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#cipressi ma buoni
stefandreus · 2 years
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Cipressi
cipressi
CIPRESSI
C I P R E S S I
C I P R E S S I
C I P R E S S I
C I P R E S S I
*mi ha fottuto tutta la formattazione ad albero
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maec-cortona-blog · 4 years
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dal "Viaggio archeologico nell'antica Etruria" di Wilhelm Dorow
📕 per #tiLeggoCortona il Prof. Roberto Venuti, ordinario di Letteratura tedesca all'Università di Siena - ci legge un brano di Wilhelm Dorow tratto dal volume "Viaggio archeologico nell'antica Etruria", 1829. ⠀ 👨🏻 Wilhelm Dorow (1790-1846) archeologo, storico e diplomatico tedesco fondò a Bonn il Museums Rheinisch-Westfälischer Altertümer. Nel 1827 soggiornò in Italia dove effettuò scavi nelle aree di Canino e Vulci. 📜 A Cortona vendono una descrizione della città, ma non è buona, può essere considerata solo come un mero elenco di conventi e confraternite del luogo, con relativa storia. Non c'è niente di ciò che dona valore a Cortona, o meglio, i dettagli sono così inesatti che ci si augura che un uomo colto ed abile possa scrivere con cura maggiore la storia e le curiosità di questa città. Parliamo ora di ciò che vi ho trovato. La biblioteca, con le sue collezioni di antichità, è affidata alla custodia del Signor Ponbucci, uomo amabile e molto cortese. Tra i libri a stampa ce ne sono di molto rari e preziosi; tutto ciò che è stato pubblicato sulle antichità etrusche è completo e si resta veramente stupiti di trovare delle ricchezze di questo tipo in una piccola città di provincia: sono il frutto di un tempo fiorente dell'Accademia di Antichità di Cortona. La collezione di antichità annessa alla biblioteca, brilla meno per la quantità che per il valore intrinseco dei pezzi che la compongono. Tra i bronzi trovati a Cortona o nelle sue vicinanze, ci sono dei pezzi di un valore inestimabile. Tra questi c'è una figura alta sei pollici che tiene un fulmine in mano. Nel Museum Cortonense nel Museum Etruscum di Gori è indicata come Giove; ma si tratta di Bacco, dal momento che è noto che gli Etruschi attribuissero spesso il fulmine a questa divinità. Cortona possiede anche i resti di antiche mura ciclopiche, non ben conservate né estese come quelle di Fiesole; si tratta di enormi blocchi di pietra di forma allungata e quadrata, appoggiati l'uno sull'altro senza malta. Tra le chiese mi occuperò del mausoleo di Santa Margherita, opera del tredicesimo secolo, visibile all'interno della chiesa della santa. La chiesa appartiene all'ordine dei Francescani, è posta al di sotto della cittadella, sulla cima più alta della montagna, a circa un miglio al di sopra della città. Il convento è circondato da cipressi; da ogni lato si gode di una vista incantevole, soprattutto verso il lago Trasimeno, che con la superficie azzurra delle sue acque limpide, dona al paesaggio la vita, il bagliore e l'interesse dei ricordi classici. 👉🏻 l'edizione integrale del volume "Voyage historique dans l'ancienne Étrurie , par M. le dr. Dorow"  https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt... 📌 Ti Leggo Cortona: professionisti e buoni interpreti leggono brani di racconti e romanzi in cui è protagonista il patrimonio culturale cortonese 📚 testi tratti da diari di viaggi o romanzi contemporanei sono i protagonisti di questa rubrica.⠀ #MAECcortona #MuseiChiusiMuseiAperti
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pangeanews · 5 years
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“Non esiste gioia senza lotta, e un nuovo inizio è sempre possibile”: dialogo con Giovanna Rosadini
Penso che Giovanna Rosadini non vada letta. Giovanna Rosadini – forse l’ho già detto – va strappata. Con i suoi libri, intendo, non si può avere un rapporto da lettori qualsiasi, avvertiti o meno, avventurieri o narcotizzati dalla lirica, che vogliono trarre godimento d’intelletto. La Rosadini – poeta, per altro, formalmente impeccabile – va vissuta, vuole essere esplorata, estrapolata, strappata. La poesia è la prima parte di un dialogo che sei tu a dover adempiere e rilanciare – e mai completare. Pattuglia i giorni, la Rosadini, li perimetra con il barometro poetico, sguinzagli i cani da caccia del verbo. E pretende, da te, non di essere accudita: si dà in pasto. Di Fioriture capovolte (Einaudi, 2018), per dire, sorprende già l’anomalia del titolo: come se qualcosa, nonostante il capovolgimento, nonostante tutto, continui a fiorire, a esplodere vita, vizio e virgulto di gioia. “Notte medusa che mi mangi il sonno/ e mi sprofondi in abissi senza sponda,/ dammi il conforto di ritrovare un senso/ a ciò che sembra essersi perduto”. Che nitidezza oraziana, classica, in questo gesto di istoriare lo stipite della notte con versi beneaugurali. Poi mi segno questo, “La nascita ci consegna a un nome,/ ne custodiamo l’arbitrarietà sino a farlo/ nostro”: amo l’enigma che c’è qui dentro, la responsabilità del nominare, una risonanza di bronzo.  Poi, tra liriche piene di acqua, di acquari e di nebbia – ciò che è offuscato rasenta la visione millimetrica – amo questa, di ghiaccio, come di uno che abbia scuoiato pezzi di tramonto per farne cibo agli uccelli carnivori: “Benvenuta nebbia che occulti e attutisci/ potessimo disfarci nel tuo corpo di latte/ impunemente senza strascichi o rinvii/ come un errore finalmente rimediato/ come un dolore finalmente riassorbito”. Da qui, dunque, dallo stato di spostata, di sposa all’estate dei persi, senza pesi (“Incinta di vento – vuota, inquieta,/ sparsa come un gregge di foglie”), invito Giovanna al dialogo. (d.b.)
Intanto. Da dove nasce questo libro? Voglio dire. C’è sempre, in te, un desiderio di ricapitolazione – di resurrezione? – nella poesia, di dare forma ai giorni, di fabbricare gli annali minimi della propria biografia: è vero?
Caro Davide, hai centrato il cuore della mia poesia. Ogni mio libro è un libro sulla possibilità di cambiamento e di rinascita, sempre attuabile, credo, in qualsiasi momento della vita. È quello che riassumo nella poesia di apertura del Numero completo dei giorni, corrispondente alla parashà di Bereshit, o, ebraicamente parlando, “Dell’inizio”, Genesi per la tradizione cattolica. Un nuovo inizio, legato a una possibilità di rigenerazione, è sempre possibile, anche se la nostra cultura (parlo del retaggio europeo) fatica a concepirlo: in una cultura più giovane e dinamica come quella americana è la norma. Si può mettere a fuoco la propria ispirazione anche a cinquant’anni, e lasciare il proprio lavoro routinario per mettersi a studiare musica e diventare direttore d’orchestra, o mettersi a dipingere, o assecondare una nuova inclinazione sentimentale… Poi, sì, scrivere poesia è un modo per dare forma ai giorni, scavare nel senso del tempo che passa fermandolo in un segno, coagulandone l’essenza.
Dimmi. Qual è l’idea complessiva del libro. Che la memoria, forse, è il veleno della vita a venire? Che la lotta – tra vetri e fratture – è ancora conservare il distillato della gioia? Che cosa è questo “residuo immedicabile del mondo”?
Più che il veleno direi forse il nettare, se si è avuta una vita sufficientemente buona come credo sia stato per me. Non penso che ci sia un’idea complessiva del libro, se non quel filo rosso che lega le mie opere che ho precisato sopra. Detto questo, venendo al tema della lotta, Michel Houellebecq ha scritto un meraviglioso libro di poesie intitolato Le sense du combat. Pieno di energia, vitale, lucidissimo.  Ho rimosso questo aspetto essenziale della vita fino alla fine del decennio dei miei trenta, cresciuta com’ero in una cultura/società di benessere garantito e indiscusso, in cui non si dava la necessità di competere per soddisfare le proprie necessità… il mondo della mia infanzia è un mondo di buoni sentimenti e di buona educazione, pacificato e garantito. Crescendo, mi sono resa conto che non era così, e ho maturato nuove consapevolezze, a contatto con le asperità del mondo. Si è trattato di un lungo ma necessario percorso, che è sfociato nella legittimazione della mia scrittura. Non si dà affermazione di se stessi e delle proprie istanze senza lotta, in senso più o meno figurato. Senza di ciò non si può pervenire alla gioia di trovare e riconoscere il proprio ruolo nel mondo.  Anche quando si ha la fortuna di raggiungere individualmente questo obiettivo, è facile che rimanga un quid di irrealizzato, non compiuto, e credo proprio che per la maggioranza delle persone sia così… C’è sempre qualcosa che manca, un inciampo, un fatto imprevisto che cambia la vita, e lo stesso, per estensione, nelle cose della vita e del mondo. Imperfetto per definizione. Abbiamo assistito, nel Novecento, al fallimento della realizzazione pratica dell’ideologia comunista, con il suo portato di riscatto sociale e di egualitarismo… È uno degli esempi possibili. La realtà è irreggimentabile. Per quanto ci si possa avvicinare dal punto di vista personale a un compimento, e da quello sociale a una buona organizzazione e gestione, ci sarà sempre un deficit, qualcosa che non funziona o non è abbastanza soddisfacente… È questo, “Il residuo immedicabile del mondo”. Qualcosa di connaturato e non emendabile, che possiamo trovare anche in natura. Qualcosa con cui tutti dobbiamo fare i conti, o imparare a fare i conti. Per dirla con le parole di Philip Roth: “Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui”.
Da un lato, certo, le fioriture, il fiore che poi marcisce alla terra per fecondarla di nuovi sensi e gesti. Dall’altro, molte immagini rimandano all’acqua, all’acquario, al fossile, al luogo della nascita originaria, dove tutto passa e nulla si dimentica. Ci sono forse dei simboli-ossessioni in questa raccolta?
Forse. Non ci avevo ancora pensato in questi termini. Di certo, l’acqua è un elemento ricorrente, presente in ogni sezione del libro… Dal mio mare di Liguria agli abissi oceanici popolati di creature inquietanti e all’acqua morta (da una suggestione del poeta cinese Wen Yiduo) della sezione Lo spazio bianco, fino all’acqua di Venezia dell’ultima sezione, dove rievoco gli anni universitari che vi ho trascorso. Acqua come elemento materno, rigenerante, ma anche ricettacolo oscuro e misterioso. Poi, direi, tutto il libro è attraversato dalla dicotomia luce-ombra, chiaro-scuro, la luce dell’infanzia e la cupezza dell’adolescenza, le luci e le ombre del sentimento amoroso, gli slanci e le inquietudini della giovinezza… Poi, c’è il luogo mitico per definizione della mia infanzia, la grande casa affacciata sul mare dove sono cresciuta, col suo giardino circondato dai cipressi e pieno di piante e fiori: il luogo dove si è incarnata la mia immaginazione emotiva, oggi purtroppo perduto. Probabilmente è questo, il luogo della nascita originaria, quello dove si è formata la consapevolezza di chi sono.
Poi, a un certo punto, arrivi pure a benedire la nebbia, preghi di poterti disfare in essa, “come un errore finalmente rimediato”. Poesia bellissima, arcana e arcaica, ‘classica’. Significato agghiacciante. Cos’è allora la vita, cosa sono i rapporti umani?
La poesia della nebbia è quella in apertura della seconda sezione, Lo spazio bianco. Qui affronto il lato rovescio della vita, i suoi momenti faticosi e difficili, quelli in cui mancano le risorse per affrontare il mondo e la realtà. In una parola, parlo di depressione. Condizione oggi comune a molti, e a me del tutto sconosciuta prima del mio incidente. Dopo, ho imparato a farci i conti e a gestirla, naturalmente con l’aiuto di persone competenti a me vicine. Ho a poco a poco imparato a non temere i momenti no, quelli che spaventano e che cerchiamo, quando li sentiamo avvicinarsi, di tenere a distanza. La scrittura mi ha aiutato. Accogliendo questi momenti, ho capito che era possibile attraversarli e uscirne, se non incolume, più consapevole e talvolta fortificata. È il tema dell’episodio biblico della lotta di Giacobbe con l’angelo, che ho affrontato nel Numero completo dei giorni. Detto questo, credo che la vita sia un percorso ininterrotto di ricerca, innanzitutto di senso. E il senso lo troviamo proprio, se abbiamo la capacità e fortuna di trovare prima noi stessi, nei rapporti umani, nella possibilità di una comunione affettivo-emotiva con gli altri. Assumendoci il rischio e la responsabilità di fondare dei legami profondi. Sono gli altri, i testimoni della nostra esistenza, a darci consistenza e presenza nel mondo: una verità che ho vissuto sulla mia pelle con l’esperienza del ritorno alla vita dopo il coma, e che ho descritto in Unità di risveglio.
La raccolta è costellata da una serie di epigrafi tratte da diversi poeti contemporanei. Che azzardo. Esiste, allora, davvero, oggi, una ‘comunità’ di poeti?
La comunità dei poeti esiste da sempre, o, per meglio dire, esiste in senso sincronico e diacronico, ci sono i poeti a noi contemporanei che scrivono in ogni lingua e parte del mondo e ci sono i poeti che ci hanno preceduti, e continuano a parlarci con i loro versi. E ci sono i poeti che verranno dopo di noi, e leggeranno i nostri versi perpetuando in questo modo il nostro spirito e la nostra essenza. Attraverso la reciproca lettura, nostra di coloro che sono stati e che coloro che verranno dopo di noi faranno dei nostri testi, si attua una compresenza che supera le barriere temporali e, nel caso in cui leggiamo un poeta di un altro paese o continente, spaziali. Se non è una straordinaria comunità questa! Poi, sul piano personale, ci sono i legami e le relazioni, vive e concrete, con gli amici che scrivono poesia. Io credo di essere particolarmente fortunata, perché ho potuto conoscere, negli anni in cui lavoravo in Einaudi, personalità e maestri come Alda Merini, Giovanni Raboni, Raffaello Baldini e altri. Successivamente, quando io stessa ho cominciato a pubblicare, si è venuta formando una rete di amicizie e legami, quando non affinità elettive, davvero formidabile. Fondamentale lo scambio e il supporto con le mie sorelle di penna, da Maria Grazia Calandrone a Laura Pugno, Daniela Attanasio, Elisa Biagini, Giovanna Frene e Laura Liberale. Ciascuna di noi ha una poetica e una modalità di scrittura differente, ma è proprio questo il bello, e qui sta l’arricchimento reciproco. Poi ci sono le maestre di poesia, Mariangela Gualtieri, Antonella Anedda: ciascuno dei loro libri ha influenzato la mia scrittura. Ma ci sono anche gli amici poeti e scrittori, come Cristiano Poletti, l’estensore di questa intervista e Tiziano Scarpa, un’amicizia fondamentale lunga una vita.
“Si scrive sul vuoto e sull’assenza… ed è una lotta con l’ombra”. Vuoto, lotta. Forse scrivere è compiere gesti marziali, nel vuoto. Lotta intrattenuta con gli assenti. Dimmi. Poiché il poeta sembra sempre avere parole definitive e mai assolutorie. Che rapporto c’è con la morte, con i legami che sono morti e moribondi? E ora… cosa andrai scrivendo?
La scrittura, soprattutto quella poetica, è un esercizio di memoria, di ricostruzione del senso, una tessitura che recupera mancanze, perdite, incompiuti, lutti. Quindi una lotta con qualcosa che si sottrae, a cui bisogna dare una sembianza. Un risarcimento, una fune lanciata verso una sponda incerta. La poesia è categorica? Forse, un certo tipo di poesia, quella più orfico-oracolare… La mia credo sia più una poesia di evocazione, di introspezione e di figura. Una poesia che condensa storie. La morte risulta così esorcizzata, ma è sempre sullo sfondo, c’è un sentimento di quieta accettazione. Per quanto riguarda me stessa. Per ciò che concerne i legami, lascio andare senza rimpianti quelli che non hanno più motivo di essere, e lotto per conservare quelli senza i quali la mia vita non sarebbe più la stessa. Ma, come noto, non c’è nulla di più complicato, tortuoso e spesso incomprensibile delle relazioni umane. È ancora presto, ora, per dire cosa andrò a scrivere, anche se è da un po’ che rimugino un progetto narrativo… chissà!
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thebinutrek · 6 years
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« Ivi è Romena, là dov’io falsai la lega suggellata del Batista;
per ch’io il corpo sù arso lasciai. (Maestro Adamo) »
(Canto XXX, Inferno, Divina Commedia)
Il Castello di Romena, il più antico del Casentino, situato a Pontevecchio (AR), è un imponente fortilizio sorto sulla cima di un poggio coronato di cipressi. La sua edificazione risale alla seconda metà del X sec. e le prime testimonianze al 1088, quando era la residenza del conte Guido Alberto dei Marchesi di Spoleto. Nel XII sec. il maniero divenne proprietà dei conti Guidi, una delle maggiori casate dell’Italia centrale nel corso del Medioevo, possidenti anche di un altro bellissimo castello presente nella zona, quello di Poppi [Vedi: L’antico borgo di Poppi, la “Torre dei Diavoli” e il piccolo Parco Zoo].
L’episodio forse più celebre legato alla lunga storia di questo castello risale al 1281. A quel tempo nel fortilizio viveva Mastro Adamo da Brescia che, per conto dei Guidi di Romena, falsificava i fiorini d’oro della Repubblica di Firenze. Catturato e condannato a morte venne giustiziato nei pressi del castello, nella località oggi chiamata Omomorto. L’episodio di Mastro Adamo è riportato anche da Dante Alighieri nel sopra citato canto XXX dell’Inferno. Lo stesso Dante, in virtù dei buoni rapporti con i Guidi che gli offrirono protezione, risiedette per qualche tempo nel castello durante il suo esilio da Firenze (dal 1301 al 1321, anno della sua morte).
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Più a valle, ai piedi del castello, merita una visita anche la Pieve di San Pietro a Romena, un edificio religioso in stile romanico risalente alla metà del XII sec. ed edificato in tempo di carestia (TEMPORE FAMIS MCLII), come recita la scritta scolpita sul secondo capitello della navata sinistra.
La sua struttura ed i suoi capitelli ricordano molto un’altra chiesa romanica della zona, ma molto più particolare e misteriosa: la Pieve di San Pietro a Gropina [Vedi: La Pieve di San Pietro a Gropina, tra simbolismo e magia].
  Il Castello di Romena e la Pieve di San Pietro « Ivi è Romena, là dov'io falsai la lega suggellata del Batista; per ch'io il corpo sù arso lasciai.
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Gente marittimese: Capirizze, Capirizzi e Fiori
di Rocco Boccadamo
Dal titolo delle presenti note, fanno capolino, non casualmente bensì in funzione dei contenuti e, specialmente, delle figure che, man mano, trovano anima e sviluppo, due singolari esemplificazioni di nomignoli o soprannomi, caduti e attaccatisi, secondo il lessico paesano, su determinate famiglie e/o persone.
Invero, da queste parti, siffatto genere di processo identificativo è più frequentemente veicolato da una coppia di precipue lettere minuscole dell’alfabeto precedute dal segno d’apostrofo, ‘u e ‘a, a seconda che ne segua un’accezione maschile o femminile, che si avvalorano e sostanziano in un caso, alla buona, indicante appartenenza o provenienza.
Qui, come dianzi accennato, la circostanza è però inconsueta, giacché gli appellativi menzionati sono, nell’ordine, in collegamento niente più che con un nucleo famigliare, contraddistinto da capigliatura spiccatamente riccia e un altro nucleo, proprietario di un piccolo fondo agricolo, denominato “Fiore”, che si raggiunge percorrendo Via Murtole in direzione della contermine località di Andrano.
Compiuta questa necessaria premessa e procedendo in un certo ordine logico, la rievocazione narrativa prende l’abbrivio da un’immagine a me particolarmente vicina e cara, ossia a dire quella dell’indimenticabile e dolce nonna materna, Lucia Frassanito, la cui famiglia d’origine e appartenenza era conosciuta e indicata, appunto, con la designazione di Capirizzi e Capirizze.
La predetta mia ascendente, insieme a nonno Giacomo, mise al mondo sei figli, fra maschi e femmine, con mia madre Immacolata primogenita, ma non è su di lei che intendo qui riferire, salvo che per il piacere di ricordarla in veste d’ideatrice, promotrice e protagonista di una minuscola joint venture, operante nell’ormai distantissima stagione della mia fanciullezza.
Nella sua famiglia era sempre allevata una capretta, dalla cui mungitura, è chiaro, si ricavava, quotidianamente, un quantitativo di latte risicato, assolutamente insufficiente per mettersi a trasformarlo in formaggio.
E, però, la brava donna, rimediava all’esigua produzione propria, mediante un accorgimento concordato con le famiglie del vicinato, anch’esse proprietarie di un capo ovino per ciascuna.
Un determinato giorno, gli allevatori, praticamente consorziatisi sulla parola, erano chiamati a conferire le rispettive produzioni, in blocco, alla famiglia X, il giorno seguente a un ‘altra e così via.
In tal modo, presso ciascun nucleo, veniva a concentrarsi, ogni volta, un’apprezzabile raccolta di bianco liquido, bastante per ricavarne, attraverso una lenta operazione di bollitura e con l’ausilio del caglio naturale, una piccola forma di formaggio.
Muovendo un passo indietro, nella povera abitazione a piano terra più un camerino sulla terrazza destinato al sonno e al riposo dei figli maschi, in vico Maggiore Galliano, nei pressi della piazza e della Chiesa Matrice di Marittima, nonna Lucia, da giovane, viveva insieme con i genitori Vitale e Grazia, le sorelle Cristina, Peppina e Teresina e i fratelli Michele e Cosimo.
Tutti i Frassanito marittimesi esercitavano indistintamente, per tradizione, il mestiere di muratore; così era, quindi, anche per il mio bisnonno (tataranne) Vitale, il quale, da esperto, aveva realizzato due piccoli monoliti in pietra leccese, con spigoli smussati e arrotondati, sistemandoli sulla terrazza di casa, a guisa di base d’appoggio per la ramificazione e la crescita, aiutate da fili di ferro incrociati, di una pianta di vite che, dal livello stradale, era lentamente salita sino a raggiungere il piano di copertura dell’abitazione.
A distanza di molti decenni, l’immobile in questione ebbe a passare di mano, quanto a titolarità, e a subire radicali modifiche, tuttavia uno di quei preziosi manufatti in pietra leccese è stato recuperato e conservato da una persona intelligente e fa ancora bella mostra di sé all’interno di una moderna dimora marittimese.
°   °   °
Cristina “capirizza” (per mia madre e per me, zia), a sua volta, si maritò con tale Vitantonio Cerfeda ed ebbe sei figli, un maschio e cinque femmine, nominativamente Immacolata, Adelina, Maria, Annunziata, Agnese e Vitale.
Una famiglia che, evento non frequente, finì con l’integrarsi, se non in toto, in misura preponderante, con i componenti di un vicino nucleo o focolare, quello di Vitale e Pasqualina Nuzzo, soprannominati i “fiori” (oppure ‘u fiore) di cui al titolo; anche lì, sei figli, però cinque maschi e una femmina, ovvero Toto, Pippi, Fiore (addirittura un nome di persona derivato dall’attaccamento del capofamiglia al suo fondo agricolo), Uccio, Tereso e Tetta.
Ciò, giacché le prime quattro “capirizze” dell’elenco divennero mogli dei primi quattro “fiori” e, altro particolare non comune, andarono ad abitare in quattro nuove abitazioni, appositamente fabbricate, attaccate in progressione lungo un comune viale e fronteggiate da distinti eguali orti/giardinetti.
Un tempo, erano strettissimi, si può dire a livello di fratelli e sorelle, i legami intercorrenti tra cugini, perciò mia madre Immacolata era un tutt’uno con la sua omonima cugina, sposatasi con Toto ‘u fiore.
Detta cugina, oltre a governare la casa, si occupava di cucito e, in special modo, del confezionamento di copri letti imbottiti di bambagia, quelli che oggi sono definiti piumoni
o trapunte, mentre, allora, si parlava di imbottite.
In occasione del nostro matrimonio, anche mia moglie ed io ci rivolgemmo a lei per farci fare la nostra imbottita, accessorio che conserviamo gelosamente, non tanto per uso concreto, quanto come valore e ricordo affettivo.
Ancora, l’ho appreso di recente, mia sorella Teresa ha fatto capo al di lei marito, Toto ‘u fiore, per piastrellare la sua grande cucina.
L’intenso legame fra le due Immacolata ha avuto per seguito un bel rapporto fra i rispettivi discendenti, secondi cugini fra loro; così è avvenuto relativamente a me e a Vitantonio, primogenito di Immacolata e Toto. Quasi coetanei, verso la fine degli anni cinquanta, abbozzammo, contemporaneamente, innocenti filarini con due ragazze di Castro, poi entrambi iniziammo a lavorare e mettemmo su famiglia, tuttavia, nonostante risiedessimo in località distanti, il bel sodalizio continuò.
Vitantonio, chiamato Uccio – come si legge in una narrazione dell’amico e scrittore marittimese Giuseppe Minonne, anche lui cugino di Toto ‘u fiore e, dopo la morte della madre, le seconde nozze del padre e l’arrivo della “mamma nuova” non propriamente gradita e accettata, frequentemente ospite, insieme con due sorelle, nella relativa casa e nel fondo “Fiore” – fece in tempo a far conoscere al vecchio nonno paterno Vitale la sua primogenita Olga.
Dopo di che, purtroppo, a Uccio restò una breve vita, in quanto, ad appena quarantuno anni, finì i suoi giorni in un paese lontano dove s’era temporaneamente trasferito per ragioni di lavoro.
Uccio, un ragazzo e un uomo eccezionalmente a modo, d’oro si può affermare. A breve distanza dalla sua scomparsa, ritornato a Marittima per le ferie, mi recai a casa dei suoi genitori e abbracciai la sua mamma Immacolata, dicendole solamente: “Era il migliore di tutti noi”.
Uccio se n’è andato, ma conservo vivo nella mia mente, e tengo a rivederlo ogni tanto nella casa di tutti fra i cipressi, il suo sereno sorriso.
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Un’altra sorella di nonna Lucia, Peppina “capirizza”, si maritò con tale Carmine Sergi di Andrano e, dalla loro unione, nacque Rocco.
Quest’ultimo, sin da piccolo, più che nei confronti dei famigliari del ramo paterno, ebbe viva predilezione e forte affetto per i nonni, gli zii, le zie, i cugini e le cugine marittimesi, capirizzi e capirizze e pure per i rispettivi discendenti.
Rivedo Rocco, sebbene anche lui manchi da decenni, nell’atto di accogliere me e mia moglie che, ogni anno, compivamo una puntata ad Andrano in occasione della festa patronale della Madonna delle Grazie. Passavamo davanti a casa sua e ci salutavamo con ardore.
Puntuale la mia domanda: “Rocco, tua moglie Pasqualina, dov’è, come sta?” e lui a rispondermi sistematicamente, dando prova di delicatezza, affetto e rispetto per la consorte: “Rocco, la mia signora (da notare, non diceva mia moglie) è già andata avanti e mi sta aspettando all’esterno della chiesa per la processione della Madonna”.
Altra chicca che mi giunge alla memoria e mi sembra indicativa, Rocco Sergi ha avuto tre figli, Peppino, Lucia (divenuta suora) e Uccio. Il nome di battesimo dato alla figlia rispecchia, si pensi, quello della seconda moglie del padre Carmine, rimasto vedevo di nonna Peppina Frassanito “capirizza” e convolato successivamente a seconde nozze con una donna di Spongano chiamata Lucia.
Questo dimostra che, anche con una matrigna o con un patrigno, i nati di primo letto possono intrattenere buoni rapporti, sino, addirittura, come avvenuto in questo frangente, a dedicar loro il nome di un figlio.
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Giovani marittimesi negli anni ’70
  Venendo ora ai “capirizzi” Michele e Cosimo Frassanito, fratelli di nonna Lucia, atteso che, riguardo al primo, ho già avuto modo in passato di intrattenermi, tratteggiandone la figura e la carriera attraverso il racconto “Il mare di Meris” (Meris, sua unica figlia), incluso nella mia raccolta “Quando il gallo cantava la mattina” del 2012, qui mi concentro sul secondo, Cosimo, il quale, oltre che col nomignolo di “capirizzo”, era appellato “Cosimu longu” a motivo della sua elevata statura.
Zio Cosimo, sposato con zia Costantina, agli antipodi rispetto al fratello, era al vertice di una famiglia numerosa, ben otto figli (Antonietta, Elvira, Rita, Maria, Gino, Vitale, Eugenio e Franco), generati in un arco di tempo abbastanza ampio, al punto che l’ultima della nidiata, Maria (classe 1945), era più giovane del primo figlio avuto dalla sorella Antonietta.
Dimoravano in due abitazioni attigue a piano terra e primo piano, i predetti germani, immobili ora di proprietà, rispettivamente, di una coppia marittimese e di un noto personaggio televisivo.
Così gemelle e attaccate le case, così diverse e distanti le strade e le vicende esistenziali di Michele e Cosimo.
Il primo, sottufficiale di carriera in Marina, in giro per il mondo sino alla Cina, una lunga permanenza in Istria quando la medesima era territorio italiano, vita oltremodo tranquilla e senza scosse.
Al contrario, il secondo, zio Cosimo, peraltro sempre legatissimo e affezionato ai famigliari e parenti, ebbe invece a trovarsi coinvolto in un episodio di cronaca nera, l’uccisione di un compaesano marittimese, di cui gli fu fatto carico in concorso con il suocero, con lo sbocco anche, di un lungo periodo di detenzione.
La vicenda segnò un colpo devastante, non solo per lo zio Cosimo, ma pure per l’intera sua famiglia, che preferì lasciare Marittima e trasferirsi in una cittadina del Brindisino, avendo lì agio di contare su maggiori possibilità di lavoro.
Alcuni dei “capirizzi” così emigrati non ci sono più e, però, quelli che esistono ancora, abitanti a Mesagne o in altre località (mi è stato riferito che l’ultimogenita Maria vive a Megève, in Francia), sono rimasti fortemente legati alle loro origini.  Un paio d’anni fa, in una rapida puntata da queste parti, hanno insistito con un parente al fine di ottenere una foto dell’insenatura “Acquaviva” così come si presentava negli anni cinquanta.
Un sito a loro carissimo e rimasto nel cuore, giacché, al pari dello zio Michele, il loro genitore possedeva una porzione del Bosco dell’Acquaviva, da dove erano soliti scendere a piedi per sostare e fare i bagni estivi nelle cristalline e fresche acque dell’amenissimo seno.
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