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n-z-speed-racing · 7 months
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Piaggio ciao con 86cc big bore con raffreddamento a liquido
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Il Ministero dell'economia e delle finanze proroga a metà i versamenti collegati al modello Redditi 2023
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Per i versamenti collegati al modello Redditi 2023 sarà una proroga a metà, le esigenze di cassa dello Stato, infatti, non consentono di andare oltre il 31 luglio 2023.  Nonostante il ritardo accumulato nella pubblicazione del Decreto del Ministero dell’Economia e finanze del 28 aprile 2023, con il quale sono state approvate le modifiche agli indici sintetici di affidabilità fiscale applicabili al periodo d’imposta 2022, con il Comunicato Stampa n. 98 del 14 giugno 2023 il MEF annuncia una prossima disposizione normativa che, per professionisti e imprese di minori dimensioni che esercitano attività per le quali sono approvati gli Indici Sintetici di Affidabilità fiscale (ISA), prorogherà al 20 luglio 2023 i termini dei versamenti delle somme risultanti dalle dichiarazioni dei redditi, IRAP e IVA in scadenza il prossimo 30 giugno 2023. Il versamento con la maggiorazione dello 0,40 per cento resta fissato al 31 luglio 2023.  Ai sensi dell’articolo 17 del Decreto del Presidente della Repubblica del 7 dicembre 2001, n. 435, in condizioni ordinarie, il versamento del saldo dovuto con riferimento alla dichiarazione dei redditi ed a quella dell'imposta regionale sulle attività produttive da parte delle persone fisiche, e delle società o associazioni di cui all'articolo 5 del TUIR, è effettuato entro il 30 giugno dell'anno di presentazione della dichiarazione stessa ovvero entro il trentesimo giorno successivo ai termini ivi previsti (quest’anno 31 luglio 2023), maggiorando le somme da versare dello 0,40 per cento a titolo di interesse corrispettivo. Solo per le persone giuridiche, confermata la possibilità di versamento ritardato con l’applicazione degli interessi corrispettivo, il versamento è effettuato entro l'ultimo giorno del sesto mese successivo a quello di chiusura del periodo d’imposta ovvero, per i soggetti che approvano il bilancio oltre il termine di quattro mesi dalla chiusura dell’esercizio, entro l’ultimo giorno del mese successivo a quello di approvazione del bilancio e, comunque, entro l’ultimo giorno del mese di luglio nel caso in cui il bilancio non sia stato approvato entro il 30 giugno.  È un problema che si ripete puntualmente ogni anno. La dilatazione dei tempi necessari per la messa a disposizione dei modelli ministeriali e degli applicativi funzionali alla loro elaborazione, ISA fra tutti, accorcia inevitabilmente il tempo di lavorazione delle dichiarazioni dei redditi a disposizione dei commercialisti. Una cattiva abitudine che viola le disposizioni in tema di efficacia temporale delle norme tributarie. Ai sensi dell’articolo 3, comma 1, dello Statuto del Contribuente le modifiche relative ai tributi periodici hanno efficacia solo a partire dal periodo d’imposta successivo. In ogni caso le disposizioni tributarie non possono prevedere adempimenti a carico dei contribuenti. La relativa scadenza, inoltre, non può essere fissata anteriormente al sessantesimo giorno dalla data della loro entrata in vigore o dall’adozione dei provvedimenti di attuazione, qualora previsti. Facendo i calcoli, il sessantesimo giorno successivo alla pubblicazione del Provvedimento ISA è il 15 luglio 2023.  In passato la questione è stata efficacemente risolta con l’adozione del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri previsto dall’articolo 12, comma 5, del Decreto Legislativo 9 luglio 1997, n. 241. Tale disposizione, in base alle esigenze generali dei contribuenti, dei sostituti e dei responsabili d'imposta o delle esigenze organizzative dell'Amministrazione finanziaria, consente il differimento dei termini riguardanti gli adempimenti degli stessi soggetti, relativi a imposte e contributi, per un periodo non superiore a venti giorni. L’emanazione del predetto differimento, inoltre, ai sensi dell’articolo 17, comma 2, del Decreto del Presidente della Repubblica 7 dicembre 2001, n. 435 consente l’ulteriore differimento e il versamento nei trenta giorni successivi, con la maggiorazione dello 0,40 per cento a titolo di interesse corrispettivo. In condizioni normali l’adozione del predetto provvedimento avrebbe differito, rispettivamente al 20 luglio 2023 (dal 30 giugno 2023) e al 21 di agosto 2023 (dal 31 luglio 2023), la prima e la seconda chiamata al versamento delle imposte sui redditi. Tutto ciò quest’anno non accadrà. Nonostante la pressione del Consiglio Nazionale dei Commercialisti, il MEF annuncia che le somme in scadenza il 30 giugno 2023 potranno essere versate entro il 20 luglio 2023, senza alcuna maggiorazione, ovvero entro il 31 luglio 2023, applicando una maggiorazione dello 0,40 per cento. Potranno beneficiare della proroga anche i contribuenti che presentano cause di esclusione dagli ISA, compresi quelli che si avvalgono del regime dei minimi, i soggetti che applicano il regime forfetario, nonché coloro che partecipano a società, associazioni e imprese ai sensi degli articoli 5, 115 e 116 del TUIR soggette agli ISA.  “La disponibilità e l’ascolto da parte del MEF e dell’Agenzia delle Entrate sono stati più che apprezzabili, ma cogenti vincoli di finanza pubblica non hanno consentito un differimento oltre il termine del 31 luglio”. Secondo il Presidente del CNDCEC “è stato fatto il massimo per contemperare le legittime richieste dei Colleghi e dei contribuenti con le esigenze di equilibrio dei conti dello Stato”. Read the full article
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usmaradiomagazine · 1 year
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Usmaradio X Giornata della Memoria 2023 🎧 𝗔𝗻𝗻𝗮 𝗦𝘁𝗲𝗶𝗻𝗲𝗿 - 𝗚𝗿𝗮𝗳𝗶𝗰𝗮 𝗲 𝗹𝗶𝗯𝗲𝗿𝘁à Roberto Paci Dalò incontra Anna Steiner e Lucia Roscini per un approfondimento sul workshop "Vapore" di Unirsm Design in cui gli studenti hanno affrontato la tematica della deportazione nei campi di sterminio nazisti per progettare una mostra tascabile, formato cartolina, che presenti immagini storiche in forma originale o elaborata. Nella conversazione si riflette sul ruolo del progettista in considerazione dell'eredità storica dell'Olocausto e del progressivo svuotamento del potere delle immagini nei nostri tempi. La ricerca degli studenti è partita dalle foto contenute nel Fondo Deportazione dell'Archivio Albe e Lica Steiner (circa 900 foto del 1933-1950) per riproporre una modalità diversa di selezione, elaborazione, esposizione e comunicazione delle immagini rispetto a quanto fatto per le esposizioni realizzate su questi argomenti al termine della guerra.  🎧 𝗟𝘂𝗶𝘀 𝗦𝗮𝗹 - 𝗟𝗮 𝗠𝗲𝗺𝗼𝗿𝗶𝗮 𝗮𝗹 𝘁𝗲𝗺𝗽𝗼 𝗱𝗲𝗶 𝘀𝗼𝗰𝗶𝗮𝗹 Alessandro Renzi incontra Luis Sal per un approfondimento sul workshop "Vapore" a cura di Unirsm Design. Nell’incontro ci si interroga sul potere comunicativo delle immagini rispetto al passato e nei confronti delle nuove generazioni. Infatti, il lavoro di Luis nel workshop si è concentrato sulle possibili modalità di comunicazione della mostra attraverso i canali social. Gli studenti hanno lavorato alla realizzazioni di mini video ponendosi come target un pubblico di giovanissimi e cercando di intercettare una modalità di comunicazione radicalmente diversa rispetto a quelle classiche riservate a queste tematiche. Maggiori informazioni sul workshop -> Articolo UNIRSM.SM
Anna Steiner è architetto e docente alla facoltà di Design al Politecnico di Milano. Lavora nell’ambito degli allestimenti e della grafica nello studio Origoni Steiner e ha collaborato con numerosi editori, imprese ed enti pubblici per libri e pubblicazioni, identità visive e immagini coordinate, mostre e comunicazioni dedicate alla grafica italiana. È figlia di Albe e Lica Steiner, tra i protagonisti del rinnovamento della grafica e della comunicazione italiana (da quella aziendale a quella politica) nel secondo Dopoguerra. 
Luis (@luis_sal ) vanta 1,46 milioni di iscritti e oltre 250 milioni di visualizzazioni su Youtube. Seguitissimo anche sui social, il suo profilo conta oggi 2,2 milioni di follower. È autore di 2 libri di successo: “Ciao, mi chiamo Luis” (2018) e "Il Luismo" (2021) dove spiega e racconta i principi della sua filosofia di vita. Si occupa di comunicazione e marketing per varie aziende, è un volto tv grazie al reality di Amazon Celebrity Hunted dove concorre assieme all’amico Fedez, e con lui fonda un podcast, Muschio selvaggio.
Vapore è il workshop con Anna Steiner e Luis Sal del Laboratorio di design della comunicazione 3 a cura di Lucia Roscini e Ilaria Ruggeri. 12-13-20 gennaio 2023
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Gli Stati Uniti riducono i tempi di attesa del visto fino a 2 mesi per i colombiani #Gli #Stati #Uniti #riducono #tempi #attesa #del #visto #fino #mesi #colombiani #vistoe1 #vistoe1 #vistousa #vistostaiuniti #vistoamerica #visto #immigrazione
Gli Stati Uniti riducono i tempi di attesa del visto fino a 2 mesi per i colombiani #Gli #Stati #Uniti #riducono #tempi #attesa #del #visto #fino #mesi #colombiani #vistoe1 #vistoe1 #vistousa #vistostaiuniti #vistoamerica #visto #immigrazione
Gli Stati Uniti riducono i tempi di attesa del visto fino a 2 mesi per i colombiani Il team consolare dell’ambasciata degli Stati Uniti a Bogotà accoglie con favore la riduzione dei tempi di elaborazione dei visti. Foto: USEmbassyBogotá/Twitter Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha annunciato mercoledì presso l’ambasciata degli Stati Uniti a Bogotá che i tempi di elaborazione dei visti…
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magicnightfall · 3 years
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MY SADNESS AND MY HOPE
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*Avviso ai naviganti: questo post è come quelle ricette che trovate sui blog di cucina in cui prima di arrivare a leggere il procedimento per la panna cotta dovete sorbirvi il racconto dell’infanzia a San Vito Chietino di chi ha scritto l’articolo. Pertanto, se non volete conoscere lo stato della mia sanità mentale dopo più di un anno di pandemia, perché giustamente pensate vabbèmachecazzomenepuòfregarechegiàhotantiproblemidimio e volete andare subito alla parte in cui blatero e straparlo di WandaVision, scorrete fino al primo titoletto in grassetto corsivo*
«Ciao, sono PieraPi e non vado al cinema da 479 giorni.» «Ciao, PieraPi.» Una volta contavo i giorni che mi separavano dalle cose belle future, e adesso posso solo tenere traccia di quelli trascorsi, che si ammucchiano come vecchie riviste su quel tavolino da caffè traballante che è la mia testa. Mi sento sempre più vicina allo sbroccamento totale, e sapessi almeno quando avverrà — una data, un’ora, un minuto, un istante, è quello, fran — potrei organizzare un conto alla rovescia in memoria dei bei vecchi tempi. E invece no, manco ‘sta soddisfazione mi viene data. Vivo in costante attesa di un tracollo che sento vicino ma che non arriva, un po’ come quando ti pizzica il naso ma non riesci a starnutire, e resti appesa con la faccia da deficiente. In realtà dico così perché ho sempre pensato che il tracollo debba essere una specie di eruzione pliniana, un evento così distruttivo da divenire un chiaro spartiacque tra il prima e il dopo, ma a questo punto mi è venuto il dubbio che invece possa semplicemente essere un processo sedimentario, una consunzione lenta e ineluttabile (wink wink nudge nudge). Perché esplosa no, non sono esplosa. Erosa però sì. Mi sa che sono tracollata da mo’, e manco me ne sono accorta. Quando va bene mi sento soltanto un guscio vuoto che si trascina nel mondo non per volontà ma per inerzia, non per scopo ma per abitudine, per cui nulla ha senso e tutto è futile, senza più nessun entusiasmo e ancor meno interessi, quello che forse i cinici greci chiamavano adiaforia, ma è più fregancazzismo.
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Quando invece va male passo un sacco di tempo a cercare di non piangere; non sempre ci riesco. Guardo indietro e vedo solo anni buttati via a studiare cose che non mi interessano per fare un lavoro che non mi piace; guardo avanti e non riesco a vedere un futuro che vada oltre le nove di sera del giorno in cui mi sveglio. E se per caso capita che riesca a squarciare il velo di Maya-hii maya-huu maya-haa maya-ha ha che sta all’orizzonte, non vedo una me del futuro felice. Contenta ogni tanto, forse, ma felice mai. È colpa della pandemia? Sì, no, non sa/non risponde. Certo è che mentirei se dicessi che per gran parte non mi sentissi miseramente, superbamente a pezzi anche prima. È una sbronza, la pandemia: non altera la personalità ma si limita a far emergere ciò che da sobri riusciamo a nascondere o almeno a controllare. Tra l’altro io addirittura svuoto i Mon Chéri forandoli con lo stecchino per buttare via il liquore, quindi in effetti che diavolo ne posso sapere.
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Ma almeno prima, santoiddio, potevo andare al cinema. Almeno prima, santoiddio, avevo qualcosa da attendere. E sebbene ci siano stati alcuni film che ho aspettato con trepidazione — su tutti, per stare in tema Marvel, quelli della saga dell’infinito — in generale era proprio l’idea di andare al cinema che mi elettrizzava. Sedermi in poltrona, vedere le luci abbassarsi, guardare i trailer. Perfino le pubblicità sparate a tremila — ristorante pizzeria Orange, prima o dopo il cinema — per me erano una cosa bella. Andare al cinema era l’equivalente dell’infilare un caricabatterie in una presa di corrente, una botta di vita che mi rendeva tollerabile tutto il resto, e che mi sostentava fino all’esperienza di sala successiva. E lo stesso vale per le serate film a casa di un’amica che chiamerò Melania per tutelare la sua privacy, insieme a un’altra amica che chiamerò Silvia, in cui la prima passa la metà del tempo a scusarsi per il disordine e le tazzine di caffè dimenticate in bagno, e l’altra si gira a dormire e si sveglia solo per chiedere di abbassare il volume. Almeno quando ancora si poteva indulgere in cotali trasgressioni. Adesso, che nella presa di corrente infilerei ben più volentieri un dito, privata dell’una e dell’altra esperienza, è da un anno che mi alzo la mattina e, come Homer Simpson, “cerco solo che il giorno non mi faccia troppo male, finché non mi imbacucco nel letto” e scivolo nella benvenuta incoscienza. Gli unici film, ormai, sono quelli mentali. E non sono avventure epiche, no: sono Ricomincio da capo, o 50 volte il primo bacio (che poi non si può manco baciare nessuno, c’è la pandemia), perché ogni giorno è contemporaneamente la ripetizione del precedente e di quello successivo. Il concetto stesso di tempo, se il tempo è la misura del cambiamento, è volata dalla finestra: non scorre in linea retta e nemmeno in cerchio, ma in un groviglio di Jeremy Bearimy. Ogni tanto è martedì. La fine, per cortesia, si può vedere la fine? È in questo contesto desolante e mesto che si è inserita WandaVision, la miniserie introduttiva della Fase 4 del Marvel Cinematic Universe che, per otto settimane, mi ha fatto compagnia il venerdì sera e nei giorni di mezzo, quando con gli altri fan ci si scambiava opinioni, teorie e meme in egual misura. Se le serie tivvì (quelle sui supereroi in special modo) sono da sempre il mio rimedio contro il logorio della vita moderna, a maggior ragione una serie Marvel adesso è stata un cataplasma per il mio animo sgualcito. Per un po’ ho avuto qualcosa da attendere, ed è stato bello. E no, non mi sfugge l’ironia del cercare rifugio dalla realtà in una serie la cui protagonista    a sua volta cerca rifugio dalla realtà nelle serie. È la vita che imita l’arte che imita la vita. So you’re saying the universe created a sitcom starring two Avengers? WandaVision, le cui vicende si svolgono pochi giorni dopo Avengers: Endgame, vede come protagonisti due personaggi che, sebbene decisamente importanti nell’economia dell’MCU, sono sempre ricaduti sotto l’etichetta “secondari”: Wanda Maximoff e Vision. Questa miniserie è stata dunque la benvenuta occasione per gettare luce su coloro che, inevitabilmente, si sono sempre mossi all’ombra di personaggi ingombranti come Captain America, Iron Man e Thor, e l’ha fatto costruendo una solida e approfondita caratterizzazione (per Wanda in special modo) che soltanto una narrazione a episodi poteva consentire. Innanzitutto, c’è da dire che WandaVision è un prodotto innovativo, che utilizza la grammatica, il linguaggio e gli stilemi delle sitcom per raccontare il lutto e la sua elaborazione. E lo fa muovendosi contemporaneamente su due binari: da una parte percorrendo i vari decenni della tv americana, partendo dagli anni ’50 fino ai giorni nostri, adattando tecniche e registri stilistici sia all’epoca sia alle serie cult di riferimento, dall’altra le cinque fasi del lutto secondo il modello postulato dalla psichiatra Elisabeth Kübler-Ross nel 1969. Così, mentre vediamo Wanda e Vision passare dal bianco e nero a colori, dai 4:3 ai 16:9, dagli effetti speciali col filo trasparente alla CGI, parallelamente osserviamo Wanda venire a patti col suo dolore, dapprima negandolo (epp. 1-2) e poi accettandolo (ep. 9), ma non prima di aver sperimentato rabbia (epp. 3-4), patteggiamento (epp. 5-6) e depressione (epp. 7-8). E in effetti è proprio Wanda il vero focus della serie, che avrebbe ben potuto chiamarsi “Wanda’s vision”, se non fosse stato appena appena spoiler. È lei che, sebbene inconsciamente, ha creato la realtà fittizia che ha inglobato dentro a un esagono di pura magia una piccola porzione di New Jersey, la cittadina di Westview, che Vision aveva scelto come luogo per “invecchiare insieme”. Wanda riscrive la realtà secondo il suo bisogno di lieto fine, che segue a vent’anni di traumi accumulati e mai affrontati: la morte dei genitori in un bombardamento e poi quella di Pietro dovuta a Ultron, l’incidente in Lagos in cui Wanda ha causato la morte di alcuni civili nel tentativo di salvarne altri, gli accordi di Sokovia e la conseguente etichetta di fuorilegge (se non proprio di terrorista), la prigionia nel Raft, dover uccidere Vision per salvare metà dell’Universo, ma solo per vedere Thanos portare indietro il tempo e ucciderlo lui stesso. E poi lo “snap” del titano e il “blip” di Hulk, il ritorno cinque anni dopo e Vision smembrato dallo S.W.O.R.D. La “visione di Wanda” è dunque l’illusione di una famiglia, lei che ha perso ogni singolo membro della sua, e un luogo cui appartenere, lei che è una straniera in terra straniera. La sua illusione prende la forma delle sitcom, quella particolare categoria di serialità in cui tutto si risolve e nessuno è mai “realmente ferito” perché “non è quel tipo di show”, in cui lei ha sempre trovato conforto. Io, per dire, sono perfettamente consapevole del ruolo che ha giocato Modern Family nel tenermi sana di mente durante gli oscuri anni universitari. Ecco quindi che WandaVision non è solo un tassello del Marvel Cinematic Universe che porta avanti una storia iniziata nel 2008 con Iron Man, ma è anche e soprattutto un brillante esperimento di meta-televisione, in cui i riferimenti alle serie tv del passato non sono mero citazionismo pop fine a se stesso ma diventano necessario meccanismo di narrazione in quanto, appunto, strumenti per l’elaborazione del lutto di Wanda. Perfino gli intermezzi pubblicitari, elementi ulteriori che ci hanno venduto l’idea di stare assistendo alla trasmissione di un programma (endo)televisivo vero e proprio, hanno contribuito a narrare in via simbolica e subliminale il malessere di Wanda (va da sé che, come le sitcom, anche le pubblicità sono frutto dell’inconscio di lei stessa): lo spot del tostapane a marchio Stark, con l’unico tocco di colore in una trasmissione altrimenti in bianco e nero dato dalla luce rossa pulsante, richiama il lampeggiare della bomba inesplosa di Sokovia; quello dell’orologio a marchio Strücker è un riferimento agli esperimenti cui sono stati sottoposti i gemelli Maximoff; quello del sapone a marchio Hydra è piuttosto eloquente nel promettere una fuga dalla realtà, e rivolgendosi a chi voglia trovare la propria “dea innata” è altresì un sagace richiamo all’essenza (mitologica) di Wanda stessa; ugualmente eloquente lo spot della carta assorbente Lagos, “per quando combini un casino senza volerlo”. Quello dello yogurt Yo-Magic, in cui il bambino naufrago sull’isola deserta finisce col morire di fame per non essere stato in grado di aprire il vasetto, potrebbe invece essere un diretto riferimento a Vision, che è stato creato con la magia (“your magic”) ma potendo esistere solo all’interno dell’esagono quella stessa magia non è in grado di sostentarlo in toto; infine, quello del farmaco antidepressivo Nexus si riferisce, oltre alla condizione psicologica di Wanda, anche al fatto che nei fumetti lei sia un “essere Nexus”, ossia uno di quegli individui, uno per ogni mondo del multiverso, in grado di alterare la realtà. Dick Van Dyke again? Always sitcom, sitcom, sitcom... Dei nove episodi di WandaVision, ognuno con un titolo che richiama il mondo seriale, sei sono in stile sitcom. Molte di più, però, sono quelle omaggiate, nelle tecniche, nelle sigle, nelle scenografie: The Dick Van Dyke Show (Dick Van Dyke è stato persino consultato), Lucy ed io, Vita da strega, La famiglia Brady, The Mary Tyler Moore Show, Genitori in blue jeans, Gli amici di papà, Casa Keaton, Malcolm, Happy Endings, The Office, Modern Family (per quest’ultima rimediando l’aperto plauso di Julie Bowen, interprete di Claire Dunphy).
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In realtà ve ne sono moltissime altre, perlomeno a giudicare dai mille articoli di approfondimento imperversati su internet, che più articoli erano tesi di laurea, ma le mie limitazioni anagrafiche e una coscienza seriale che si sviluppa solo a partire dalla metà degli anni ‘90 non mi consentono di essere più di tanto esaustiva. Una cosa però la so: vista la mia già menzionata affezione per Modern Family, vedere Elizabeth Olsen dar impeccabilmente vita alla versione MCU di Claire Dunphy mi ha portato più gioia della ricezione di un bonifico.
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I’m so tired. It’s just like this wave washing over me, again, and again. It knocks me down, and when I try to stand up, it just comes for me again. It’s just going to drown me. In ogni caso Wanda Maximoff nasce, e resta, un personaggio estremamente tragico, e non c’è nessuna sitcom che possa ovviare a questa verità. D’altronde, le sitcom stesse non erano che un mezzo per arrivare a un fine: vivere un’esistenza, per quanto soltanto fittizia, per una volta priva di dolore (e lo stesso passaggio da un decennio all’altro non è che un modo per illudersi di avere avuto, con Vision e i figli Billy e Tommy, tutto il tempo che hanno le altre famiglie). La sofferenza di Wanda ha una portata tale da informare ogni sua decisione, conscia e inconscia. È certamente conscia la decisione di tenere Westview sotto il suo incantesimo, per quanto non immagini nemmeno che le persone coinvolte ne soffrano (anzi, crede sia il contrario), ed è certamente inconscia la creazione dell’esagono: l’unica consapevolezza riguarda il sentimento che ha condotto a quell’evento.
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Per Wanda il tracollo è stato sì un’eruzione pliniana, scatenata dalla vista del lotto di terreno acquistato da Vision e che nei piani era destinato a diventare casa loro. Sopraffatta, Wanda cade in ginocchio e la magia che andrà a produrre sia l’ESA sia Vision prorompe non (soltanto) dalle mani, come è sempre stato, ma direttamente dal petto, in una sequenza tra le più intense e drammatiche, in pieno parallelismo con quella di Age of Ultron, in dieci anni di MCU.
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I don’t know how I did it. I only remember feeling completely alone. Empty. Just endless nothingness. Il fatto che la creazione dell’ESA e tutto ciò che ne è conseguito fosse involontaria, e che Wanda ne abbia soltanto una minima (ma via via crescente) consapevolezza (quando dice di non essere lei a controllare gli abitanti di Westview nella misura che insinuava Vision, di totale privazione del libero arbitrio, o ribadisce ad Agatha di non aver fatto nulla, non sta mentendo: sta soltanto rimuovendo e sopprimendo un trauma) contribuisce a delineare il personaggio in una maniera assolutamente originale. Non sarebbe stata la stessa cosa se invece vi fossero state premeditazione e volontà di ferire gli altri in cambio della sua felicità: in quel caso avremmo avuto a che fare con un’antagonista pura e semplice. Wanda, invece, che comunque milita nelle fila dei buoni, è qualcosa di più: è un’eroina tragica nel senso in cui lo intendeva Aristotele nella “Poetica”: “Sarà cioè buon personaggio da tragedia colui il quale, senza essersi particolarmente distinto per sua virtù o sentimento di giustizia, neanche sia tale da cadere in disavventura a cagione di sua malvagità o scelleraggine, bensì a cagione soltanto di qualche errore” [Laterza, edizione digitale 2019, trad. Manara Valgimigli]. Wanda, nonostante quello che possano pensare i cittadini di Westview, non è una villain: non ha agito (nella parte conscia delle sue azioni) per malvagità, ma per il “difetto fatale” che le è proprio, cioè l’incapacità di processare il suo lutto. E quando si rende conto che quegli stessi cittadini preferirebbero morire che vivere un solo altro istante con il dolore di lei nella testa, non esita a distruggere l’ESA, anche se questo significa dover rinunciare all’illusione in cui si era rifugiata. Tra l’altro, è opinione dello Stagirita™ che la tragedia non debba rappresentare “uomini estremamente malvagi cadere dalla felicità nella infelicità, perché, se anche una composizione siffatta potrebbe soddisfare per un certo rispetto il gusto del pubblico, non potrebbe però suscitare nessun sentimento né di pietà né di terrore: si prova pietà per una persona la quale sia immeritamente colpita da sventura, si prova terrore [“terrore”, in tutte queste espressioni, significa più propriamente “trepidazione”] per una persona la quale [, egualmente colpita da sventura,] abbia parecchi punti di somiglianza con noi; e insomma, pietà per l’innocente, terrore per chi ci somiglia”. Quand’anche in questa miniserie Wanda si muova spesso in un’area moralmente grigia, resta in ogni caso un personaggio verso il quale provare aristotelica empatia. Di più: le si vuole bene, dai. You, Vision, are the piece of the Mind Stone that lives in me. You are a body of wires, and blood, and bone that I created. You are my sadness, and my hope. But mostly, you’re my love. Dopotutto, bisognerebbe essere proprio dei cuori di pietra per non sentirsi nemmeno un po’ partecipi della più delicata e sventurata (e insolita — Vision non è nemmeno un essere umano) storia d’amore dell’MCU. Quello che nei film era stato appena accennato (data la natura corale degli stessi, in cui il focus era sui personaggi “maggiori”) qui è stato sviluppato e approfondito: dalla scena del paprikash di Civil War a vederli genitori di due gemelli tanto pucciosi quanto magici; dalla vita fuori dai radar a Edimburgo a una casetta con la staccionata bianca nella placida periferia americana. Certo, basta solo non pensare al fatto che quel Vision lì non esiste davvero. I can’t feel you Il vero Vision, infatti, giace(va) ormai smantellato come una macchina qualsiasi e non un essere senziente e dai sentimenti purissimi nonostante la sua natura artificiale. Nell’episodio 8 quel fil rouge di percepirsi, quella comprensione profonda l’una dell’altro che era la cifra del loro rapporto, si è definitivamente spezzato, unitamente ai nostri cuori. Cioè, il mio di sicuro.
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But what is grief, if not love persevering?
Però cos’è il dolore, se non amore perseverante? Non deve stupire che sia stato Vision a pronunciare la frase-simbolo della serie. Nonostante sia un sintezoide, dalla sua introduzione nell’MCU si è rivelato il personaggio in grado di dimostrare la più pura forma di solidarietà, comprensione e indulgenza verso gli altri. Un essere artificiale, sì, ma da sempre definito dalla sua caratteristica migliore e principale: l’umanità. D’altronde, prima ancora di Cap, Vision è stato fin da subito degno di sollevare il Mjölnir di Thor.
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L’ESA-Vision, poi, è ulteriormente peculiare. Rivive per unica volontà di Wanda, suprema demiurga, e nonostante sia “un ricordo diventato realtà” esercita, a differenza degli altri abitanti di WestView, il libero arbitrio, al punto da arrivare a mettere in discussione la “sceneggiatura” della moglie.
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This is Chaos Magic, Wanda. And that makes you the Scarlet Witch WandaVision è stata anche, e soprattutto, l’origin story di Wanda Maximoff come sceneggiatrice regista produttrice segretaria di edizione tecnica delle luci costumista Scarlet Witch. Sebbene Wanda abbia fatto il suo ingresso nel Marvel Cinematic Universe già nel 2014 (nella scena dopo i titoli di coda di Captain America: The Winter Soldier) e sia stata presente in Avengers: Age of Ultron, Captain America: Civil War, Avengers: Infinity War, Avengers: Endgame, per una mera questione di diritti del personaggio (allora appartenenti alla 20th Century Fox) non era stato possibile, fino ad oggi, appellarla col suo nom de guerre fumettistico, Scarlet Witch. Vederla trasformarsi e poi discendere dal cielo di Westview col nuovo costume e la consapevolezza di chi effettivamente è mi ha gasata tanto quanto, al cinema durante Endgame, mi ha gasata vederla apparire dal nulla e piazzarsi davanti a Thanos. Sì, il traguardo è stato tagliato dopo una maratona lunga sette anni, ma ne è valsa la pena.
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A questo punto, tra l’altro, si può anche dichiarare concluso l’annoso dibattito su chi sia l’Avenger più potente: è Wanda, statece.    Di certo è anche quello a cui serve più terapia. You know... a family is forever. We could never truly leave each other, even if we tried. You know that, right? In narrativa, e in generale nelle storie che fruiamo a prescindere dal medium, il “difetto fatale” è qualcosa che il personaggio, dopo averne preso consapevolezza, deve superare. Il superamento del fatal flaw di Wanda coincide con la quinta e ultima fase del modello Kübler-Ross, l’accettazione. Lo scontro finale con Agatha ha dimostrato quello che già dall’episodio 7, con l’ESA che “sfarfallava”, Wanda aveva iniziato a intuire: l’insostenibilità, nel lungo termine, della sua illusione; vi rinuncia per salvare i cittadini e per salvare se stessa. La Wanda che lascia Westview ha imparato la sua lezione: ha elaborato il lutto, non ne è più sopraffatta, e ora è in grado di conviverci. È tornata nel mondo al termine del proprio personale viaggio dell’eroe, e ora è pronta a iniziarne un altro: comprendere chi è, i suoi poteri, il suo ruolo. Nell’ultima scena dopo i titoli di coda la vediamo, infatti, nei panni di Scarlet Witch studiare il Darkhold sul piano astrale. Se non fosse che, inaspettate, le voci dei gemelli che chiedono il suo aiuto vengono a turbare questo nuovo equilibrio, la qual cosa potrebbe farla ripiombare nel baratro e cadere nella tana del bianconiglio che è il multiverso della pazzia di cui al prossimo film di Doctor Strange. Considerando poi che Agatha ha dichiarato che il destino di Scarlet Witch è quello di distruggere il mondo, be’, c’è poco da star tranquilli. In ogni caso, in questo pandemico e stinfio mondo, ora come ora ben poche cose sono suscettibili di portarmi gioia come il pensiero di una reunion tra Wanda e i figli, quindi io dico: daje. Purché Wanda non mi sbrocchi definitivamente nel processo.
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She recast Pietro? A proposito di reunion, quella farlocca tra Wanda con il fratello Pietro è stata la più grande trollata di sempre e l’ho amata alla follia. In molti ne sono rimasti delusi, perché credevano che significasse l’introduzione degli X-Men nell’MCU e di conseguenza del multiverso: d’altronde, perché chiamare a interpretare Pietro Maximoff non Aaron Taylor-Johnson ma Evan Peters, ossia il Pietro Maximoff dell’universo Fox? La risposta è una: perculata. O, se vogliamo, un meta riferimento in una serie che è già meta di suo. Considerando che, per quanto sia fan di roba supereroistica, gli X-Men proprio non riesco a farmeli piacere, per quanto mi riguarda non poteva andar meglio di così.
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It’s been agatha all along
Se nella realtà il falso Pietro è opera degli autori, nella narrazione è invece opera di Agatha Harkness, una strega già a spasso ai tempi di Salem (nei fumetti era addirittura presente quando è scomparsa Atlantide). Strega estremamente potente, nel canone fumettistico è stata sia la mentore di Wanda che la tata del figlio di Reed Richards e Sue Storm dei Fantastici 4. WandaVision strizza l’occhio ad entrambe le circostanze (quando Wanda la ringrazia ironicamente per la “lezione” sulle rune e quando Agatha, ancora Agnes, si propone come babysitter per Billy e Tommy) ma reinterpreta il personaggio in altro modo. In particolare, qui Agatha è una sorta di antagonista ma non l’antagonista, ed è arrivata a Westview con l’obiettivo di comprendere l’anomalia magica in corso. Funge altresì da catalizzatore per la nascita di Scarlet Witch e sblocca anche, sebbene indirettamente, il trauma di Wanda facendole rivivere il passato, l’ultimo tassello per la definitiva accettazione. Ora, sebbene già si fosse intuito che la bislacca vicina di casa Agnes, colei che fondamentalmente ha ricoperto fino all’episodio 7 il ruolo di spalla comica, fosse la famigerata Agatha Harkness, la rivelazione della sua vera identità ha saputo in ogni caso stupire, il che è anche la cifra della cura con cui è stata realizzata la serie: l’originalità meta narrativa con cui è stato (re)introdotto il personaggio nell’episodio 8 è tra le cose migliori di WandaVision.
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E la canzoncina di riepilogo che l’accompagnava è diventata una hit e un meme in tempo zero, mi aspetto almeno almeno un riconoscimento ai prossimi Grammy. Bravo! Se dopo un post lunghissimo di mila e mila parole (cosa che in genere riservo solo a Taylor Swift) ancora non si fosse capito, ho amato questa miniserie in ogni aspetto. Saltare da un decennio all’altro, ognuno con le sue peculiarità in fatto di abiti, acconciature, scenografie, stilemi e tecniche è stata una benvenuta novità in un mondo – quello delle serie supereroistiche — abbastanza standardizzato. Da questo punto di vista WandaVision può certo stare in compagnia di una serie della concorrenza, DC’s Legends of Tomorrow, che ha fatto della follia senza freni e del rompere gli schemi il suo tratto distintivo, e che per ciò è una delle mie preferite da anni a questa parte. Ora, al di là dell’evidente ottima realizzazione tecnica, cioè che per me è davvero il fiore all’occhiello della serie è la recitazione. Il duo Olsen-Bettany, già ben rodato, qui ha ancor più ribadito la propria intesa, e Kathryn Hahn nei panni di Agnes/Agatha, già piacevolmente oltre le righe in Parks & Rec, è stata una vera sorpresa. Comunque, la vera punta di diamante è la protagonista in persona, Elizabeth Olsen. Che fosse decisamente brava non è certo una novità (e lo sa bene chi ha familiarità con la sua filmografia, fin dai suoi esordi con La fuga di Martha, passando per quel capolavoro totale che è I segreti di Wind River, e arrivando alla serie Sorry For Your Loss, dove più che brava è straordinaria), ma qui se possibile si è superata. Ha condotto Wanda attraverso le epoche di volta in volta modellando l’interpretazione al decennio di riferimento (ed è tanto più evidente se si confronta il modo di porsi della Wanda anni ’50 con quella contemporanea), ma sempre mantenendone intatta la coerenza di fondo. Di quando in quando ha lasciato tornare in superficie l’accento sokoviano, ha coniugato comicità e dramma (il primo aspetto è una novità tanto per Wanda quanto per Elizabeth stessa, la cui carriera è sempre stata orientata sul secondo), ed è stato incredibile vedere con quanta velocità modificasse registro di recitazione quando la serie stessa cambiava di passo in quelle scene stranianti e stridenti rispetto all’illusione perfettamente confezionata che Wanda provava a vendersi e a venderci.
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Pertanto, se nella stagione di premi di là da venire Elizabeth Olsen non si porta a casa t u t t o, tra Emmy e Golden Globe a carriolate proprio, giuro che creo io stessa una realtà alternativa in cui vince qualsiasi cosa, dal Nobel al Telegatto. Please stand by WandaVision è stata solo la prima portata di quello che è praticamente un pranzo di matrimonio, tra tutte le serie e i film della Fase 4 che vedranno la luce tra quest’anno e il 2023, e sarà bello bello bello. Sì, sì, per carità, c’è la pandemia e la vita è miseria, ma siccome è miseria a prescindere, non fa certo male tenersi un po’ di roba Marvel a portata di mano, tipo EpiPen.
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levysoft · 3 years
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Da qualche tempo, chi si avvicina al mondo Raspberry Pi, si pone una domanda, prima totalmente assente: Mi servirà una ventola di raffreddamento, Si o No?
Tutto nasce dalla psicosi che si è creata con i primi (superficiali) unboxing di Raspberry Pi 4. A causa di un firmware ancora incompleto e al solo utilizzo di benchmark sintetici (cioè artificiali, scritti appositamente per mettere al 100% CPU e GPU contemporaneamente di continuo, cosa che non accade nell’uso di un computer), mista con un po’ poca conoscenza dell’hardware Raspberry Pi, si è diffusa la credenza (ancora oggi dura a morire) che per usare un Pi 4 sia indispensabile usare una ventola.
Benchmark
I benchmark “sintetici” sono programmi scritti appositamente per mettere sotto stress un processore. Nel nostro caso, impegnano al 100% contemporaneamente CPU e GPU. E’ importante capire che questo tipo ti test ha valenza per comprendere la potenza pura di un chip in confronto con altri, ma non ha senso usare test di questo genere nel valutare le prestazioni termiche.
Mi spiego. Prendo una utilitaria e una Ferrari. le metto al banco e gli faccio un test artificiale: premo l’acceleratore a fine corsa per 10 minuti di fila, e mando i motori al massimo. Alla fine del test, rilevo che il motore V12 Ferrari ha consumato più carburante e che si è scaldato di più rispetto a quello dell’ utilitaria. Certo, ha anche 830CV contro i 60CV dell’utilitaria! E’ normale che scaldi di più, in quelle condizioni di utilizzo.
Però, facciamo invece una prova di uso reale: entrambe le auto a 150km/h in pista ad anello per mezz’ora. poi quale sarà l’auto con le temperature più vicine al limite? L’utilitaria, perché con i suoi 60 CV, i rapporti più corti ecc, il motore ha dovuto girare a regimi molto alti, mentre per la Ferrari è stata poco più di una passeggiata.
Potenza
Raspberry Pi 4 è molte volte più potente dei suoi predecessori
Linpack Test (MIPS)Raspberry Pi 42037
Raspberry Pi 3B+526
Raspberry Pi 3461
Raspberry Pi 2298
Raspberry Pi Zero64
Raspberry Pi originale50
Prendendo i due estremi, possiamo dire che il Pi 4 è 40 volte più potente di Raspberry Pi 1 originale.
Nell’utilizzo reale, nello svolgimento di un “lavoro”, ci sono 2 metodi di elaborazione: quello in cui viene chiesto di eseguire il lavoro nel minor tempo possibile (ad esempio calcolare un rendering o un calcolo in genere) oppure quello in cui un lavoro deve essere eseguito in tempi precisi che non variano con la potenza del processore (ad esempio un filmato, un videogame, ecc.).
Due modi di funzionamento
Immaginiamoci un calcolo complesso, che richiede del tempo: il Raspberry Pi 1 ci impiega 5 minuti per portarlo a termine. In quei 5 minuti la CPU è al 100% e le temperature salgono. Ora prendiamo lo stesso calcolo, e facciamolo fare al Pi 4. Quest’ ultimo ci impiegherà 7,5 secondi. La CPU sarà al 100% per 7,5 secondi, e la temperatura non fa letteralmente in tempo a salire sensibilmente. A parità di lavoro svolto. Il Pi 4 resta più “fresco” del Pi 1.
Analizziamo l’altro metodo di funzionamento: quello dipendente dal tempo, non dall’elaborazione. Riproduciamo un filmato Full-HD e per parità di condizioni (Pi 4 ha una GPU più potente dei modelli precedenti), scegliamo un codec che non abbia supporto all’accelerazione hardware della GPU, dove quindi faccia tutto la CPU. Sul Pi 1 la CPU magari è impegnata al 90% per riprodurre il filmato. Mentre sul Pi 4, l’impegno per lo stesso lavoro è del 2,25%. Quale dei due Raspberry si scalderà di più? Anche in questo caso, Il Pi4 sarà più fresco.
Abbiamo quindi visto che l’utilizzo reale è molto differente dai benchmark sintetici. Intendiamoci: Pi 4 è potente, se spinto al massimo consuma più dei modelli precedenti, e deve dissipare più Watt sotto forma di calore. Ma non confondetelo con un PC, che è ricco di ventole: un PC può avere un alimentatore da 600, 650 W, mentre il Pi4 al massimo, ne consuma circa 7, di Watt. Quindi in usi intensivi ( calcolo continuo) certamente scalda più degli altri modelli (ricordate la Ferrari con l’acceleratore sempre a fine corsa?), ma si tratta di utilizzi che molto raramente si trovano nell’utilizzo reale (io ho riscontrato necessità di raffreddamento solo usando BOINC per il calcolo distribuito h24, altri esempi non me ne vengono).
Il Firmware
Raspberry Pi 4 è risultato pronto per la commercializzazione poco più di un anno prima del previsto. Infatti, solitamente nello sviluppo di un nuovo chip, i primi modelli reali non funzionano come i modelli virtuali utilizzati in progettazione. Si vede cosa c’è che non va, si corregge e via così. Solitamente occorrono diverse revisioni per giungere a uno standard commerciale. Nel caso del SoC BCM2711 che equipaggia il Raspberry Pi 4 già la seconda revisione ha superato tutti i test necessari per la commercializzazione. Tutto fantastico? Nì: l’hardware era pronto, il software non ancora. A partire dal firmware stesso (quella parte di codice che risiede sulla scheda e che serve al suo funzionamento), poi anche il sistema operativo (Raspberry Pi OS a 64 bit era mancante di molte parti, tanto è che è in beta ancora oggi), e di applicativi (diversi software hanno impiegato molto tempo a creare una loro versione adatta all’hardware del Pi4, così diverso dai precedenti, senza avere avuto in anticipo prototipi o documentazione.
Il risultato è stato lanciare sul mercato il Pi 4 con un firmware molto basico, che non integrava nemmeno la gestione dei consumi dei vari chip della scheda, e qualche bug di troppo che faceva salire la temperatura più del necessario.
Oggi la situazione è sensibilmente diversa: il firmware è stato aggiornato molte volte, e ed ancora in sviluppo per migliorarlo di continuo. Per aggiornarlo è sufficiente aggiornare il Raspberry con l’opzione full-upgrade. Nel dettaglio:
sudo apt update
sudo apt full-upgrade
Per vedere le immagini termiche ottenute a riposo e durante i benchmark , i grafici e i confronti tra le varie versioni del firmware del Pi 4, vedi lo speciale sulla rivista ufficiale The MagPi, numero 88, qui disponibile gratuitamente, tradotta in italiano.
Thermal throttling
Tutte le CPU moderne dispongono di questa funzione (e tutti i modelli di Raspberry Pi), utile a proteggere i componenti elettronici da eventuali danni. Al raggiungimento di una soglia prestabilita il clock viene abbassato per favorire il raffreddamento del chip. Questa situazione viene segnalata da una icona di un termometro rosso in sovraimpressione nell’angolo superiore destro dello schermo. Questa funzione è integrata nel firmware, e funziona quindi con ogni distribuzione software. Se non compare mai il termometro rosso, non c’è alcuna necessità di raffreddare il Raspberry Pi.
La presenza del thermal throttling serve proprio a evitare dei danni o di rischiare di accorciare la longevità della scheda. Non causa alcun danno, li previene, intervenendo con soglie ampiamente più basse di quelle pericolose.
La Fondazione Raspberry Pi
La fondazione Raspberry Pi ha più volte dichiarato che Raspberry Pi 4 (con il firmware aggiornato) si può utilizzare tranquillamente senza alcun sistema di raffreddamento, ha dimostrato, con uno stand di plastica, che una corretta posizione della scheda (in verticale, lato lungo in basso, pin GPIO in basso) può aiutare a lavorare con temperature più basse, ha presentato il Pi 400, che, più potente del Pi 4 si accontenta di una grezza piastra metallica non alettata per rimanere abbondantemente sotto i 50 gradi in un case quasi completamente chiuso…
Ha anche ricordato che la progettazione avviene tenendo conto della temperatura di funzionamento normale (e che quindi abbassarla in modo estremo potrebbe non essere una buona idea), che un dissipatore fosse indispensabile al corretto funzionamento, la scheda lo avrebbe di serie… Ma niente, alla fine si è “arresa” e ha fornito un sistema software, integrato in Raspberry Pi OS, per comandare un pin del GPIO in base alla temperatura del SoC, e prodotto una micro ventolina da collegarci (con annesso dissipatore: una ventola senza dissipatore passivo serve come una garage senza auto).
Ma (intelligentemente) la temperatura limite di default è impostata a 80 gradi (a temperature più basse, non serve raffreddare il Soc di Raspberry Pi, da 85 in poi, c’è il thermal throttling)
Ventole su GPIO
Se alla luce di quanto scritto su, si necessita di una ventola di raffreddamento, la cosa peggiore che si possa fare, è collegarla al GPIO, se non creando un circuito elettronico adatto a pilotarla oppure se non lo ha già integrato (come la FanShin o quella ufficiale), e posizionarla dentro al case (se non sia abbia fatto un accurato studio sulla dinamica dei fluidi, come per quella ufficiale).
Alimentazione da GPIO
Lo so che il 98% delle ventole sono collegate così, ma so anche che non è una cosa che mi sento di consigliare: le ventole usano un motore brushless, senza spazzole. Qui si può vedere, nel dettaglio, come funziona.
+5V
Se collegate sul pin +5V, dovrebbero essere correttamente alimentate (non vi è limitazione sulla corrente qui, se non quella fisica di dimensione della pista e del pin), ma è anche la stessa linea di alimentazione da cui viene derivata quella del SoC, che è tanto schizzinoso con le alimentazioni un po’ sporche o basse. E collegarci un motore brushless che funziona con continue commutazioni e inversioni delle correnti, non è il massimo, soprattutto senza filtri per evitare ripple sull’alimentazione.
+3,3V
Se collegate su un pin programmabile 3,3V, le ventole girano più piano, sono quindi più silenziose e il pin è comandabile a seconda della temperatura interna del SoC (funzione già presente nel firmware, raggiungibile da raspi-config o da Configurazione Raspberry Pi). Ma (ovviamente c’è un “ma”) questi pin possono fornire solo circa 16 mA, cioè 0.016 A. E sono decisamente troppo pochi per una ventolina. Così, sottoalimentata sia in corrente che in tensione può funzionare male nella sua parte interna, quegli “interruttori” elettronici che commutano la corrente sulle bobine e i sensori di hall che captano quando le bobine raggiungono la posizione per cui è opportuno commutare l’alimentazione alle altre bobine. Insomma il rischio che vada fuori sincrono è alto, e quindi comincerà a generare rumore, prima elettrico, sotto forma di disturbo e di emissione elettromagnetica, poi uditivo, perché girando male, diventerà presto rumorosa e finirà per guastarsi.
Se, dopo quanto scritto su, vi servisse una ventola comunque (i casi particolari esistono), fate in modo, almeno, di non alimentarla dai pin del GPIO. Scegliete di alimentarla a parte. Se dovete farla controllata dalla temperatura, il pin del GPIO usatelo solo come segnale logico per comandarla, non per alimentarla.
Raffreddamento passivo
Se usate il Raspberry in modo intenso, o magari se lo utilizzate h24 in condizioni non proprio ideali (ad esempio appiccicato dietro la TV che scalda già di suo, o in una cassetta da esterno colpita dal sole ecc), allora come  raffreddarlo, per stare più tranquilli? Sempre sulla rivista ufficiale, The MagPi hanno testato i case “raffreddanti” per Pi4. Il risultato è stato lampante: il peggiore è stato l’unico case dotato solo di ventola. I migliori risultati li hanno dati i case in alluminio, che oltre a proteggere la scheda hanno anche la funzione di dissipare il calore in modo passivo con tutta la loro superfice. Puoi leggere il dettaglio del test sul numero 90 della rivista, qui disponibile gratuitamente in italiano.
Il migliore è stato l’Argon One, case dissipante in alluminio che ha al suo interno una ventola comandabile via software (spesso non parte mai, col nuovo firmware).  Qui in offerta a meno di 20 euro
Ma oggi ci sono case anche più economici che offrono comunque buone prestazioni dissipanti. Ad esempio percirca 8 euro, questo mi ha stupito per la sua qualità costruttiva: molto preciso e massiccio.
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n-z-speed-racing · 7 months
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Prova di accelerazione per strada #piaggiociao
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fotopadova · 4 years
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Staged Photography?
di Carlo Maccà
  -- Il festival Fotografia Europea, che si svolge ogni anno fra aprile e giugno a Reggio Emilia, è uno degli eventi imperdibili per l'amatore che voglia tenere aggiornata la propria cultura. La Fondazione Palazzo Magnani, per assicurare quanto meno un minimo di continuità nell'anno in corso dopo l'interruzione forzata, in questi ultimi tre mesi offre due mostre. La più rilevante viene proposta come "la prima mostra in Italia dedicata al fenomeno della staged photography, tendenza che, a partire dagli anni Ottanta, ha rivoluzionato il linguaggio fotografico e la collocazione della fotografia nell’ambito delle arti contemporanee ", con la presenza di autori di grande notorietà, come Jeff Wall, Cindy Sherman, Sandy Skoglund, Joan Fontcuberta e la star mondiale David La Chapelle.
Qualcuno che ha almeno una infarinatura sulla storia e le tradizioni della fotografia, potrebbe rimanere interdetto al sentir definire "rivoluzionaria" una "tendenza" della fotografia che viene denominata staged. Quel termine si addice, ed è stato spesso applicato, a un modo di fotografare in uso fin dai primi decenni della fotografia artistica come di quella commerciale, senza mancare in quella amatoriale.
Per quanto riguarda l'attualità, appare perfettamente legittimata quella fotografa nordamericana di provincia (Leesburg, Virginia) che titola "Staged Photography" la propria attività e il relativo sito Facebook, nel quale così si propone per foto di famiglia e simili: " Staged is a combination of on location natural light and in studio photography. È l'incontro fra un fotografo esperto e un artista rifinito che si specializza nella progettazione di scenografie impareggiabili. Chiamatelo un combinato di menti artistiche. Siamo specializzati in immagini di: Maternità. Neonati, Bimbi, Gruppi, Giovani e Famiglie. Siamo entusiasti della nostra capacità di offrire ai clienti non solo foto mozzafiato dei loro bimbi e delle loro famiglie, ma anche scenografie uniche e magistralmente eseguite".
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        Staged Photograhy, Facebbok. La fotografa, il suo sito e un'immagine campione.
Quanto poi all'aspetto "rivoluzionario" dello staging nell'attuale fotografia d'autore, a quel qualcuno di cui sopra il binomio "staged photography" richiama inevitabilmente i tableaux vivants nati ai primi albori della fotografia: cioè quelle composizioni fotografiche che pretendevano di sfidare ad alto livello artistico la pittura. Memorabili sono il paradigmatico The Two Ways of Life di Oscar Gustave Rejlender, montaggio di ben 32 pose fotografiche, 1857; o Fading away di Henry Peach Robinson, 1858, con "sole" cinque pose.
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         Henry Peach Robinson, Fading away, 1858 circa.
Quei Tableux Vivants fotografici, che spesso si ispiravano a opere pittoriche famose, sono da molti ritenuti come le radici della Pictorial Photography, che imperversò fino alla prima guerra mondiale e un po' oltre. E allora quel signore di cui sopra, usando uno zoom adatto a inquadrare bene ogni tappa della storia della fotografia, non avrà dubbi a vedere in un certo settore della Staged Photography un diretto pronipote di quei tableaux, pronipote tutt'altro che rivoluzionario pur se disconosce l'antenato. E a ritenerlo semplicemente un revival messo in moto dall'avvento della fotografia digitale e della sua elaborazione informatica, che hanno aggiornato tecnicamente e facilitato materialmente quelle operazioni che nell'era analogica nessuno aveva più la pazienza di fare, e che da decenni venivano considerate con sufficienza se non con disgusto.
Almeno due fra gli autori presenti a Reggio Emilia possono essere considerati discendenti dei pionieri dell'800, a cominciare dall'approccio fattuale per finire con i temi assunti. L'esempio più calzante è certamente l'Ophelia (2018) dell'inglese Julia Fullerton Batte, un rifacimento testuale del dipinto (1851) del preraffaellita John Everett Millais, già oggetto di attenzione di molti fotografi "ri-creativi" antichi e moderni. A prescindere dalla presunta rivoluzione, all'opera di Julia Fullerton si deve riconoscere, rispetto a tante altre, un fascino quasi pari a quello della pittura originale.
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        Il rifacimento fotografico di Ophelia (Julia Fullerton) e il dipinto di Millais.
Con uno spirito totalmente diverso, una volontaria apoteosi del kitsch, irriverente e dissacrante,  David LaChapelle ha messo mano alla propria revisione dell'Ultima Cena di Leonardo, degli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina e di molti altre opere pittoriche famose.
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        L'Ultima Cena di Leonardo attualizzata da David LaChapelle.
I capolavori della pittura divenuti le vittime più frequenti degli stagers sono probabilmente le scene di interni dipinte da Vermeer, caricaturate volontariamente ma soprattutto involontariamente da miriadi di velleitari "artisti rivoluzionari" che evidentemente del pittore olandese non hanno capito nulla o non vogliono avere nessun rispetto (e qui sta la "rivoluzione"!).
Già gli esempi sopra citati bastano a suggerire che il termine staged photography, che letteralmente nella nostra lingua dovrebbe diventare "fotografia messa in scena", possa coprire tutto quello che non è una  "istantanea" presa al volo: dai tableaux vivants fino ai gruppi e ai singoli in posa. Tutti noi che abbiamo frequentato la scuola dell'obbligo in tempi meno schizzinosi riguardo alla privacy conserviamo in qualche cassetto l'immagine della classe ben distribuita sulla scalinata d'ingresso, coll'insegnante in centro o a lato; molti di noi anche quella della Prima Comunione nostra, del figlio o del nipotino, ciascuno in posa molto pia. Perché, sì, anche il ritrattino d'una persona "in posa" rispetta le premesse di una staged photography. 
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        Una delle poche fotografie staged di (ma solo in senso passivo) Gianni Berengo Gardin. [1]
Fino alla metà dell'ultimo secolo del millennio scorso, nel linguaggio comune esistevano due modi di ripresa dei soggetti fotografici che includono persone: la "istantanea" catturata al volo, e la "posa". Il secondo, non necessariamente legato a maggiori tempi di esposizione, era quello in cui i soggetti si mettevano o venivano messi “in posa”; gli amatori, se abbastanza abbienti da permettersi un apparecchio con autoscatto e un cavalletto, con una corsetta durante il tempo morto tra la pressione sul pulsante di scatto e l'azione del diaframma o della tendina, riuscivano ad includere se stessi nell'immagine fotografata (in pratica, facevano un selfie - vi immaginate qualche politico attuale fare i selfie con in suoi fans se non esistesse lo smartphone?). 
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        Helmut Newton, They are coming (dressed), 1981.
Messe in scena, cioè staged, sono anche le fotografie di studio, e in particolare quelle di moda, fra cui compaiono immagini prodotte da veri maestri della fotografia (Figura 5). E nascono staged anche le Stage photos, ossia le "foto di scena" del teatro, del balletto e del cinema, dove stage viene dal termine inglese per palcoscenico. E dall'insieme non dovremmo escludere neppure le fotografie di oggetti inanimati meticolosamente "messi in posa", come quelle immagini impropriamente chiamate nella nostra lingua "nature morte". e nei paesi anglosassoni still photography, fotografia "immobile" [2].  Ma questi tre generi fotografici sono ufficialmente esclusi dalla Staged Photography dei "rivoluzionari" [3]. A meno che non siano, per esempio, scene storiche composte con pupazzetti di plastica e altri oggetti (come nella seguente immagine.
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        David Lawrence Levinthal, Dallas 1963.
La vera rivoluzione nella fotografia è l'avvento del digitale, che ha aggiornato tecnicamente e facilitato tutte le operazioni che fino a per un secolo e mezzo avevano richiesto abilità, tempo e pazienza, soprattutto quando allo staging doveva seguire una ricomposizione delle immagini (quella che una volta si chiamava "fotomontaggio"). Tutte le altre presunte rivoluzioni non sono che fasi dell'adattamento dell'arte al mutevole spirito dei tempi, nel bene e nel male. Adattamento attivato nei secoli soprattutto dai progressi tecnici: la pittura ad olio... la stampa.. .la fotografia... la computerizzazione digitale...[4].
E allora converrebbe assegnare al "fenomeno" oggetto di questi commenti, o piuttosto a ciascuna delle sue differenti anime (presenti solo in parte nella mostra di Reggio Emilia) una denominazione diversa, più appropriata, meno generica ed equivoca, facendo riferimento a quanto è stato scritto dai vari autori che si sono impegnati ad anatomizzare l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità e della creazione digitale [5], (alcuni dei quali, come Jeff Wall e Joan Fontcuberta, sono stati tradotti in italiano). Si dovrebbe riparlarne. Per il momento, può bastare un generico "fotografia messa in scena", come da vocabolario, abbastanza discriminante rispetto alla semplice "foto in posa"? [6].
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[1] Da: Gianni Berengo Gardin, In parole povere. Un'autobiografia con immagini. Contrasto, 2020, p. 17.
[2] Still è anche, sostantivato, il "fermo immagine" d'un filmato.
[3] Per i compilatori frettolosi dei comunicati stampa di qualsiasi mostra d'arte, dalle internazionali alle paesane, le opere devono essere  "decostruttive", "dissacranti"; o almeno "inquietanti", e se non altro "intriganti": qualificazioni che, esimendo da ulteriori chiarimenti, facilitano il loro lavoro. Ma l'attributo che assicura il massimo richiamo sembra sia: "rivoluzionarie".
[4] Progresso fondamentale ai fini della nascita della fotografia digitale, del quale Padova può gloriarsi almeno un poco, perché il creatore del primo microprocessore (http://www.fagginfoundation.org/it/biografia/) e autore di molti altri sviluppi in questo campo (fra cui il sensore Foveon usato negli apparecchi fotografici Sigma), il vicentino Federico Faggin, si è laureato in Fisica all'Università di Padova. Si legga l'autobiografia Silicio, Dall'invenzione del microprocessore alla nuova scienza della consapevolezza, Mondadori 2019. (Lo scrivente, vanagloriosamente, si compiace di ricordare la fraterna amicizia del proprio padre col padre dello scienziato).
[5] Necessario, anzi  fatale aggiornamento dell'opera di Walter Benjamin.
[6] I francesi considerano quella che altrove viene chiamata Staged Photography come una categoria della Photographie Plasticienne (Dominique Baqué, Photographie Plasticienne, l'extrême contemporain, Éditions du Regard 2004, pp 88 e seguenti, capitolo Scénographie de la Culture). Questo termine sembra non abbia trovato corrispondenza nello specifico linguaggio italiano.
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miglioriprodotti · 4 years
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Top 10: Le migliori tinte per capelli da poter fare a casa
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Con il Pinterest che aizza diligentemente le fiamme della cultura del fai da te, sta diventando sempre più comune occuparsi della propria routine di bellezza a casa. Manicure, pedicure, abbronzatura e persino la ceretta sono diventate tutte cose accettabili da fare nel comfort della propria casa, e con l'aumento delle tinture di alta qualità, il colore dei capelli a casa non fa eccezione. Colorare i capelli richiede abilità, destrezza e una conoscenza di base della materia. Per aiutarvi, abbiamo raccolto i consigli di alcuni professionisti del settore  per raggiungere ottimi risultati nel tingere i capelli a casa. Sia che tu voglia diventare biondo platino o viola polvere di fata, c'è una regola che rimane sempre la stessa: segui sempre le indicazioni sulla confezione del colore che ti appresti ad applicare. Quindi leggi il retro della scatola e poi studia i nostri suggerimenti aggiuntivi su come applicare il colore sui capelli Come tingere i capelli in modo uniforme: Per ottenere i risultati desiderati, dai un'occhiata alle sfumature di colore esistenti, solitamente sulla confezione c'è un'illustrazione di tutti i colori, e scegli quello che più si avvicina al tuo colore naturale o al colore che desideri. Fase 1: É consigliabile non lavarsi i capelli per due giorni prima effettuare una tinta cosicché il grasso naturale del cuoio capelluto funga da barriera contro l'irritazione, afferma il colorista delle celebrità Kiyah Wright. Se hai la pelle supersensibile, aggiungi un pacchetto di Sweet'N Low alla tinta per aiutare a fermare gli effetti di essiccazione dell'ammoniaca. Fase 2: esegui prima un test applicando il colore su una piccola ciocca. Questo ti aiuterà a capire i tempi, che possono variare in base alla consistenza del capello. Fase 3: leggere, rileggere e seguire le istruzioni presenti sulla confezione. (Mi raccomando non applicare il colore dalle radici alle estremità in una sola volta; vedi Fase 4.) Fase 4: questo suggerimento aiuta a ottenere un colore uniforme: in primo luogo, applica una tinta a mezzo pollice di distanza dal cuoio capelluto e lavora verso le estremità. Il calore della tua testa fa asciugare il colore più velocemente alla radice; quindi, a metà del tempo di elaborazione, torna indietro e copri le tue radici. Per applicare la tinta aiutati con un pennello da parrucchiera per ottenere risultati più professionali e precisi. 
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Mystic Color è una colorazione permanente in crema che permette di coprire totalmente i capelli bianchi. Tecnologia a lunga durata con micropigmenti puri che garantiscono un risultato duraturo e intenso per un colore brillante più a lungo Formula con bassa percentuale di ammoniaca con cheratina idrolizzata per proteggere e ricostruire il capello Colorazione con olio d'argan che nutre in profondità e lascia i capelli morbidi e con calendula che protegge e rispetta il cuoio capelluto 9 €12,99 Acquista prodotto RECENSIONE COMPLETA
Altri consigli su come utilizzare le tinte per capelli
Ovviamente il primo passo per tingersi i capelli a casa è scegliere la tinta giusta. Provate a sceglierne una che abbia il minor numero di ingredienti dannosi come ammoniaca, perossido e alcool per evitare secchezza eccessiva e rotture.  Un'altra cosa da cercare quando si sceglie una confezione di tinta per capelli è, naturalmente, la tonalità giusta per voi. Non affidatevi solo all'immagine sulla scatola, concentratevi anche sulle parole usate per descrivere la tonalità. I colori descritti come cenere avranno più tonalità di verde. I dorati incorporeranno più tonalità gialle e sono ottimi per chi cerca di nascondere i capelli grigi. Qualsiasi cosa con la parola viola avrà toni violacei. Neutro può significare diverse cose, ma di solito implica una base blu all'ombra. Il numero indica quanto sarà scura la tinta. La tinta per capelli è descritta su una scala da 1 (nero) a 12 (biondo platino), quindi più basso è il numero, più profonda è la tonalità. Quindi, se vedete una tinta per capelli biondo su una scatola etichettata 4A (biondo cenere), in una scala da 1 a 12, un 4 è abbastanza scuro!  È sempre meglio tingere i capelli che non sono stati lavati di recente; gli oli naturali dei capelli aiutano a proteggere le ciocche durante la lavorazione.  Dovreste anche indossare sempre guanti per proteggere le unghie e la pelle. La tinta in scatola di solito ne contiene un paio, ma dovreste sempre averne un secondo paio da indossare quando lavate via il colore dai capelli Una generosa goccia di vaselina (o qualsiasi altro idratante a base di petrolio) lungo le tempie, l'attaccatura dei capelli, il collo e le orecchie impediranno alla tintura dei capelli di macchiare la pelle. L'olio d'oliva aiuta a togliere le macchie di tinta. La tinta in scatola solitamente è a 20 volumi, ciò significa che può cambiare il colore dei tuoi capelli fino a due tonalità (a seconda del colore naturale dei capelli), ma non oltre. Per questo motivo ti viene sempre detto che è una cattiva idea cercare di passare a più di due tonalità più chiare (o più scure) del colore naturale dei tuoi capelli usando una tintura a scatola.  Se i vostri capelli hanno già una (o più) tonalità di tintura, procedete con cautela. È un processo molto più complicato per ottenere un risultato uniforme e integro con i capelli pre-tinti, ed è meglio farlo fare a un professionista. Volete che il vostro nuovo colore duri nel tempo, e il modo migliore per farlo è assicurarsi di non lavarlo troppo spesso (lo shampoo secco sarà il vostro salvavita), usare prodotti per la protezione del colore, proteggere i vostri capelli dal sole con cappelli e crema solare spray, limitare il calore, e condizionarli bene
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patriziadidio · 5 years
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Codice Rosso: punto di arrivo o punto di partenza?
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La legge 19 luglio 2019, n. 69 recante «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere» è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 25 luglio 2019, n. 173. Quindi il cosiddetto Codice Rosso, che aveva avuto il via libero definitivo del Senato il 17 luglio, entrerà in vigore già dal 9 agosto 2019.
Tanto nel mese di luglio se n’è parlato e se n’è dibattuto, e si continuerà a farlo ancora di più ora che entrerà in vigore. Ed è bene che sia così, perché sulla “violenza di genere” non si può abbassare la guardia.” Ma fuori da ogni fazionismo ed estremismo sarebbe opportuna una disanima equilibrata e costruttiva. Come spesso accade, alcuni temi così delicati e importanti, non sono bianchi o neri, così come i provvedimenti non sono totalmente giusti o totalmente sbagliati.
Per gli antichi in medio stat virtus, quindi su questa legge bisognerebbe approfondire quegli aspetti positivi e riflettere, scevri da condizionamenti di parte, su quello che andrebbe invece rivisto, e ripartire proprio dai punti più controversi.  Tutto questo nella convinzione che tutto è migliorabile.
Partiamo appunto da cosa prevede la nuova legge[1]: introduce i reati di revenge porn, sfregi e nozze forzate, impone una stretta sui maltrattamenti in famiglia e aumenta le pene per violenza sessuale e stalking.
Sicuramente l’introduzione del reato di revenge porn, ovvero la pubblicazione e diffusione di materiale privato con contenuto sessualmente esplicito senza il consenso della persona ritratta, è senza dubbio una notizia positiva. Finalmente in l’Italia chiunque pubblicherà o diffonderà foto e video intimi di una persona senza il suo consenso verrà punito con una pena da uno a sei anni di carcere e una multa da 5mila a 15mila euro. La pena sarà aumentata se il responsabile è un coniuge, ex partner o la pubblicazione avvenuta tramite strumenti informatici.
Un’altra delle novità importanti del Codice rosso riguarda inoltre l’accelerazione delle indagini sui casi di violenza domestica. La legge prevede che i pubblici ministeri ascoltino chi ha presentato una denuncia per maltrattamenti o violenza in famiglia entro massimo tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, che avviene nel momento stesso in cui una persona si reca alla polizia.
Questo è sicuramente uno dei punti più controversi: da più parti si sono sollevate obbiezioni su questa tempistica. Quello che si teme è che, senza un rafforzamento dell’organico, gli uffici dei pm difficilmente potranno soddisfare questo obbligo dei tre giorni.
L’obiettivo non è solo quello di imprimere una velocizzazione, purtroppo forse senza valutarne la reale fattibilità, ma soprattutto di dare un segnale deciso nella direzione dell’inasprimento delle pene.  Se i magistrati infatti accertano che c’è stata violenza, possono condannare il responsabile a una pena detentiva dai tre ai sette anni (prima era tra i due e i sei anni). La pena può essere aumentata fino al 50% del totale se il fatto è avvenuto in presenza di un minore, di un disabile, di una donna incinta, o se l’aggressione è stata armata. Non solo, le pene sono state aumentate anche per chi commette il reato di violenza sessuale e stalking.
Il Codice rosso introduce anche due nuovi reati: il primo punisce chi sfregia una persona sul viso deformandone l’aspetto (se la vittima sopravvive la reclusione è dagli otto ai quattordici anni, se invece muore, è previsto l’ergastolo). I condannati avranno inoltre più difficoltà a ottenere benefici come permessi premio, misure alternative e la possibilità di lavorare per alcune ore fuori dal carcere.
Secondo la deputata dem Lucia Annibali, vittima proprio di questo tipo di reato, non si dovrebbe distinguere, sul piano della tecnica normativa, tra tipi di lesioni e bisognerebbe punire tutti gli sfregi, non solo quelli al volto[2].
Il secondo reato, introdotto su emendamento presentato di Mara Carfagna, punisce chi ha costretto qualcuno a sposarsi usando la violenza, le minacce, un precetto religioso o approfittando di un’inferiorità psico-fisica. La pena per il colpevole è la detenzione da due a sei anni, se la vittima è minorenne, e può essere aumentata fino al 50% in più se questa non ha compiuto 14 anni.
Per molti la legge Codice Rosso è quanto di più possibile si può fare oggi sul piano legislativo per combattere la violenza sulle donne.  Ma quello che appare evidente è che l’impegno non può esaurirsi solo sul piano legislativo e che rimangono alcune perplessità su alcune questioni essenziali.
Per esempio il problema dei lunghi tempi processuali non è stato in realtà affrontato: l’obbligo dei tre giorni non sembra essere sufficiente a velocizzare le indagini e a scongiurare purtroppo che le donne vivano mesi e anni il calvario e la paura.
Da un punto di vista tecnico proprio su questo punto sono state mosse le maggiori critiche. È un testo a invarianza finanziaria, nel senso che non vengono stanziate risorse, e questo potrebbe renderlo inefficace e inapplicabile. Inoltre, altra contraddizione, inspiegabilmente il reato di revenge porn non è stato fatto rientrare tra i reati per i quali è previsto l’obbligo di ascoltare la vittima entro tre giorni.
Se poi si riflette sull’applicazione pratica emergono due questioni delicate: spesso le vittime hanno bisogno di alcuni giorni per elaborare la violenza subita, e l’obbligo di ripetere il racconto in tempi così brevi potrebbe innescare un processo di re-vittimizzazione. Senza pensare poi che in alcune Procure, le più piccole ma non solo, potrebbe mancare il personale adeguatamente preparato su questi temi.
Più in generale sembra aleggiare un tono paternalistico nell’affrontare la violenza di genere e non cogliere il profondo nesso con il persistente ritardo della società italiana su alcuni aspetti: le donne vittime di violenza sono rappresentate come deboli, e la protezione deve essere garantita da uno Stato “muscolare” e il problema ricondotto a una questione di ordine pubblico, se è vero che i fondi delle polizie andranno in gestione al ministro dell’Interno, e non di democrazia.
Sembra mancare il fattore più importante: la donna, con la sua forza e la sua determinazione. Dovrebbe essere garantito il diritto ad uno spazio di ascolto che non inizi con la denuncia. Le donne che subiscono violenza, come i centri antiviolenza possono testimoniare, non denunciano subito: serve tempo, serve elaborazione e serve la sicurezza di poter denunciare senza poi subire ulteriori ritorsioni.
Infatti il vero problema è che le donne, anche dopo condanne esemplari, continuano a morire, se dopo la detenzione gli ex fidanzati o mariti non abbandonano i propositi di vendetta. Le domande da porsi quindi sono due, complementari: se le pene carcerarie servano a disarmare realmente e se l’inasprimento delle pene sia una misura efficace se non supportata da una rieducazione.
Ed è proprio qui che si nasconde come prima e più di prima il cuore della questione, spesso sotto taciuta, cioè la necessità della prevenzione. Gli interventi legislativi dovrebbero essere accompagnati da azioni concrete sul piano culturale, come riconosce la stessa Giulia Bongiorno ministro della Pubblica amministrazione[3].
Sarebbe necessario disinnescare l’odio e il linguaggio di violenza che imperversa sempre più sui social media. Sarebbe necessario insegnare a scuola l’affettività, che non va confusa con l’educazione sessuale, e promuovere l’empatia. Sarebbe necessario combattere “la violenza di genere” insegnando già da bambini il rispetto nei confronti di tutti i generi. Infatti bisogna tener conto, cosa che la legge appena approvata non fa, che nella società di oggi “la violenza di genere” non è rivolta solo contro le donne, né tantomeno solo contro le donne cui l’assassino era legato affettivamente.
Speriamo che non sia però, come sostiene l’Annibali, un’occasione mancata[4] perché i principi espressi nel testo sono giusti e condivisibili, così come gli spunti di riflessione offerti non devono cadere nel vuoto, nella consapevolezza che le soluzioni sono ancora imperfette ma perfettibili, che l’aspetto tecnico può essere potenziato e che soprattutto il problema culturale non è secondario ma il punto di partenza di una trasformazione della società che dovrebbe essere innanzitutto una conquista di civiltà.
Patrizia Di Dio
[1] https://www.wired.it/attualita/politica/2019/07/18/violenza-donne-legge-codice-rosso-approvato/?refresh_ce=
[2] https://www.huffingtonpost.it/amp/entry/lucia-annibali-la-legge-sul-codice-rosso-insufficiente-einefficacie_it_5d2f6288e4b0a873f645d7d1/
[3] http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2019/07/17/violenza-sulle-donne-il-codice-rosso-adesso-e-legge_18cf1b35-dde7-438c-9563-d2a2e3519de0.html
[4] https://www.huffingtonpost.it/amp/entry/lucia-annibali-la-legge-sul-codice-rosso-insufficiente-einefficacie_it_5d2f6288e4b0a873f645d7d1/
di Patrizia Di Dio Articolo originale https://ift.tt/2OF0Jcn
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purpleavenuecupcake · 5 years
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Le nostre Pmi sono leader in Europa. Ma abbiamo perso le grandi imprese
Sebbene le nostre Pmi siano leader in Europa, il nostro sistema produttivo  registra ancora dei forti elementi di criticità. “Pur contando su un patrimonio imprenditoriale che non ha eguali nel resto d’Europa – segnala il coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA Paolo Zabeo – rispetto ai nostri principali competitori stranieri, ad esempio, scontiamo un forte deficit di competitività ascrivibile, in particolar modo,  all’assenza delle grandi imprese. In Italia, infatti, da almeno 3 decenni queste realtà si sono pressoché estinte, non certo per l’eccessiva numerosità delle piccole aziende, ma a causa dell’incapacità di questi grandi player di reggere la sfida lanciata dalla globalizzazione dei mercati”. Non abbiamo più grandi imprese Sino alla prima metà degli anni ’80, segnala la CGIA, l’Italia era tra i leader mondiali nella chimica, nella plastica, nella gomma, nella siderurgia, nell’alluminio, nell’informatica e nella farmaceutica. Grazie al ruolo e al peso di molte grandi imprese pubbliche e private (Montedison, Eni, Montefibre, Pirelli, Italsider, Alumix, Olivetti, Angelini, etc.), lo sviluppo ruotava attorno a questi comparti. A distanza di quasi 40 anni, invece, abbiamo perso terreno e leadership in quasi tutti questi settori. E ciò è avvenuto non a causa di un destino cinico e baro, ma a seguito di una selezione naturale compiuta dal mercato. Alla luce di queste specificità, la CGIA chiede con forza che si torni a guardare con maggiore attenzione al mondo delle imprese, in particolar modo alle piccole e alle micro, visto che la tassazione continua ad attestarsi su livelli insopportabili, il credito viene concesso con il contagocce, l’ammontare del debito commerciale della nostra Pubblica amministrazione (Pa) nei confronti dei propri fornitori è di 57 miliardi di euro e circa la metà di questo importo è riconducibile ai mancati pagamenti. Afferma il segretario della CGIA Renato Mason: “La nostra Pa non solo paga con un ritardo ingiustificato che nel dicembre del 2017 ci è costato un deferimento alla Corte di Giustizia Europea, ma quando lo fa non è più tenuta a versare l’Iva al proprio fornitore. Dopo l’introduzione dello split payment, infatti, le imprese che lavorano per il settore pubblico oltre a sopportare tempi di pagamento lunghissimi, subiscono anche la mancata riscossione dell’imposta sul valore aggiunto che, pur rappresentando una partita di giro, consentiva alle imprese di avere maggiore liquidità per fronteggiare le spese correnti. Questa situazione, associandosi alla contrazione degli impieghi bancari nei confronti delle imprese in atto in questi ultimi anni, ha peggiorato la tenuta finanziaria di moltissime piccole aziende”. Le performance delle nostre Pmi non hanno eguali Tornando ai dati di questa elaborazione, le performance delle nostre Pmi (con meno di 250 addetti) sono molto positive; tale risultato lo riscontriamo anche quando analizziamo gli score delle micro imprese, ovvero delle realtà produttive con meno di 10 addetti. Sia per quanto riguarda il numero delle attività, il fatturato, il valore aggiunto e gli occupati, in tutti i casi il nostro dato medio è nettamente superiore a quello europeo.
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Nello specifico, i dati dimostrano che siamo al primo posto in Ue per numero di imprese (oltre 3.719.000)  e pur constatando che anche negli altri paesi il peso delle Pmi è molto simile al nostro, il ruolo delle nostre micro aziende, invece, ci vede primeggiare, soprattutto quando ci confrontiamo con paesi nostri omologhi come, ad esempio, la Germania.
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In termini di fatturato, invece, l’Italia è al 4° posto in UE con 2.855 miliardi di euro all’anno (2016). Solo la Germania (6.195 miliardi), il Regno Unito (3.976 miliardi ) e la Francia (3.696 miliardi) contano un risultato superiore al nostro. Tuttavia, quando analizziamo l’incidenza prodotta dalle nostre Pmi sul totale fatturato, tra i big non abbiamo rivali, nemmeno quando analizziamo lo score delle micro imprese.
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Sulla stessa lunghezza d’onda è risultato che emerge dalla lettura dei dati riferiti al valore aggiunto: anche in questo caso le nostre Pmi e le piccolissime aziende non hanno contendenti tra i principali Paesi UE.
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A fronte di 14,5 milioni di occupati presenti in Italia (dato al netto dei lavoratori del pubblico impiego e di alcuni comparti economici rilevanti), 11,4 lavorano presso le Pmi, di cui  6,5 nelle micro imprese. In entrambi i casi, l’incidenza sul totale occupati sbaraglia qualsiasi altro grande paese d’Europa. Per quanto riguarda le microimprese, siamo addirittura al primo posto  (44,9 per cento sul totale occupati) tra tutti i paesi UE presi in esame in questa elaborazione.
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Le azioni per rilanciare l’economia del Paese L’Ufficio studi della CGIA, infine, indica almeno 5 interventi che la politica dovrebbe attuare per rilanciare il ruolo e la funzione delle nostre Pmi e, conseguentemente, del Paese. Esse sono: 1)            Forte riduzione delle tasse e semplificazione del sistema tributario E’ necessario uno choc fiscale che riduca, in 3 anni, la pressione fiscale di almeno 5 punti percentuali. Come ? Eliminando l’Irap per le micro  e piccole imprese, abolendo lo split payment, il reverse charge nell’edilizia e riducendo progressivamente gli acconti Irpef, Ires, Irap e Inps. Altresì, è importante ridimensionare il peso della burocrazia fiscale che sta penalizzando soprattutto le piccolissime attività. 2)            Favorire l’accesso al credito Dal 2011 ad oggi gli impieghi vivi alle imprese sono diminuiti del 26 per cento. E’ importante  promuovere un intervento concertato con gli altri Stati e presso le istituzioni europee affinché la Bce eroghi speciali finanziamenti alle banche con vincolo di destinazione a favore delle micro e piccole imprese. Inoltre, è necessario attivare strumenti di finanziamento alternativi al credito bancario. Infine, va consentito a tutte le imprese di compensare i crediti verso la Pa (certi, liquidi ed esigibili) con tutti i debiti fiscali. 3)            Tornare ad investire Rispetto al 2007 (anno pre-crisi) in Italia gli investimenti sono crollati di quasi 20 punti percentuali. Per consentire anche alle piccole imprese di crescere e creare lavoro, è necessario che lo Stato centrale torni ad investire in infrastrutture materiali ed immateriali, aggirando i vincoli di bilancio imposti da Bruxelles. Come ? Applicando, dopo aver trovato un accordo con gli altri paesi dell’Ue, la regola di bilancio (“Golden rule”) secondo la quale gli investimenti pubblici possono essere scorporati dal computo del deficit ai fini del rispetto del patto di stabilità fra gli stati membri dell'Unione europea. 4)            Incentivare gli interventi per il lavoro e la formazione E’ indispensabile rilanciare l’istruzione e  la formazione professionalizzante in un’ottica di filiera che metta a regime il sistema duale (alternanza scuola/lavoro e apprendistato), sostenendo economicamente gli istituti tecnici e professionali di “frontiera”. Inoltre, vanno resi stabili e non limitati nel tempo gli incentivi per favorire l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro anche come neo-imprenditori. 5)            Investire nell’impresa 4.0 e nell’utilizzo del digitale Fino ad ora gli effetti dell’iniziativa impresa 4.0. hanno interessato quasi esclusivamente le imprese di media e grande dimensione. Si deve pensare anche alle micro imprese e a quelle artigiane che intraprendono il percorso di trasformazione digitale con il medesimo interesse comunicativo, le stesse corsie preferenziali burocratiche e le medesime risorse speciali attribuite alle start-up e Pmi tecnologiche. Read the full article
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giancarlonicoli · 5 years
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26 MAR 2019 11:29
IL SILENZIO DEGLI INNOCENTISTI/2 - CHRISTIAN RAIMO: ''SE DEVO CHIEDERE SCUSA PER AVER DIFESO CESARE BATTISTI, LO FACCIO. MA RIFIRMEREI L'APPELLO, CHE CHIEDEVA UN PROCESSO GIUSTO E LA VERITÀ PER LE VITTIME. GLI OMICIDI SONO PERSONALI E NON VANNO CONFUSI CON LA LOTTA'' - LA SUA EDITRICE FRANCESE INVECE NON CAMBIA IDEA: ''HA CONFESSATO? SOLO UNA STRATEGIA PROCESSUALE'' - WU MING: ''I NOSTRI TESTI SONO NOTI, RIPETEREMMO QUANTO GIÀ DETTO''
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1. RAIMO E QUELL'APPELLO PER BATTISTI: «SE DEVO CHIEDERE SCUSA, LO FACCIO. SPERO IN UNA GIUSTIZIA RIPARATIVA, NON PUNITIVA»
Dall'articolo di Angela Gennaro per www.open.online
(…)
Molti sono stati gli intellettuali, anche italiani, che negli anni si sono spesi sostenendo che l'ex terrorista fosse innocente e un perseguitato. Scrittori e artisti di primo piano: Wu Ming, Valerio Evangelisti, Massimo Carlotto, Tiziano Scarpa, Nanni Balestrini, Daniel Pennac, Giuseppe Genna, Vauro, che ha poi chiarito la sua posizione, sbagliata e non del tutto voluta, Pino Cacucci. «Preferiamo non commentare le notizie di oggi», dicono dal collettivo Wu Ming a Open. «I nostri testi sulla questione sono pubblici da dieci anni e non faremmo che ripetere esattamente le stesse cose che abbiamo scritto un tempo».
«A questo punto spero che possa rivedere in maniera più costante la sua compagna e i suoi figli e venga tolto da un regime di detenzione speciale»: l'unico ad accettare un confronto è, ancora una volta, lo scrittore e insegnante (e oggi assessore in un municipio romano) Christian Raimo. Tra gli intellettuali che nel 2004 firmarono un appello per la libertà di Cesare Battisti, ha già chiarito la sua posizione al momento dell'arresto di Battisti.
Raimo, come commenta la confessione resa pubblica oggi?
«Sono contento che abbia confessato. Spero che sia una confessione definitiva e non determinata dalle condizioni in cui è avvenuta. Così si restituisce non solo una verità debita ai famigliari delle vittime, ma anche a un pezzo di storia italiana. Su questa pagina la verità giudiziaria è una parte, fondamentale. Ma è parte di un processo di elaborazione di quegli anni che non si può consumare solo nelle aule giudiziarie. Per me Battisti non è un guerriero sconfitto, ma un cittadino italiano che, a suo dire ora, ha commesso degli omicidi. È giusto dica la verità, paghi una sanzione ma anche che abbia la possibilità di riparare. Insomma, che ci sia la possibilità che la giustizia sia riparativa. La verità ripara un pezzo, ma un altro pezzo lo deve riparare l'elaborazione storica».
E come si dovrebbe portare avanti questa elaborazione storica?
«Con il lavoro che facciamo tutti i giorni attraverso i testi storici. Studiando. Su quegli anni c'è stato, per fortuna, negli ultimi tempi un lavoro enorme degli storici. Un lavoro di supplenza all'elaborazione politica. In Sudafrica, dopo l'apartheid, c'è stata una commissione di verità e giustizia che ha cercato di creare un possibile passaggio da un'epoca drammatica a una di comunità condivisa. In Italia c'è il lavoro, enorme, fatto da Il Libro dell'incontro - Vittime e responsabili della lotta armata a confronto. Non per creare una memoria condivisa - sarebbe irrispettoso per le famiglie, i sopravvissuti e per gli stessi responsabili - ma per cercare di trovare una storia lì dove ci sono ancora lacerazioni e buchi.
Se noi pensiamo a Battisti semplicemente come un omicida, in realtà ci togliamo la possibilità anche di capire come in una determinata epoca storica ci possano essere stati così tanti omicidi. Faccio il professore di storia e cerco di farlo cercando di dare valore alla complessità. Già chiamare quelli "anni di piombo" ci fa perdere qualcosa: gli anni '70 sono stati anni di tante cose. Di omicidi, violenze terribili ma anche di grandissime riforme sociali e di lotte importantissime. Di emancipazioni e di stragi le cui ferite sono ancora aperte, da quelle di Stato al delitto Moro»
Oggi Francia e Brasile devono chiedere scusa? E gli intellettuali? E gli intellettuali italiani?
«Ma quello che si chiedeva con quell'appello del 2004 non è diverso da quello che è poi accaduto. Quell'appello chiedeva verità e un processo giusto. Che a questa verità si sia arrivati con anni di ritardo e attraverso un percorso giudiziario così complicato è certo una sconfitta. Quell'appello chiedeva anche un'altra cosa: una riflessione sulle misure di repressione poliziesca di quegli anni - leggi speciali e dintorni - affinché la sconfitta del terrorismo non passasse per una riduzione dei responsabili della violenza armata o a pentiti o a reduci. Se devo chiedere scusa, lo faccio. Ma oggi firmerei un altro appello per la richiesta di verità e giustizia di vittime e famiglia».
Non auguro il carcere a nessuno, aveva detto a Open dopo la fine della latitanza di Cesare Battisti.
«A me interessa soprattutto la verità, ma voglio che la sanzione sia giusta e che faccia sì che la vita che resta a Cesare Battisti sia tesa a riparare a quello che ha fatto, non soltanto a soffrire come lui stesso ha inferto sofferenza. Sarebbe uno spreco per tutta la cittadinanza. Se la sua confessione è utile, è utile anche che ci aiuti a capire meglio quella pagina della nostra storia».
«La lotta armata ha impedito lo sviluppo culturale, sociale e politico dell'Italia», ha detto Battisti ai pm.
«Battisti si è improvvisato scrittore. Non si improvvisasse storico. Spero che queste verità riescano a venire fuori anche senza una giustizia vendicativa come si è visto in questo caso. Mi dispiace che Battisti interpreti le lotte collettive a suo uso e consumo. Mi dispiace che si prenda la responsabilità dei suoi atti alle volte in senso personale, alle volte in senso collettivo: gli omicidi sono personali. Mi piacerebbe che le confessioni degli omicidi - che sono personali - non dovessero passare anche, sempre, per un'abiura. Non serve a capire alla verità ma a pensare a uno Stato in guerra: e per fortuna non siamo più in guerra».
2. L' EDITRICE FRANCESE: «IO NON CAMBIO IDEA HO FATTO BENE A CREDERE A UN AMICO»
Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera”
Joëlle Losfeld è una editrice francese molto apprezzata. La maison che porta il suo nome fa parte del gruppo Gallimard e ha pubblicato due libri di Cesare Battisti: « Dernières cartouches » (1998), storia di un rapinatore che aderisce alla lotta armata, e « Cargo sentimental » (2003), racconto di un italiano che dopo gli anni di piombo si rifugia a Parigi.
Nel 2004 assieme a molti altri intellettuali francesi Losfeld prese le difese di Battisti.
Oltre che editrice è - tuttora - sua amica. Al telefono le diamo la notizia della confessione.
Signora Losfeld, ha saputo delle ammissioni di Battisti?
«No, non ne sapevo nulla, me lo dice lei adesso».
In questi anni ha cambiato opinione su di lui?
«No, perché ho letto con attenzione il libro di Fred Vargas La Vérité sur Cesare Battisti e ho saputo dei vizi di forma e della altre cose sconcertanti dei processi contro Cesare».
Ma i processi avevano accertato la verità, lui adesso ha confessato gli omicidi.
«Non sono esperta di diritto, immagino che siano gli avvocati ad avergli consigliato di ritornare sulla sua linea di difesa dopo essersi sempre proclamato innocente, ma non ne so di più».
Sa quanto in Italia si sia parlato del sostegno francese a Battisti. L' opinione prevalente è che da voi sia riuscito a spacciarsi per un nobile combattente della libertà quando invece era un delinquente.
«Ma anche in Francia sapevamo che ha cominciato come delinquente comune, e lui non lo ha mai negato, ha sempre detto di essere entrato in prigione per la prima volta per delitti comuni, ed è in prigione che si è politicizzato. Poi si è rifatto una vita in Francia, non ha mai più commesso delitti, si è conformato alla condotta richiesta dalla dottrina Mitterrand, cioè abbandonare la violenza e vivere tranquillamente».
Avete difeso Battisti che si era sottratto al processo, ma negli anni Settanta l' Italia non ha mai smesso di essere una democrazia, con un sistema giudiziario che tutelava i diritti dell' imputato. La percezione, anche a sinistra, è che Battisti sia riuscito a ingannare l' ambiente intellettuale parigino.
«So bene che Battisti in Italia è detestato, anche dalle persone che stavano dalla sua stessa parte politica, ma dobbiamo ricollocarci al tempo degli anni di piombo, in un contesto politico completamente diverso. C' era una guerra tra l' estrema destra e l' estrema sinistra, sono successe cose gravi, era un altro periodo.
Battisti e altri volevano rovesciare una classe politica troppo normativa. Adesso, io non ho vissuto gli anni di piombo, ho conosciuto Cesare Battisti in Francia, l' ho conosciuto come scrittore, mi ha raccontato la sua storia. Non c' era motivo per cui io non credessi alla sua versione. Voglio dire, non sono io che l' ho fatto venire in Francia, c' era un accordo tacito tra i governi italiano e francese. C' è anche il problema dei pentiti, che hanno accusato altre persone in cambio di sconti di pena, una volta che Cesare ha lasciato l' Italia qualcuno gli ha addossato tutte le responsabilità».
Pensa ancora di avere fatto bene a sostenerlo?
«Sì».
Lei sa quanto questo appoggio faccia discutere.
«Lo so, ho amici italiani che mi vogliono bene comunque. Sanno che ho difeso Cesare Battisti perché è un amico. Non faccio analisi politiche riguardo ai miei amici, credo a quel che mi dicono».
Ma adesso che lui riconosce i fatti non si sente tradita?
«Non sono abbastanza informata, non ho ancora parlato al telefono con la figlia e non conosco adesso la sua linea di difesa, forse non può fare altro che confessare. Io sono contraria alla lotta armata, mi sono impegnata a favore di Cesare, per anni e anni, indipendentemente dal fatto di essere una delle sue editrici, perché c' era una parola data dalla Francia e bisognava rispettarla. Lo abbiamo difeso perché la Francia aveva preso un impegno».
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In attesa dell’uscita del suo ultimo film TRE PIANI (uscita inizialmente prevista ad Aprile ma che forse vedremo al Festival di Venezia) ripercorriamo la carriera di un autore, attore e regista molto amato, sia in patria che all’estero. Giocando a mettere in fila i 13 lungometraggi di Nanni Moretti chiediamo anche a voi quale siano i suoi migliori film. Nella lista una scena memorabile per ogni opera.
Il cast di Tre Piani include oltre allo stesso Moretti: Margherita Buy, Riccardo Scamarcio, Alba Rohrwacher, Adriano Giannini, Stefano Dionisi, Anna Bonaiuto, Tommaso Ragno, Denise Tantucci, Elena Lietti,   Paolo Graziosi, Alessandro Sperduti. Tratta dal libro Shalosh Qomot di Eshkol Nevo (qui la trama), la sceneggiatura è stata scritta da Nanni Moretti con Valia Santella e Federica Pontremoli. Fotografia: Michele D’Attanasio, montaggio: Clelio Benevento, musica: Franco Piersanti. Prodotto da Sacher Film e Fandango con Rai Cinema e Le Pacte, distribuito da 01 Distribution.
Con Alessandro Sperduti che interpreta suo figlio
Con Tommaso Ragno
Con l’autore del romanzo
Con l’attrice Elena Lietti
Foto di scena
Foto di scena
Con Michele D’Attanasio e la troupe
Al montaggio con Clelio Benevento
Il romanzo racconta in tre capitoli altrettante storie che si sviluppano in un condominio di tre piani. Al primo vive una giovane coppia con due bambine, che a volte affida la maggiore agli anziani vicini di casa. Un giorno l’uomo, affetto da Alzheimer, scompare con la piccola per alcune ore finché i due vengono ritrovati in un frutteto. La storia è raccontata dal punto di vista del padre della bambina che sospetta che la figlia sia stata abusata.
Al secondo piano vive una donna che si sente trascurata dal marito sempre in viaggio e che non si sente appagata dalla sua vita da casalinga. Un giorno si presenta alla porta il cognato, con cui il marito ha rotto da anni, che le chiede ospitalità in quanto ricercato da polizia e creditori.
All’ultimo dei tre piani vive una giudice in pensione, vedova, che riallaccia i rapporti con il suo unico figlio che aveva litigato violentemente col defunto marito della donna.
I “tre piani” a cui fa riferimento il titolo del film sono metaforicamente i tre livelli nei quali Freud ha diviso l’apparato psichico dell’Uomo, le istanze freudiane della personalità. Così il personaggio di Riccardo Scamarcio, impulsivo e convinto che qualcosa di tremendo sia accaduto alla sua bambina è la rappresentazione dell’Es , ovvero le pulsioni più basilari, quello di Alba Rohrwacher, che interpreta una madre che da sola deve accudire un figlio appena nato, è l’Io, ciò che media tra l’istinto e la razionalità, mentre il personaggio di Moretti, un severo giudice, è l’emanazione del Super Io, quell’area psichica deputata al controllo.
A Cannes
In Sogni d’oro
13) Io sono un autarchico (1976)
Girato in Super8 e ristampato in 16mm, prodotto indipendentemente (meno di 4 milioni di lire) e custodito sotto il letto fino alla sua distribuzione, è l’esordio nel lungometraggio di questo sceneggiatore, regista e attore classe 1953. Qui Nanni è Michele, attore in una compagnia teatrale e in crisi coniugale.  6,4
12) Mia Madre (2015)
Nanni Moretti torna a parlare di morte e di lutto all’interno della famiglia, mescolando ancora una volta il suo cinema con la sua biografia. Torna Margherita Buy nei panni dell’alter ego dell’autore. 6,5 
11) Il Caimano (2006)
Dopo una pausa successiva al grande successo de La stanza del figlio Moretti torna a parlare sia di politica che di cinema. L’ascesa di Silvio Berlusconi analizzata con ferocia e un finale apocalittico in un film tra i più difficili e controversi del regista. Prima volta di Margherita Buy come alter ego. 6,6
10) Sogni d’oro (1981) 
 Michele Apicella questa volta è un regista, abbastanza frustrato, che sta ultimando un film sulla madre di Freud. Moretti non risparmia critiche ai mezzi di comunicazione e alla televisione nella sua prima opera metacinematografica. 6,7
9) Aprile (1998)
L’autore continua sulla via del diario personale e apre il film con la salita al governo di Silvio Berlusconi nel 1994 . Nell’ aprile del 1996 coincisero la nascita del figlio Pietro (il 18) e le elezioni politiche anticipate (il 21). 6,8
8) Santiago, Italia (2018)
Unico lungometraggio documentario della sua carriera racconta le conseguenze del colpo di Stato in Cile del 1973 mediante filmati d’archivio e interviste odierne ai protagonisti, concentrandosi sul ruolo dell’ambasciata italiana a Santiago che diede rifugio a centinaia di oppositori di Pinochet, consentendo loro di arrivare in Italia. 7,0
7) Habemus Papam (2011)
 Nanni Moretti, mai così profetico,  racconta la crisi spirituale di un papa che abdica (una delle ultime grandi interpretazioni di Michel Piccoli) due anni prima di Joseph Ratzinger. Nanni veste nuovamente i panni di uno psicanalista e ritorna la passione per lo sport con un torneo di pallavolo tra ecclesiastici. Molti i premi conquistati dal film. 7,1
6) Palombella Rossa (1989)
Primo film dichiaratamente politico del regista: Michele Apicella ha perso la memoria e vive la crisi ideologica del Partito Comunista durante una partita di palla a nuoto. Ritorna la musica di Franco Battiato (E ti vengo a cercare); primo ruolo importante per Silvio Orlando. 7,2
5) La messa è finita (1985)
Attraverso la figura di un giovane prete, Don Giulio, l’autore continua l’analisi dei tempi in cui vive tra problematiche familiari e quelle con amici e parrocchiani. Sempre con singolare ironia, sprazzi di dolore, malinconia, colpi di genio e musica italiana (Sei bellissima, Ritonerai). Orso d’argento al Festival di Berlino del 1986. 7,3
4) Ecce Bombo (1978)
La prima vera produzione cinematografica di Moretti (16mm gonfiato in 35) nel ruolo di Michele Apicella (il cognome di sua madre), alter-ego del regista – e caricatura del militante di sinistra – in un film generazionale di culto. Nanni a 24 anni esplode con tutto il suo carisma, facendo cose e vedendo gente. 7,5
3) La stanza del figlio (2001)
Palma d’Oro a Cannes per il miglior film, racconta il dolore per la perdita di un figlio, la durissima elaborazione del lutto e la necessità di ricominciare a vivere. Incise nella memoria diverse sequenze, devastante l’ascolto di By this river di Brian Eno. Esordisce Jasmine Trinca e Stefano Accorsi compare nel ruolo di un paziente. 7,8
2) Bianca (1984)
 Una commedia che diventa un giallo: uno dei migliori film italiani degli anni 80 e tra i più amati dagli estimatori di Moretti. Diverse le battute memorabili (“Continuiamo così, facciamoci del male“) e la prima volta di Franco Battiato in colonna sonora (Scalo a Grado). 8,0
1) Caro Diario (1993)
 Tre episodi (In vespa, Isole, Medici) nel primo dei quali Nanni Moretti – per la prima volta se stesso, – inanella una serie di scene cult una dopo l’altra. L’originalità e la stravaganza dell’opera gli valgono la Palma a Cannes come miglior regista. 8,5
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Tutti i film di Nanni Moretti dal peggiore al migliore In attesa dell'uscita del suo ultimo film TRE PIANI (uscita inizialmente prevista ad Aprile ma che forse vedremo al…
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salecheapggdb-blog · 5 years
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