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#costruirepontiscavalcaremuri
svediroma · 4 years
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Dalla Slovenia alla UILDM. Vi racconto la mia esperienza di volontariato europeo
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È difficile fare un bilancio dopo un anno così speciale come quello segnato da una nuova realtà. Le motivazioni principali per partecipare al progetto “Building Bridges, Jumping Walls” a Roma erano per me di provare qualcosa di nuovo e di avere un’esperienza di vita in grado di ampliare i miei orizzonti.
L’esperienza è iniziata bene, con il corso di italiano, per me una nuova lingua. Grazie alla pazienza delle mie coinquiline e del mio coinquilino, pian piano sono riuscito ad esprimermi sempre meglio e in maniera più profonda.
La formazione iniziale con Edoardo e Massimo mi ha fatto pensare a quanto sia importante parlare tra noi riguardo le nostre motivazioni a partecipare ad un progetto legato al lavoro con le persone con disabilità. Non tanto per la nostra volontà di aiutare le persone disabili, quanto per il modo giusto in cui le si aiuta. Ovviamente è importante dare una mano quando serve, ma è ancora più importante capire che tutte le persone sono in grado di fare i propri progetti in modo molto attivo, sia con le mani che con il pensiero. Questo ci dà un senso di indipendenza e di valore, nutrendo la nostra anima umana più di qualsiasi cibo fisico o spirituale.
Dopo questi pensieri profondi e teorici, è arrivato il momento della pratica quando ho iniziato a lavorare a Radio FinestrAperta. È stata un’esperienza che mi ha davvero cambiato. Non solo per le nuove nozioni apprese in ambito radiofonico, ma sopratutto per avere un “capoccia” così bravo: Manuèl non copriva solo il ruolo di caporedattore, ma anche quello di maestro di vita, che capisce bene quali sono le qualità di una persona e come sarebbe possibile svilupparle e portarle avanti.
Anche gli altri compagni e compagne di progetto mi hanno mostrato come possiamo essere sempre pronti ad aiutare gli altri ed essere precisi (Edoardo), critici e non superficiali (Barbara), senza peli sulla lingua e in grado di trovare il modo giusto di rilassarci (Laurie), come possiamo iniziare una conversazione con chiunque (Elisabeth) e, nonostante la giovinezza, come possiamo fare un lavoro di alto livello (Teresa). E ultimo, ma non meno importante, come si possono collegare le proprie passioni con la disciplina di un monaco, che ci permette di realizzare i sogni (Alfredo).
Pensando a tutti loro e a tutto quello che ho scritto, il coronavirus sarà una delle cose meno importanti che mi verranno in mente quando ricorderò “Un anno di Volontà“.
- Vito Poredoš
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svediroma · 4 years
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Il linguaggio come strumento di discriminazione – L’esempio del francese
Qualche tempo fa avevo condiviso il mio pensiero a proposito della rappresentazione delle minoranze, nell’arte e soprattutto nel cinema. Oggi vorrei rimanere su questo argomento e spiegare perché, secondo me, il linguaggio e le lingue possono essere, anche loro, veicolo di discriminazioni. Spero, in questo modo, di mostrare che le discriminazioni sono proteiformi e il risultato di un intreccio complesso di diverse dinamiche. Con “discriminazione” si intendono tutte le pratiche che mirano a tagliare fuori una persona o un gruppo di persone supponendo una gerarchia. L’esempio più ovvio mi sembra l’uso degli insulti come modo di far capire ad un’altra persona che sarebbe diversa da me/noi. Tramite le lingue, con l’espressione verbale possiamo creare delle discriminazioni.
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Se il linguaggio mi sembra un elemento importante è perché corrisponde ad uno strumento  che utilizziamo per costruire dei ponti tra di noi. Che sia scritto o orale, il linguaggio ha un’importanza, ci permette di fare parte di una società, di poter comunicare e, quindi, di essere inclus* in questo gruppo. Siamo degli esseri sociali e il linguaggio ci permette di rendere intelligibile i nostri pensieri. In altri termini, permette di tradurre quello che abbiamo dentro di noi (i nostri pensieri, le nostre credenze...) ad un pubblico esterno. Ad ogni modo la comunicazione non si limita esclusivamente al linguaggio, esiste anche la comunicazione non verbale, ed è su essa che vorrei fermarmi perché mi sembra che costituisca oggi il principale veicolo di comunicazione.
Il linguaggio ci permette, insomma, di fare parte di una comunità, di una cultura, di un paese... L’uno escludendo l’altro. In Italia questo è ancora più vero quando consideriamo gli accenti, i dialetti che permettono di dividere il paese in sotto-identità culturali. Questa ricchezza linguistica era una novità per me. Quando sono arrivata a Roma non mi aspettavo di trovare una pluralità d’italiano così importante. Eppure, mi sembra che gli usi della lingua istituzionale siano molto diversi, l’accento “puro” testimonia un’identità propria. Discutere sulle diverse lingue – che siano istituzionali o no – che compongono il nostro quotidiano, permette di capire le sfide di potere e di dominazione tra i diversi gruppi sociali
Piccola storia del francese come dimostrazione dell’impatto politico delle lingue
Oltre la dimensione culturale, il linguaggio è anche un elemento politico. Al di là del famoso detto “tutto è politico”, vorrei interessarmi al caso francese (che è quello che conosco di più) per spiegare quest’idea. In effetti, se guardiamo la costruzione del francese, è stato in primo luogo uno strumento per unificare diversi territori. Come l’Italia, la Francia era divisa in dialetti/patois che appartenevano a due famiglie distinte : le lingue d’Oc (al sud) e le lingue d’Oïl (al nord). A quest’epoca, il francese era solo il dialetto della regione di Reims (vicino a Parigi). È solo nel 1539 (ordinanza reale di Villiers-Cotterêts) che il francese diventa la lingua ufficiale degli affari pubblici. Ma la potenza politica del francese si stabilisce soprattutto nel 17° secolo con la nascita dell’Accademia Francese, che avrà come primo obiettivo quello di creare un dizionario. Soffermarsi su quest’Accademia è importante, secondo me,  perché essa ha permesso di costruire il francese come una lingua elitaria. La complessità della lingua è un elemento che è stato elaborato coscientemente per costruire delle gerarchie tra le persone/gruppi sociali. Originariamente sapere scrivere e parlare il francese istituzionale era riservato ad una élite borghese per differenziarsi dalle altre classi sociali. Ancora oggi essere capace di scrivere e di parlare un francese “corretto” permette di sottolineare una certa educazione. Un esempio molto calzante, secondo me, è la decurtazione di punti durante alcuni dei miei esami universitari se facevo troppi errori grammaticali. Quindi, ero valutata sia sulla sostanza della mia argomentazione che sulla forma.
In altri termini, mi sembra che il caso francese illustra a che punto la lingua è un artificio che ci permette di comunicare fra noi. Ma, dall’altro lato, è uno strumento politico perché ci permette di costruire un “noi” e un “loro”. Quell* che parlano la nostra lingua e quell* che non la parlano...
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La lingua istituzionale e... tutte le altre
Questo “noi” e “loro” non si è costruito solo attraverso le lingue ufficiali, ma anche all’interno delle lingue nazionali. Quest’analisi mi sembra anche molto pertinente vista la pluralità di linguaggio che è presente in Italia.
Se i termini “lingua” e “linguaggio” non sono sovrapponibili, secondo me, è perché comunque costituiscono loro stessi una forma di dominazione. Per me, la lingua corrisponde ad una codificazione verbale istituzionale. Dall’altro lato, il linguaggio risulta essere una forma meno importante, più rudimentale, svalorizzata, rispetto alla lingua. Parliamo volentieri di linguaggio degli animali, dei bebè e non di lingua. Questa differenziazione mi sembra che permette di costruire una gerarchia che, seppure tacita, è ben presente. Questa differenza tra “lingua” e “linguaggio” è solo un modo che  permette, alla fine, di gerarchizzare  i gruppi/individui/culture...
Gli esempi sono numerosi ma, per riprendere l’esempio francese, come tutte le lingue viventi, subisce delle mutazioni secondo gli scambi che hanno le persone. Ma queste mutazioni sono strettamente sorvegliate dall’Accademia Francese. Degli studi linguistici hanno mostrato che il francese attuale è una mescolanza del latino e del greco per la maggior parte. Però le parole provenienti dalle lingue germaniche o arabe sono state oggetto di un trattamento drastico conducendo a volte alla loro soppressione. Al di là della eliminazione di queste influenze “straniere”, è la storia di una comunità che è stata cancellata. Durante una conferenza TedX su questo tema, un professore di francese e un professore di filosofia hanno spiegato come questo rileva una volontà di rendere la lingua più elitaria e più “nobile”.  Così le lingue germaniche (considerate come barbare) e arabe (sinonimo di invasione ancora oggi) sono state diminuite a beneficio delle lingue morte ma “saggie”, scientifiche, che sono il latino e il greco. Come tutti gli strumenti, la lingua è costruita! Da questo punto di vista possiamo dire che può portare con sé delle gerarchie. Forse se fossimo stat* più abituat* alle sonorità germaniche, il tedesco ci sembrerebbe una lingua così più fluida e “cantante” rispetto all’italiano o allo spagnolo. Magari non avremmo lo stereotipo di una persona rigida, di una lingua che è gridata e non parlata. Perché, al di là della lingua, ci sono delle persone che sono stigmatizzate. Possiamo solo vedere i/le bambin* che imitano quello che credono essere il cinese (e per estensione tutta l’Asia) o il tedesco o l’italiano, incarnando direttamente delle posture e gestualità (occhi a mandorla forzati, gesti della mano, caricatura del saluto e di alcune espressioni naziste...). 
Parlando del francese, non posso concentrarmi solo sulla Francia. Legato alla colonizzazione del 18/19° secolo, alcuni paesi dell’Africa hanno il francese come lingua nazionale. Ma come per i “dipartimenti d’oltre-mare”, il Canada o il Belgio per esempio, il francese utilizzato è diverso da quello della Francia. Questa ricchezza linguistica che permette di utilizzare delle parole anglo-sassoni, germaniche, creole o arabe è purtroppo molto criticata. Un esempio è quello delle canzoni di Aya Nakamura. I suoi testi sono il risultato di una mescolanza tra lo spagnolo, il francese, l’inglese, il gergo del Mali, il verlan (caratterizzato dall’inversione di due sillabe di una parola) e delle culture della strada. Cioè, mi è quasi impossibile di capire il senso dei suoi testi senza una ricerca a priori. Però mi sembra molto interessante di vedere come, in seguito ad alcune sue canzoni, certe espressioni che utilizza si sono diffuse. Uno dei motivi che può spiegare il successo delle sue canzoni sarebbe legato al suo talento di paroliera, che permette di unire delle lingue e culture diverse e varie. Così ogni persona può interpretare e comprendere queste canzoni a suo modo, ciò permette di diffondere delle parole “non francesi” nel linguaggio corrente.
Una versione in “francese alto” di Djadja è stata scritta ed è stata molto ascoltata (l’autore è stato invitato a diverse emittenti della TV). Questo esempio mostra, secondo me, a che punto siamo refrattari al cambiamento, all’evoluzione della nostra lingua. Il francese “istituzionale”, in questo caso “alto”, sembra essere il punto di riferimento ancora una volta.
Su questo tema, vorrei fermarmi un attimo sul linguaggio “popolare” basandomi sulla mia esperienza. Ho vissuto in un alloggio popolare in un quartiere in piena ghettizzazione delle persone provenienti da migrazioni (di prima e seconda generazione). Mi ricordo anche le partite di calcio (unico posto di divertimento nel mio quartiere) dove il linguaggio che parlavamo era in continuo cambiamento. Le parole dei diversi paesi del Magreb, ma anche della Turchia o della Macedonia ecc. componevano il nostro quotidiano. Utilizzavo delle parole arabe senza nemmeno conoscerne il senso. Erano solo un modo per me di comunicare e di essere integrata nel gruppo sociale del mio quartiere. Però, più il mio percorso scolastico andava avanti più abbandonavo queste parole. Per mio fratello invece queste parole sono diventate ogni giorno più comuni. Velocemente ho capito che le parole che utilizzavo con le/i mie* amic* non erano accettabili in un ambito scolastico, né nell’ambito professionale. Quindi ho dovuto reimparare una nuova forma di linguaggio e fare la guerra al gergo o al linguaggio volgare quando era utilizzato accanto a me. Mio fratello ed io abbiamo avuto due evoluzioni su due strade diametralmente opposte da questo punto di vista. Ne consegue che abbiamo, a volte, molte difficoltà per comunicare. Dobbiamo fare uno sforzo per utilizzare delle parole che l’altr* potrebbe capire. Però, non posso negare che partecipo, anch’io, a questa forma di dominazione linguistica. Iniziando da quando voglio correggere i suoi errori di francese, quando gli chiedo di non utilizzare parole che IO considero come volgari, quando trovo un sinonimo in “francese corretto” alle parole del gergo che utilizza... Dal suo lato, mi sembra che ha interiorizzato il concetto che il suo linguaggio non è quello valorizzato. In effetti, per ogni lavoro di scrittura (lettera di motivazione, CV, mail importante...) mi chiede di aiutarlo a formulare  il suo pensiero ed a renderlo più “istituzionale”. Quindi per candidarsi ad un lavoro, ad una scuola o ad altro, il nostro livello di lingua è (pre)giudicato. Ma, al di là di questo punto, ci sono degli stereotipi che sono all’opera. La cultura urbana, alla quale mio fratello si rifa, non è in nessuna maniera quella valorizzata, piuttosto il contrario. In questa prospettiva, lo strumento che abbiamo creato ritraduce le forme di dominazione presenti nella nostra società. Non è solamente il linguaggio utilizzato che è giudicato ma il presupposto dell’appartenenza ad una categoria svalorizzata/discriminata come possono esserlo i Paesi stranieri, alcune regioni della Francia (e dell’Italia), una cultura “popolare”…
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“Sarei già in seconda superiore se i libri scolastici fossero scritti in gergo”
La lingua come strumento di manipolazione
Vorrei mostrare in che modo la lingua costituisce uno strumento politico di discriminazione e di gerarchizzazione sociale. In questo senso non siamo tutt* ugual* davanti alla lingua. Come ogni strumento, può essere utilizzato per fare delle belle cose o delle brutte cose, ma non può essere condannato per l'esistenza in sé, bensì é quello che facciamo dello strumento che è importante. Una volta fatta questa premessa, mi piacerebbe affrontare il tema della manipolazione e soprattutto dell’auto-difesa intellettuale.
Se la codificazione verbale può essere utilizzata per rendere un’informazione più semplice, grazie alla pedagogia o alla volgarizzazione può anche essere usata per rendere invisibili/modificare alcune realtà. Per spiegare questo argomento vorrei prendere l’esempio della parola “femminicidio”, che entrerà nel dizionario francese a settembre. Se questo riconoscimento istituzionale è così importante per i/le militanti (dei/lle qual* faccio parte) è perché permette di non occultare più una realtà. Parlando di “femminicidio” non parliamo “solo” di un “omicidio”, l’aggiunta della dimensione di genere è importante. Così, senza la presenza di questa parola che descrive una realtà, mi sembra importante chiedersi quale spazio questa realtà ha nella nostra società. In altri termini, se gli atti di omicidio sulle donne giustamente per un motivo di misoginia non hanno un nome, questo significa che la nostra società non riconosce questa realtà.
Sempre nell’ambito del femminismo possiamo anche parlare della femminilizzazione di alcuni nomi di mestieri o di attività. Su questo aspetto mi sembra che il francese e l’italiano sono – purtroppo – simili. Se questo esempio mi sembra interessante è perché sono, in maggioranza, dei mestieri considerati “alti” nel nostro mondo che non hanno una femminilizzazione. Nel caso francese alcuni esempi potrebbero essere: pittrice, autrice, filosofa, ministro, capa, autista... Se questa “invisibilizzazione” è così importante, è perché l’Accademia Francese ha scelto deliberamente di cancellare queste parole che erano utilizzate comunemente nella società. Questo atto politico aveva lo scopo di impedire alle donne di occupare un posto parecchio importante nella società. Senza la parola le donne non potevano essere “autrice” né “ministro”... Se le femministe – tra l’altro – si mobilitano per un linguaggio più inclusivo è giustamente per fare riconoscere le diverse realtà. Dire “una persona muore ogni 2 giorni per violenze domestiche” non è la stessa cosa di parlare delle “vittime di violenze domestiche” o di “donne vittime di violenze domestiche”. Neanche dire: “i capi d’impresa del CAC 40 hanno deciso di...” o “i/le cap* del CAC 40 hanno deciso di...”, “le infermiere sono in prima linea contro il coronavirus”o ”gli infermieri sono in prima linea contro il coronavirus”. Dietro ogni esempio c’è una scelta politica, la realtà descritta non è la stessa.
Se voglio prendere degli esempi italiani, mi sembra che i termini “casalingo” o “eroina” sono interessanti. Per il primo, mettere questa parola al maschile permette di screditare la persona che sarebbe considerata come un “casalingo”, cioè che si prenderebbe troppo cura della casa. Dietro la “maschilizzazione” di questa parola c’è una forma di abbassamento. E infatti, in Francia, molte persone non vogliono una femminilizzazione dei nomi delle professioni per paura che perdano il loro valore. Per quanto riguarda la parola “eroina”, che sarebbe il femminile di “eroe”, alcune persone criticano l’uso del suffisso “ina” in quanto fa riferimento ad un deprezzamento: una cartolina, una ragazzina... Ogni volta l’uso del “ina” fa pensare a qualcosa di piccolo, carino... tutto il contrario di quello che “una eroe” (scrittura a volte scelta) dovrebbe rappresentare.
Questi esempi mostrano secondo me il motivo per il quale mi sembra importante, ancora una volta, di moltiplicare i punti di vista. In effetti, il linguaggio dei diversi gruppi o comunità è importante perché permette di colmare le lacune della lingua ufficiale. Privarsi di questa ricchezza gerarchizzando e discriminando è solo il velo che mettiamo davanti alla realtà. La realtà è proteiforme, è normale che lo sia anche la lingua.
Però la lingua, al di là della codificazione verbale, può anche essere un’arte. Possiamo pensare alla poesia, al teatro o a tutte le altre forme che la utilizzano. Ma può anche essere usata a fini di manipolazione, di demagogia. Sapere utilizzare bene la lingua, sublimarla, può essere un elemento di dominazione sociale. Si può vedere questo, ad esempio attraverso i discorsi politici. La forma sembra anche vincere sul contenuto. La lingua non è più, in questo caso, un semplice strumento di traduzione del pensiero (quindi dall’interno all’esterno), ma uno strumento al servizio della demagogia.
In politica e nei media, più che altrove, le parole hanno la loro importanza. Le parole non sono una codificazione neutra, è quello che ci insegnano i pregiudizi sui linguaggi. Quindi è necessario essere consapevoli delle rappresentazioni che sono presenti e trasmesse attraverso le parole usate per potersi difendere contro le forme di manipolazione.
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Diversi fatti concreti possono lasciare credere che siamo in presenza di una forma di manipolazione. Ecco alcuni esempi che permettono di individuare le forme di manipolazione verbale:
 La generalizzazione che non lascia lo spazio a un’altra alternativa : “tutti gli italiani pensano che...”
Utilizzare dei riferimenti poco conosciuti che fanno credere ad una scientificità degli elementi: “questa situazione mi fa pensare alla disastrosa confederazione di Senegambia”
Mescolare gli effetti di causa e di effetto: “ho bevuto un po’ di thè e il mio raffredore è sparito”
Chiedere una cosa utilizzando la forma negativa o alcuni effetti di stile che fanno credere che sia stata detta una premessa: “Lei ha smesso di picchiare sua moglie?”, “il pianeta è davvero così malato?”, “i jihadisti sono così pazzi?”
Il falso dilemma: “quelli che sono con Bush sono contro di noi...”
Utilizzare le emozioni: la pietà, l’amore, la paura, emozioni legate ad una causa sposata, la popolarità...
Vorrei fare solo un esempio per spiegare l’importanza delle parole utilizzate e soprattutto della loro carica simbolica. È quello che hanno fatto Baptiste Beaulieu[1] et Clément Viktorovitch[2] a proposito dell’allocuzione presidenziale del 17 marzo 2020 nella quale Emmanuel Macron annuncia “siamo in guerra”. Questa dichiarazione é stata oggetto di un’analisi da parte dei due cronisti. Per Clément Viktorovitch si tratta di una esagerazione per permettere di fare prendere coscienza dell’emergenza della situazione alla popolazione francese. In altri termini, “il fine giustifica i mezzi”: il riferimento era alla quarantena e alla volontà di ridurre i rischi. Però Baptiste Beaulieu aggiunge un’altra analisi su questo elemento. Come per Clément Viktorovitch, sottolinea la dialettica guerriera che fa riferimento alle mobilitazioni generali che aveva conosciuto il paese per affrontare lo sforzo di guerra. Così le aziende hanno riorientato le loro produzioni per creare delle mascherine, dei camici, del gel idroalcolico... Peraltro, per Baptiste Beaulieu, l’utilizzo del campo lessicale di guerra tende a rendere eroico il personale sanitario che fa lo sciopero da più di un anno per la salvaguardia dell’ospedale pubblico (il 14 gennaio 2020, 1.000 cape/i di servizio si dimettono per evidenziare la situazione degli ospedali). Alla fine, riassume il suo pensiero “un eroe non chiede più personale, non chiede aiuto e non chiede neanche dei soldi”. Con l’uso del campo lessicale della guerra, è una vera depoliticizzazione totale di tutte le rivendicazioni del personale sanitario. Inoltre, questa metafora e questo effetto di esagerazione permettono di evitare di fare troppe domande sulle politiche che sono state fatte prima della crisi sanitaria. Cancelliamo il passato per concentrarci sulla crisi attuale che corrisponderebbe alla vera urgenza. Infine, come lo dice Baptiste Beaulieu “in tempo di guerra ci danno degli ordini, in tempo di crisi ci danno dei mezzi. Ma non abbiamo i mezzi”. Però, “il tempo di guerra” permette di mobilitare la gente per uno “sforzo comune”. La restrizione delle nostre libertà è anche più accettabile perché si basa su un elemento di paura, esso costruito a partire dalle rappresentazioni che abbiamo dietro il termine “guerra”.
Il libro di George Orwell, 1984, parla di quello che si chiama la “neolingua”. Questa nuova forma di linguaggio si caratterizza per un impoverimento del vocabolario e quindi una semplicazione della realtà che si può esprimere. La seconda dinamica corrisponde ad una creazione di parole che hanno un significato molto ampio “il pensiero criminale” o “il vecchio pensiero”. Per il filosofo Jean-Jacques Rosat “lo scopo è di togliere un pensiero della testa”. Nella sua analisi dell’opera di Georges Orwell, fa un paragone interessante con i/le politic*: “in politica vediamo molto bene come si applica, sono delle frasi già pronte. Un* giornalista vi fa una domanda e rispondete con degli elementi di linguaggio già pronti che costuiscono un atto di comunicazione ma certamente non un atto di pensiero, di riflessione. Il gergo, le frasi già pronte, le metafore. Tutto questo vocabolario impedisce di pensare, è un vocabolario automatico”[3]. Una prova di più che la lingua può essere uno strumento di dominazione e di manipolazione.
Se posso aprire qualche pista di riflessione, vorrei semplicemente elencare i movimenti #NotAllMen, #AllLivesMatter, gli insulti o ancora i discorsi – per esempio – politici che sono sempre un florilegio d’effetti di stile e di retorica della quale dobbiamo/dovremmo essere consapevol*.
- Barbara Sanieres
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[1] https://www.brut.media/fr/news/heroisation-des-soignants-le-coup-de-gueule-de-baptiste-beaulieu-4a96201c-382c-4c85-9a6a-77e46c19f169
[2] https://www.youtube.com/watch?v=bVH1cCr5Qik
[3] https://www.franceculture.fr/litterature/la-novlangue-de-george-orwell-un-instrument-de-domination
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svediroma · 4 years
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Il Primo Maggio in un Paese postsocialista
Il primo maggio in Slovenia è un giorno festivo speciale. Questo si vede già dal fatto che le celebrazioni durano non soltanto un giorno, come negli altri Paesi del mondo in cui la Festa dei lavoratori significa un passo in avanti per il popolo lavoratore, ma un giorno in più. Quindi, due giorni di meritato riposo che in questi tempi di flessibilità del mercato del lavoro e di tanta precarietà non sono pochi. Ma per comprendere meglio la situazione slovena in cui la gente in ogni caso lavora troppo e in cui tantissimi miti sono basati sullo sloveno diligente che dopo lungo lavoro va ancora al campo per qualche ora, dobbiamo fare un passo indietro.
Ritorniamo al giorno 27 aprile 1941, quando dopo l’occupazione dell’ex Jugoslavia da parte dei bravi ragazzi dell’ovest, dai nazisti del nord e dagli Unni dell’est viene segretamente fondato Il Fronte di Liberazione del Popolo Sloveno. Il tempo passa lentamente e la guerra sta diventando di giorno in giorno più terribile. Pian piano i comunisti diventano la forza più principale nei combattimenti contro gli occupatori e per dire la verità anche nella lotta al potere postbellico. La guerra è finita, il regime è cambiato ed insieme con lui anche l’ideologia ufficiale che non vuole credere più alla salvezza della croce, ma invece alla liberazione della stella rossa. Quella stella non diventa solo il simbolo del nuovo stato in cui i proletari ed il loro lavoro hanno “čast in oblast” (in italiano “onore e potere”), ma diventa anche il simbolo per la lotta agli occupatori che hanno voluto prendere questo potere e costringere gli sloveni a parlare le loro lingue straniere.
Comunque, il 27 aprile diventa così un giorno importantissimo nella storia slovena ed insieme con i giorni successivi fino al 2 maggio forma un periodo solenne. Le abitudini sono rimaste così anche dopo il crollo del comunismo e l’indipendenza slovena nel 1991. I bambini sono in vacanza e i loro genitori prendono spesso qualche giorno di ferie. Mentre alcuni si occupano dell’acquisto di birra e di carne per le grigliate, gli altri preparano tutto per il grande finale in forma di una festa del falò. 
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Nell’ultimo giorno di aprile c’è una serata indimenticabile in cui intorno al fuoco i vecchi ascoltano la musica popolare ed i giovani ascoltano il rock, ma tutti mangiano čevpačiči o salsicce e bevono birra. Forse alcuni anni fa era ancora una questione di onore oppure di appartenenza se la birra in mano era della Laško oppure dell’Union, ma dopo l’affermarsi della nuova ideologia del mercato europeo comune e dopo l’ascesa della birra artigianale, l’unica cosa che conta è bere qualcosa d’alcolico. Ma non tutti si abbandonano a questa festa godereccia. Infatti, ci sono tantissimi che pensano alla propria salute e perciò fanno sport già il giorno dopo. Vanno in gita in montagna oppure in bicicletta. Ci sono anche quelli che mancano già dall’inizio perché sono andati al mare in Slovenia oppure in Croazia dove hanno la seconda casa, perdendosi così l’occasione di essere coinvolti nei festeggiamenti proletari. Peccato.
Comunque, quelli senza la seconda casa, dopo essere sopravvissuti alla notte in allegria, vengono svegliati da tantissime bande di fiati alle 7 di mattina. Anch’io partecipavo a questi eventi con il mio trombone. L’idea era sempre di svegliare più persone possibili con i ritmi di valzer e polke oppure con le melodie delle marce partigiane.
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Il primo maggio è stato sempre un giorno importantissimo nella mia città natale Zagorje per la presenza di tantissime fabbriche e della miniera di carbone. I lavoratori e le loro famiglie andavano mezzi addormentati su una montagna vicino a Zagorje dove aveva luogo una grande manifestazione in cui si ascoltavano le parole e gli slogan dei vecchi tempi. Quando i politici finivano di dire tutto ciò che si deve obbligatoriamente dire in questo giorno e quando la banda dopo numerose canzoni finalmente poteva utilizzare il buono pasto, la gente si poteva rilassare. Andavano a prendere un’altra porzione di čevapčiči, mentre il ragazzo con la fisarmonica si avvicinava al palco.
- Vito  Poredoš
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svediroma · 4 years
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Ghosteen: l'ultimo album di un artista australiano
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L'emergenza sanitaria ha gravemente colpito non soltanto il settore economico, ma anche il mondo dell'arte, ambito in cui tantissimi eventi sono stati rimandati al futuro. Così anche il concerto di un famosissimo artista australiano che si sarebbe dovuto esibire quest'estate, l'11 giugno all'Auditorium Parco della Musica, ma a causa del coronavirus il suo concerto è stato spostato al 31 maggio del prossimo anno. L'artista si chiama Nick Cave ed è considerato uno dei più importanti performer della musica contemporanea. Nella sua lunga carriera iniziata nel 1979 ha registrato con diversi gruppi 24 album in studio. L’ultimo che è uscito lo scorso anno si chiama Ghosteen e conclude la trilogia musicale iniziata nel 2013 con Push the Sky Away e Skeleton Tree, pubblicato nel 2016. Nick Cave e il suo gruppo The Bad Seeds ci portano anche questa volta tra suoni elettronici e corali avvolti in rock alternativo e accompagnati dalla voce di Cave che con la sua profondità crea un’atmosfera biblica.
Se nel 2013 cantava e ci parlava ancora di argomenti come ad esempio l’importanza e la dipendenza da internet ai tempi di Wikipedia, delle instant news e del Bosone di Higgs, i temi sono drammaticamente cambiati dopo la morte di suo figlio Arthur nel 2015. Mentre i suoni e le parole del penultimo album Skeleton Tree sono diventati molto tristi e ci hanno resi partecipi della disperazione dell'artista, Ghosteen ricerca piano piano la consolazione e la speranza. I suoni sono più chiari e le parole sono sollevate dal peso della sofferenza.
Cave già da giovane era vicino al lato più buio della vita e ha vissuto come adolescente la morte di suo padre in un incidente stradale. E' stata una gravissima esperienza che ha segnato la sua vita in un momento, secondo le sue parole, in cui era molto confuso e disorientato. Dopo aver  lasciato la scuola e aver fondato la sua prima band, sono venuti i primi successi in Australia che l'hanno successivamente portato in Inghilterra. Fortemente influenzate dal genere punk, le sue esibizioni musicali diventano note per la loro animalità sul palco e l’abuso di alcool e di droga. Dopo lo spostamento a Berlino Ovest e la formazione del gruppo The Bad Seeds, nel 1984 viene pubblicato il primo album di questa band con il titolo From Her to Eternity. Negli ultimi anni di questo decennio la band ha iniziato un periodo di disintossicazione dalla droga. Ispirato sempre dalle storie buie e dai temi biblici che sono entrati a far parte delle sue opere, Nick Cave ha avuto tantissimo successo sia come membro della band The Bad Seeds sia come cantautore e autore di musica da film.
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Ma ritorniamo al suo ultimo album dal titolo Ghosteen che significa spirito migrante. Cave canta e ci confessa il suo dolore in un modo molto intimo e sincero. L'opera è concepita come doppio album. Le canzoni nella prima parte rappresentano i bambini, quelle nella seconda parte i genitori. Come ho già sottolineato prima, Ghosteen dopo un periodo di grandissimo dolore cerca la consolazione e la speranza con un riferimento biblico in ognuna delle numerose metafore. La musica origina dall’ambient più puro, con i suoni di tastiere e sintetizzatori che fluiscono da una canzone all'altra, creando così una opera unica senza confini chiari. La presenza di altri strumenti è minima e accompagnata da numerose sezioni corali, che ci donano un senso molto spirituale.
Bisogna prendersi del tempo per ascoltare e riascoltare la musica di Nick Cave e del suo gruppo The Bad Seeds. Vale veramente la pena di scoprire le parole e i suoni di uno dei più originali artisti dalla musica contemporanea. Forse già l'anno prossimo a Roma.
- Vito Poredoš 
Qui una perla tratta dal suo ultimo lavoro discografico https://www.youtube.com/watch?v=WguHrM0y_cU
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svediroma · 4 years
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Per un’altra educazione
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Oggi vorrei parlare di una cosa molto importante secondo me. Da poco tempo penso che, se vogliamo migliorare il mondo, la cosa che avrebbe l'impatto più grande sarebbe cambiare la visione generale che abbiamo dell'educazione e dei bambini. Anche in rapporto con l'ambiente, per esempio ci chiediamo sempre quale pianeta lasceremo ai bambini... ma dovremmo anche chiederci quali bambini lasceremo al pianeta. E come potremmo aspettarci di vivere in un mondo di pace, senza violenza, nel rispetto di ognuno, continuando a non rispettare i bambini? Vogliamo vivere in democrazia? Allora pensiamoci la prossima volta che ordiniamo a un bambino di tacere «altrimenti ti metto all'angolo / ti tiro una sberla».
Vorrei prima di tutto presentare la parola «ageismo», cioè la discriminazione in rapporto all’età di una persona. Qualcosa che mi stupisce è che su Internet, quando cerco «ageismo», molti articoli lo presentano come discriminazione verso i più anziani, negando completamente il fatto che anche i più giovani ne sono molto vittime. E da «più giovane» voglio anche parlare dell'adolescenza, che per esempio in Francia viene spesso chiamata «età stupida». Come sentirsi bene con sé stesso e nel rapporto con gli altri sentendo questo pregiudizio?
Parliamo di «violenze educative ordinarie» per parlare, come l'ha descritto lo scrittore Olivier Maurel (che ha anche creato l'Osservatorio delle Violenze Educative Ordinarie), della parte immersa dell'iceberg della violenza fatta ai bambini: «La parte emersa è quella che è ovvia, riconosciuta, denunciata alla giustizia. Ma questa parte di abuso minorile è piccolissima in rapporto con quella immersa. Il resto è la violenza educativa ordinaria che è completamente tollerata, anzi consigliata. La maggior parte della popolazione mondiale è stata vittima di una follia educativa senza rendersi conto che si trattava di traumi gravi. Le vittime di questo tipo di violenza non possono contare sull'empatia della società, perché tutta la società nega la loro sofferenza, come nega la sua. Questo trauma non ha tribunali, né testimoni lucidi, né compassione, quindi neanche resilienza. Quello che succede di solito è la ripetizione generazionale.» E anche se vogliamo lottare contro le violenze più «significative», dobbiamo lavorare alla loro base, cambiando il nostro rapporto con i bambini, la nostra visione di loro e dell'educazione.
I bambini vengono in maggior parte considerati come proprietà della loro famiglia. In Francia, la loro situazione viene considerata come qualcosa di privato, che riguarda solo la famiglia. Invece in Svezia, che è stato il primo paese d'Europa ad impedire le violenze fisiche contro i bambini, l'educazione o il benessere dei bambini riguarda tutta la società, visto che un bambino non rispettato rischia di diventare un cittadino che non saprà ad esempio gestire i conflitti, rispettare sé stesso e/o gli altri.
Adesso, alcuni esempi di idee comuni riguardanti l'educazione:
1) «Rispetta gli adulti». È qualcosa che mi fa arrabbiare e che penso essere un'idea pericolosa. Personalmente, non voglio insegnare al mio bambino a rispettare «gli adulti». Non gli insegna a farsi rispettare, e se lui/lei si trova di fronte ad un adulto che ha cattive intenzioni, c'è un grande rischio che lui/lei non riesca a proteggersi, perché non avrà imparato che anche lui/lei ha il diritto di essere rispettato.
Secondo me non dovremmo rispettare gli adulti perché sono più vecchi, ma perché sono esseri sensibili. E, allo stesso modo, i bambini dovrebbero essere rispettati perché sono prima di tutto esseri sensibili.
Voglio che il mio bambino sia capace di dire quando qualcosa non gli piace o gli fa male. Voglio che sia capace di rimettere in discussione piuttosto che negare sé stesso per essere accettato / non rimproverato.
 2) Fare pressione in modo che un bambino accetti, senza volerlo veramente, di baciare o abbracciare qualcuno... o come andare contro l'idea di consenso. Insegnare che lo spazio vitale di una persona può essere penetrato da tutti. Insegnare che il benessere degli altri sia più importante che il proprio. Imparare a negare sé stesso per non ferire gli altri. Vi lascio immaginare il pericolo di questi messaggi, a breve e lungo termine. Tutto è legato. Insegnare a qualcuno che il suo spazio vitale non è importante, è insegnargli che non lo è neanche quello degli altri. E se, per trasmettere l'idea del rispetto del corpo di ognuno, cominciassimo a far capire ai bambini che il loro consenso per qualsiasi cosa (che sia un abbraccio, un bacio, etc.) sia essenziale.
3) Paragoni tra adulti e bambini: immaginiamo qualche situazione...
Un adulto invitato al tavolo rovescia inavvertitamente un bicchiere. È immediatamente scusato, la gente gli dice che non importa. Un bambino rovescia un bicchiere d’acqua perché non ha ancora una coordinazione psicomotoria matura, riceve una pacca ed è rimproverato.
Un adulto torna dal lavoro, offeso dalle osservazioni disprezzanti del suo capo. Può contare sul sostegno del suo compagno. Un bambino torna dalla scuola, offeso dalle osservazioni disprezzanti del suo maestro. La gente gli dice che ha probabilmente fatto qualche stupidaggine e che ha probabilmente meritato di essere rimproverato.
Un adulto dorme male da qualche tempo. Passa le sue giornate a brontolare. La sua famiglia lo capisce essendo tollerante con il suo umore. Un bambino di due anni dorme male da qualche tempo. La gente gli dice di non brontolare e gli spiega che è colpa sua, che avrebbe dovuto fare il suo sonnellino.
Un adulto è abbordato da uno sconosciuto che gli chiede di prestargli il suo telefonino per chiamare suo fratello. La persona rifiuta. La gente, poi, dice che ha fatto bene e che bisogna essere prudente. Un bambino rifiuta di prestare il suo gioco al nuovo vicino della sua età. La gente gli dice che è egoista, o lo obbliga a prestare il proprio gioco.
Un giovane adulto è invitato a mangiare dalla famiglia del suo compagno. Dopo avere finito la metà del suo piatto, dice gentilmente che non ha più fame. La famiglia mette il resto nel frigorifero e si diverte del suo poco appetito. Un giovane di 6 mesi non finisce il suo vasetto di purè. Il babysitter usa tutti gli stratagemmi per forzarlo a mangiare tutto «per il suo benessere».
Finisco questo articolo così, invitando tutti noi a non dimenticare la nostra infanzia, le nostre emozioni di allora, tutte le ingiustizie che abbiamo sentito. Prendiamo sul serio i bambini, le loro opinioni, le loro emozioni, come le nostre di quando eravamo anche noi bambini.
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svediroma · 4 years
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RIFLESSIONI SULLA SOLIDARIETÀ: DUE PUNTI DI VISTA
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L’Europa che ci piace: l’UE funziona solo se è solidale. Parola di volontario europeo
Vito Poredoš
La “solidarietà” è una parola che sentiamo spesso di questi tempi. è una delle prime reazioni dopo che qualcosa di terribile accade. Pensiamo ad un disastro naturale oppure ad una catastrofe come la distruzione di un paese. In ogni caso, le persone che soffrono diventano incredibilmente dipendenti dall’aiuto degli altri. In questi giorni, quando sentiamo le notizie su ciò che sta succedendo a causa della crisi, fino a poco fa impensabili nel mondo, abbiamo l’occasione di vedere il meglio, ma anche il peggio dell’uomo: lo stoccaggio di beni essenziali, i furti di attrezzatura sanitaria, l’egoismo… Al di là della tristezza per questi episodi, si riesce a comprendere tali comportamenti perché in caso di pericolo il nostro corpo attiva istinti naturali del tipo “si salvi chi può”. Ma quando questi modelli di comportamento si spostano a livello nazionale o internazionale e quando gli Stati si comportano nella stessa maniera, c’è davvero ragione di preoccuparsi. I primi stati membri dell’odierna Unione Europea volevano assicurare la pace nel Vecchio Continente e dopo due terribili guerre crearono un’unione che si fonda sul mercato unico, sulla comprensione e sulla vicinanza tra culture diverse. Dobbiamo tenere presente che la creazione di questa formazione politica, con le sue istituzioni e le sue regole, è stata un lungo processo, cominciato negli anni Quaranta e basato sempre sul consenso totale. Quindi ogni trattato che viene implementato deve avere il sostegno di tutti gli Stati membri. E dobbiamo ricordarci che viviamo in democrazia, dove ogni voce – per fortuna o purtroppo – conta. Il Trattato di Lisbona del 2007 ha instaurato la solidarietà come uno dei principi fondamentali che regolano i rapporti nell’Unione. Una sua clausola dispone che gli Stati membri agiscano insieme, “in uno spirito di solidarietà”, quando uno Stato membro in difficoltà chiede assistenza. In particolare, l’UE utilizza tutti i mezzi di cui dispone per prestare assistenza allo Stato che l’ha richiesta. Le modalità di attuazione della clausola di solidarietà sono decise dal Consiglio dell’Unione Europea a maggioranza. Ma la solidarietà, non va data per scontata. La si deve anche imparare già da piccoli, insieme all’empatia e alla comprensione degli altri. Una delle cose che ci porta fuori dal nostro paese e dall’orizzonte limitato è la conoscenza delle lingue e delle culture straniere. Dobbiamo ammettere che l’UE ha fatto grandi passi in questa direzione, ad esempio con il progetto Erasmus oppure con i servizi volontari. Uno dei progetti che ha avuto un grande effetto sulla vita sociale è stato il Servizio Volontario Europeo, fondato nel 1998, nel frattempo sostituito da un altro progetto, il Corpo europeo di solidarietà. Gli scopi di tale programma sono sviluppare la solidarietà, promuovere la tolleranza, rafforzare la coesione sociale all’interno dell’Unione, migliorare la comprensione e migliorare le competenze dei giovani in modo che possano accedere più facilmente al mercato del lavoro. In vent’anni circa, 20mila volontari e volontarie tra i diciassette e i trent’anni d’età hanno partecipato a questo progetto e hanno avuto la possibilità di viaggiare, vivere in un altro paese, ricevere un piccolo contributo ed essere assicurati in caso di malattia. Ma soprattutto hanno avuto la possibilità di fare conoscenze e di lavorare in un nuovo ambito. Dopo il termine del progetto, il bilancio ha mostrato che gli effetti più importanti per i giovani di tutta Europa sono il perfezionamento della conoscenza delle lingue straniere, il miglioramento della competenza interculturale, la consapevolezza che i volontari hanno arricchito le comunità locali e che il volontariato ha aumentato la consapevolezza dei valori europei. Ingredienti fondamentali per creare una vera solidarietà europea, che non rimane sulla carta per poi essere dimenticata quando emerge una crisi. Il progetto che porta avanti il servizio volontario oggi si chiama Corpo Europeo di Solidarietà e dispone di un budget di 375,6 milioni euro per il periodo 2018-2020. Dal 2016 fino a oggi più di 30mila giovani volontari hanno intrapreso il proprio servizio. I paesi che in questi anni hanno accettato più volontari e sono stati più attivi in quest’ambito sono Italia, Spagna, Romania e Polonia. Cosa fanno questi giovani in giro per l’Europa? Lavorano ad esempio nell’Italia centrale, dove aiutano a ricostruire i paesi colpiti dal terremoto; in Grecia danno aiuto e lezioni ai migranti fuggiti dalla guerra; in altri paesi assistono persone disabili e svolgono aattività che sostengono le comunità locali. Per i prossimi anni la Commissione Europea vorrebbe destinare ancora più soldi a questo progetto, complessivamente 1,26 miliardi di euro per dare la possibilità a 350mila giovani di tutta Europa di partecipare a questo progetto comune. Non è tutto oro quel che luccica, soprattutto stando al numero dei giovani che si sono registrati, ma che non sono stati necessariamente accettati nel Corpo Europeo di Solidarietà. La maggior parte delle registrazioni, dal 2016 in poi, proviene da paesi come la Turchia, la Spagna e l’Italia. Se pensiamo agli eventi accaduti in Turchia nel 2016, quando tantissime persone sono state arrestate e accusate di partecipare a un presunto colpo di stato contro il regime di Erdogan, e al peggioramento della situazione politica ed economica da allora in poi, dobbiamo prendere in considerazione che i motivi per cui si partecipa a progetti di volontariato deriva forse anche dalla possibilità di allontanarsi da situazioni difficili nel paese di origine. Frequenti anche le registrazioni provenienti da paesi europei meridionali e orientali, nei quali i giovani non trovano facilmente lavoro. Al di là delle speculazioni, la solidarietà in ogni caso è una cosa reciproca e viene in aiuto quando le istituzioni non possono oppure non vogliono fare niente per chi ha bisogno di aiuto o chi ha buone idee per migliorare il mondo. Perciò, nonostante le politiche sbagliate di alcuni paesi in questo momento, la traccia segnata con i progetti come quello del Corpo Europeo di Solidarietà rimane giusta e ci porta verso l’Europa in cui vogliamo vivere.
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Ma cosa è davvero la solidarietà? Una volontaria europea cerca di definire l’atto dell’aiuto
Barbara Sanieres
Le riflessioni del mio collega di volontariato Vito riflettono una visione ottimistica sul tema della solidarietà. Quello che scriverò io, invece, potrebbe suonare più critico e cinico. Vorrei iniziare parlando del termine “solidarietà”. Quando mi sono resa conto di non essere in grado di definirlo, ho cercato la sua definizione sul dizionario: “Rapporto di fratellanza e di reciproco sostegno che collega le singole componenti di una collettività nel sentimento, appunto, di questa loro appartenenza a una società medesima e nella coscienza dei comuni interessi e delle comuni finalità” (Treccani). Le parti di questa definizione che hanno innescato in me una riflessione sono “il sentimento di appartenenza” e la “coscienza dei comuni interessi”. Mi sembra di capire che la solidarietà non sia un concetto universale, ma relativo, a seconda della persona. Infatti, ognuno e ognuna definisce la propria appartenenza ad una categoria in maniera diversa: sono umana, francese, italiana, europea, volontaria, giovane, laureata…? Secondo me, definire un’appartenza vuol dire escluderne altre. Infatti, per esistere, ogni persona ha bisogno di sapere a quale gruppo appartiene, ma soprattutto a quale gruppo non appartiene. Cioè, per definire la nostra identità abbiamo bisogno di un “Altro” o “Altra”, che ci permetta di rivelarci: sono francese perché non sono inglese, sono giovane perché non sono vecchia… L’uno deve escludere l’altro. Ovviamente le nostre identità sono complesse e composte da diverse categorie, ma ogni categoria ha il suo contrario. Questa premessa mi sembrava importante perché “solidarietà” è un termine che utilizziamo molto, senza veramente sapere cosa significhi. Secondo me, fa parte delle cosidette “parole ombrello”, cioè delle parole conosciute da tutti, ma che abbiamo difficolta a definire. Questo provoca un problema, ossia che la parola diventa facilmente utilizzata in retorica perché nessuno sa definirla molto bene e quindi la sua sostanza resta sfumata. Dopo essermi soffermata sulla forma, vorrei affrontare il cuore dell’argomento. Vito ha menzionato il legame tra crisi e solidarietà e questo mi sembra essere un potente rivelatore, che pone l’accento sulla mia difficoltà con tale parola. L’esistenza stessa della parola “solidarietà” significa, per me, che non si tratta di un atto “naturale”, quotidiano, bensì di un’azione che prevede uno sforzo. Mi sembra più o meno di ritrovare la stessa dialettica dell’aiutare: una persona che prende la sua energia, il suo tempo, la sua voglia eccetera per dare una mano ad un’altra persona. Dal punto di vista grammaticale, tra le due parti coinvolte nel rapporto della solidarietà o dell’aiuto, l’accento è sulla persona che compie l’azione, che è solidale: “Sam ha aiutato…” nella forma diretta; “Sam è stato aiutato da…” nella forma passiva. Non esiste neanche una parola per rappresentare la persona che riceve solidarietà. Da questa relazione deriva una forma di gerarchia. Le due parti non sono uguali perché tra le due nasce un “dovere” sociale di gratitudine della persona aiutata nei confronti della persona che aiuta. Ma anche una forma di decisione: chi aiuta lo fa attraverso i suoi occhiali, attraverso quello che trova giusto. Tanto per fare un esempio, è meglio dare una moneta o comprare cibo ad una persona senzatetto? In altre parole, se diamo un valore ai comportamenti di solidarietà mettendoli in luce, significa che si tratta di cose fatte “in più”, e che quindi le persone fanno uno “sforzo” – che non intendo in senso negativo -. Perché non è semplicimente naturale fare tutte queste cose? Perché non diamo una moneta ad una persona senzatetto che incontriamo? Perché non compriamo produzioni locali, invece di arrichire le grandi multinazionali? Perché non doniamo un po’ del nostro tempo ad un’associazione ? Perché rifiutiamo di accogliere persone bisognose? Io ritengo che tutte queste azioni rappresentino forme di solidarietà. C’è una sorta di tacita gerarchia tra i diversi modi di essere solidale. Prendiamo l’esempio del coronavirus: decidere di fare la spesa per le persone anziane o con disabilità, prestare le camere del proprio albergo per le infermiere e gli infermieri che devono lavorare lontano da casa… Sono tutte cose dovute e di forte impatto sociale. Ma chi è solidale verso i lavoratori e le lavoratrici in nero, che non hanno più niente per vivere ? Chi è solidale verso i prigionieri che vivono nella paura della contaminazione perché non riescono a rispettare la distanza di sicurezza di un metro? Sono solo alcuni esempi che, secondo me, mostrano che la solidarietà non è solo un bel valore ma che nasconde anche delle dinamiche sociali. Semplicimente perché non abbiamo abbastanza soldi, energia, voglia per essere solidali verso tutte le cause, dobbiamo scegliere. Ma mi sembra che questa scelta si appoggi su una costruzione sociale già disuguale. Alla fine credo che, se il senso di solidarietà non è così “naturale” per le persone, è semplicimente perché non viviamo in un mondo in cui questa è uno dei valori principali. Anzi, il capitalismo, il liberismo ci insegnano ad essere persone individualiste. Tutta la nostra vita è una lotta perpetua per essere migliori degli altri, avere uno stipendo più alto, una casa più grande, un lavoro con più vantaggi, dei bambini di cui andare orgogliosi… Come potremmo essere in grado di passare dall’individualismo nel quale nuotiamo ogni secondo della nostra vita, ad una forma di solidarietà disinteressata, altruista e giusta? Per me la risposta è semplice: non si può fare. La solidarietà ci permette di valorizzare una parte della nostra personalità, del nostro impegno a livello sociale. Per questo, non tutti gli atti di solidarietà hanno lo stesso valore: i prigionieri e le prigioniere, i lavoratori e le lavoratrici illegali sono già invisibili nella nostra società. Quindi, se vogliamo davvero essere solidali, forse dovremmo pensare a ricostruire un mondo più colletivo, più giusto, nel quale l’umano avrà più importanza dell’economia. Prima di concludere, vorrei chiarire che riconosco l’aspetto positivo della solidarietà e delle azioni fatte finora. Ciononostante, voglio proporre una riflessione sulle modalità di attuazione di questa solidarietà. Anche perché, mi sembra che le cittadine e i cittadini abbiano il compito di alleviare le mancanze dello Stato che dovrebbe proteggerci. E questo non è altro che l’origine del “contratto sociale” di Hobbes: rinunciamo ad alcune libertà individuali per costruire lo Stato che dovrebbe proteggerci (a volte da noi stessi).
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svediroma · 4 years
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Una panoramica del teatro
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Quando avevo 5 anni mia madre prese una tipica decisione da genitore: mettere i suoi figli a fare ciò che desiderava e non aveva potuto mai fare. Il nostro caso: il teatro. E quando ciò accade, possono verificarsi due cose: che il bambino rifiuti l'attività o che diventi la sua passione. Nel mio caso, e in quello di mia sorella, è successa quest'ultima.
Ero timido, molto timido. Mia sorella, 7 anni, era ancora più timida. Arrivammo a un gruppo di teatro scolastico in cui c'erano ragazzi e ragazze di tutte le età e per due bambini timidi quella situazione è complicata. Ma per fortuna c'era anche un'amica di mia sorella, quindi per lei non è stato così difficile. Per me sì. Almeno all'inizio, fino a quando l'insegnante ha guadagnato la mia fiducia e i miei compagni di classe il mio amore. Dopo tutto è stato molto semplice: giocare, ridere, imparare, condividere, interpretare...
18 anni dopo, sono ancora innamorato del teatro. E come non amarlo se grazie a lui sono stato così felice? Per 18 anni il teatro mi ha fatto crescere, imparare mille cose e provare mille emozioni. 
Ti invito ad accompagnarmi in un viaggio attraverso le sensazioni del teatro:
PIACERE
Il teatro è in grado di darti una sensazione di felicità e soddisfazione che non può essere spiegata se non l’hai vissuto. Entrare nella pelle di un personaggio e sentirsene parte non ha prezzo. La soddisfazione di comprendere il personaggio, di essere in grado di mettersi in scena e di trasmettere sensazioni inimmaginabili al pubblico, è impossibile da confrontare.
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INCOGNITO
Fare teatro significa prepararsi a tutto. Non sai mai quale personaggio ti toccherà, quali cose folli dovrai fare o quale parte di te scoprirai nel processo, che in molte occasioni non è solo un processo di creazione del personaggio, ma di apprendimento personale. Grazie a tutti i miei insegnanti e direttori sono stato in grado di entrare in mille corpi e menti che mi hanno permesso di apprendere mille lezioni.
MALINCONIA
Ricordare la prima volta sul palco. Ricordare tutti i personaggi che ho fatto e tutti i compagni che sono stati con me. Non puoi mai dimenticare ciò che ha fatto parte di te.
CONCENTRAZIONE
Entrare nella pelle di un personaggio non sta semplicemente cambiando il modo in cui parli e ti vesti. È necessario conoscerlo, pensare a come si sarebbe mosso, come avrebbe parlato e quale tono avrebbe usato, pensare a quali sarebbero stati i suoi gusti, le sue motivazioni e le sue paure. Pensare a ciò che lo fa alzare la mattina e volere uscire nel mondo... Costruire un personaggio è la cosa più complicata e allo stesso tempo la più bella.
ORGOGLIO
La connessione che si crea su un palco ha la forza di un ciclone. Distrugge rapidamente i muri di protezione e insicurezza che creiamo intorno a noi e ci lascia nudi, pronti a mostrarci come siamo realmente, senza paura e pronti a formare una famiglia sul palco.
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FOLLIA
Su e giù, prima e dopo... Parte della bellezza del teatro è che permette di fare ciò che le costruzioni sociali hanno etichettato come qualcosa di straordinario. Ma in un mondo pazzo, le cose pazze sono la norma.
PAURA
Non se ne va mai. La paura di sbagliare, la paura di deludere, di non piacere al pubblico o di annoiare. La paura che il lavoro, l'entusiasmo e il desiderio non siano sufficienti. Ma quella paura è ciò che ti spinge a migliorare, a superare te stesso e ad andare sul palco con il desiderio di metterti alla prova.
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ILLUSIONE
Ogni nuovo progetto, ogni nuovo saggio e ogni nuova première produce un movimento di farfalle interiori che ti fanno mettere tutto il tuo amore e affetto nel lavoro. La felicità di un bambino davanti a un negozio di caramelle...
FELICITÀ
Felicità per condividere con lei ogni momento sul palco. Sono passati molti anni da quel teatro scolastico. Niente potrebbe rendermi più felice della recitazione con mia sorella, e niente mi fa sentire più orgoglioso di vederla crescere con ogni ruolo e vederla diventare la grande attrice che è oggi.
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18 anni dopo, il teatro mi ha aiutato immensamente a perdere la timidezza, ad aprirmi alle persone e a non aver paura di essere me stesso. Mia sorella è passata dall'essere una ragazza molto timida a una giornalista. Io sono passato dall'essere un bambino timido a un ragazzo disposto a godersi gli altri, la vita, il momento. Grazie a mia madre, grazie ai miei insegnanti, grazie ai miei compagni, grazie al TEATRO.
- Alfredo del Castillo Ramos
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svediroma · 4 years
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Paura dell’ignoto
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Una ragazza straniera viene a scuola, nessuno vuole giocare con lei. Un ragazzo nero viene in città, tutti lo guardano male. Un ragazzo dice che è gay, la sua famiglia gli gira le spalle. Il nuovo capo è una donna, tutti la prendono in giro.
Quando cresciamo, apprendiamo che il meglio che possiamo fare è far parte della società che ci circonda e per questo dobbiamo adattarci, seguire la norma. Tutto ciò che è fuori dal comune rischia di non essere accettato.
Gli esseri umani sono sempre stati riluttanti ad avanzare. Le rivoluzioni sociali iniziano con pochi che devono combattere, non solo contro il sistema stabilito, ma contro l’opposizione di tutti coloro che si rifiutano di cambiare. Potremmo chiederci se questo rifiuto del cambiamento sia una questione di istinto o se si tratti di una risposta appresa. Nasciamo con la necessità di avere tutto sotto controllo o la acquisiamo crescendo in una società che rifiuta il diverso?
In realtà, in un certo senso questa domanda non è importante poiché, come esseri umani, abbiamo la capacità di ragionare al di sopra degli istinti, ma anche al di sopra di ciò che abbiamo imparato. Pertanto, non è così importante il motivo per cui rifiutiamo il cambiamento, ma piuttosto la possibilità di decostruire ciò che è stato arrestato e decidere per noi stessi. È qui che entrano in gioco i pregiudizi, quegli strumenti mentali che ci consentono di creare un’idea su qualcosa che non conosciamo ancora. I pregiudizi possono aiutarci, ma possono anche diventare un diavolo che ci parla dalla spalla. Molte volte i pregiudizi provengono da ciò che abbiamo imparato, ascoltato o che ci è stato detto. Quindi è necessario analizzarli razionalmente per decidere consapevolmente se ascoltarli o no.
Alcuni anni fa scoprii qualcosa per me incredibile: i miei genitori mi raccontarono che una mia zia era stata in passato la persona più razzista e omofoba che avessero mai conosciuto. All’inizio non ci credevo. La migliore amica di mia zia era una donna cubana nera, mia cugina era lesbica e lei era stata la zia che mi aveva supportato di più quando avevo rivelato che ero gay. Mi sembrava molto strano. Quindi un giorno le chiesi come mai la sua opinione rispetto alle persone nere e gay fosse cambiata nel tempo, e la sua risposta mi segnò tanto che la scrissi il più fedelmente possibile e ora è un buon momento per usarla:
“Quando sei nata in una famiglia povera, in una piccola città e durante una dittatura, è difficile avere un’idea positiva degli omosessuali, che a quel tempo venivano assassinati o rinchiusi in strutture psichiatriche. Era considerata una malattia e nessuno, o pochi, la mettevano in discussione. C’erano pochissimi gay in quel momento. La maggior parte lo nascondeva e i pochi che si conoscevano subivano insulti, percosse… Mio padre parlava di omosessuali e comunisti come se fossero il diavolo e mia madre pregava per le loro anime… I neri non erano il diavolo, erano piuttosto animali. Avevo più di dieci anni quando vidi per la prima volta una persona scura nel porto. Si fermavano tutti a guardarlo come se fosse un orso del circo. Poi iniziarono a parlare del fatto che venivano a rubarci il lavoro, che erano meno intelligenti…
Quindi sono cresciuta con queste idee in mente e non ho esitato a ripeterle, perché per me erano verità assolute. Ma la vita mi ha fatto capire che tutto ciò era solo un pregiudizio. Mio fratello è tornato da Cuba sposato con una donna nera. È stato uno scandalo in tutta la città, anche per me, ma dal momento che era mia cognata, ho dovuto fare lo sforzo di accettarla. È interessante quanto velocemente possiamo eliminare i pregiudizi, basta soltanto conoscere le persone. Ora lei è diventata la mia migliore amica, ma non è solo che l’ho accettata, ora non giudico più le persone dal colore della loro pelle, perché non ha senso.
Dopo mia figlia mi disse che era lesbica, quindi ho dovuto decostruire tutto quello che avevo imparato prima di riapprendere. Non è un processo facile, ma è possibile. E necessario”.
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Ecco come avviene il cambiamento. Non con persone che nascono sapendo cosa è giusto e cosa è sbagliato, ma con persone che, nonostante siano cresciute con un’ideologia, sono in grado di mettere in discussione le proprie convinzioni e sono disposte a cambiarle se necessario.
Mia zia era razzista e omofoba perché era quello che le avevano insegnato i suoi genitori e la società intorno a sé. La vita le ha fatto capire che ciò che aveva imparato non era vero, ma non dovremmo aspettare che le persone attraversino il nostro cammino per chiederci se ciò che crediamo di loro sia il risultato della paura, del dubbio e dell’odio oppure di questioni razionali e oggettive.
È nostro compito analizzarci, sfidare i nostri pregiudizi e offrirci l’opportunità di eliminarli.
Un mese dopo, tutti vogliono giocare con la nuova ragazza, perché fa già parte del gruppo. Dopo alcuni anni, il ragazzo nero è già parte della città. La famiglia accetta il ragazzo gay e la nuova responsabile al lavoro ha messo a tacere tutte le bocche malevole.
È facile odiare o giudicare da lontano, ma quando ci avviciniamo agli altri è difficile continuare a farlo. Il problema è quando le persone continuano ad odiare dopo aver conosciuto, perché allora non è un problema di pregiudizi, bensì un problema di cattiveria cosciente.
- Alfredo del Castillo Ramos
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svediroma · 4 years
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FERMARE IL TRENO
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Quindi ero lì, in un ostello squallido, in una città sconosciuta e con una sorella che mi odiava, aspettando il funerale dei miei genitori.
Quando Alissa uscì dal bagno, mi ero già sdraiato sul lato sinistro del letto, quello di fronte alla porta. Si era messa una camicia da notte che gli arrivava alle ginocchia e si era sciolta i capelli. Distolsi lo sguardo e mi concentrai sulla lampadina del comodino. Notai come lei circondava il letto e si buttava dall'altro lato, quello che dava al finestrino.
- Buonanotte.
- Buonanotte.
Spensi la luce su un interruttore vicino al letto e rimanemmo nel buio, soli con i nostri pensieri.
Chiusi gli occhi e sognai.
Sono sulla spiaggia di Bajamar. È di sabbia bianca e non molto grande, ma sono da solo nel mezzo, in piedi sotto il sole. La marea è bassa, molto bassa, quindi puoi camminare con l'acqua verso le caviglie fino oltre la diga che protegge la spiaggia. Il sole illumina tutto ciò che mi acceca e i miei piedi bruciano con il calore della sabbia, ma io non mi muovo. Guardo indietro e vedo il piccolo faro di pietra illuminato dal sole. Non mi muovo. Non perché non possa, ma perché sto aspettando. Non so cosa aspetto, ma lo faccio.
I miei piedi stanno davvero iniziando a farmi male, ma sto ancora aspettando. So che rimane poco. Mi tremano le ginocchia. Poi lo vedo. Lontano, nel mare. All'inizio è solo un punto giallo, ma poi inizia ad essere una figura, quindi una persona. Cammina in mare verso di me, anche se è ancora molto lontano. Non ci sono onde.
Non sento quasi più i piedi che bruciano, ma le mie ginocchia tremano sempre di più. Il ragazzo, perché so che è un ragazzo, anche se a distanza è impossibile da apprezzare, indossa una maglietta gialla.
Quindi il mare inizia a sorgere, ma lui è ancora molto lontano dalla riva. Cerco di avvertirlo, ma il mio grido rimane dentro di me e non riesco a dire nulla. Quando riprovo, soffoco e inizio a tossire. L'acqua sta già raggiungendo la vita del ragazzo con la maglietta gialla, lui non cammina più. Sto soffocando, ma cerco di correre per aiutarlo. Anche se mi tremano le ginocchia, inizio a correre verso la riva. Sto per arrivare, ma cado in ginocchio nella sabbia. Il ragazzo ha l'acqua fino al collo. Ora è di spalle e non riesco a vedere la sua faccia, solo i suoi capelli. Biondi come i miei. Poi si gira e mi guarda. Mi rendo conto che il ragazzo con la maglietta gialla sono proprio io appena prima che un'onda mi colpisca. Apro gli occhi.
- Stai bene? - Alissa era in piedi davanti a me, guardandomi con preoccupazione.
- Sì, è stato solo un incubo.
- Solo? Mi hai spaventato a morte. Stavi tremando e sembrava come se stessi annegando, non respiravi. - lei sembrava sincera. Accese la lampadina del mio tavolo e mi porse un bicchiere d'acqua - Te l'avrei tirato in faccia, ma visto che ti sei svegliato da solo... bevi, dai.
Presi il bicchiere e bevvi mentre Alissa mi osservava attentamente.
- Avevi davvero intenzione di lanciarmi l'acqua?
- È quello che fanno nei film- rispose con il tono di prepotenza che ho sempre odiato - Anche se apprezzo non aver dovuto farlo.
- Mmm… Grazie?
- Non ti confondere, dormiamo nello stesso letto e non ho voglia di cambiare le lenzuola.
Si voltò e sdraiò sul letto.
- Certo… Ehi, pensi che i sogni abbiano un significato?
-Perché lo dici? - mi rispose mentre si metteva a pancia in su sul letto, guardando il soffitto spianato e pieno di macchie di umidità.
- Non so… Ho avuto un sogno strano. Vedevo come qualcuno annegava, ma non potevo salvarlo, era tutto molto reale. Ma la cosa peggiore è che quello che annegava ero io. No papà, né mamma… Io…
- Sai una cosa? Credo che i sogni significhino delle cose solo se ci pensi. Probabilmente hai sognato cose mille volte peggiori, ma è questo sogno che ti preoccupa. Forse è così perché è vero che stai annegando.
-Sì, forse- sussurrai mentre pensavo al lavoro, alla solitudine, agli amici che non c'erano più e alla famiglia che aveva smesso di esserlo. Forse stavo annegando, e quando si annega si deve nuotare verso l'alto. Forse era il momento di mandare tutto a puttane e pensare a me stesso. Sorrisi e piansi allo stesso tempo.
- Se anneghi di nuovo, cerca di non fare rumore, che sono le sei e vorrei dormire un po'.
Mentre mia sorella cercava di dormire, cominciai a pensare alla mia vita. Alle scelte che avevo fatto, a come avevo perso le persone che mi amavano. Forse quel momento, proprio lì, in un ostello squallido, in una città sconosciuta e con una sorella che mi odiava, aspettando il funerale dei miei genitori, era necessario per essere consapevole di tutto. Per fermarmi e riflettere.
A volte fa bene fermare il treno, fare una pausa dal viaggio frenetico della vita. A volte è il treno che si ferma per noi. I motori si spengono e noi dobbiamo scendere dalla nostra carrozza.
Può diventare una seccatura dover aspettare che funzioni di nuovo. Proprio lì, in mezzo al nulla. Ma può anche essere un'opportunità. Un'opportunità per vedere ciò che ci circonda, godere del luogo in cui siamo arrivati.
Ma è anche un'opportunità per guardare indietro e vedere il cammino che abbiamo già percorso, con le sue curve e i suoi tunnel senza luce, con i suoi paesaggi e con tutti i viaggiatori che abbiamo incontrato.
E infine, è anche un'opportunità per guardare avanti. Per vedere il percorso che si apre davanti a noi e scegliere quali deviazioni vogliamo prendere. Non deve essere il percorso più bello, né il più facile né il più sicuro, ma deve essere quello che ci renderà felici.
Perché a volte, quando siamo sul treno, non abbiamo tempo di pensare. A volte, quando siamo sul treno, abbiamo solo il tempo di guardare la vita che passa.
Spense la luce e tornammo al buio. Questa volta non sognai più.
- Alfredo del Castillo Ramos
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svediroma · 4 years
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Street Art Primavalle - “raccontare storie di cui la strada ha bisogno”
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Ormai nella prima settimana a Roma mi saltavano agli occhi i numerosi dipinti sulle mura e sulle facciate che rendevano la via del ritorno dal servizio quasi come una passeggiata in un museo. In grandi e piccole dimensioni addobbano un quartiere al quale altrimenti mancano il glamour, l'eleganza e i colori. Nel mezzo tra muri grigi si trova un‘enormità di creatività che contribuisce ad un grande contrasto alla monotonia del quartiere. Per un momento l'arte urbana crea una distrazione dalle facciate fatiscenti, danneggiate e sporche, dalla spazzatura sul marciapiede, i tombini ostruiti – dai segnali del disagio di vivere in periferia.
Con lo slogan del collettivo di street art "raccontare storie di cui la strada ha bisogno" vari artisti hanno decorato diversi luoghi nel quartiere con le proprie opere d'arte e hanno fatto diventare le mura le proprie enormi tavolozze.
La street art (o anche arte urbana) è una forma di arte che si manifesta in luoghi pubblici, spesso illegalmente. Comunque in questo caso è stata permessa e persino supportata dal Festival di arte di strada “Gian Maria Volonté”, che si svolgeva con la sua seconda edizione dal 31 agosto al 4 settembre 2016. Veniva finanziato dal basso grazie al collettivo "Muracci nostri", con l’obiettivo di dare un volto nuovo alle strade di Primavalle; riqualificare la zona attraverso colorate opere di street art e la volontà di riscatto del quartiere.
Il progetto "vuole celebrare l'umanità della borgata e la sua voglia di comunità” - spiega l'ideatore, poeta e scrittore Maurizio Mequio.
La Rouille - “In qui nato”
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di seguito un estratto dall’intervista per “FACE Magazine” (http://www.facemagazine.it/larte-e-una-nave-tra-le-emozioni-lo-street-artist-la-rouille-si-racconta/)
Cosa vuol dire la parola Arte per te? L’arte per me è un modo di comunicare emozioni, belle o cattive che siano. Per me è come una nave che fluttua nelle emozioni e viaggia nel cuore.
 Cosa ti proponi di comunicare, attraverso le tue opere? Il significato per me è molto personale e credo che ognuno sia libero di interpretare e percepire le emozioni che vuole e che la mia arte gli trasmette.
Sono stati realizzati 56 murali ed è stata data la possibilità di creazione a circa 40 artisti che dipingevano le mura di – tra le altre –  via Pietro Bembo, via Federico Borromeo e dello storico mercato coperto di via S. Igino Papa. Gli artisti lo hanno fatto in modo volontario e hanno regalato le opere d'arte alla comunità perché credono nel progetto.
La varietà di artisti mostra una enorme diversità, includendo quelli che hanno più di cento mostre all’attivo, quelli provenienti da altri paesi e anche quelli che hanno esposto al Louvre.
Ma perché scegliere Primavalle come luogo per il progetto?
Essendo condizionata da estrema povertà, in questa borgata la forza che l’arte può portare con sé probabilmente è necessaria più che in altri quartieri di Roma.
Con la nuova politica di sviluppo urbano di Mussolini nel 1936 cominciava ufficialmente l'ampliamento di numerosi alloggi sociali a Primavalle e in seguito la reputazione di essere uno dei distretti poveri di Roma aumentava.
Dopo essere stata completata negli anni Cinquanta, Primavalle è passata a uno sviluppo edilizio abusivo, soprattutto nel Nord del quartiere.
L'associazione della zona con la povertà e la criminalità persiste fino ad oggi e c’è ancora molto da fare per contrastare i pregiudizi rispetto a questo quartiere.
Con l'aiuto della street art magari c’è la possibilità di fare almeno un passo avanti in questa direzione.
Nemo - “Vite”
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di seguito un estratto dall’intervista per Artribune (https://www.artribune.com/arti-visive/street-urban-art/2019/01/intervista-nemos/)
Cosa vorresti arrivasse alle persone che guardano ‒ mentre attraversano le strade di una città ‒ una tua opera?
Mi piacerebbe che chi passa di fianco a un mio disegno si fermasse a pensare a quello che c’è disegnato, magari facendosi delle domande e trovando delle risposte. Mi piace che le persone possano discuterne e parlarne, bene o male non importa. Non mi importa neanche che arrivino a una conclusione esatta. La cosa fondamentale non è arrivare al significato del disegno, è più importante fermarsi e ragionarci sopra. 
All’inizio ero quasi triste che queste belle opere d‘arte si trovano a Primavalle in vicoletti nascosti e cortili interni invece che in zone più turistiche, perché così magari manca l‘apprezzamento di un grande pubblico.
Adesso, invece, sto comprendendo che Primavalle probabilmente ha più bisogno di questi contrasti pitturati rispetto a quei quartieri che sono già colorati. Ora ho l'impressione che qui a Primavalle l'arte cura un quartiere.
O per esprimerlo in altre parole, usando una citazione di un operatore culturale:
“La periferia è una condizione umana. È più periferico il luogo dove manca la poesia.” (Poeta del Nulla)
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- Teresa Fischer
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svediroma · 4 years
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L’arte come vetrina delle discriminazioni della nostra società
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Alcuni mesi fa ho (ri)guardato lo spettacolo di Hannah Gadsby “Nanette” e questa visione è stata per me un po’ come sentirsi in “una bolla d’ossigeno”. A seguito degli eventi recenti, come Sanremo e i diversi festival di cinema, mi sembra doveroso raccontare di quest’opera.
 Approfitto quindi di questa opportunità, anche in virtù degli eventi recenti, per affrontare un tema che mi sta a cuore: la descrizione delle minoranze. In realtà parlerò soprattutto del mio vissuto e di quello che conosco, ossia le minoranze di genere (in senso ampio).
Se questo tema mi sembra così importante è perché, come donna, lesbica, di classe popolare, ho avuto molte difficoltà a trovare immagini, persone, storie nelle quali potevo identificarmi (ho comunque la “fortuna” di essere bianca, valida, neurotipica, non in sovrappeso…) ciò ha avuto conseguenze sulla costruzione della mia identità. Vorrei provare a spiegare le ragioni che fanno sì, ad oggi, che il nostro ambito culturale “mainstream”[1] risulti  lontano anni luce dall’essere idoneo al riconoscimento delle minoranze.
Essere cieco/a di fronte alle discriminazioni significa già favorirle…
Vorrei iniziare questo testo con un’osservazione che mi ha fatto un* amic* poco tempo fa: “la maggior parte dei libri che compri sono scritti da uomini”. Questo non è un problema in sé, ma può diventarlo per il fatto che leggo SOLO questi libri. In realtà non mi ero resa conto di ciò, fino a quando non c’è stata questa sua osservazione. Ero cieca di fronte alla considerazione della caratteristica “del genere”.
Se questo è scontato e non aneddotico è perché evidentemente lo facciamo tutt*. Siamo tutt* ciech* nei confronti delle dimensioni di genere. Non è colpa nostra, siamo stati educat* all’interno di un contesto di stampo meritocratico che rende invisibili le disuguaglianze di fatto. All’interno della famosa espressione “Se vogliamo, possiamo”, c’è una vera violenza simbolica, interiorizzata[2], che colpisce le minoranze. Se volessi leggere libri scritti da donne, o di “people of color[3]” ecc., davvero niente me lo impedirebbe? In pratica sì, ma in teoria no. Dovrei solo andare in una libreria e comprare un libro, ma per fare ciò si dovrebbe già essere in grado di uscire da questo stato di cecità e cercare coscientemente libri scritti da minoranze (in altri termini, fare della discriminazione positiva).
Quindi, perché leggere dei libri scritti da donne è così essenziale per me? Semplicemente perché credo che le donne non abbiano lo stesso sguardo sulle cose che possono avere gli uomini, perché non siamo dalla stessa parte nella società patriarcale. Perché non mi riconosco sempre nelle scene raccontate da persone che sono così lontane dal mio vissuto.
E sono profondamente convinta che avere delle persone che ci rappresentano è essenziale. Essenziale per capire che ci sono categorie (purtroppo). Non credo affatto che essere un uomo o una donna sia la stessa cosa, e neppure essere bianc* o di colore è la stessa cosa. Non biologicamente ma socialmente. Mi sembra che viviamo in una società profondamente disuguale. Il fatto di non lasciare posto alle minoranze, col pretesto e la “celata giustificazione” che la meritocrazia vinca, corrisponde semplicemente alla perpetuazione di tali discriminazioni. Perché no, non abbiamo le stesse possibilità di successo. Queste politiche cieche sulle disuguaglianze non fanno altro che perpetuarle e addirittura aumentarle. Dunque è urgente rendersi conto che la nostra “neutralità” è spesso incarnata dal maschio bianco ed è solo una chimera.  
 Alcune volte sento dire che non è importante il sesso/genere/colore di pelle della persona che crea un’opera, bensì l’opera stessa. In altri termini, bisogna “separare l’opera dell’artista”. Sono totalmente in disaccordo con questo. Per me, il rischio di questa dichiarazione è di pensare che alcun* possono rappresentare tutti i punti di vista. Fa pensare che siamo tutt* in grado di rappresentare tutto e tutti, e che siamo neutr* (o almeno alcune persone). Ma, come ho detto prima, la stessa storia non può essere raccontata in egual maniera da un uomo o da una donna, semplicemente perché non viviamo e vediamo le cose allo stesso modo. Questi diversi punti di vista costruiscono le nostre società, la nostra diversità. E tale diversità è una vera ricchezza!
L’importanza dei diversi punti di vista per una visione più complessa delle cose
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Durante i miei studi ho letto La guerra non ha un volto di donne di Svetlana Alexievitch. Si tratta di una raccolta di testimonianze di donne russe che hanno partecipato alla seconda guerra mondiale. Se questo libro è stato importante per me è perché ha permesso di dare la parola a queste donne dimenticate. Grazie a questo libro ho potuto imparare che le donne hanno combattuto in battaglia, al fianco degli uomini (e non solo come infermiere). La storia di queste donne è anche la mia. Probabilmente se da giovane avessi avuto queste donne come modelli di rappresentazione di “un'altra femminilità”, mi sarei resa conto che le donne non valgono meno degli uomini.
Rappresentare le minoranze, raccontare le loro storie significa dargli voce e gridare che le “loro storie hanno valore”, come la loro esistenza. Al di là di una semplice rappresentazione c’è tutta una nuova storia che si può scrivere, è l’inclusione dell’ “Altr*” nel racconto comune, è l’abolizione del confine tra il “io” e “l’altr*” in quanto parte di uno stesso tutto.
È importante raccontare diverse storie, semplicemente per aggiungere della complessità  agli elementi ma anche per smettere di rendere invisibile i vissuti. Il discorso di Joachin Joaquin Phoenix durante la sua vittoria ai BAFTA mostra a che punto questo argomento trascende gli altri[4]. L’esempio del cinema può essere funzionale per una migliore comprensione. L’anno scorso durante la cerimonia dei Cesar (consegna premi del cinema francese), su 16 riconoscimenti totali, nessuno è stato attribuito ad una donna. Tuttavia, i film premiati raccontavano storie mettendo al centro della scena personaggi femminili. L’equilibrio sembra raggiunto, invece questo mostra che l’unico sguardo che è premiato è quello degli uomini. Contribuisce alla perpetuazione di quello che chiamiamo “male gaze”, letteralmente “lo sguardo maschile”. Nella maggior parte dei film (soprattutto a Hollywood), i personaggi femminili sono presentati come oggetti di desiderio (spesso per gli uomini). Se prendiamo in considerazione il tempo di dialogo delle donne nei film, si può notare come spesso sia ridotto rispetto a quello degli uomini, o peggio ancora che molte volte la voce delle donne venga interrotta. Si può ben dire, quindi, che il loro ruolo sia poco sviluppato perché non c’è tanto dialogo, e questo rafforza il concetto di rappresentazione della donna come mero “oggetto di seduzione”
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  Tutte le storie e tutti i punti di vista non hanno lo stesso valore. Ecco la triste realtà delle nostre scene culturali di oggi. Lo sguardo degli uomini bianchi, eterosessuali è importante, ovviamente, ma non può rappresentare il vissuto delle persone che non fanno parte di questa categoria. Questo “neutro” è quello che rimane valorizzato nelle produzioni culturali tramite premi e riconoscimenti: ma gli uomini NON POSSONO rappresentare tutti i punti di vista. È la ragione per la quale bisogna ricompensare donne autrici di qualcosa. Non invalidiamo i punti di vista delle minoranze soltanto con il pretesto che tanto “sono minoranze”. “La diversità è una forza”. Ma questa diversità è ancora troppo assente nelle nostre produzioni culturali.
Il test di Bechdel-Wallace è uno strumento che permette di rendersi conto della sotto-rappresentazione delle donne nelle produzioni cinematografiche. Par passare questo test, un film deve avere:
almeno due personaggi femminili
un dialogo per i personaggi femminili
il loro dialogo non deve solo riguardare l’argomento “uomini”.
Questo test, con un valore simbolico, ha il merito di mostrare che quasi la metà dei film che guardiamo (40% in media) non rispettano questi criteri. Questo prova che hanno molta più rilevanza gli uomini, in quanto rappresentati da altri uomini.
Il forte senso di appartenenza ad una minoranza
Parlo molto delle categorie perché mi sembra che siano la griglia di analisi più pertinente per rappresentare la realtà. Non dico che queste categorie sono stabili ed esclusive, anzi. Non le utilizzo neanche per giustificare alcuni aspetti di esse, ma vorrei creare una coscienza sui privilegi (o loro assenza), che alcune categorie possiedono.
Alcune ed alcuni potranno tacciarmi di “forte senso di appartenenza ad una minoranza” o “militantismo”. Risponderò a quest* che non essere militant* è un privilegio. Come si fa a  non cercare di raggiungere persone che hanno vissuti vicini, storie che ti rappresentano, quando tutta la cultura mainstream rende invisibile la tua storia? Se tutti i modelli proposti non mi corrispondono, come posso costruire la mia identità? Mia sorella più piccola, che è birazziale, è continuamente martellata da rappresentazioni di donne bianche, magre, con capelli lisci. Come può trovarsi bella avendo i capelli crespi, la pelle scura e forme fisiche diverse?
Questo mio “senso di appartenenza” serve ad opporre la categoria delle minoranze ad una categoria che viene definita “bene comune”. In altri termini, l’unica “comunità” che è legittima è quella “neutra” dell'uomo bianco, cisgender[5] eterosessuale. Rivendicare la propria appartenenza ad una comunità (almeno in Francia) significa rimettere in discussione il “patto repubblicano”. È rimettere in discussione il fatto che siamo tutt* insieme, tutt* ugual* prima dei nostri particolarismi. Ma come promulgare questo patto repubblicano quando, nei fatti, sono invisibile, non rappresentata e quindi discriminata (cioè messa da parte)?
Ovviamente provo a fare una forma di discriminazione positiva, perché sono infastidita quando vedo che il mio corpo è troppo spesso rappresentato come oggetto di seduzione. Perché sono stanca di vedere che l’amore si coniuga solamente all'eterosessualità. Perché non ne posso piu di dovere lottare per fare riconoscere la mia esistenza.
Rappresentazione sì! Ma quale?
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Questa citazione di Hannah Gadsby mostra tutto il paradosso nella rappresentazione delle minoranze. Mi sembra che quando vengono a mancare figure nella quale poterci identificare, proviamo a modellare a nostra immagine quel poco che abbiamo. In un caso preciso ad esempio, aspettarsi che tutte le persone LGBTQ+ siano attiviste e che portino la totalità del loro messaggio su questa tematica. Ho un po’ la tendenza a fare parte di questa gente.
Una delle domanda che spesso emerge nelle sfere femministe e LGBTQ+ che frequento è: dobbiamo cercare la rappresentazione ad ogni costo, anche se questa può risultare discriminante? Dobbiamo essere felic* di vedere sempre più coppie dello stesso sesso nelle produzioni culturali e artistiche, anche a rischio che non corrispondano a nessuna realtà?  
Mi sembra che, a volte, la rappresentazione delle coppie omosessuali (ad esempio) serva a sentirsi rappresentati per le minoranze. Anche se questi personaggi sono spesso stereotipati o messi in secondo piano. L'obiettivo non è lottare per una produzione totalmente realizzata dalle minoranze, solamente essere più coscient* di quello che consumiamo, delle rappresentazioni e degli stereotipi che questo produce nel nostro quotidiano. Sono militante per un ambito artistico/culturale che sia più aperto, più inclusivo e multiculturale, cosmopolita e diversificato.
Vorrei finire quest’articolo con alcuni consigli di produzioni culturali, realizzati da e per le minoranze:
Film/serie
Dear white people
Ritratto della ragazza in fiamme e, in maniera generale, le opere di Céline Sciamma
Philadelphia
Orange is the new black
The L word
Libri
Opere di Audre Lorde
Opere di Toni Morrison
Chimamanda Ngozi Adichie, Americanah
Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé
- Barbara Sanieres
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[1]  “Significa letteralmente “dominante” o “grande pubblico”. Significa generalmente un media, un programma di televisione, un prodotto culturale che mira ad un grande pubblico. La parola evidenzia  anche un’idea, un movimento o un partito politico (la maggioranza), che vuole sedurre tutto il mondo”, Frédéric Martel, Mainstream. Enquête sur cette culture qui plaît à tout le monde. Paris, Flammarion, coll. Essais, 2010, p16
[2] Le persone discriminate possono, anche loro, partecipare alla perpetuazione delle discriminazioni della quale sono vittime.  Una delle traduzioni  più emblematica è l’auto-censura.
[3] Termine inglese utilizzato per parlare delle persone che non si riconoscono nella “bianchità”.
[4] https://www.youtube.com/watch?v=9gw9glXDTT0
[5]  A differenza delle persone trans, una persona cisgender si riconosce nel genere (maschile o femminile) che le è stato attribuito alla nascita. Quest’attribuzione si basa sulla biologia e più precisamente sull’osservazione delle caratteristiche sessuali (parti intime, cromosomi, ormoni).
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svediroma · 4 years
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Extinction Rebellion - “a talk about the climate crisis, ecological collapse and civil disobedience”
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Attivisti letteralmente incollati ai treni della metropolitana a Londra, arrestati a centinaia; il Rebel Ride a Roma all'inizio di ottobre 2019; lo sciopero della fame al quale un’amica a Londra ha partecipato insieme, ufficialmente, ad altre 1800 persone - tutto questo aumentava la mia curiosità sul movimento Extinction Rebellion (ribellione contro l'estinzione; d’ora in poi XR) cosicché, quando leggevo l'annuncio per un incontro di XR a Roma su Facebook, decidevo di andare lì da sola.
“a talk about the climate crisis, ecological collapse and civil disobedience” era il tema dell’incontro internazionale del 19 novembre 2019 dalle 19:00-21:00 al quale partecipavo per la prima volta.
Il luogo (Zalib, via della penitenza 35) si trovava non lontano dal Tevere, in un bel quartiere, molto calmo.
Arrivando all’edificio vedevo che nell'entrata c'era già qualche persona, per questo pensavo che pure loro facevano parte del movimento.
Chiedendo dove si svolge l'incontro di XR, loro mi mostravano l'ingresso in un'altra camera vicino e con mia sorpresa soltanto altre due persone si trovavano seduti ad un grande tavolo in mezzo alla stanza.
Con un alto soffitto, le mura arredate con enormi librerie, mi dava un po' la sensazione di essere inciampata in una scena di un film di ribellione degli anni sessanta.
Tutto molto urbano ed alternativo, decorato bene, con la stessa pacatezza che avevo trovato già prima fuori dall’edificio.
Benché la presenza all’incontro di tre partecipanti (me inclusa) non rispecchiava la mia aspettativa di trovare una sala affollata, l'atmosfera all’interno era piacevole e personale.
Uno di loro era un neofita proprio come me e l'altra era una donna di 60 anni che conduceva il piccolissimo convegno.
Sebbene presiedeva il piccolo raduno, non ricopriva il ruolo di una superiore e sottolineava spesso che XR è un movimento orizzontale, dove nessuno è veramente il capo e tutti sono ugualmente importanti.
La serietà e l’urgenza con cui parlava della crisi globale si mostrava pure nel fatto che lei aveva abbandonato completamente il suo lavoro come architetta sostenibile dopo aver realizzato l’indispensabilità del cambiamento climatico per dedicarsi totalmente al movimento XR e alle sue azioni.
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Dopo la conoscenza iniziale l’oratrice ci ha mostrato col videoproiettore un discorso di presentazione di quasi un’ora. In "What we want to do is save humanity from extinction" (https://www.youtube.com/watch?v=U_gXMofQb0E), la neuroscienziata comportamentale Kate Jeffery prima spiega informazioni generali sul cambiamento climatico e dopo parla della struttura, le richieste, i principi fondanti e l'organizzazione di XR.
XR è un movimento internazionale, socio-politico, non violento, di disobbedienza civile, che specialmente in Gran Bretagna sta crescendo molto rapidamente.
Il movimento era stato fondato nel Regno Unito nel 2018 con circa un centinaio di accademici che hanno firmato un invito all'azione nell'ottobre 2018 ed è stato lanciato alla fine dello stesso mese da Roger Hallam, Gail Bradbrook e altri attivisti.
XR vuole cercare supporto e radunare persone in tutto il mondo intorno a un senso comune di urgenza per affrontare il collasso climatico e allo stesso momento minimizzare il rischio di estinzione umana.
Benché il movimento esiste solo da poco tempo, gli obiettivi e le richieste sono già ben precise.
Le tre richieste principali che vengono rivolte ai Governi consistono innanzitutto nella pretesa che chi amministra deve dire la verità sul clima e sull'emergenza ecologica in generale, invertire le politiche incoerenti e lavorare al fianco dei media per comunicare con i cittadini.
In secondo luogo, il Governo deve adottare misure politiche giuridicamente vincolanti per ridurre le emissioni di carbonio allo zero netto entro il 2025 e ridurre i livelli di consumo.
Infine, deve essere resa operativa un'assemblea nazionale dei cittadini per supervisionare i cambiamenti, come parte della creazione di una democrazia adatta allo scopo.
A fianco delle richieste che si focalizzano specialmente sulla politica, definire parallelamente anche alcuni principi che i membri dell'organizzazione dovrebbero rispettare.
I principi fondanti sono, tra gli altri, creare un mondo adatto alle generazioni future e lasciare le proprie zone di comfort per agire per il cambiamento. D'altronde si vuole creare una cultura più sana, resistente e adattabile e nel frattempo agire come una rete non violenta, che utilizza la strategia e le tattiche non violente come il modo più efficace per apportare cambiamenti.
Secondo XR, chiunque segua questi principi e valori fondamentali può agire nel loro nome.
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Dopo essere stati informati sul movimento, abbiamo fatto di nuovo un piccolo giro di presentazioni di tutti noi che eravamo nella stanza. A questo punto il gruppo si era ingrandito grazie ad alcune persone che ci hanno raggiunto durante la video-proiezione.
Si trattava di un gruppo misto, composto, fra gli altri, da una coppia di due designer grafici, un giornalaio e qualche altra persona.
Però la diversità delle nazionalità non era un problema perché tutta la serata si svolgeva in inglese.
Per finire, la donna che conduceva l’incontro ci ha dato un questionario con domande personali e domande riguardanti il nostro presumibile modo d'impegno nel movimento.
Già la seconda e la terza domanda erano qualcosa del genere: “accetteresti di essere arrestato per il movimento?” e “sei pronta per andare in prigione per l'organizzazione?”.
D'altronde, la donna sottolineava che nessuno deve andare in prigione se non vuole - dietro ad un attivista disobbediente ci sono sempre almeno 20 attivisti che sono più sullo sfondo.
Informandomi successivamente, mi sono resa conto che un gran numero di attivisti nel movimento ha accettato di essere arrestato e persino di finire in prigione.
Tanti membri di XR sono disposti a farsi arrestare fino a bloccare polizia e sistema carcerario, fin quando i governi non risponderanno alle loro richieste. Solo per i blocchi 600 membri sono stati arrestati durante interventi della polizia.
L'architetta che dopo decenni di lavoro ha abbandonato la sua carriera e l'urgenza di fare qualcosa di criminale per aiutare l'ambiente delle persone arrestate, mi dimostravano che ci sono ancora tantissime persone che non ignorano gli eventi attuali e le prove che c'è un cambiamento climatico. Mi dimostrava che esistono numerosi individui che vogliono contribuire ad una trasformazione per il meglio a tutti i costi e che vedono l'importanza di agire adesso.
“Because the rules have to be changed. Everything needs to change. And it has to start today. So everyone out there: it is now time for civil disobedience. It is time to rebel.”
(Greta Thunberg, speech at the Declaration of Rebellion, Extinction Rebellion, 31 October 2018)
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- Teresa Fischer
https://it.wikipedia.org/wiki/Extinction_Rebellion
https://www.pressenza.com/it/2019/10/roma-in-azione-la-rebel-ride-di-extinction-rebellion/
https://extinctionrebellion.it/chi-siamo/
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svediroma · 4 years
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Brutalità poliziesca: quando i poliziotti diventano responsabili degli atti di violenza
"Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Il problema non è la caduta, ma l'atterraggio."
Ispirato da una storia vera, “Le Haine” (L’Odio), pubblicato nel 1995 presenta come scena iniziale quella in cui un ragazzo viene ferito – in pericolo di vita - dalla polizia dopo un controllo di routine nel quartiere.
Questo film mostra 24 ore dal punto di vista di 3 ragazzi giovani nelle Banlieues francesi. La loro vita è condizionata da violenza, droghe e angherie da parte della polizia. Dopo aver visto questo film mi stavo chiedendo se il tema della brutalità poliziesca sia ancora attuale.
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Quasi ogni persona – soprattutto a Roma – ha sentito il nome Stefano Cucchi. Un ragazzo di 31 anni, arrestato per presunta vendita di droga. Stefano muore a sei giorni di distanza dal suo arresto, nella notte del 22 Ottobre 2009.
Ma che cos'è successo?
I carabinieri Francesco Tedesco, Gabriele Aristodemo, Raffaele D'Alessandro, Alessio Di Bernardo e Gaetano Bazzicalupo fermano Stefano Cucchi la Sera del 15 Ottobre 2009, mentre lo hanno visto che stava vendendo una bustina di hashish. Dopo averlo perquisito hanno trovato altre bustine con sostanze e pasticche contro l'epilessia, una malattia di cui lui soffriva.
Lo portano in Caserma.
Dopo essere stato trasferito a Tor Sapienza, verso le 4 di mattina, viene chiamata l'Ambulanza; lamenta di non sentirsi molto bene, ma si nasconde sotto la coperta e non vuole essere esaminato.
Prima dell'arresto non aveva dei traumi fisici, invece il giorno dopo, all'udienza per la conferma della pena detentiva, aveva difficoltà a camminare ed a parlare e inoltre vistosi ematomi agli occhi. In seguito, il giudice conferma una sorveglianza cautelare al carcere Regina Coeli, fissando un nuovo appuntamento per il mese successivo.  
Lì viene visitato dai medici che riportano indicazioni per il pronto soccorso all'ospedale Fatebenefratelli; poco dopo viene spostato al Sandro Pertini, a causa di mancanza di posti. In pochi giorni, perde tanti chili e sta sempre peggio perché rifiuta di bere e mangiare. Inoltre non sono permesse visite della famiglia.
Così accade, con grande tristezza, che le infermiere trovano Stefano Cucchi alle 6:15 di mattina del 22 Ottobre 2009, deceduto secondo loro “per presunta morte naturale”.
Lui ha sbagliato, ma non doveva pagare con la morte.  
Nel 2018, il caso è stato riaperto e grazie alla collaborazione di Tedesco, i muri del silenzio senza fine crollavano. Dopo 10 anni di lotta da parte della famiglia, che ha combattuto una falsa testimonianza dopo l’altra, la verità è stata scoperta e ha messo le carte sulla tavola.
Schiaffo violente di Di Bernardo, forte calcio con la punta del piede da parte di D'Alessandro.
Il 3 ottobre 2019 viene dichiarato dal pm nel processo: "Stefano non era un tossicodipendente, ci sono prove documentali e testimonianze sul punto. Si allenava da pugile e faceva attenzione all'alimentazione per stare nel peso della sua categoria di combattimento. Le falsità sono state artefatte in una stazione dei carabinieri, ed è di una gravità inaudita".
Il 14 novembre viene deciso per i due carabinieri 12 anni di carcere per omicidio preterintenzionale.
Per gli altri Carabinieri invece una punizione più leggera.
Una morte così inutile, e in più un occultamento che non è stato scoperto per quasi 10 anni, è semplicemente incredibile. Casi simili continuano a succedere anche oggi e l’espressione della “brutalità poliziesca” è reale e contemporanea.
Chi ti fa sentire in Sicurezza?
Anche in Francia il decesso di un Educatore di 24 anni diventa il simbolo delle forze dell'ordine. Alla fine di giugno 2019 Steve Maia Caniço si trovava ad una festa di musica elettronica sulla Loira, a Nantes. La Polizia ha interrotto la festa in un modo violento: 33 granate di gas lacrimogene e chiasso, così come 10 proiettili di gomma confermati sulla relazione di ricerca. I ragazzi giovani che stavano festeggiando sono entrati nel panico, 14 persone sono cadute dentro la Loira, 13 si sono salvati. Il corpo di Steve Maia Canico è stato scoperto cinque settimane dopo dentro il fiume.
I manifestanti buttavano i fiori nella Loira e alzavano i cartelli con slogans come “Chi ha ucciso Steve?” o “Dov'è la giustizia per Steve?”
Ma di chi è la colpa?
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Dopo investigazioni interne della IGPN (la Polizia nazionale francese), l'amministrazione dichiara in un articolo di 276 pagine che fra la morte del ragazzo di 24 anni e l’intervento della polizia non ci sono delle connessioni.
Tanti giornali si chiedono come si è arrivati a una simile conclusione.
Anche il ministro francese Edouard Philippe non sembra soddisfatto con il risultato della relazione della IGPN e ha richiesto un'indagine delle autorità per esaminare le responsabilità della polizia locale.
Inoltre i parenti sperano di portare un po' di luce con una valutazione di “omicidio colposo”.
I “Gilets Jaunes“ si sono di nuovo alzati in tante città. Un movimento di protesta nato nei social media nel 2018 contro l’aumento dei prezzi del carburante e l'elevato costo della vita. Proprio in Francia la brutalità poliziesca è un tema attuale: a tante manifestazioni dei “Gilets Jaunes” (conosciuti per occupare posti, come parcheggi, e bloccare centri commerciali, caselli autostradali), la Polizia interviene con mezzi discutibili.
Ma anche in Austria succedono rivolte opinabili da parte della polizia.
Per esempio alla manifestazione internazionale sul clima del 31 Maggio 2019. Uno dei manifestanti colpiti descrive al tribunale la sua situazione: dopo aver bloccato la strada, mentre erano seduti a terra, la polizia interrompe la protesta ed alcuni poliziotti prendono il ragazzo e lo maltrattano con botte, e lui cade per terra.
L'avvocato verifica che “l'uso della forza sproporzionato è in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo”.
Grazie ad un video che raggiunge il web viene scoperto un altro caso dello stesso giorno. Un uomo di nazionalità tedesca, che sta facendo le foto della manifestazione, viene attaccato da un poliziotto che lo stende a terra a pancia in sotto bloccandolo con le ginocchia – in maniera illegale per quello che stava facendo. La sua testa si ritrova così molto vicina alla macchina della polizia, per lui uno shock. All’ultimo momento la testa viene allontanata dalla ruota che si avvicinava a lui.
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In più l'hanno portato in caserma e tenuto per 14 ore senza motivo (secondo la polizia per motivi organizzatori).
Amnesty International ha criticato l'approccio dei funzionari.
Durante questa giornata sono state arrestate in tutto circa 90 persone.
Tra Gennaio 2017 e Maggio 2019 sono state sporte 1.244 denunce per violenza della Polizia, in 21 casi finiva con condanne del giudice.
Una soluzione giusta all'orizzonte?
Non dobbiamo dimenticare che le forze dello Stato difendono la legge.
Sono persone, come ognuno di noi, che vanno la mattina al lavoro e la sera tornano a casa. Rischiano la propria vita per combattere per le cose giuste dal loro punto di vista. Non sono le persone ricche che fanno questo lavoro, sono quelli che non hanno lo status più alto nelle classi sociali, quindi perché spesso si ritrovano a combattere contro e non a difendere quel 98% di popolazione delle classi medio-basse di cui loro stessi fanno parte? Come possiamo decidere se agiscono in modo giusto in momenti tesi?
Proprio nei Paesi in cui la brutalità poliziesca ha un significato preciso ed è qualcosa di conosciuto, lo Stato dovrebbe offrire formazione alla polizia, dovrebbe supportare il lavoro dei poliziotti con assistenza psicologica, dovrebbe essere sicuro di chi seleziona per difendere non solo sé stesso ma anche il popolo.
Quando le forze dell’ordine non ci fanno sentire in sicurezza… chi altro dovrebbe?
- Elisabeth Bianchi
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https://wien.orf.at/stories/3025677/
https://taz.de/Polizeigewalt-in-Frankreich/!5610995/
https://alloplacebeauvau.mediapart.fr/
https://www.vanityfair.it/news/cronache/2019/10/22/22-ottobre-2009-il-giorno-della-morte-stefano-cucchi
https://timgate.it/news/italia/caso-stefano-cucchi-storia-morte-chi-era.vum
http://m.espresso.repubblica.it/attualita/2019/11/15/news/stefano-cucchi-ucciso-agenti-verita-1.340893?fbclid=IwAR2qkByYvD4F-uoNTCG1CzVXxpjIYLrQsFAivRx5XcgnYRyeJcsCTceT9MA
https://roma.repubblica.it/cronaca/2019/11/18/news/caso_stefano_cucch_ilaria_querela_salvini-241345121/
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svediroma · 4 years
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Manifestazione “Non una di meno”
23 Novembre 2019, Roma
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Un corteo coloratissimo contro la violenza degli uomini sulle donne, e noi in mezzo alla grande folla.
Dedicato alla giornata internazionale del 25 novembre, abbiamo manifestato – secondo fonti della Questura – insieme a 10 mila altre donne e pure uomini, “per tutte quelle donne che non hanno più voce“.
Secondo gli organizzatori, a questa giornata esistente dal 1999 partecipavano ancora più persone, in totale 100.000 manifestanti, che sono scesi in strada per esprimere la rabbia nei confronti della violenza maschile e altre tematiche.
Un percorso cominciato da Piazza della Repubblica (naturalmente con novanta minuti di ritardo perché siamo in Italia), dove tantissime persone si sono incontrate per lasciare un segno.
Un segno con l’obiettivo di ricevere attenzione e fare delle richieste alla politica di questo Paese.
Ma anche un segno di contributo al senso di unanimità, per dimostrare che non siamo d'accordo con la violenza patriarcale, il sessismo, il razzismo, il capitalismo e il fascismo.
Accompagnati da musica, due carri colorati aperti e animati dalle donne e dalle soggettività LGBTQIPA+ hanno guidato tutti i manifestanti fino a San Giovanni, passando Termini e Corso Vittorio Emanuele.
Il corteo era organizzato dai centri antiviolenza femministi, dai percorsi di fuoriuscita dalla violenza di genere, dalle case delle donne e tanti altri.
Un punto centrale durante tutta la manifestazione era lo slogan “Non una di meno”.
La storia di questa frase ha inizio in America Latina con un appello elaborato di un gruppo di giornaliste e docenti contro i femminicidi e le violenze di genere. Un testo della poeta e attivista messicana Susana Chavez, uccisa nel 2011 per aver segnalato i crimini contro le donne messicane, era l'ispirazione per lo slogan “Ni una menos“.
In comune loro hanno l'obiettivo di riaffermare una nuova stagione di consapevolezza. Oggi tanti sottogruppi e organizzazioni diversi lottano più o meno per la stessa cosa.
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Guardando in giro riconoscevamo i diversi gruppi di appartenenza grazie ai vessilli, alle bandiere, al trucco o ai vestiti in colori unitari.
Specialmente la maschera blu saltava agli occhi, era quella delle luchadoras, a sostegno della struttura di accoglienza Lucha Y Siesta di Roma, un luogo materiale e simbolico di autodeterminazione delle donne.
 Alle 16:30, alla Piazza dell'Esquilino, la marcia si è fermata per qualche minuto, la gente si è seduta in silenzio assoluto per ricordare tutte le donne che sono state uccise dai propri fidanzati, mariti o altro. In quel momento il ricordo è stato anche per una attivista conosciuta: Daniela Carrasco, Chilena, uccisa dalla Polizia solo un mese prima della manifestazione, il 20 ottobre 2019 (anche se non sono ancora chiare le cause della sua morte, i familiari e la polizia parlano di suicidio).
Poi: il Grido!
“Siamo il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che non hanno più voce“
Ci siamo alzati ed abbiamo strillato. Un grido, come dicevano loro, per tutta la rabbia che sentiamo. Un Grido Globale contro la violenza maschile.
I fumogeni rendevano tutta la piazza colorata, quando è cominciata una performance molto toccante di una danzatrice: una canzone accompagnata da parolacce come “Negra, Lesbica, Vittima“ formava lo sfondo della danza. Alla fine si strappava i vestiti di dosso, lasciava perdere la sua gonna e correva via.
Secondo noi è stata una manifestazione piena di sentimenti; era un misto perfetto e equilibrato tra gioia e serietà.
Danzavamo e godevamo di ottima musica techno, senza mai perdere di vista il tema centrale e l'attualità del problema in Italia e tutto il mondo.
Ascoltando alcune letture di fatti legati ai femminicidi, ad esempio la lettera di una ragazza in memoria di sua sorella uccisa da un uomo, imparavamo anche un po' di più sulla violenza degli uomini contro le donne.
Sconcertante era per esempio il fatto che in Italia una donna viene uccisa ogni 72 ore dai propri partner o familiari e solo quest’anno sono state 96 in tutto il Paese.
Ancora più allucinante invece era il dato legato ai nostri paesi di provenienza: i numeri non sono meno gravi, per questo ci siamo rese conto che si tratta veramente di un problema globale (con 137 femminicidi in media ogni giorno su scala mondiale).
In fin dei conti l’importanza di questa tematica ha unito le donne di diverse nazionalità, sessualità ed età perché ognuno di noi sentiva che combattiamo per la stessa cosa. 
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-  Elisabeth Bianchi, Teresa Fischer
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svediroma · 4 years
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La crisi della nostra società
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Siamo nell’anno 2020. E stiamo a casa. Stiamo a casa perché il governo ci prega di non uscire. Ed alcuni di noi sono in ansia. L’ansia di non sapere come continuerà questa pandemia. L’ansia di non poter uscire per tanto tempo fuori e l’ansia di contagiarsi con questo maledetto virus.
Siamo forse anche un po’ arrabbiati, perché non capiamo la situazione, i pericoli, le paure delle altre persone e pure la disperazione dei politici che si ritrovano in un periodo come mai prima.
Ma i social network ci costringono a confrontarci con ogni aggiornamento, ogni nuovo caso, ogni morto.
Quindi stiamo tutti a casa. E suoniamo dai balconi, facciamo musica per lanciare un segnale: “non siamo soli!”.
Avete mai pensato al fatto che ci sono persone che non hanno una casa e che sono da sole?
Queste 50 mila persone in Italia, di cui circa 8 mila solo a Roma, che ora sono chiusi fuori anche dagli ultimi posti innocui, ossia dai parchi?
Secondo un’Indagine trovata sul Web il 40% della gente che abita per strada ha la cittadinanza italiana (https://www.internazionale.it/reportage/giuseppe-rizzo/2019/09/09/roma-senzatetto). E inoltre il 56% si trova al nord Italia.
La zona più colpita di tutta come sappiamo è L’Europa.
Questa non è solo una crisi di salute, ma pure sociale! Per esempio la Chiesa e le attività di assistenza sociale ad essa legate hanno deciso di allungare la distribuzione di cibo di un’ora al giorno, così le persone non devono aspettare troppo col rischio che poi se ne vadano. Un buon inizio.
Però dove vanno poi queste persone? Il Governo ha il ruolo di gestire tante cose in un momento come questo che ci mette tutti sotto pressione, ma una soluzione si deve trovare. Non può essere che anche in una situazione di emergenza come questa nessuno può dare una mano ai poveri.
Così come il fatto che tanti volontari hanno rinunciato al loro ruolo perché preferiscono stare a casa. È comprensibile, o no?
Già… non possiamo fare nulla, dobbiamo restare a casa. Il nostro sistema sociale sta crollando.
Siamo isolati, forse ci riuniamo con gli altri, ritrovandoci sul balcone e cantando canzoni contro la paura, ma siamo sempre isolati, perché non ci rendiamo conto di quello che succede fuori questa cupola.
Da settimane il News Feed è pieno di titoli sul COVID-19 (Sars-CoV-2) e siamo informati al massimo, ma alla fine non si sa niente di questo agente patogeno nuovo ed estraneo.
Nessuna novità sul calcio, sul tennis, sulla Formula 1 e sulle celebrità. E abbiamo cancellato dalla nostra memoria anche la crisi dei rifugiati.
Non dobbiamo distogliere lo sguardo! Lesbo è in fiamme, in mezzo ad un incendio. Ci sono persone morte, anche bambini.
Sono queste le persone che vivono davvero un incubo, mentre noi siamo a casa sul divano, costretti a non muoverci dalla nostra proprietà.
Mentre più di 100.000 persone combattono, per sé stessi, per le proprie famiglie. Abitando in pochissimo spazio, in container e tende, ogni giorno è una lotta nuova per la Pace e una vita lontana dalla guerra. Questi umani – la maggioranza dei quali siriani – sono bloccati, tra il confine della Turchia e la Grecia, per arrivare nell’Unione Europea.
La causa scatenante risale al 27 febbraio, quando il governo turco prende una decisione che cambia l’accordo della Turchia con la UE: il confine non viene più bloccato, come concordato.
500.000 vittime, uccise in questa guerra civile sotto il presidente Siriano Baschar Al-Assad. Il territorio è disintegrato o viene controllato del regime di Assad, gruppi d’opposizione, l’unità della difesa del popolo curdo o Islamisti. Nove anni di guerra e non si vede la fine.
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976.249 contagiati, 50.489 decessi, 207 Paesi, aree o territori con casi (Fonte: World Health Organization). Questo sono i dati attuali, alle ore 21:00 del 3 aprile 2020, che abbiamo del Coronavirus.
State a casa per favore, che ci sono persone che lo desiderano dal cuore ma non possono.
Ma voi pensate che ci sia qualcuno che fugge dal proprio Paese senza motivo? Abbandona la sua casa, forse la sua famiglia, i suoi amici, i ricordi d’infanzia (tra l’altro, con la prosecuzione senza fine della guerra, forse neanche ci sono dei bei ricordi)?
Sono persone che affrontano tanti ostacoli pericolosi per avere una vita che noi abbiamo scordato di apprezzare.
Sono distribuiti sul territorio della Grecia, pure sulle isole dove arrivano con le barche. Sulla terraferma, tutti in preda al panico e all’ansia, cercando di distruggere la recinzione. I gas lacrimogeni sono stati la risposta.
Adesso tutti sono bloccati lì, a nessuno è permesso di entrare nel nostro territorio! Ma perché?
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Dopo la morte di 34 soldati turchi nella provincia siriana di Idlib, Recep Tayyip Erdogan, presidente della Turchia, ha aperto le porte per andare in Grecia, per provocare l’Unione Europea a integrarsi nel conflitto-siriano. La carica governante di Edirne ha reso pubblico che da fine febbraio sono stati contati 147.000 rifugati, ma i numeri esatti non si trovano. Condizioni miserabili, e tanti stanno tornando nel loro paese senza successo.
E vi ricordo che pure lì c’è il Coronavirus.
Dai #andràtuttobene e #noirestiamoacasa
In una emergenza come la viviamo oggi è importante avere coesione e collaborazione, solidarietà. Dobbiamo stare calmi e non perdere la testa.
Non dobbiamo credere in ogni informazione che circola sul “world wide web”. Sono molte le “fake news” a cui dobbiamo fare attenzione.
Non dobbiamo abbandonare i nostri cari animali. Loro non si contagiano, né trasmettono il virus. Questa sarebbe solo l’Inizio di un’altra emergenza (abbandoni, centri di accoglienza per animali dove il personale non è al momento operativo, ecc.).
Ma dobbiamo vedere questa cosa anche da una prospettiva diversa…
L’essere umano in questo momento è rinchiuso, sotto controllo. Il mondo può respirare.
Avete visto quanto velocemente si rigenera la natura? Uno stop di aerei, guardo il cielo e non ne vedo neanche uno. Sento gli uccellini cantare a pieno ritmo.
“Già. Per esempio. Che grida di vittoria perché l’uomo, come quel vostro cappellaccio, s’è messo a volar, a far l’uccellino! Ecco intanto qua un vero uccellino come vola. L’avete visto? La facilità più schietta e lieve che s’accompagna spontanea a un trillo di gioia. Pensare adesso al goffo apparecchio rombante e allo sgomento, all’ansia, all’angoscia mortale dell’uomo che vuol fare l’uccellino! Qua un frullo e un trillo; là un motore strepitoso e puzzolente, e la morte davanti. Il motore si guasta; il motore s’arresta; addio uccellino!” Luigi Pirandello – Uno, nessuno e centomila
Noi inquiniamo e causiamo danni alla Madre Terra. Forse noi siamo il virus più pericoloso per questo mondo e i suoi abitanti. Ora che siamo fermi la natura si sta rigenerando. E i risultati sono stati dimostrati in poco tempo.
Delfini, pesci, cigni sono stati avvistati a Venezia, in molte zone l’acqua è tornata ad essere limpida e pulita.
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In Cina l’inquinamento da polveri sottili è diminuito del 30%, la NASA ha pubblicato foto satellitari che ci hanno sconvolti ed emozionati.
Un segnale questo virus? Sicuramente un’opportunità. Un’opportunità di cambiare il nostro stile di vita. Per renderlo più sostenibile, stare in armonia con la natura, proteggerci l’un l’altro.
Dobbiamo togliere queste navi e aerei giganti, che inquinano e rubano spazio a tutte le specie solo per i nostri benefici. Perché l’uomo è così avaro ed egoista?
Il tempo passerà, dobbiamo fare quello che si ritiene giusto, la gente uscirà di nuovo, le macchine verranno riaccese, l’economia mondiale verrà sbloccata.
E torneremo dove stavamo prima.
Gli effetti stanno già diminuendo, dal momento in cui non c’erano più nuovi contagi la Cina sta annullando le restrizioni e il livello NOx sta aumentando di nuovo.
Dobbiamo prenderci cura della nostra casa, per prenderci cura di noi.
Ognuno di noi può fare la sua parte in questo periodo, per essere solidale e di aiuto in un momento di emergenza.
- Elisabeth Bianchi
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