagnolo sgranò gli occhi: «La tua famiglia? Aspetta…Ma tu…»
«Io sono nipote di Etienne da Monselice. Mi chiamo Agostino da Monselice!» Urlò e molte persone si volsero verso di lui. Molte con sguardo smarrito e altre che cominciarono a ridacchiare per quella scena. Doveva sembrare assolutamente ridicolo. Ma in quel momento non gli importò. Santiago aveva la faccia di chi cade tra le nubi. Però era completamente pallido, slavato come un cencio.
Il ragazzino non trovò altro da dire e gli volse le spalle, andandosene.
Poteva soprassiedere su un mucchio di cose. Per esempio sul suo soggiorno lì. Poteva anche capire che lo zio avrebbe favorito i figlioletti invece sua. Ma sentire un perfetto idiota offendere la sua famiglia no, questo no. Ma non era solo questo. Avrebbe voluto, per un attimo, che quel maestro fosse per lui. Che fosse lui a imparare a leggere e scrivere. E di questo, almeno di questo, era geloso.    
Proprio in quel momento passò di lì lo zio con il precettore al seguito: «Oh, Agostino. Giusto te cercavo.» Il ragazzo si fermò sulle scale e al cenno d’invito e le parole dello zio: «Vieni, vieni qui»; si avvicinò. Il precettore aveva i capelli biondi e gli occhi verdi. Era poco più alto dello zio, aveva all’incirca una trentina d’anni e un bel sorriso sulle labbra. «E’questo il ragazzo?» Chiese con cortesia e curiosità.
«Sì.» Confermò lo zio. Il tredicenne dal canto suo si limitò a guardare prima l’uno e poi l’altro battendo le palpebre, perplesso. Il giovane maestro gli strinse la mano mentre lo zio continuava. «Agostino, questo è il tuo nuovo precettore, Lucenzio Fosari. Lucenzio, questo è mio nipote Agostino da Monselice. Agostino, Lucenzio è venuto qui da Bologna per insegnarti le arti del quadrivio e le nuove correnti umanistiche e filosofiche. E’ quadrivio, giusto?» Chiese poi all’uomo che confermò, divertito.
Il ragazzino fissava lo zio sgranando gli occhi. «Non guardarmi così o gli occhi ti schizzeranno fuori delle orbite. Comincerete tra tre giorni, il tempo che ci vuole affinché il nostro ospite riposi. Ora saluta e va da Armando, ti affiderà le commissioni per oggi».  
Il nipote parve riscuotersi, salutò il suo maestro e lo zio e poi andò a cercare Armando mentre la sorpresa si agitava ancora in lui come le fiamme di un caminetto.
Lucenzio fu una gradita sorpresa per il giovane. Almeno finché non cominciò la prima lezione. Agostino non era mai stato a scuola prima di allora e non sapeva come comportarsi. Anzi, addirittura, quando si presentò senza pergamene o penne e calamaio, il maestro lo guardò stupefatto e mancò poco che lo schernisse per la sua stupidità. Perciò lo spedì a cercare qualcosa con cui scrivere. Il ragazzo tornò due ore dopo e, quando si sedette, e il maestro gli domandò di vedere i palmi, si beccò una canna sulle mani: «Ahio! E questo per cos’era?»
«Per ricordarvi di essere puntuale».
Poi gliene mollò un altro: «E ora che ho fatto?»
«Per ricordarvi di portare tutti gli strumenti.» Poi si pose seduto sulla sedia posta accanto alla sua e cominciarono la lezione. Purtroppo però si accorse un po’in ritardo che il ragazzo non aveva la più pallida idea di quello che stava dicendo: era, infatti, partito dalla filosofia, volendo essere ancora più precisi dall’humanitas. Solo allora l’aveva guardato in faccia e si era accorto di quella smorfia di stupore e confusione che aveva dipinta in viso.
«Aspetta, ma voi sapete leggere?» Agostino scosse il capo quasi meccanicamente e le vertebre gli scricchiolarono.
«Sapete almeno scrivere?»
Ancora una volta il ragazzino scosse il capo, mortificato.
Lucenzio si alzò in piedi: «Con permesso. Torno subito.» Ciò detto uscì dalla porta. Non tornò esattamente subito. Ci mise un’ora. E quando tornò aveva un’espressione infastidita dipinta in volto.
Evidentemente nessuno gli aveva mai detto che sarebbe dovuto partire dalle basi. «Va bene, facciamo finta che questo tempo non ci sia mai stato, anche se mi sembra uno spreco. E partiamo dall ABC».
Ciò detto cominciò a insegnargli tutto a partire dalle basi.    
In un certo senso Agostino trovava quasi rilassanti quelle lezioni, nonostante la severità del maestro. Il quale, dal canto suo, non si sentiva pagato abbastanza, a giudicare dal fastidio che tutto ciò gli provocava. Ma il tredicenne non se ne curava. Ormai si era abituato a piacere a poche persone.  
Solo molto tempo dopo, ad aprile inoltrato, decise di uscire dalla sua tristezza. Pensò fosse il caso di provare a fare qualcosa di diverso e, per un po’aiutò questo zio, ancora per molti versi sconosciuto, nella gestione del castello. Dopotutto ormai aveva capito come si scriveva e riusciva a compitare le parole. Anche se ogni giorno si allenava a leggere per un’ora con una foga che spaventava chiunque. Fortunatamente esisteva la biblioteca dentro al castello. Non era una delle più grandi, e neanche una delle più fornite. Ma grazie a quella biblioteca poté fare pratica di scrittura e lettura. I suoi romanzi preferiti erano quelli medievali. Come La leggenda di Tristano e Isotta, il Ciclo Bretone. Un po’meno quello Carolingio e le Chanson de geste. Ma l’opera che proprio in quel momento stava leggendo, era quella del Tristano e Isotta.
Aveva cominciato a leggerla con Lucenzio. Dopo l’ennesimo, infruttuoso tentativo di fargli leggere l’Africa di Francesco Petrarca e la Vita Nova di Dante Alighieri. «E’incredibile, non capisce un accidente dello Stil novo e pretende di imparare a leggere sulla traduzione di una leggenda medievale.» Borbottava l’uomo, sconfitto.
Lo zio, invece, trovò molto bello che il nipote volesse aiutarlo. Ma alla prima difficoltà lo rispedì immediatamente a studiare. Non era ancora pronto per aiutarlo. Non prima però di avergli chiesto di contare fino a trenta prima, e quarantacinque poi. Il ragazzo, un po’imbarazzato eseguì senza errori e lo zio lo congedò.
Armando commentò: «E’migliorato molto dall’inizio, però, non ti sembra?»
«Sì. Ho idea che se va avanti di questo passo diventerà un perfetto scolaro in poco tempo».
«Credi che un giorno ti sostituirà come maggiordomo?» Chiese Armando succhiandosi il dito. Quel giorno si era tagliato con un coltello e non la smetteva di sanguinare.
«No. Non credo. Vai a medicarti, Armando, non vorrei che tu mi sporchi di sangue i documenti.» Disse poi, scherzoso.
«Come no, tanto a te non da fastidio, no?»
Agostino covò ancora per un po’il sogno di aiutarlo e mostrargli i suoi progressi. E poi smise. A dir la verità smise abbastanza presto, quando giunse la bella stagione. E, come una rondine che fa ritorno al proprio nido in primavera, anche lui fece ritorno alla sua vera, antica vocazione: venne attratto dal giardino.
Il giorno che lo scoprì si era perso dopo aver bevuto un po’troppo vino e aveva sbagliato strada. Invece che dei soliti corridoi aveva imboccato uno diverso e si era ritrovato in quella selva.  
Era quasi in rovina, tant’è che credette di sognare di essere dentro una foresta.
«Ma dove…» Si chiese guardandosi intorno. Girò lentamente su se stesso, come a controllare che la porta fosse ancora lì.  
Un giorno, mentre rassettavano una delle stanze reali lo scorse di nuovo. Allora non se lo era immaginato. Ma faceva uno strano effetto osservarlo da una prospettiva completamente diversa. Allora era quello che vedevano gli uccelli, dall’alto dei loro voli. Si disse e, incuriosito, aprì la finestra. Il giardino era quasi una giungla. E forse solo un miracolo avrebbe potuto rimetterlo in sesto.
«Cos’è quell’appezzamento di terra incolta?» Chiese incuriosito alla serva che stava lavorando con lui.
«Oh, quello?» Chiese l’anziana donna ripiegando una coperta. «Una volta era il giardino principale. Ci venivano date molte feste, poi lentamente è stato abbandonato a se stesso».
«Perché?» Domandò il giovane voltandosi verso la donna che ora stava lisciando le lenzuola e le coperte e spolverando le tende del baldacchino. Lei rispose senza guardarlo: «Una principessa ci annegò».  
Il giovane intuì che non gli stava dicendo tutto. E che dalla gravità del tono con cui proferì quelle parole capì che si stava avventurando in un territorio pericoloso. Il territorio dei tabù. Ma non riuscì comunque a trattenersi. «Perché annegò?»
«Chiudi le finestre. È circolata anche troppa aria».
«Voglio sapere perché.» Ripeté.
«Chiudi le finestre. Fa freddo, ci farai ammalare tutti.» Rifece invece la vecchia.
«Io chiudo le finestre se tu mi dirai che cosa è successo a quel giardino.» Negoziò il giovane. La donna sospirò e poggiò le mani sulle coperte di velluto rosso. Capì che la donna non poteva rischiare: le finestre erano di vetro e il vetro era molto costoso e raro. Ed era stato fatto istallare solo trent’anni prima, quando era una giovinetta. Perciò si piegò alla sua volontà: «Accadde nel giugno di trentaquattro anni orsono. Lo ricordo come se fosse ieri. Il castello allora apparteneva a un visconte e non ai Da Campi come ora. Il giovane rampollo del visconte venne a passare l’estate qui, per via della sua salute cagionevole. Qui indisse feste ove invitò la nobiltà locale. E tra le gentildame che si presentarono rispose anche una castellana. Fui io a occuparmi di lei. Era giovane, con le chiome bionde come il sole quando tramonta e gli occhi azzurri. Era molto graziosa e pareva come immaginavo essere le principesse delle favole, per questo per me lei sarà sempre una principessa. In breve tempo lei e il padrone divennero amanti.» La sua voce si spezzò e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Agostino si pentì istantaneamente di averle ordinato di raccontarglielo. «Poi che successe?» Mormorò, cingendosi il busto con le braccia.
«Lei restò incinta. Ma il padrone non volle prendersi la responsabilità della madre e della creatura. Ben altro matrimonio aveva in mente, ed era già stato concordato dalla nascita con una famiglia di baroni. Lei si suicidò per la disperazione e il disonore proprio l’ultima notte d’estate. Durante l’ultima festa che il padrone indisse, prima di tornarsene a casa propria. Lei fece in modo che tutti la vedessero e si gettò nelle profonde e fredde acque del lago. Non prima di aver maledetto il giovane e il giardino che li aveva fatti incontrare. Il cadavere non fu mai ritrovato».
Agostino era sbiancato. Ma la vecchia continuò ancora, implacabile: «Da allora nessuno rimise mai più piede in quel giardino. E’rimasto tutto come allora, anche se le torce sono spente, il cibo è scomparso, divorato dagli animali o saccheggiato dai servi e le tovaglie muffite. Adesso chiudi le finestre.» Fece con occhi lampeggianti di odio e tristezza.
Agostino obbedì celermente.
Mai come allora aveva sentito aleggiare attorno a sé la presenza della morte.
Lanciò un’occhiata alla finestra alle sue spalle. Ora che si era spostato non poteva vedere ciò che c’era oltre, però era un peccato. Un parco così grande, un giardino incolto che un tempo doveva essere stato bellissimo…
«Che hai, Agostino?» Domandò uno dei suoi colleghi di lavoro quella sera a cena.
Il ragazzo si riscosse dai suoi pensieri. Non aveva fatto altro che masticare un pezzo di pane tutto il tempo, e, a lungo andare, era divenuto una poltiglia nella sua bocca. La inghiottì e si scusò con l’uomo: «Scusa, Donato, è che sono soprappensiero.» L’uomo annuì, rassicurato. Quel servo in particolare aveva una paura terribile delle malattie. Al punto che non riusciva a restare nella stessa stanza di una persona malata neanche se fosse stato malato lui stesso. La cosa strana era che se era lui il malato, allora non aveva paura della sua condizione. Dieci a uno che aveva creduto di averne fiutata una proprio in lui in quel momento, prima di rivolgergli la parola. Il tredicenne roteò gli occhi. Proprio allora si accorse dello sguardo che gli stava rifilando Santiago, quasi dall’altro capo della tavola. Il ragazzo si accigliò, ricambiandolo e il diciottenne distolse il proprio, tuffandosi nel suo pasticcio di pollo e frattaglie. Anche l’altro volse la sua attenzione altrove. Infatti, Donato lo stava ancora fissando: «Non preoccuparti, Donato, sono sano come un pesce. È che stavo pensando».
«A cosa, di grazia?» Fece interessato l’uomo, inclinando la testa di lato.  
«Al giardino».
«Quale?»
«Quello principale».
«Il giardino maledetto?» Fece l’altro sgranando gli occhi. Poi si sporse verso di lui e gli domandò, con aria confidenziale: «Ma non le hai sentite le storie?» In realtà Agostino stava guardando i lacci della camicia dell’uomo che strusciavano sul cibo posto in mezzo a loro. E alla zaffata di birra che gli arrivò. «Certo. Però…»
«Però?»
«Però io sono un giardiniere.» Concluse, come se con quella frase avesse potuto spiegare tutto di sé e della sua natura.
«Un giardiniere? Sul serio?» Fece quello sgranando nuovamente gli occhi per lo stupore. Poi si profuse in una risata che fece voltare verso di loro i vicini. Agostino non si unì a lui. «Un giardiniere, sul serio? L’augusto nipote di Etienne da Monselice, un umile giardiniere? Non stai scherzando, spero».
«Da tutta una vita.» Ribatté l’altro con serietà.
Il sorriso dell’altro si affievolì per essere sostituito da una smorfia di stupore. Poi tornò serio e bevve un sorso della propria birra: «Uao.» Fece quando rimise giù il boccale: «Non ti facevo un giardiniere. Non ne avevi la faccia».
«Neanche io ammetterei mai che tu sei il terzo in ordine d’importanza qui dentro. Ma non te lo vengo certo a dire.» Ammise il ragazzo ad alta voce con nonchalance. Il suo interlocutore parve trovare la sua frecciata molto spiritosa perché disse: «Un giardiniere. Ma dai, sei sicuro?»
«Sì, mio padre e mia madre mi hanno insegnato tutto quello che so e ho lavorato presso…»
«No, io intendevo, vuoi sul serio occuparti di quel giardino?»
«Sì».
«Bè, allora perché lo stai dicendo a me? Non dovresti andarlo a chiedere a tuo zio?»
«Lo farò. E’ solo che…» Il ragazzo roteò il bicchiere.
«Che?»
«Non ho…Cioè, non so come dirglielo».
«Bè, trovale in fretta, ragazzo. Non sarò certo io a farlo per te».
Il giovane annuì. Ma non era facile. Suo zio gli aveva concesso molte cose da quando era giunto lì. Dubitava fortemente che gli avrebbe concesso anche questo. Però era anche vero che amava prendersi cura dei giardini. E che in quel momento udiva la voce del giardino chiamarlo. E non sapeva per quanto ancora avrebbe potuto resistere. O meglio, avrebbe voluto resistere. Sapeva che per lo zio era importante la sua educazione, ma era anche vero che lui aveva delle passioni. E non vedeva l’ora di fare qualcosa di davvero utile e dilettevole al tempo stesso.
«Vorresti occuparti del giardino?» Domandò lo zio guardandolo stupito. Era seduto alla scrivania e si lambiccava sui conti e le spese del castello, quando lo aveva raggiunto e gli aveva esposto il suo desiderio. Agostino sapeva che i signori del castello stavano attraversando un momento di crisi. Momento che li aveva già costretti a vendere alcune proprietà. E temevano che la prossima sarebbe stata quella.
«Non abbiamo denaro per pagare un giardiniere…» Cominciò ma il nipote lo interruppe:
«Ma non dovrete ingaggiare un giardiniere, posso pensarci io».
«Tu?»
«Io. Mamma e papà - che Dio li abbia in gloria - mi hanno insegnato tutto quello che so sulle piante e sulla cura dei giardini. Prima che arrivassi a casa mia, lavoravo come floricoltore per Montino da Tripoli.» Ce la fece un po’di più di prima a non sputare quel nome. Il tradimento dell’amico di famiglia gli sarebbe bruciato ancora per molto.
«Ma è un pezzo di terra molto grande e d’estate pullula di zanzare, ci sono le nutrie, i topi e altre bestie come vipere e bisce d’acqua tra quelle piante ed erbacce incolte.» Il giovane si spostò di fronte alla scrivania. Lo zio lo seguì con gli occhi.
«Non mi spaventano due animaletti.» Dichiarò il ragazzo.
«Ma non abbiamo gli attrezzi e i servi non sanno niente di giardinaggio.» Gli fece notare l’uomo con l’occhio cieco.
«E i frutteti e i giardini circostanti la tenuta?»
«Sono i contadini che se ne occupano. Noi ci limitiamo ad amministrare loro».
«Perfetto. Chiamate loro, metteteli sotto al mio comando e riporterò il giardino alla sua gloria passata, se non di più».
«Ma le piante sono lì da anni. Non puoi sradicarle e portarle via per piantarne altre. La stagione della semina è già passata da un pezzo».
«Coltivare i campi e aver cura di un giardino sono due cose completamente diverse, zio. Fidatevi di me, vedrete che ci riuscirò».
L’uomo si sporse verso di lui, sulla scrivania. Lo guardò a lungo negli occhi verdi scuri, prima di dire: «Ne sei certo?»
«Sì».
«E come pensi di giostrarteli, sentiamo.» Fece mettendosi di nuovo a sedere. Le mani intrecciate sotto al mento.
«Giostrarmeli?» Domandò il nipote accigliandosi. Non aveva mai sentito quella parola prima di allora. E le uniche giostre che gli venivano in mente erano quelle di alcuni tornei che si tenevano ancora ogni tanto a Trento durante le occasioni di festa.
«Sì, gestirteli. Vorranno essere pagati per i loro servigi, non credi?» Il ragazzo restò senza parole e senza idee. In effetti quello era un problema che non aveva considerato. Non aveva affatto pensato che i contadini avrebbero lavorato per denaro invece che per amore delle piante. Come non avrebbe neanche saputo come pagarli. Era un bel problema. Incrociò le braccia e cominciò a riflettere, distogliendo lo sguardo dal parente. Il quale, dal canto suo lo fissò a lungo prima di venire in suo soccorso: «Non riesci a pensare a niente se non a quel giardino, vero? Oh, e io che speravo di affidare a te la gestione di questa magione. Che sciocco illuso che sono. Tale e quale a tuo padre. Va bene. Manderò una lettera al marchese dove gli esporrò la tua richiesta.» Ciò detto aprì un cassetto dal quale estrasse un foglio di pergamena e intinse la penna nella boccetta d’inchiostro.
«Marchese?» Ripeté Agostino, aggrottando nuovamente la fronte.
«Sì.» Fece lo zio, guardandolo come a dire: non dirmi che non lo sapevi, «Questo castello è stato acquistato da un ricco marchese veneziano dieci anni fa. Io lo servo da quindici. Non rifiuterà la tua richiesta se formulata in modo diverso».
La stretta delle braccia di lui si sciolse e l’espressione sul suo viso divenne di puro stupore.
«Grazie, zio!» Esclamò il giovane, sorridendo.
«Aspetta a dirlo. Non ho ancora scritto niente.» Lo redarguì bonario lo zio prima di cominciare a cercare una pergamena pulita in mezzo al mucchio di fogli che ingombravano la sua scrivania.
0 notes
tepasport · 7 years
Photo
Tumblr media Tumblr media Tumblr media Tumblr media Tumblr media Tumblr media Tumblr media Tumblr media Tumblr media Tumblr media
Tantissimi auguri al mitico Franco Baresi, all'anagrafe Franchino Baresi (Travagliato, 8 maggio 1960) Campione del mondo con la Nazionale Italiana di Calcio nel 1982 e vice-campione del mondo nel 1994. Soprannominato da giovane Piscinin e, in seguito, Kaiser Franz in onore di Franz Beckenbauer, si è segnalato fin da giovane come uno dei maggiori talenti espressi dal calcio italiano, ed è considerato uno dei più forti liberi della storia del calcio.
Nel corso della sua carriera professionistica ha sempre militato nel Milan, squadra nella quale giocò per venti stagioni (quindici da capitano) dal 1977 al 1997. Nella squadra rossonera è il secondo calciatore con più presenze, sia per quanto riguarda il campionato sia per le coppe europee. Con il Milan vinse sei scudetti, tre Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali. Con la nazionale italiana, nella quale militò per quattordici anni, ha partecipato a tre campionati mondiali (1982, 1990 e 1994) e due campionati europei (1980, 1988). Dal 1991 al 1994 fu capitano degli Azzurri, e si ritirò dalla nazionale dopo il Mondiale 1994.
Iniziò a giocare a calcio in tenera età insieme ai fratelli Angelo e Beppe. Quindicenne sostenne un provino all'Inter, squadra che aveva già reclutato Beppe, ma venne scartato per le sue caratteristiche fisiche. A questo punto Italo Galbiati lo invitò a tentare un provino alL' A.C. Milan. Dopo tre provini e grazie all'insistenza di Guido Settembrino, Baresi entrò nelle giovanili rossonere. Qui legò in particolare con il compagno di squadra Gabriello Carotti e con l'allenatore Giuseppe Marchioro. L'esordio in Serie A fu in Verona-Milan (1-2) del 23 aprile 1978. Tuttavia, la permanenza in prima squadra del giovane Piscinin (soprannome datogli dal massaggiatore dei rossoneri Paolo Mariconti) fu minacciata da qualche ritrosia con Albertosi e Capello. Superate queste ultime, il giovane e promettente difensore cominciò gradualmente ad ambientarsi nello spogliatoio e, grazie alla sua grinta, alla sua personalità e alla sua maturità tattica, riuscì a farsi apprezzare anche dalla storica bandiera e capitano rossonero Gianni Rivera che lo esaltò con queste parole «Questo ragazzo farà molta strada». Nell'annata 1978-79 l'allenatore Nils Liedholm non esitò a sacrificare un libero di provata esperienza come Turone per fargli posto in squadra. In quell'annata, giocata sempre da titolare, Baresi esordì in Coppa UEFA e vinse lo scudetto 1978-79, il decimo della storia Milan. Rivera, inoltre, convinse la dirigenza del Milan a premiare anche Baresi con il premio scudetto di 50 milioni di lire, a testimonianza dell'ottimo rapporto instauratosi tra i due. Nel 1979, alla chiusura del campionato, Baresi successe proprio a Rivera, ormai al tramonto della sua carriera, come uomo-simbolo e guida dello spogliatoio milanista. In seguito alla retrocessione in Serie B del Milan, decisa dalla sentenza relativa allo scandalo del calcio scommesse, fu tra i pochi della rosa che non lasciò la società. In tale circostanza segnò il primo gol con la maglia rossonera nella partita di Coppa Italia pareggiata 1-1 contro l'Avellino e, a fine stagione, fu uno degli assoluti protagonisti del ritorno del Milan in Serie A. Nella stagione 1981-82, colpito da una malattia del sangue, fu costretto a lasciare il campo per circa quattro mesi. Senza la sua guida difensiva, il Milan andò allo sbando e, a fine stagione, retrocesse per la seconda volta in Serie B. Nel 1982 seguì per Baresi una rapida ascesa a livello professionale. Fresco campione del mondo con la nazionale italiana, il giovane difensore firmò un contratto biennale di circa 100 milioni di lire all'anno e diventò il nuovo capitano dei rossoneri a soli 22 anni, dopo le partenze di Aldo Maldera e Fulvio Collovati. Guidò il Milan alla seconda promozione in Serie A, poi rinunciò a vestire le maglie di Sampdoria ed Inter per continuare la sua carriera con il Diavolo, dando così un'ulteriore prova di affetto e attaccamento ai colori rossoneri. Con l'arrivo del presidente Silvio Berlusconi e dell'allenatore Arrigo Sacchi, il Milan cambiò ruolino di marcia e si potenziò in ogni reparto. L'inizio non fu facile per Baresi, anche a causa del difficile rapporto con il nuovo tecnico Sacchi. Il capitano ebbe ripetute crisi di rigetto a furia di osservare costantemente i movimenti e le prestazioni di Gianluca Signorini, libero del Parma, ex-squadra di Sacchi. Messi da parte i problemi con l'allenatore, Baresi e compagni riuscirono a compiere una piccola impresa sportiva, superando in vetta alla classifica il Napoli campione in carica e conquistando lo scudetto 1987-88 grazie al pareggio all'ultimo turno col Como. Nella stagione 1988-89 arrivò l'affermazione europea con la conquista della Coppa dei Campioni contro la Steaua Bucarest a maggio, mentre nel mese di giugno i rossoneri si aggiudicarono anche la prima edizione della Supercoppa Italiana contro la Sampdoria. In entrambe le occasioni fu Baresi ad alzare al cielo i due trofei, ma ciò non bastò a vincere il Pallone d'oro 1989, appannaggio del compagno di squadra Marco Van Basten, che ebbe la meglio su Baresi per 39 punti. Nella stagione 1989-1990, il Milan continuò il suo dominio europeo vincendo nell'ordine la Supercoppa UEFA, la Coppa Intercontinentale e la seconda Coppa dei Campioni ma in Italia perse sia lo scudetto a causa della sconfitta contro l'Hellas Verona alla penultima giornata che la Coppa Italia contro la Juventus in finale; in quest'ultima competizione, Baresi si aggiudicò la classifica dei cannonieri con 4 gol, tutti segnati nella fase a gironi (nello specifico una tripletta su rigore contro il Messina e un gol all'Atalanta). Dopo un'ultima stagione vincente con Sacchi in panchina, nella quale il Milan vinse in ordine Supercoppa UEFA e Coppa Intercontinentale, nel 1991 i rossoneri furono squalificati per un anno dalle competizioni europee. Durante quel periodo, il rapporto tra Baresi e Sacchi si deteriorò al punto tale che, a fine campionato, il capitano rossonero, appoggiato dal malcontento di buona parte dello spogliatoio, decise di chiedere le dimissioni dell'allenatore al presidente Berlusconi. Sulla panchina arrivò Fabio Capello, già compagno di squadra di Baresi negli anni settanta, con il quale il Milan ritornò subito a vincere il campionato nella stagione 1991-92. Libero dagli schemi oppressivi di Sacchi, Baresi ritornò a giocare ad alti livelli, mettendo la propria firma sulle successive conquiste rossonere, ovvero le vittorie dei campionati del 1992-93, 1993-94 e 1995-96, delle Supercoppe italiane 1992, 1993 e 1994 e della Champions League 1993-94 (pur non scendendo in campo nella finale vinta contro il Barcellona perché squalificato. Con la fine dell'era Capello anche la carriera di Baresi giunse a conclusione. Il 6 aprile 1996, il capitano rossonero raggiunse 501 presenze in campionato, eguagliando Rivera. Il 19 gennaio 1997 giocò la sua 700ª partita ed annunciò il suo ritiro dal calcio giocato al termine della stagione 1996-1997. Baresi rifiutò alcune proposte estere e il 1º giugno 1997, all'età di 37 anni, disputò la sua ultima partita in maglia rossonera (Milan-Cagliari 0-1). Per la prima volta nella storia del calcio italiano la società decise di ritirare la maglia numero 6 da lui indossata. Il 28 ottobre 1997 disputò la sua partita d'addio a San Siro giocando una partita tra calciatori compagni e avversari durante la sua carriera e il presidente Silvio Berlusconi gli conferì il "suo" Pallone d'oro, «per colmare l'unico vuoto rimasto in una bacheca stracarica di trofei». In 20 stagioni disputate con la maglia del Milan, Baresi vinse 6 scudetti, 3 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Intercontinentali, 3 Supercoppe europee e 4 Supercoppe italiane. Segnò 31 gol complessivi, 21 dei quali su calcio di rigore, conquistando la classifica cannonieri della Coppa Italia 1989-90, l'unico trofeo nazionale che non ha conquistato ... ⚽️ C'ero anch'io ... http://www.tepasport.it/ 🇮🇹 Made in Italy dal 1952
0 notes