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ufficiosinistri · 4 months
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James Montague - "Fra gli ultras. Viaggio nel tifo estremo."
James Montague è un giornalista ed uno scrittore calcistico. Ci racconta del pallone. Ci spiega come funzionano le cose, le dinamiche societarie e sportive, ci racconta dei tifosi. Lo fa da sempre. È uno scrittore curioso, perché non si fida di ciò che vede in televisione o legge sui giornali. Lavora in zone difficili, dove ci sono scontri e guerre. Per questo, si affida ai rapporti umani, per descriverci la realtà. In “Fra gli ultras” succede proprio così. Girando il mondo tra città, stadi e bar, Montague ci racconta storie legate al mondo del tifo della gente, delle barricate, delle curve, della fede più radicale.
Il volume è diviso in diverse sezioni, a ciascuna della quali corrisponde una precisa area geografica o tematica. A loro volta, questi macro-capitoli sono suddivisi in altri capitoli, che corrispondono ad una nazione. In ogni Stato, in ogni città, in ogni stadio, l’autore inglese ha un “Virgilio”, una persona che lo porta ad assistere alle partite, facendogli vivere in prima persona l’atmosfera e le situazioni legate a quella partita e a quella tifoseria. Vicoli, porti, bar, night club. Mikael, un barbuto ultras dell’Hammarby, gli fa incontrare alcuni membri della Banda del Parque, la frangia più estrema del tifo del Nacional di Montevideo e lo guida sull’altra sponda del Rio de la Plata, tra i ragazzi della Doce che gli raccontano della finale di Libertadores giocata a Madrid dopo i disordini coi rivali del River Plate scoppiati a Buenos Aires. In Italia, incontra il Bocia e Diabolik prima che venga disputata la finale di Coppa Italia della stagione 2018-2019, ma durante il racconto non manca di parlare della situazione delle curve sul nostro suolo, chiamando in causa le illuminanti parole di Vincenzo Spagnolo sul “nemico comune” degli ultras, soprattutto dopo la morte di Gabriele Sandri e i disordini di Catania. Se ogni movimento ultras è figlio della propria epoca e si schiera in prima linea contro l’oppressione e l’opinione pubblica, ecco allora la parte sul Flamengo e l’opposizione della sua Torcida al leader di destra Bolsonaro e la chiacchierata con Ismail Morina, colui che fece atterrare un drone corredato dalla bandiera della Grande Albania sul terreno di gioco del Partizan di Belgrado durante un Serbia – Albania valido per le qualificazioni all’Europeo del 2016. Si parte dalle curve e dalla loro gente, ma si arriva, inevitabilmente, alle dinamiche societarie e di lega che caratterizzano le rispettive nazioni. Una partita del Friburgo, in Bundesliga, diviene così il pretesto per spiegare con occhio critico cosa significhi veramente il cosiddetto modello tedesco del “50+1”. Se esso metta veramente al centro l’importanza dei tifosi e quali siano le conseguenze a livello europeo di questa dinamica. I capitoli sugli Stati Uniti, dove Montague si reca a Los Angeles ed incontra alcuni esponenti della 3252, la sezione più schierata politicamente dei tifosi del LAFC, e sulla Turchia diventano poi, inevitabilmente, quelli più legati al conflitto politico. Trump ed Erdogan vengono riportati ad un livello più sociale e cittadino, e le loro decisioni su repressione e politiche sociali vengono analizzate proprio grazie alle testimonianze degli ultras, che diventano protagonisti della vita sociale delle città e delle manifestazioni. L’occhio di James Montague è perennemente vigile, durante i suoi viaggi e le sue avventure. Sa che può essere scambiato per un giornalista da un momento all’altro e non mancano infatti attimi di tensione, che gli impongono rinunce e passi indietro. In segno di rispetto per ambienti e persone a lui alieni, con il procedere dei racconti, capiamo quanto sia importante il conoscere in prima persona fatti e persone. Se tutto iniziò con gli ultras dell’Hajduk Spalato, che copiarono le coreografie e i cori delle Torcide sudamericane e portarono questa testimonianza in tutta Europa, chi legge testi come questo, formidabile, “Fra gli ultras. Viaggio nel tifo estremo”, non può fare altro che eliminare qualsiasi forma di pregiudizio e falso mito, lasciandosi trasportare dalla cultura di questo movimento internazionalista tra i più numerosi al mondo. L’ultimo, vero baluardo di resistenza non solo contro polizia e giornalisti, ma contro tutto ciò che la modernità sfoggia quotidianamente come mezzo di oppressione.
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ufficiosinistri · 5 months
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Avete perso Pizzaballa?
Era il 1994, e l’Unità aveva deciso di pubblicare settimanalmente, come inserto dell’edizione del lunedì mattina, una ristampa di un album di figurine Panini, uscito negli ultimi trentacinque anni, dal 1961 ai giorni nostri.  La pubblicità che si vedeva in giro, anche su altri quotidiani, recitava, nero su giallo fosforescente, “Avete perso Pizzaballa?”.  Lo storico portiere bergamasco non appariva infatti nella lista delle figurine stampate nel 1964, anno in cui era all’Atalanta, perché il giorno dello scatto delle foto di rito era infortunato e non si presentò nemmeno al centro sportivo dove si svolgevano gli allenamenti. Diventò una figurina mitologica, che fu stampata molto tempo dopo il lancio dell’album, che entrò subito nell’immaginario collettivo di quell’Italia da boom economico, tra sportivi e meno appassionati.
“Hai perso Pizzaballa?” Mi domandò mio padre, accorgendosi che stessi guardando quello slogan stampato sulla quarta di copertina del numero del quotidiano che stava leggendo, come sempre, seduto sul divano in salotto. Mi osservava, in attesa di una mia risposta, con lo sguardo che si alzava faticosamente al di sopra delle lunette.
Non seppi cosa rispondere, ovviamente, e lo guardai di sottecchi.
“Ogni lunedì, tu che passi davanti all’edicola di Viale Volta per andare a scuola, fermati e compra L’Unità, così facciamo la collezione degli album delle figurine. Non ti dimenticare, eh.”
Accettai, ovviamente.
L’edicola era posta su una cuspide del marciapiede, in uno spiazzo davanti ad un palazzo altissimo, uno dei più alti della città per l’epoca, in un quartiere che confinava con il mio in modo aleatorio,  senza delimitazioni precise, almeno per me e i miei amici. Chiamavamo quella zona “vicino alla scuola” oppure “tra i parchetti”, data la notevole quantità di aree verdi presenti, nemmeno avessimo vissuto a New York, dove il quartiere di Tribeca prese nome dalla temporanea abbreviazione che gli abitanti diedero alla zona di isolati, posti a triangolo, che si trovava a sud di Canal Street. “Triangle Below Canal Street”, Tri-Be-Ca.
L’intervallo del lunedì mattina divenne così un appuntamento fisso per consultare l’uscita dell’album del giorno. Ci soffermavamo sui giocatori più sconosciuti e dai nomi più insoliti. La triade Pin – Bon – Blason del Padova, gli oriundi del Napoli, gli esordi in massima serie di Marco Osio. Commentavamo i volti che cambiavano squadra e colori ogni lunedì, guardavamo le statistiche sui gol segnati. Moltissimi calciatori scomparivano o indossavano uno sponsor doverso sulla maglia, altri si tagliavano la barba o se la facevano crescere per la stagione successiva.
E poi c’era un giocatore dell’Inter che non cambiava mai. Appena giravo la pagina ( ero io il “master”, colui che, essendo il possessore dell’album, poteva dettare i tempi di consultazione ) dopo quelle dedicate alla Fiorentina o al Genoa, Fabio cambiava espressione e il volto lentigginoso gli si illuminava all’improvviso, come se non se lo aspettasse, come se ogni lunedì fosse una nuova e strabiliante scoperta.
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L’Inter di Mario Corso appariva lentamente, dispiegata su due pagine, come tutte le altre squadre.  Fabio abitava in un palazzo vicino al mio, al terzo piano. Il suo balcone era l’unico, del caseggiato, a non avere appesi i cd per tener lontano i piccioni. Nel mio condominio non avevamo questo problema, perché il nostro cortile era pieno di gatti e i volatili ne erano terrorizzati: ogni giorno trovavo una carcassa di piccione sull’asfalto, oppure solamente delle piume, a testimoniare il perpetuo massacro. Erano gatti domestici e quindi non li mangiavano, li uccidevano solo.
Contavo i soldi giusti per comprare L’Unità con la figurina di Mario Corso sin dalla domenica sera, quando mi ritrovavo a finire i compiti appena prima di sedermi a cena. Le sigle dei programmi sportivi, la cappa della cucina accesa che sovrastava ciò che avremmo mangiato in settimana, il pesante zaino fosforescente per terra ai piedi del letto pronto per affrontare altri sei giorni di scuola, mezzi pubblici, automobili, intemperie, strisce pedonali presidiate da nonni vigili.
Sentivo mia madre e mia zia parlare in cucina. La luce di camera mia era sempre fioca, come se vivessi di nascosto. Mia zia si sedeva sempre al tavolo da pranzo, mentre mia madre preparava la cena. Il lavoro, le vacanze che voleva fare, i miei nonni. Nel mentre, la aiutava ad apparecchiare. Alle volte mi controllava i compiti di latino per il giorno dopo, dato che lei lo aveva studiato alle superiori. Aveva fatto le magistrali e avrebbe potuto insegnare nelle scuole. Litigavamo perché a lei lo avevano insegnato in modo diverso, soprattutto quando si trattava di tradurre le versioni. Le facevo vedere i pezzi di traduzione che avevo trascritto, esattamente come erano riportati sul vocabolario, ma non ci credeva. Dopo cena se ne tornava a casa in macchina e io, ricontrollando i soldi che mi sarebbero serviti per comprare un album di figurine ristampato.
Avevo seguito le indicazioni di mio padre, e Fabio ne sarebbe stato contento. Mario Corso sarebbe stato ancora lì, uno sfondo colorato e quasi irreale, gli occhi vispi. Alcune fotografie lo ritraevano con le mani sui fianchi. Le annate delle Coppe dei Campioni, la sua estraneità alle rivalità consacrate del calcio italiano.
Quattro anni dopo, L’Unità iniziò a pubblicare un’altra collana. Si intitolava “Gli anni della Prima Repubblica” ed era curata dal giornalista Gianni Rocca. Dalla Costituzione alla vittoria elettorale dell’Ulivo di Romano Prodi, in ordine cronologico, ogni uscita raccontava due anni della nostra storia. Anche in quell’occasione mi fu affidato il compito di comprare il quotidiano il lunedì, prima di andare a scuola. Facevo già le superiori e l’edicola non era più la stessa degli album di figurine. Era posta in una piccola vetrina lungo il corso principale che percorrevo ogni mattina, uno spazio angusto totalmente all’opposto rispetto a quella che si trovava “tra i parchetti”. C’era sempre la fila prima di arrivare al bancone, nei giorni di pioggia o di grande freddo le persone si urtavano le une con le altre. Quando chiedevo L’Unità con l’inserto, alcune di loro mi guardavano con circospezione, ma non l’edicolante. Lui, mai.
In classe, durante i cambi d’ora, io e i miei compagni guardavamo e fotografie che ritraevano gli avvenimenti principali di quegli anni. Il Vajont, Sigonella, Berlusconi. Nessuno indicava nulla e non si aspettava nulla.
È strano pensarlo, ma il tempo che passa, anche se ci sembra tantissimo, da un evento importante, è facilmente calcolabile. Dalla finale di Coppa dei Campioni del 27 maggio 1965, giocata a San Siro contro il Benfica di Eusebio e Coluna, possiamo contare gli anni, i mesi, i giorni, sino ad arrivare ai secondi che ci separano. A volte è necessario, quindi, separare i sentimenti dai nostri ricordi.
Ed è per questo che mio padre, interista, per  smettere di pensarci, lo chiama tuttora “Mariolino”. Calzettoni tirati giù come sarebbe accaduto per  lo Scudetto con Berti e Serena, numero undici.
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ufficiosinistri · 6 months
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What will you be reading this weekend? Luca Baccolini - "Bravi e dannati"
Ogni volta che ci passavo davanti, mi incuriosiva. Esposto lì, in una grande libreria, assieme ad improbabili autobiografie, libri fotografici e manuali sul calcio. Il titolo che parafrasava un film epico di Gus Van Sant, “Belli e dannati” con Keanu Reeves e River Phoenix. Un libro che a prima vista, dalla copertina, mi sembrava commerciale e scontato. Dopo una, due, tre volte che ci passai davanti, decisi però di portarmelo via. “Bravi e dannati” è una corposa raccolta di brevi, a volte brevissimi biografie riguardanti calciatori che nelle loro carriere sono stati capaci di accomunare genio e sregolatezza, talento e spreco, impegno politico e vittorie. L’autore, il giornalista sportivo bolognese Luca Baccolini, ci racconta le loro imprese, calcistiche e non, analizzandole come fulmini a ciel sereno, contestualizzandone la narrazione nello spazio e nel tempo, riuscendo a coprire un secolo di storie da sviscerare in tutta la loro umanità.
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I “Carneadi” (termine che ricorre tantissimo nelle pagine del volume ) di Baccolini ci vengono raccontati con spudorata umanità e uno stile molto giornalistico, che evita ripercussioni emotive. Le storie descritte sono tristi, violente, iperboliche e a lieto fine. Appartengono a vite di calciatori, e quindi di esseri umani, e forse la bravura dell’autore risiede proprio nel raccontarle in maniera distaccata e disillusa, senza soffermarsi su giudizi e opinioni personali. Spetta quindi al lettore trovare spunti di riflessione e farne, in seguito, tesoro. La sgroppata trionfale di Saeed Al-Owarian nella partita contro il Belgio a USA 94, che fu classificata come il sesto gol più bello di sempre nella storia dei Mondiali, viene così narrata in contrapposizione all’intera carriera del trequartista saudita, conclusasi senza mai aver avuto la possibilità di giocare in un campionato europeo. Dino Ballacci, poi, il difensore partigiano che militò nel grande Bologna del dopoguerra, ci viene inquadrato nella sua più totale normalità di uomo che, oltre alla fede calcistica, visse la propria vita in nome di ideali libertari e di uguaglianza. Poco importa se si presentò al rinnovo del contratto portando con sé una pistola, perché sapeva che il presidente Dall’Ara ne avrebbe avuto con sé una. E poi la tragica storia di Fashanu e del suo soffertissimo coming-out, la Via Crucis giudiziaria a cui fu sottoposto Beppe Signori, la morte nel disastro del Vajont di Giorgio de Cesero. Persino la collocazione in rigido ordine alfabetico dei protagonisti ci fa rimanere con i piedi ben saldi a terra, e la parte finale, dedicata a citazioni e aforismi più o meno famosi, fa da corollario alla ricerca sociale dell’autore. “Bravi e dannati” trasuda di cultura e storia. Di politica e divertimento, di illusioni e vittorie. “Spiazzato di netto, il portiere egiziano si alza e proietta le braccia al cielo in un urlo liberatorio. Simultaneamente, tutti i giocatori del Camerun le portano dietro alla testa in un gesto di disperazione collettiva, condiviso da un Paese intero. Womé, l’eroe degli undici metri, questa volta ha tradito. Ma per lui, quello, è solo l’inizio dell’incubo. La sera stessa un gruppo di tifosi inferociti entra nella sua casa in Camerun e si porta via tutto. Nella fuga sfasciano anche l’automobile, rendendola inservibile. Non sfugge alla loro ferocia nemmeno il negozio della compagna del calciatore, saccheggiato e dato alle fiamme. Womé, nel frattempo, è stato scortato dalla polizia locale e imbarcato a bordo del primo aereo in partenza per l’Europa, come in un film di spionaggio. Quando atterrerà in Italia, ascolterà dalla bocca del suo compagno di squadra Samuel Eto’o un doloroso retroscena, che forse avrebbe preferito non venisse divulgato: >, rivelerà l’attaccante del Barcellona.”
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ufficiosinistri · 10 months
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What will you be reading this weekend? Gigi Riva, Gigi Garanzini – “Mi chiamavano Rombo di Tuono”
Lo vediamo abbracciato a Roberto Baggio, alla fine di quei maledetti rigori a Pasadena. Ce lo ricordiamo strattonare Gianni Rivera dopo il definitivo quattro a tre sulla Germania, a Città del Messico. Lo ammiriamo ancora oggi, a distanza di decenni, sia come giocatore che come persona: Gigi Riva è sempre stato considerato un uomo dell’altro mondo, un giocatore astrale, lontano dai soliti paradigmi calcistici ai quali siamo abituati, alle dinamiche europee di ieri e di oggi. Inclassificabile come ruolo in campo e come mentalità. Fu vero fenomeno, calcistico e sociale.
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“Mi chiamavano Rombo di Tuono” è un’autobiografia che ci aiuta a capirlo meglio, nella sua grandezza, e a riportarlo alla dimensione più umana, quella dimensione che proprio egli stesso ha sempre scelto di mantenere. Leggiuno, sponda varesina del Lago Maggiore. Il lavoro in fabbrica ed il primo contratto da professionista, coi Lilla del Legnano, e la successiva chiamata del Cagliari, in Serie B. Gli affetti familiari, i giorni bui passati in orfanotrofio, l’arrivo in una terra sconosciuta che lo accolse come un nativo. La storia di Gigi Riva è una storia proletaria, di fatiche e sacrifici, ma è anche la storia romanzesca e idealizzata di una vittoria, lo Scudetto conquistato dagli isolani guidati dal profeta Scopigno nel 1970, che in quei difficili anni di post-industrializzazione diede speranza allo sport e, nel nostro caso, nel calcio. Giocatore, attaccante, ma anche dirigente. I successi sul campo (ricordiamo, oltre al Campionato vinto col Cagliari, anche il successo al Campionato Europeo del 1968 che lo vide tra i protagonisti) si accompagnano a quelli ottenuti nel ruolo di dirigente, con il Mondiale del 2006 vinto assieme a Marcello Lippi: i giocatori della nostra nazionale potevano infatti contare su di lui come confidente, come se fosse uno di loro. La carriera del numero undici più famoso del mondo ci viene raccontata in prima persona, senza filtri. Rombo di Tuono ci parla della passione per i motori, del vizio del fumo e dell’incontro con Fabrizio de Andrè, il suo cantante preferito, avvenuto dopo una partita disputata a Genova contro la Sampdoria. Vengono descritte le amicizie cagliaritane ma anche quelle sbocciate sui campi da calcio, come quella, indissolubile, con il campione granata Gigi Meroni, un ragazzo “di lago” come lui. Per alcuni attimi ci dimentichiamo del Riva “campione”, il miglior marcatore di sempre in azzurro, quello che rifiutò i miliardi della Juventus perché li riteneva immorali e quello che si infortunò con la Nazionale due volte, ritirandosi dal calcio giocato giovanissimo, a trentadue anni. “Mi chiamavano Rombo di Tuono” è la testimonianza dolce e vissuta di un giocatore unico al mondo. Che venne adottato da un popolo intero, non solo da una tifoseria o una società calcistica. Che provava fascino più per le barche dei pescatori di Villasimius, che per gli yacht ormeggiati in Costa Smeralda.
“Un’altra volta in allenamento entrai duro su Martiradonna, perché mi stava marcando stretto come se fosse una partita scudetto. Scopigno la prese male. E disse, con quel suo tono che sdrammatizzava e insieme sottolineava, che se io ero importante perché facevo gol, c’era chi era altrettanto importante perché i gol non li faceva fare.”
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ufficiosinistri · 11 months
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What will you be reading this weekend? Corrado De Rosa - "Quando eravamo felici"
Il 1990 è l’anno che uso, di solito, per orientarmi tra infanzia ed adolescenza. Cosa è successo prima e cosa dopo? Quali avvenimenti importanti mi devo assolutamente ricordare? Il 1990, ed in particolare la sua estate, funzionano come spartiacque. Nessun anno solare ha mai sancito così nettamente l’esistenza di un “prima” e di un “dopo”. Il fatto è che tutti sapevamo, bambini e adulti, anziani e adolescenti, che sicuramente, dopo i Mondiali delle cosiddette "Notti Magiche”, il calcio, per come l’avevamo sempre vissuto a livello sportivo e sociale, non sarebbe stato più lo stesso. Abbiamo vissuto quell’esperienza come un’epifania sulla modernità, assaporandone ogni momento con infantile illusione, respirandone la magia ogni giorno, al lavoro, sui treni, sui divani, alla radio, nelle università, nelle fabbriche, nei supermercati. Eravamo al centro del mondo dopo anni tetri e violenti, dopo mille fatiche ci potevamo prendere una rivincita, almeno sul campo della spettacolarità. Dentro e fuori dal campo. Lo psichiatra De Rosa ci racconta però la fase per noi più drammatica di questo evento, le ore più incredibili di una Prima Repubblica che stava per declinare definitivamente, i momenti più difficili che ogni italiano ricorda, a livello sportivo. Il tre luglio di quell’anno, infatti, andò in scena a Napoli, Italia – Argentina, semifinale del Mondiale. Sappiamo tutti come sia andata finire, ma dato che stiamo parlando di letteratura sportiva, è giusto descrivere come l’autore ci faccia rivivere (o vivere, per chi non c’era), quelle ore. Il libro è diviso in due parti: un “prima” e un “durante”. I due blocchi, però, non sono monolitici, non sono statici. Si mischiano tra loro in un perenne inseguimento, aderendo e distaccandosi. Prima della gara, De Rosa parte da una descrizione di cosa fosse, a livello politico e sportivo, la nostra nazione. Questa sezione è densa quindi di rimandi storici, curiosità, spunti sociali e folkloristici, senza i quali non sarebbe possibile entrare appieno nella narrazione, in sé, dell’evento sportivo. Van De Korput che pensava di essere stato ingaggiato dalla Juventus ed invece si ritrova ad indossare la maglia dei rivali granata; Zahoui, il primo calciatore africano a giocare in Serie A, che non indossava i calzini; Diego Armando Maradona in fase calante dopo la mancata cessione all’Olympique Marsiglia. Perché il calcio è sempre, inesorabilmente, il calcio del tempo che stiamo vivendo. Nel 1990 come ora. E Cossiga che minaccia Matarrese qualora gli Azzurri non fossero arrivati in finale non è altro che la rappresentazione più veritiera del clima che si stava vivendo in quegli anni. Altro che i napoletani che tifavano Argentina.
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Durante la partita, invece, dopo aver minuziosamente descritto e raccontato i giocatori che vi presero parte, l’autore ci descrive per filo e per segno, adottando un linguaggio a volte molto più che tecnico, cosa avvenne sul rettangolo di gioco. Le gambe di Burruchaga, i campanili di Giannini, la posizione occupata da Basualdo, l’importanza di Gigi De Agostini nelle dinamiche della squadra, l’atteggiamento di Vicini e del suo omologo argentino Bilardo. L’Argentina non era una squadra programmata per arrivare così in fondo, in quella competizione. Non era più quella del “Tata” Brown, ed aveva vivacchiato troppo nella prima fase del torneo, per poterci far paura. Maradona non aveva ancora segnato un gol e giocava da mediano. L’Italia, invece, aveva tutto per poter trionfare. La dieta di Bergomi, i gol di Schillaci, la devozione di De Napoli, la linea difensiva più forte dell’epoca, le sane rivalità tra le sue stelle nascenti. Cosa avvenne, in fin dei conti, nel mondo, quel tre di luglio? Eccoci serviti. L’effetto dell’anestesia finì di colpo.
“Lo hanno chiamato il << Mondiale avaro>> perché quello in cui sono stati segnati meno gol, in media poco più di due a partita. È quello con la finale più brutta di sempre, con l’inno argentino fischiato, decisa da un rigore che non andava concesso. È rimasto in equilibrio fra due geopolitiche mondiali, fra due Repubbliche italiane. È stato un momento precario, eppure saldissimo, che teneva insieme le consapevolezze, le frustrazioni, le ansie, le attese, le speranze di generazioni diverse che si sono trovate a fare la ola allo stadio Olimpico e a tifare da casa. Italia ’90 è come un fantasma: si nasconde, si insinua. Ti ricorda che, se qualcosa può andar male, andrà male. Si è fatto carico dei nostri sogni e li ha interrotti. Ma dobbiamo essergli grati anche per questo: ci ha preparati con garbo a un’epoca di passioni tristi e disillusioni spietate. Italia ’90 è fra noi, Italia ’90 non muore mai.”
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ufficiosinistri · 1 year
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Pivato - Marchesini - "Tifo, la passione sportiva in Italia"
Da dove deriva la parola “tifo”? Ci possiamo rifare al termine greco “thyphos”, cioè “fumo”, in quanto sappiamo che i primi sostenitori erano soliti raggrupparsi per festeggiare gli eventi sportivi attorno a un falò, oppure dobbiamo collegarci alla febbre tifoide e alla sua letale contagiosità tra gli esseri umani? Marchesini e Pivato, due importantissimi accademici, partono dal ‘500, per raccontarci il tifo e le sue origini storico-culturali. Per arrivare nell’ottocento, epoca in cui vengono eretti i primi sferisteri e la gente li affolla, per poi abbandonarli nei primi anni del secolo scorso, trasportandoci poi sino al fatidico dopoguerra, quando le rivalità tra le nazioni si acuiscono a causa del cessato conflitto mondiale e persino i ciclisti italiani al Tour de France vengono inseguiti e presi a sassate. Perché, paradossalmente, gli sport nei quali il contatto fisico è più lieve, o addirittura inesistente, vantano i tifosi più violenti e maggiormente attaccati al culto dell’atleta. Il libro può considerarsi come diviso in due parti. La prima parla delle gesta dei campioni di diversi sport, dei gossip che li hanno riguardati durante le loro carriere e delle reazioni del pubblico alle loro imprese. Viene raccontata così la morte di Fausto Coppi, vero e proprio eroe mitologico le cui gesta sportive divennero un vero e proprio atto di rivincita italiana nel dopoguerra. La sua morte può così essere considerata come l’evento spartiacque, in ambito sportivo, tra l’epoca della bicicletta e quella dell’automobile, che acquisì sempre più maggiore importanza con gli anni, ovviamente, del cosiddetto boom economico degli anni ’60, nonostante le imprese a cavallo tra le due guerre di Tazio Nuvolari e Achille Varzi.
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La seconda sezione del volume, invece, si concentra sul vero e proprio ruolo dei sostenitori e dei luoghi in cui essi agiscono. L’analisi si sposta così sugli stadi e sulle arene, sulla loro (spesso pericolosa ) conformazione ed infine sulla loro responsabilità nel modificare inesorabilmente il paesaggio cittadino, isolando il pubblico dagli oneri e dalle preoccupazioni della vita quotidiana e “inscatolandoli” in un ambiente in cui, secondo la concezione propriamente baktiniana della fruibilità del divertimento, tutto viene concesso. Ci si ritrova infatti in veri e propri luoghi di culto, dove la fanno da padrone campanilismi e senso di appartenenza comunitario, principali cause delle contrapposizioni, spesso violente, con i sostenitori della squadra avversaria. Invasioni di campo, insulti nei confronti di arbitri e deputati al rispetto delle regole diventano sempre più frequenti sino allo sfociare, come tutti sappiamo, con i terribili fatti di Viareggio, nel 1920, quando la polizia uccise il guardalinee Augusto Morganti. Si tratta di un volume storico che scaccia qualsiasi fatalismo dalle odierne speculazioni sportive. Dalla boxe al ciclismo, dal calcio alla pallavolo, dall’epoca fascista sino al ’68 e all’epoca Berlusconi, lo sport viene raccontato con una lucida disanima sociale e culturale, che abbraccio i tifosi, sì, ma anche pubblico e opinione pubblica. Nonostante la gradevolezza e l’efficacia di questa seconda parte, però, “Tifo. La passione sportiva in Italia”, appare, in alcuni passaggi, come un semplice elenco di date, avvenimenti e luoghi, descritti per dare al lettore il più alto numero possibile di informazioni nel tempo più breve possibile: ecco quindi una densa galleria fotografica che riporta i luoghi d’interessa citati durante lo scorrere dei capitoli, e una bibliografia precisa e puntuale che scorre tra l’origini delle fonti citate. Marchesini e Pivato, infine, ci danno un affresco importante e accademico di ciò che, nel gergo comune, possiamo chiamare “tifo”, ma che al suo interno comporta uno studio che non può non essere profondo e disinteressato. “La passione del gioco nell’ottocento assume proporzioni tali che non sempre il diritto riesce a regolamentare. E quando i luoghi deputati dalla consuetudine ad accogliere il gioco si rivelano insufficienti o inadatti, i giocatori non esitano a sfidare le norme di polizia per appropriarsi di nuovi spazi . Le diatribe che sorgono fra le autorità pubbliche aiutano a capire la funzione sociale del gioco nelle comunità in cui avevano origine i conflitti. I documenti di polizia delle varie autorità governative palesano in realtà il timore che la proibizione del gioco potesse dare origine a disordini e tumulti. Di qui le preoccupazioni he le autorità centrali esprimono a quelle comunali, invitandole a riflettere in quanto <<la privazione degli antichi giochi potrebbe far nascere anche gravi lagnanze, e forse ancora qualche tumulto>>.”
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ufficiosinistri · 1 year
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Cristiano Carriero - "Football Rail"
Ventidue città di tutto il mondo descritte in ordine alfabetico. Ventidue storie legate al calcio. Storie importanti, di tifo, di imprese, di amore, di lavoro, di amicizia. Ventidue autori: giornalisti, scrittori, content creator, opinionisti, coordinati da Cristiano Carriero, che da anni ha fatto dello storytelling il suo lavoro. Questo è” Football Rail”. Un libro che inseguivo da tempo e che, finalmente, ho trovato. Dall’avveniristica e totalmente ecosostenibile Copenaghen del 2050, in lizza per vincere una fantomatica Super-Champions League, ci spostiamo nella grigia Ruhr del Borussia Dortmund dei giorni nostri, per seguire un’appassionante storia ambientata tra esodi lavorativi ed un amore nato in Südkurve.
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Viene raccontata, con occhio omnisciente, l’esperienza di Tony Adams come allenatore del Qabala, ai confini dell’Impero Romano, in Azerbaijan, per dimostrare che il pallone, nella concezione moderna del termine, possa sembrare davvero alla portata di tutti ma che, tirando le somme, in pochi possono fruirne le vicende giocate. Sotto l’aspetto politico, poi, è fondamentale l’apporto dell’esperienza di Feyzi, un tifoso del Galatasaray imprigionato dopo la protesta di Gezi park a Istanbul, durante la quale le compagini ultras più importanti della capitale si trovarono unite, per la prima volta, contro la dittatura di Erdoğan. Trovare uno stile di scrittura univoco è, ovviamente, impossibile: gli autori, che descrivono a modo loro diverse città del mondo, partendo dal gioco del calcio, utilizzano chi uno stile giornalistico e chi una via narrativa più letteraria e autobiografica. Abbiamo poi diversi racconti impostati come se fossero dei veri e propri articoli che si affiancano a storytelling frenetici ed accorati, come quello sulla famosissima, ultima partita del campionato scozzese del 1986 nella quale gli Hearts of Midlothian di Edimburgo vennero sconfitti per due a zero dai padroni di casa del Dundee United, regalando così di fatto la vittoria della competizione al Celtic Glasgow. Dura e sconsolata, invece, la cronaca, tra Helsingborg e Milano, dell’eliminazione, da parte degli svedesi, dell’Inter di Lippi. Il rigore sbagliato da Recoba a San Siro urla ancora vendetta. Liberatorio e culturalmente ricco di rimandi e prospettive, infine, è il racconto del Saint-Étienne di Dominique Rocheteau, il centravanti dagli occhi verdi che leggeva Sartre e che portò all’apice del successo quella piccola città di minatori, sperduta nel Massiccio Centrale, negli anni ’70. La lettura, nel complesso, scorre ovviamente leggera e veloce, ma vi propongo un gioco: provate a non spoilerarvi, una volta finito un racconto, il nome della città successiva. Resterete sorpresi. “U” di Ushuaia.
“E il Dukla? Un tempo amata e la più vincente squadra del Paese, oggi raccoglie una quantità limitata di tifosi. Tutta colpa della sua storia e di quel passato con l’etichetta di “squadra di regime” che si trascina ancora oggi, consegnandole il titolo di squadra meno tifata nella capitale ceca nonostante le pagine di storia sportive scritte e i tanti campioni che hanno indossato la maglia giallorossa. Le pressioni dei coetanei e il carattere molto spesso accondiscendente non sono mai bastati: Pavel si è sempre dimostrato molto intransigente nel difender quei colori e quella squadra. Il nonno, la famiglia e non solo: quel maledetto problema congenito alla colonna vertebrali non gli permesso di coltivare il suo – così come tanti suoi amici e pari età – sogno di diventare un calciatore e il tifo per il Dukla è il collante con un mondo, quello del calcio, al quale è da sempre molto legato.”
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ufficiosinistri · 1 year
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Giovanni Tarantino - "Calciopop"
Si parte da un punto ben definito, e cioè da un altro libro: "La tribù del calcio", di Desmond Morris. Da qui nasce tutto, dalla sua pubblicazione in poi, finalmente, vengono delimitati gli ambiti culturali del calcio moderno. "CalcioPop" deve moltissimo a quest'opera del 1981, scritta da uno dei più famosi etologi di sempre, capace, pioneristicamente, di identificare questo sport come fenomeno di massa, fuori e dentro il campo di gioco. Per ogni lettera dell'alfabeto, l’autore, il giornalista palermitano Giovanni Tarantino trova diversi collegamenti. In ambito sportivo, ovviamente, ma anche in quello culturale, sociale e politico. La ricetta è semplice, ma soprattutto efficace. Dagli eventi più importanti, che hanno caratterizzato il calcio sin dalla sua nascita, grazie a "CalcioPop", ci facciamo trascinare vorticosamente da curiosità ed aneddoti meno conosciuti. Lo scopo è evidente: Tarantino ci comunica che, inesorabilmente, il pallone sia un'esperienza quotidiana, intrisa di tutto ciò che è "pop", ossia "popolare" nel senso più vero del termine.
Se Camus tifava Racing Parigi, allora Sartre, maggiormente legato alla capitale, parteggiava per il Paris Saint Germain. E chi sapeva di quella volta di Paolo Conte al Moccagatta di Alessandria, per assistere a uno dei derby del famoso "Quadrilatero del Pallone”, tra i grigi padroni di casa e quelli della Pro Vercelli?
Il calcio è radicato nel nostro immaginario da sempre. Dai fumetti di Andy Capp al profilo di Corto Maltese in bella vista su numerosi striscioni della penisola, dalle citazioni cinematografiche alle sezioni ultras il cui nome si ispira ai gruppi giovanili raccontati nelle pellicole di Kubrick e Walter Hill, Tarantino riesce ad eludere l'aura di scontato romanticismo che potrebbe intridere il modo di raccontare questi fatti, riportandoci ad un ragionamento che parte dagli albori del gioco e del tifo calcistici.
L'urlo di Morales al gol di Maradona ripreso dal Gotan Project, l'evoluzione dei protagonisti del cartone animato "Holly e Benji", la vicenda del cosiddetto "mockumentary" riguardante il Mondiale che si sarebbe disputato in Patagonia nel 1942, in pieno conflitto bellico, al quale, per la prima volta, nessuna delle due nazioni ospitanti (Cile e Argentina) avrebbe preso parte, e che avrebbe visto vincitrice una rappresentativa Mapuche ai danni di una molto più attrezzata Germania.
Il calcio è cultura, ma soprattutto è ovunque. Nelle metafore guerresche che assimilano la difesa milanista di Sacchi alla Linea Maginot, ma anche in Silvio Orlando, operaio meridionale tifoso del Torino e trasferito per lavoro in Piemonte in "Preferisco il rumore del Mare" di Mimmo Calopresti.
L’ultima parte del volume, infine, è dedicata al movimento ultras, su cui effettua una precisa e puntuale indagine storica, che forse sembra non avere molto a che fare con il titolo e la prima parte del volume, ma che a ben vedere, riesce a spiegare mode, vicissitudini e simbologie di questo fenomeno come raramente ho visto fare in altri libri o dibattiti.
Grazie a “Calciopop”, quindi, riusciamo a capire come le rappresentazioni grottesche di Neri Parenti in “Fratelli d’Italia” e la ribellione di Fantozzi al cineforum aziendale, non siano tanto differenti dalle conclusioni sociologiche di Raoul Vaneigem o dagli articoli romanzati di Gianni Brera, quando si tratta di raccontare la cultura che, da sempre, dà linfa vitale a questo perpetuo fenomeno storico.
Adorno di illustrazioni, fotografie e disegni esplicativi, "Calciopop" è una solida base di partenza per tutti coloro che, partendo da un'iniziale infarinatura, desiderano sviluppare tematiche più precise nell'universo calcistico. Irrazionalità ed estro sono destinate per natura a sfociare in sport, e quale attività se non il pallone può essere causa, ma anche effetto, dei nostri più normali comportamenti quotidiani?
"Proprio al medioevo risalirebbero le radici della passione popolare per lo sport anche secondo lo storico e antropologo olandese Johan Huizinga, autore di "Homo Ludens": lo sport come reazione spontanea a un modello di modernità che cercava di emarginare.
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il fattore ludico ed estetico della vita sociale. << Né il liberalismo, né il socialismo offrirono allo sport terreno favorevole. La sopravvalutazione del fattore economico nella società e nello spirito umano era in un certo senso il frutto naturale del razionalismo e dell'utilitarismo, i quali avevano ucciso il mistero.
Gli ideali di lavoro, di educazione e di democrazia lasciavano a malapena posto all'eterno principio del gioco.>> E allora il calcio riappare come la riemersione di tutta l'energia vitale rimossa dalla società produttivistica ed ecco motivati i riferimenti ai modelli antichi e medievali."
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ufficiosinistri · 1 year
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Vincenzo Paliotto - "Splendori del calcio socialista"
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Puntata numero 15
Vincenzo Paliotto – “Splendori del calcio socialista”
Il calcio nei paesi aderenti al Patto di Varsavia è stato un calcio violento e sperimentale. E non avrebbe potuto essere altrimenti. La politica, le guerre, i conflitti, impregnavano la dimensione calcistica in modo intrinseco più di qualsiasi altra epoca storica, assurgendo a ruolo apicale, più che di pretesto. Credo che il libro di Vincenzo Paliotto “Splendori del calcio socialista” abbia come scopo quello di spiegare letteralmente questo periodo storico, narrandone l’aspetto a noi più caro, quello del calcio, per farci comprendere più a fondo gli eventi.
Conoscenza. Si chiama così.
L’autore prende in esame nazione per nazione il gioco del pallone, descrivendo e raccontandone gli aneddoti meno noti, ma non per questo di minore rilevanza, di squadre locali e nazionali. Si parte dalla Bulgaria per poi arrivare alla Romania del presidente Nicolae Ceaușescu, che pone il veto sulla cessione di Hagi alla Juventus nonostante la promessa, da parte di Agnelli, di aprire uno stabilimento Fiat in Romania. Sempre rimanendo in zona, poi, Paliotto dedica un capitolo all’Universitatea Craiova, autentica outsider nei campionati nazionali nella quale militava il fortissimo Oblemenco, e a Barbulescu, artefice della storica conquista, da parte dello Steaua Bucarest, della Coppa Dei Campioni del 1986.
La Jugoslavia titina, ovviamente, viene messa al centro dell’indagine giornalistica di Paliotto, citando la finale, sempre di Coppa dei Campioni, contro i franchisti del Real Madrid del 1966, disputata dal Partizan Belgrado che aveva come capitano, al centro della difesa, quel Velibor Vasović, figlio di partigiani rossi, destinato a far parte del primo grande Ajax di quel calcio totale, definito a buon diritto la realizzazione più socialista di sempre avvenuta una disciplina sportiva. Forse ancor più della Russia calcistica, eterna incompiuta, che mentre alle Olimpiadi eccelleva in quasi tutte le discipline atletiche, all’Europeo del 1988 incocciava contro l’Olanda (che coincidenza!) di Van Basten.
Abbiamo le azioni, abbiamo le descrizioni dei gol, abbiamo gli aneddoti. Minuziosamente e, soprattutto, mai attraverso una vena nostalgica, ci viene descritto tutto, in questo volume edito da Urbone Publishing. Dalle scappatelle amorose di Müller in Albania alla gloriosa storia del Carl Zeiss Jena finalista in Coppa delle Coppe, per arrivare alla storica “riabilitazione”, dopo una squalifica, di Garrincha, in occasione della finale mondiale del 1962 in Cile contro la Cecoslovacchia, che senza di lui come avversario avrebbe potuto, forse, riscrivere la storia moderna di questo sport.
La bravura di Paliotto sta nell’affiancare puntualmente, in questo volume, gli aspetti sportivi con quelli storici, senza che gli uni risultino mai preponderanti sugli altri, raggiungendo il lettore in modo semplice e dinamico. Il rischio di scadere nella sommarietà delle informazioni fornite è grande, ma “Splendori del calcio socialista” non riflette nient’altro che materialismo e verità.
Dimostrandoci che Dragan Džajić, alla fine, segnando a Zoff negli Europei del 1968, abbia solamente compiuto il suo dovere di socialista. Perché il calcio che giocava era violento in quanto vitale, e sperimentale in quanto vincente.
“Intorno al quindicesimo minuto il rude difensore Rafael Angel, come nella peggiore scuola del calcio spagnolo, con un intervento frantumò la gamba di Kipiani, tenendolo lontano dai capi da gioco per molto tempo. L’arbitro belga Schoeters, uno chiaramente compiacente alla causa madridista, fece finta di nulla, ma Angel al 45’ fu costretto a lasciare il posto a Garcia Hernandez per evitare un’autentica caccia all’uomo da parte dei sovietici. La Dinamo, senza Kipiani e innervosita da quell’episodio, naufragò per 4-2.
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Era stato un vero e proprio agguato alla carriera di Kipiani, che i madridisti finirono per scontare gravemente. Il PCUS, infatti, si indispettì e bloccò un eventuale trasferimento di Blokhin al Real Madrid, sebbene l’allenatore madridista Boskov avesse messo al principio della sua lista dei desideri il nome di Gutsaiev, il finalizzatore delle giocate di Kipiani.”
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ufficiosinistri · 2 years
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Melograno
Alla fine il frutto del melograno, nonostante l’apparenza, è un frutto facile. Perché tutto torna lì. I semi. Li setacci, i dividi dalla cuticola bianca, ma quelli sono e quelli rimangono. Non puoi perderli, a meno che non sia tu a volerlo. A meno che non li getti nell’immondizia, o li faccia andar giù per lo scarico del lavandino. Sgrani il frutto, ma prestare troppa attenzione non è necessario. Basta raccogliere i chicchi che cadono, una volta finito di pulire una sezione: li puoi raggruppare in un pezzo di Scottex, oppure direttamente nello scolapasta, in modo da farli sgocciolare, se è necessario. Una volta epurati dei pezzi di buccia e dell’amarissima cuticola bianca, sono pronti per essere invasettati. Il procedimento è abbastanza lungo, ma si può esser certi che, una volta conservati, mangiare il melograno non sarà più un supplizio di attenzione e scrupolo. Ci si sente come quando il benzinaio che ti ha appena servito osserva minaccioso il prossimo cliente avvicinarsi lentamente alla pompa di benzina, come se non lo volesse nel proprio territorio, come se avvertisse una competizione, icastico.
Non basta aprire le birrerie di fianco alle sale scommesse di fianco agli autolavaggi automatici. Non saremo mai felici. Ci preoccuperemo per il lavoro, per la salute degli altri, di quelli che ci stanno vicini, prima che della nostra. È un sentimento nobile ma periferico, nonostante esistano due tipi diversi di periferia. Uno è da intendersi in senso geografico, come luogo lontano dal centro urbano. L’altro, invece, ha una connotazione negativa, inculca un senso di degrado in chi cerca di farsi un’idea del suo significato.
Sentirsi in credito verso il mondo, ma non sapere come riscuotere. E allora si ritorna a giocare da dove si incominciato, dopo aver tentato la fortuna in Europa, come Alex, all’anagrafe Alexandre Raphael Meschini, capace di tirare punizioni al fulmicotone al Corinthians, da centrocampista, ma soprattutto capace di non sfigurare allo Spartak Mosca, come molti sudamericani di belle speranze, dei quali si sono perse le tracce dopo qualche anno di militanza nei campionati del vecchio continente. 
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Internacional di Porto Alegre, la città del Forum Sociale Mondiale del 2001. Qui crebbe e tornò Alex, cresciuto calcisticamente in un periodo in cui, in Brasile, erano o tutti terzini o tutti trequartisti.  È una storia come tante, in fin dei conti. Di un calciatore basso di statura che calcia in maniera divina ma che, come si dice di solito dalle esperienze vissute con i colloqui con i professori a scuola, non si applica. Calcia tenendo sempre la palla bassa, attaccata al suolo some gli abitanti della sua terra.
Perché alla fine cerchiamo storie ovunque. Radio, libri, televisione. Più non ci riguardano e più ci interessano. Più sono truci, tristi, malconce, e più ce ne distacchiamo moralmente, facendo però permanere nelle abitudini quei sentimenti di malizia e riverenza che non ci fanno pensare ad altro.
Come quando puliamo un frutto di melograno, teniamo solo i chicchi più grossi, che hanno un colore più intenso, che ci sembrano più succosi, scartando o tenendo solo per far numero gli altri, quelli giallognoli o troppo pallidi. Queste sono le storie che più ci interessa ascoltare. Questi chicchi, che presi singolarmente non significano nulla ma che, in una quantità considerevole, creano un universo. Quanti giocatori come Alex abbiamo visto sui campi da calcio?
Questa mattina, ero io dalla parte del cliente, al distributore di benzina. Era il mio turno, toccava a me. Ero passato per un paese, all’imbrunire. L’unica persona che ho visto era un uomo attempato, sulla sessantina, trascinarsi per strada con un sacchetto che conteneva poche cose: una bottiglia di vino, del pane. I vestiti che indossava sembravano lì per caso. Una maglietta, un gilet, degli scarponi, una giacchetta leggera. Forse nei paesi di campagna ci si sente meno oppressi, ho pensato. L’unica luce che c’era era quella che proveniva, nel buio del tardo pomeriggio, da una tabaccheria che vendeva un po’ di tutto. Stavo ritornando dal lavoro e pensavo che tutto sarebbe stato come sempre. Lo sguardo colmo di alterigia del vecchio benzinaio, la luce della mattina, i rumori che provengono dalla tangenziale. E invece non è stato così.
“Sei come le donne” mi dice, appena apro lo sportello dell’automobile.
Lo guardo stranito, credendo di non aver capito bene, nel senso delle parole, la frase che mi ha rivolto.
“Mettono tutte la macchina distante dalla pompa di benzina. Il tubo arriva ma il mio occhio no, sono vecchio e non riesco a vedere bene quando raggiungo il prezzo a meno che non faccia il pieno.”
“Mi faccia il pieno, grazie.”
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ufficiosinistri · 3 years
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Tupperware
Avrei voluto salutare i miei vicini di casa. Quello che portava i pincher a fare i loro bisogni per la strada, i tre anziani che si mettevano a chiacchierare prima di cena, dalla primavera a settembre, attraverso i loro tre giardini comunicanti. La signora che mi vedeva tornare dal lavoro e mi salutava dalla finestra, aperta per arieggiare l’ambiente di casa sua, della quale non ho mai saputo il nome ma che mi stava simpatica e mi faceva sentire a casa. Avrei voluto salutarli prima di traslocare definitivamente, ma non l’ho fatto. Me ne sono dimenticato e, forse, ho dato per scontato che, vedendomi ogni sera armeggiare con valigie, cesti e scatoloni, avrebbero compiuto loro il primo passo, togliendomi dall’imbarazzo di dover recarmi da loro e, uno per uno, aver dovuto raccontare cosa mi stesse capitando. Che di lì a poco avrei cambiato casa, quartiere, modi di fare. Allo stesso modo, recitando un adagio banale che avrebbe avuto, come unico beneficio, quello di farmi stare in pace con me stesso, mi sarei rigettato a capofitto nel mio status quo di persona timida ma, comunque, sempre riverente.
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Mi sono autoconvinto per settimane di questo fatto. Che avrebbero comunque visto portar via la mia roba, i miei mobili, i miei amati tupperware dove avevo conservato, per anni, pranzi, cene, dolci che non riuscivo a finire ma che non volevo gettare nella spazzatura, sughi, cipolle che poi marcivano assieme ad aglio e patate bollite. Non è come andare in vacanza. Come viaggiare ed arrivare al mare e far capire sin da subito ai tuoi vicini che ti sei reimpossessato della tua casa preparando la cena facendo baccano con le pentole e berciando domande in direzione dei tuoi commensali. Non è come giungere con le luci della sera in una località di montagna e posizionare due beole lisce e levigate dietro alle ruote posteriori della tua macchina, che hai sempre odiato, perchè la parcheggi in una viuzza leggermente in discesa, una stradina dietro casa, comoda, umida e poco percorsa.
Non è necessario rendere conto, nei traslochi, perchè i traslochi vengono fatti e vissuti solamente da persone che vogliono sentirsi protagoniste. Che lavoro avrebbe fatto Patricia Cornwell senza Kay Scarpetta, l’anatomopatologa di origine veronese da lei stessa creata? La sua vita e le sue attività da medico legato alla polizia. Le sue lamentele e il suo lavoro, la sua fisicità. Coi suoi alti e bassi, pur non essendo un giocatore capellone come Michele Padovano, che si è trovato a dover raccontare di città, a dover rassicurare la propria famiglia, sino a vincere da centravanti mancino una Coppa dei Campioni a Roma contro l’Ajax, in quella Juventus che poteva vantare, in attacco, un repertorio di professionisti di prima qualità che gli aprivano quotidianamente un campo di battaglia per poter trovare un posto da titolare. Padovano passò dai dissidi con Marchioro, allenatore milanese deputato alla provincia agra che provò a seguire a Genova l’anno dopo la fantasmagorica salvezza del 1994 nelle file della Reggiana, in una Reggio Emilia rossa come il frutto del tamaro. Forse fu un bene, quello di essere un panchinaro in quella Juventus, in quanto il subentrare all’altro mancino offensivo Fabrizio Ravanelli quando ormai la partita si stava avviando verso i tempi supplementari, lenta come la tartaruga di Zenone, gli permise di segnare dal dischetto uno dei rigori che gli fecero vincere quel trofeo, fortemente voluto e rincorso negli anni dalla società dopo il massacro dell’Heysel.
Michele lo ricordiamo con la seconda maglia della Juventus, quella blu con le stelle gialle. Come a significare una strana forma di appartenenza e di coerenza nei confronti del colore e della società per quale stesse rendendo conto. Partendo dalla panchina o esultante, significativo e commovente, anche, sotto un certo aspetto.
Io, invece, mi sono ritrovato il giorno stesso del trasloco senza aver salutato nessuno, della mia vecchia via. Sono andato a far colazione al bar all’angolo il giorno stesso, quello delle grandi manovre, quando ormai in casa non avevo nemmeno più i fornelli per farmi il caffè. Sperando di non incrociare nessuno di conosciuto, sperando di non dovermi giustificare. Ogni volta che guardo i miei tupperware, quando li riempio o li metto in lavastoviglie a fine giornata, vedo gli sguardi dei miei vicini di casa squadrare il sacchetto di Iperborea conoscendone già il contenuto: un raccoglitore di olio, condimenti e rimasugli del pranzo ormai accaldati e puzzolenti, che mi porto appresso quotidianamente mentre, lontano da casa, penso ai miei vicini. Anche se ormai è troppo tardi.
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ufficiosinistri · 4 years
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Gippabili
Mi ero fermato sotto ai pioppi del parcheggio, mentre sulle case che circondavano lo spiazzo montavano le nuvole grigie. Erano giorni che, non appena si avvicinava il crepuscolo, puntuali sopraggiungevano i temporali, che rinfrescavano l'asfalto facendolo puzzare ed allagavano le strade sterrate che, anche dal parcheggio in cui mi trovavo, portavano in campagna. Fossi stato in montagna, sarebbero state chiamate "gippabili". Questo termine è utilizzato per dimostrare uno stato di inquietudine, di accettazione ma anche di divieto. Sono strade percorribili a piedi, ovviamente, evitando gli accidenti e i pericoli dei sentieri, ma anche con un mezzo a motore, preferibilmente dotato di quattro ruote motrici. In tantissimi, quindi, le percorrono su Jeep o Pick-up. La zona della città nella quale mi trovavo, vicina a casa mia, era un'antica area un tempo destinata ai campi coltivati di riso, grano e mais. Le sue vie, strette e raggomitolate, si intersecano tutt'oggi zigzagando, seguendo gli antichi tracciati delle coltivazioni e dei fossati paludosi che le distanziavano le une delle altre. Alcune di esse ancora oggi si trasformano in gippabili di campagna, arrivando sino ai confini della città ed iniziando a solcare le campagne in cerca di cascine, mulini, pollai, vecchie chiuse e muri lasciati a loro stessi da decenni. Alcune Jeep, quindi, è naturale che le percorrano. Si vedono viaggiare sugli sterrati, dalle strade principali che costeggiano gli abitati popolari, in quanto alzano un sacco di polvere, facendo sembrare il loro procedere, da lontano, dei piccoli incendi. "Qualcuno sta bruciando delle stoppie. Ah no, qualcuno sta andando sulla sterrata." Dominic Matteo è scozzese e giocò nel Liverpool forse più pittoresco di sempre. I Reds di fine millennio erano una squadra affiatata ma perennemente incompleta, composta da elementi antitetici tra loro, ma molto uniti da un unico e fortissimo spirito di appartenenza. 
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Si andava dalla meccanicità di Karl-Heinz Riedle alla freschezza di Owen, dalla sregolatezza di Ince, Berger e McManaman alla solidità di Babb e del giovane Carragher. Matteo aveva legato molto, ovviamente, con Fowler e Redknapp, nel frattempo: Liverpool era ai loro piedi, soprattutto dopo gli allenamenti e nei frequentissimi momenti liberi. Le loro continue inottemperanze erano però sempre giustificate e tollerate. Come in una cucciolata. Quella squadra non vinse mai nulla, a conti fatti, ma ogni partita era un'allegoria mordace di ciò che potesse essere un percorso di vita, in quegli anni. Roy Evans, nato nel Merseyside, era un padre putativo per tutte queste personalità, ma soprattutto lo fu per Dominic. Appena tornò dal prestito a Sunderland, infatti, lo mise al centro dei suoi progetti difensivi. La mancanza di risultati, però, fece sì che dopo il 1998, la squadra venisse affidata al francese Gérard Houllier, chiamato a ristabilire l'ordine tra le file dei rimasti. Matteo non ce la fece ed abbandonò il districarsi di vicoli e stradine asfaltate per iniziare ad alzare la polvere per le strade di campagna, per le gippabili, andando al Leeds. Anche se gli inizi, nel West Yorkshire, non furono dei più facili, seppe guadagnarsi un posto da titolare, rendendosi protagonista di una delle cavalcate più inaspettate a cui la Champions League potette assistere. I compagni di squadra, lì, erano differenti da quelli delle stagioni passate, in cui si sedeva all’ultimo posto, in fondo alla classe, con i suoi amichetti. Smise di andare per bar e fare tardi la sera, trovando la sua dimensione in un calcio più giocato che vissuto da tifoso. Già, perchè forse quel Liverpool, il Liverpool di fine millennio, dei bad boys, era una squadra più da tifo sfegatato e piccole vittorie che da un progetto a breve termine. Il loro amalgamarsi con la città e i tifosi, nei meandri delle loro carriere, intese come piccole strade asfaltate ai margini della città, ha fatto sì che le uniche soddisfazioni sportive venissero dal bottinare qua e là per l'Inghilterra, giusto per non tornare a mani vuote al proprio villaggio Le gippabili non passano per campi fetidi, ma puntano sempre in direzione di luoghi particolari. Non si lasciano impressionare dal caldo che fa ribollire l'acqua nei campi rendendo invivibile il paesaggio. Ma non portano mai in luoghi poetici. Quel giorno, parcheggiato lì, stavo aspettando di andare a compiere il mio dovere da scrutatore e pensavo alle gippabili. Pensavo a quelle di montagna, che spesso sono affiancate e intersecate da un sentiero, tortuoso e impervio la maggior parte delle volte, percorso da chi non vuole avere niente a che fare, almeno per un giorno, con le automobili, disprezzando quelli che, magari per un giorno, hanno la reale necessità di usare la macchina. Fissavo il volante e ci pensavo. Alle trasformazioni, a me che avrei passato un weekend tra inchiostri e documenti di identità. Una volta, una sera, a Liverpool, Dominic Matteo uscì a andò per bar. Decise di tingersi i capelli biondo platino, senza ricordarsi che il giorno dopo ci sarebbe stata la cerimonia della foto ufficiale, con la squadra, con il Liverpool. Fece la foto con i capelli tinti e i suoi compagni lo sapevano, che si sarebbe presentato in quel modo. Perchè tra di loro non vi erano segreti, erano i ragazzi della città. Peroravano la causa degli operai e dei Dockers, uscivano assieme alla sera, avevano a cuore la profonda cultura della loro società nonostante arrivassero dalle più lontane parti d'Inghilterra e del mondo: erano molto di più di una cosiddetta "bandiera", erano una squadra di città. E Dominic Matteo ha vissuto quegli anni come ognuno di noi abvrebbe fatto. Sino a far sì che il suo cuore iniziasse a piangere assieme a quello del suo allenatore, uno di Liverpool.
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ufficiosinistri · 2 years
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Sibariti
Durante i giorni di pioggia, al mare, le persone si studiano dai balconi. Alcune preferiscono affollare i supermercati o i negozi di elettronica, in cerca di un bisogno che, durante le precedenti giornate, passate in spiaggia e in carissimi ristoranti, non avevano assolutamente. La maggior parte di loro, invece, stende i panni, rassegnandosi al fatto che non si potrà andare al mare solamente dopo le quattro del pomeriggio. Quando cioè i bar di fianco al loro garage iniziano a sonnecchiare in attesa di servire un corposo aperitivo. Anche se il tanto agognato sole spuntasse, poniamo, alle quattro e un quarto, squarciando all'improvviso le nuvole cariche di pioggia, per una questione di principio non ci andrebbero, in spiaggia. Perché ciò comporterebbe trasformare una giornata di lettura, di panni lavati, di pulizie, di speranza, in una giornata qualsiasi, uguale a tutte le maledette giornate di mare di tutte le persone che vanno in vacanza abitando in condomini costruiti in serie, che hanno di solito come nome un segno zodiacale e vengono amministrati da introvabili geometri.
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Gli inquilini in villeggiatura, durante le giornate di pioggia nelle località balneari, si studiano dai balconi, facendo caso a comportamenti che non potrebbero osservare in altre occasioni. Si comportano in modo astruso sino a perdere l’orientamento. Dov’è il mare rispetto a noi? Dove abbiamo parcheggiato? L'uscit dell'autostrada sarà ancora dove l'abbiamo abbandonata dieci giorni fa? Perché non ho partecipato alle gare di orienteering alle medie, dove ti lasciavano, con altri cinque o sei babbei che non erano stati in grado di qualificarsi alle fasi cittadine della corsa campestre di novembre, in un parco con una bussola, un taccuino e una bottiglietta d’acqua e ti dicevano di impegnarti a raggiungere diversi obiettivi, sparsi tra quel verde, in mezzo a nonni e nipoti incauti a passeggio?
Hoffenheim è una frazione di un centro più grosso nella regione di Karlsruhe, letteralmente “il riposo di Carlo”.  Per rendere l’idea, è come se il Chiesa Rossa, frazione di Milano posta tra Milanofiori e la fermata della metropolitana di Romolo, disputasse i gironi di Champions League. Dopo averlo fatto giocare un paio di stagioni con sé, il Bayern gira a questa squadretta dallo stemma biancoblu il più grande giocatore austriaco di tutti i tempi, figlio di un rapper e di un’infermiera. Si chiama David Alaba e fa il difensore. Laterale. Ha piede, tiro e corsa, e gioca a tutto campo. Da sempre. Da quando gli osservatori bavaresi lo videro all’opera nell’Austria Vienna e lo portarono ai margini della Foresta Nera. Uno spostamento quasi cinquecento chilometri appena giù dalle nostre Alpi.
Gioca da terzino sinistro in Germania e in Europa, ma quando si tratta di difendere i colori della propria nazionale, una tra le più pioneristiche di sempre nella storia del calcio, viene utilizzato ovunque. Si occupa lui dei calci piazzati, mette dentro assist pesanti. Almeno sino a quando al Bayern Mats Hummels occupa la posizione di centrale: una volta ceduto il longilineo difensore, infatti, diventa lui il perno della retroguardia, permettendo alla società un fortissimo risparmio economico per rimpiazzare quel ruolo.
Dopo dieci anni da idolo, divenne uno strazio lasciare Monaco di Baviera. Tutti lo pensarono incupito e lasciato alla mercè degli eventi, ma arrivato al Real Madrid, sempre come centrale difensivo, prese persino il numero quattro di Sergio Ramos, in barba ad ogni discorso su fede e appartenenza.
Alcuni, durante i giorni di pioggia al mare, si recano nelle diverse agenzie immobiliari sparse nella località nella quale si trovano, a far che cosa nessuno lo sa. Ad informarsi su prezzi che non potranno mai coprire, a guardare negli occhi chi lavora in agosto, a due passi dal mare, mentre fuori i ragazzini si puliscono i piedi dalla sabbia alle fontanelle sotto al lungomare per non sporcare in casa, mangiano gelati e si sparano con le pistole ad acqua.
Com’è differente, Vienna, dal resto dell’Austria. Succede spesso, in Europa: la capitale non ha nulla a che spartire col resto della sua nazione.
Le lavatrici, intanto, nelle case al mare durante le giornate piovose, girano sino quasi a fondere, per recuperare i lavaggi saltati durante i giorni in cui il sole rendeva sibariti i suoi adulatori. Vengono lavati i pavimenti, vengono ripassati i fornelli, le camere da letto pendono aria. Si riprende addirittura a cucinare qualcosa.
In inverno, presi dagli impegni di tutti i giorni, si pensa spesso alla casa al mare chiusa in se stessa, coi rumori che arrivano dalle strade e dagli abitanti locali. Siamo degli egoisti. Siamo dei sibariti, all’occasione.
Si pensa a come la si sia inesorabilmente abbandonata, pur abitandola per giorni interi.
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ufficiosinistri · 2 years
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Bless this mess
Mortara da lontano sembra un vecchio sdentato, con quel suo grattacielo in mezzo a un universo di case, cortili recintati e palazzi. Bianco lui, gialle le case, rossi i cortili recintati. Giallo lui, bianche le case, dipende. La differenza di età tra le une e l’altro è di poco più di vent’anni ma i loro colori, come la bocca di un vecchio, dipendono dai giorni. Se c’è il vento, l’edificio più alto non sembra nemmeno così tanto alto, rispetto alle case vicine. Nelle giornate di pioggia, invece, spicca sul grigiore del cielo di pianura. Non l’ho mai visto con il sole.
E comunque, vent’anni non sono niente. Possono fare la differenza se si parla di caseggiati, ma se si tratta di giocatori argentini che militano per vent’anni nella stessa squadra, il tempo non esiste, diventa un concetto assimilabile in pochi attimi, esulando dal processo formativo.  La gente vive lo stesso, esce di casa ugualmente, stiamo sereni.
Di solito, sono Despar. Gli empori, le botteghe dei vecchi paesi di montagna o di pianura. Dove ci si ferma appena prima che chiudano, quando il venerdì sera si arriva lì per passare il weekend. Profumano di prosciutto e di fame. L’ultimo cliente della giornata, la maggior parte delle volte, è un signore i favoriti ingialliti dal fumo, che ci mette un’eternità a scegliere cosa portarsi a casa. Alla fine, la scelta ricade su una confezione di crackers che invecchierà nella sua dispensa. Compie le stesse azioni da cinquant’anni. Torna a casa il venerdì sera stanco ma speranzoso, anticipando persino le faccende che, durante la settimana, aveva programmato per il sabato. In questo modo, avrà più tempo per stare con i suoi, per leggere, per seguire il calcio.
Immaginiamo che Messi torni al Camp Nou dopo un anno passato fuori a lavorare e paragoniamo questo periodo ad un nostro giorno qualsiasi lontano da casa. Ha provato paura per aver trascurato qualche affetto. Forse, non ha salutato come avrebbe voluto le persone a lui care.  Si è sentito lontano da casa sua, il luogo che lo ha fatto diventare così, come noi osiamo pronunciarlo, Leo Messi. lontano dai commercianti del suo isolato.
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Prende il nome di tecnica. Una tecnica dell’altro mondo, una tecnica che si apprende con il tempo e la fatica. A furia di star da soli, in macchina o in ufficio, si diventa abili a rimuginare, così tanto che, una volta tornati a casa, si ha vergogna a parlare con altre persone, quelle che ti conoscono per come sei e che ti vogliono bene in maniera indiscriminata. Alcune persone, invece, tirano fuori il peggio di te. Ti fanno dire cose che non ti saresti mai sognato di dire, che quando escono dalla bocca le vorresti riacciuffare con un guadino. La delusione è simile a quella di scorgere, in un centro commerciale di recente costruzione, atto a rivalutare una zona degradata di un qualsiasi centro cittadino, un edificio storico risalente a un’epoca precedente la costruzione del centro commerciale stesso e lasciato lì solo per dare ancora, al visitatore, un senso di appartenenza in un luogo alienante. In lontananza, vette bianche dove la neve resiste alle stagioni, al vento che sferza le pianure e scheggia i volti delle persone.
Tornando a casa la sera, percorro una delle tante tangenziali che costellano l’Italia, come tanti di noi. Nei mesi, un piccolo lago di pesca sportiva si è lentamente trasformato in un’area picnic attrezzata. Ho sempre immaginato quel luogo maleodorante e poco ospitale, ma man mano che il tempo è passato, grazie al mio continuo osservarlo, seppur per pochissimi istanti, ho imparato ad apprezzarne alcuni particolari: le famiglie che parcheggiano per andare a fare un aperitivo fuori città, i pescatori che aprono il bagagliaio della station wagon con l’attrezzatura da carpa, i bambini che si rincorrono nello spiazzo riservato ai giochi per i più piccoli. La carriera di un numero dieci argentino dovrebbe essere così, non dovrebbe essere fatta di ritorni, o di rimorsi. Dovrebbe essere un'esperienza a spada tratta, una vita in trincea ma con un solido esercito alle spalle.
Immagino, a volte, Leo Messi tornare a Barcellona, arrivando dopo un lungo viaggio in treno. Non sono mai stato in una stazione della città catalana, ma vorrei immaginarla come una stazione di una città di provincia, in Italia. Con il sottopassaggio che ti porta in centro permettendoti di superare la strada antistante e le luci dei corridoi ricoperte di ragnatele. Dopo aver perso un Mondiale con un gol annullato a Higuaìn, dopo i continui confronti ( dentro e fuori il Pallone d'Oro ) con Cristiano, dopo aver cambiato maglia ed essere in procinto di essere malvoluto dai tifosi parigini che chissà a cosa erano abituati prima del suo arrivo, dopo aver visto la sua squadra di sempre in crisi. Lo immagino scorrere i messaggi sul telefono come se dovesse andare ad un appuntamento con una persona speciale, una persona che abita a Barcellona, un essere umano che tiene il conto del tempo e dei minuti che passano ricordando dentro di sé gli amici che ora non ci sono più.
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ufficiosinistri · 3 years
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Natrice dal collare
Ci mettemmo d’accordo per andare a vederla. Eravamo io ed altri ragazzi, due di Roma e uno di Bari. Alla fine delle attività serali, che consistevano di solito nel programmare la giornata successiva e cucinare dolci, prima di ritirarci nelle nostre camere, saremmo a vederla. Da soli. Ognuno di noi avrebbe portato con sé una torcia elettrica. Tutti ne avevamo una, dato che ne era stata indicata l’essenzialità sin dai primi fogli che i nostri genitori avevano dovuto compilare, prima di iscriverci a quel campo estivo. La mia era pesante e nera, occupava quasi tutto il marsupio dell’Invicta che mi portavo dietro per le escursioni e le uscite serali, quando andavamo al paesino sulla costa, in fondo alla strada di campagna che tagliava in due la pineta. La nostra non era un’azione segreta, sebbene ci saremmo mossi di nascosto e con cautela, prima di raggiungere il canneto. Avevamo informato i nostri animatori della sua presenza sin da quando, per la prima volta, uno dei due ragazzi di Roma la vide sgusciare, una mattina, tra l’erba secca e gialla e scomparire nella piccola pozza di acqua stagnante, ricoperta di ninfee bianche e leggerissime lenticchie d’acqua e contornata da un rado canneto. Anzi, proprio uno dei nostri responsabili ci disse che era durante le ore notturne, che la si sarebbe potuta vedere in tutta la sua bellezza. Magari mentre cacciava, o usciva dall’acqua. O scappava da un predatore come un gheppio.
Quella sera, dunque, ripulimmo il tavolo al centro del salone da briciole e gocce d’acqua, spazzammo per terra con una grossa scopa di saggina dal manico ruvido e vuoto, spegnemmo la luce e andammo. i lavori di pulizia giostravano su due soli turni, quindi ogni giorno c'era da fare qualcosa.
I nostri passi attraversarono veloci il cortile del centro visitatori del Parco, mentre la luna si stagliava in cielo. Appena il sole tramontava verso l’Argentario, iniziava a far freddo e il vento che spirava dal mare si confondeva con l’aria tiepida che traspirava dalla melma del tombolo tra i nostri vestiti, passando attraverso le nostre unghie sporche e avvolgendo i nostri volti efebici e ansiosi. Non ci interessava delle nostre famiglie, che ci avevano iscritto a quel campo estivo per benestanti di città. Erano lontane, sparse per l’Italia, lavoravano in quell’estate mentre Gambaro, il terzino sinistro del Milan di Fabio Capello, passava da Milano a Napoli dopo essere stato salutato dallo striscione con lo Scudetto numerato sino a dodici dei Commandos Tigre rossoneri. Una persona per bene, come per bene po’ esserlo un personaggio di Hemingway, che non causa dolore. Giovanili della Sampdoria, tifoso genoano dell’entroterra ligure. Dove si mangia tanta verdura e si cucina bene, dove si cresce sempre in bilico guardando il mare con le spalle coperte, sempre.
Non avevo nostalgia dei miei genitori, comunque. Mi mancavano profondamente, anzi, le mie attività estive, di quando aspettavo di andare in vacanza, quelle che svolgevo senza di loro. Ormai ero diventato grande. Guardare qualche partita, seguire il calciomercato, andare a pescare, sentire i compagni di classe rimasti in città per andare a giocare a pallone in qualche campo tra i palazzi. Ero lì in mezzo a coetanei quasi sconosciuti, che in pochi seguivano il calcio. Il barese si chiamava Nicola e usava come pigiama una maglietta che recitava, arancione (ormai sbiadito) su bianco, “forza Bari, lo stadio s’innamora”. Il cortile terminava, come per inerzia, in un campo di mais, in mezzo al quale era incisa una strada sterrata che portava verso est, verso la grande palude. Accendemmo le torce elettriche. Sentivamo le rane gracidare, qualche gufo, i nostri passi erano una minaccia per quella natura così vicina ma così selvaggia. Non avevamo paura, eravamo in quattro contro nessuno. La strada finiva in una radura, dalla quale si poteva scorgere già il tombolo, che faceva da nemesi alla luna, alta nel cielo di giugno sulla Toscana.
Entrammo piano in quella radura, i due romani tenendosi per mano, Nicola davanti a tutti e io per ultimo. La luce delle nostre torce colpiva gli ontani e i pini marittimi che facevano da tribune per quell’anfiteatro. Al centro dello spiazzo, diradato ma vivace, vi era una pozza d’acqua sorgiva, che filtrava dalla laguna verso l’entroterra e trovava, a pochi metri dal campo coltivato, uno sfogo per risalire in superficie. Ci fermammo, dopo pochi passi. Uno dei due romani intimò l’alt. Ci separammo di qualche metro l’uno dall’altro. Aspettammo. Non trovammo il coraggio di spegnere le luci, così ce le mettemmo in tasca, ancora accese. Filtrava luce rossa tra le tele dei nostri pantaloni e la cosa ci fece sorridere.
Ed eccola. Arrivò dal campo di mais, strisciando lentamente. Era lunghissima, quasi due metri. La luna giocava sulla sua pelle mentre si muoveva ad anse, come se fosse un fiume diretto verso il mare. Le vidi gli occhi, rotondi e fissi verso la pozza d’acqua. Uno dei due romani emise un verso strozzato, tra commozione e paura. La natrice dal collare di cui tutti parlavano era come fosse lì per noi.
“Non fa niente, state tranquilli”, disse uno dei due ragazzi di Roma. Ma lo sapevamo, che non vi era pericolo: era una natrice dal collare che era andata a caccia. Si buttò nell’acqua della risorgiva senza nemmeno muoverne il pelo, come se fosse parte di un unicum con quella terra, quell’entroterra che la custodiva. La parte finale del suo corpo intermittente scomparì quando la testa, guizzante, era già affondata nell’abisso, nel suo piccolo abisso sotto le lenticchie d’acqua e la luna.
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Rimanemmo fermi per qualche minuto, io ebbi appena la forza per afferrare la torcia elettrica ed estrarla dalla tasca dei pantaloni. Diressi il suo raggio verso i casolari nei quali dormivamo, oltre la piantagione, in fondo alla strada sterrata. Ci guardammo negli occhi e, felici, rientrammo nella nostra stanza, senza farci sentire.
Il giorno dopo era il mio turno per i piatti, dopo una mattinata di attività teoriche: finii di pulire la cucina che ormai erano le tre del pomeriggio. Alle cinque sarebbe iniziato un corso di vela al mare all’Argentario e avevamo un’ora di riposo prima della partenza, con il piccolo pullman messo a disposizione dalla Pro Loco di Grosseto.
Mi chiusi in camera, mi misi sotto le lenzuola candide e profumate di lavanderia industriale e piansi, perché avevo nostalgia del mio entroterra.
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ufficiosinistri · 3 years
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La vittoria della sconfitta
Ci sono più persone su macchine ferme di quante ne possiamo immaginare. Le si vedono, giocano col cellulare, fanno finta di pulire l’abitacolo da cartine, scontrini, trinciati di tabacco e tappi di plastica. Si gettano inconsapevolmente in borsette e ventiquattrore, come per nascondersi, come se fossero soldati in trincea in attesa dell’arrivo inarrestabile del nemico. Consapevoli e abbandonici. Mentre vado a correre, mentre apro il cancelletto di casa tirando fuori con fatica la pubblicità dalla casetta della posta, armeggiano. Quando parcheggio la macchina nei pressi dell’ufficio e faccio quei pochi passi che mi separano dal lavoro e ricevo una telefonata, giro lo sguardo e sono lì. Al sole, con il gelo a far da contorno. Li vedo, in controluce, sotto i lampioni che illuminano la via. Alcuni in mezzo ad una congerie di sacchetti della spesa, altri gesticolando con un interlocutore che immaginano, forse, seduto sul cofano della propria automobile. D’inverno, poi, questi movimenti risultano essere ancora più frugali e disinibiti, nonostante il peso dei cappotti di stagione gravi sui corpi all’interno delle automobili. Soprattutto quando, nei centri cittadini, rivolgiamo lo sguardo in direzione delle periferie e notiamo, rimanendone affascinati, un serico colore chiaro farsi largo tra i palazzi. 
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È la nebbia che assalta il centro abitato, pronta ad affrontare le luci delle case e delle strade fuggendo dal sole che sta compiendo il suo inutile lavoro. Come quando smetti di giocare a pallone. Decidi che sia arrivato il momento di osservare il riflesso della nebbia farsi largo su di una superficie più speciosa, rispetto ad una conquista più razionale. Più idealizzata che reale. Dopo che ci giochi sin da quando sei un bambino, magari. Anzi sicuramente. La gente intorno a te, che in te ha creduto e su di te ha investito, rimane incredula. Non se ne capacita. Eri un numero dieci un po’ sottomisura ma hai ancora dei piedi buoni, e caratterialmente migliorerai. Qualche prestito, qualche allenamento finito tardi e tutto andrà a posto. Orde di psicologi lo affermano. Pagati. Per colpa tua. Che ora non vai nemmeno in panchina e passi tutto il tempo a mangiare e insultare quello stesso mondo che, sino a quel momento, ti ha dato tanto. Gli investimenti che gli altri hanno fatto su di te, chi li ripagherà? Non erano a fondo perduto e tu lo sai. È gente che ci vive, di queste cose. Studia, mantiene famiglie mentre tu te ne torni dai tuoi genitori, gente per bene, in provincia, dopo essere stato comprato da una delle squadre più forti e sognate di tutta la storia del mondo del calcio. Gente che pensa a pulire il frigorifero. Dalle verdure che sono lì dentro da un po’ troppo tempo. Lasciando sempre una carota perchè altrimenti, senza una vecchia carota, non è un frigorifero che si rispetti. Deve essere un elettrodomestico vissuto, in fin dei conti, no? Mia madre ci preparava almeno una volta a settimana la cosiddetta “cena dei rimasugli”. Di solito era un’occorrenza che cadeva di giovedì, quando cioè andavano esaurendosi le provviste settimanali e ci si preparava a qualche pasto preconfezionato o ordinato da asporto durante il weekend. E allora lasciamoci dentro una carota, per un paio di settimane almeno, in questo benedetto frigorifero. Di modo che chiunque lo apra, per potersi nutrire, possa percepire un rinvigorente senso di appartenenza, come se facesse parte di una squadra di calcio dedita all’attacco in un momento cruciale del gioco. Far parte di una squadra e perdere, soprattutto, ti aiuta nella vita. Quando perdi, insieme ai tuoi compagni, ne parli di più, esterni le tue sensazioni in maniera più acuta e razionale. Affronti in maniera più adulta ciò che ne seguirà. È comunque una vittoria, la sconfitta. Anche nel caso in cui non si dovesse imparare nulla. Per perdere, però, bisogna almeno giocare, almeno partecipare. Ihattaren non ha avuto nemmeno la fortuna di poter partecipare. Così, in modo frugale. Non c’è da scherzare sul suo annunciato ritiro dal calcio professionistico, anzi. È una situazione che mette angoscia. Notizie speciose, comunicati da parte di manager e società, voci, viaggi e rientri. Non dovrebbe funzionare così. E la colpa, qualora ne esistesse una, è impossibile che sia solamente sua: Ihattaren fa parte di un sistema economico che non ammette sconfitte e quindi, per evitare che una mentalità ostile possa trovare terreno fertile per poter nascere, stigmatizza i comportamenti che vengono, più comunemente, chiamati immaturi. Non possono essere accettati, nemmeno se perpetrati da un diciannovenne di Utrecht che, come moltissimi campioni del passato, sono passati dalle giovanili del PSV Eindhoven.
“Io odio la vostra ipocrisia.
Io voglio e non chiedo perché conosco già la risposta.
Troppe volte il bello diventa brutto.
Troppe volte soffro, troppe volte!
Non sprecare sorrisi e parole per me.”
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