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UFFICIO SINISTRI
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Storie normali di calciatori che usano il piede mancino
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ufficiosinistri · 27 days ago
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Il mondo prima che arrivassi te
Quel momento. Quel preciso istante in cui Gastón Ramírez posizionò il pallone all’interno della lunetta del calcio d’angolo. In basso a destra del televisore. Era appena passato l’ottantesimo minuto di gioco e lui, dopo un paio di stagioni al Bologna, si era appena accasato in Inghilterra al Southampton, placido. Era da poco entrato in campo al posto di un altro mancino, Cristian Rodríguez, soprannominato El Cebolla grazie all’irresistibile afrore che si sprigionava dalle sue ascelle negli spogliatoi dopo ogni partita. Origini piemontesi per lui, cerchia di Torino, gente che ha sempre lavorato. Un’ex bandiera del Peñarol che all’epoca dei fatti rimpinguava il vivace gruppo di uruguagi dell’Atletico Madrid. A tal proposito, la telecamera indugiò prima su Godín e poi su Giménez. Sgomitavano, quei due, guardando il pallone posizionato da Ramírez all’interno della lunetta. Avete presente le due statue della Sfinge de “La storia infinita”? Eccoli, loro due erano così, al limite dell’area dell’Uruguay. Giudicanti. Ramírez, invece, è sempre stato un avventuriero, in balìa del destino. Pensate che l’ultima squadra dove abbia giocato in Italia è stata la Virtus Entella, in Serie C. Dopo un gol di tacco su assist di Marco Di Vaio in un Derby dell’Appennino, 2-0 finale per il Bologna e dopo essere entrato nel carnet dei campioni mancati che si sono accasati al Monza negli ultimi anni. Dalle foci del Rio Negro a quelle dell’Entella. “Lo fanno, ci fanno uscire. Ora segna l’Uruguay”. Pensammo tutti così. Quei due centrali erano troppo forti. Chiellini corse dietro a Cavani, Barzagli cercò di spintonare Giménez. La palla uscì in fretta dalla lunetta del corner, per poi seguire una traiettoria diretta verso Godín che la colpì male, di testa, senza guardare, arrivando in area piccola come teletrasportato. Saltò quasi per inerzia, volteggiando in una mezza piroetta. Segnò in questo modo l’ultimo gol che l’Italia subì in un Campionato del Mondo. Tabárez, la vecchia volpe socialista, continuava a richiamare i suoi all’ordine, a dare indicazioni. Aquilani, con la solita sufficienza di chi non c’era ma vuole assolutamente dire la sua, spiegava, seduto in panchina, a Cerci e De Rossi, cosa non avesse funzionato nelle marcature.
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Un esiziale calcio d’angolo di Gastón Ramírez e l’Italia tornò a casa. Quella fu la sentenza. L’ultima azione che abbiamo subìto, l’ultimo calcio piazzato nella competizione che ci aiuta a ricordare, col passare del tempo, con chi fossimo, che lavoro stessimo facendo, come stessimo fisicamente, se eravamo innamorati o meno. Il nostro materialismo riaffiora in queste situazioni, e Gastón Ramírez fa parte di quella schiera di testimoni diretti che hanno fatto sì che i nostri ricordi si siano fermati in un determinato istante. Abbiamo passato più di dieci anni a comportarci come chi, su un aereo in volo, non potendo comunicare con il proprio mondo di affetti, interessi ed amicizie, scorre sconsolato le fotografie di anni prima, contenute svogliatamente sul proprio telefono. Questi periodi servono, ma se durano troppo ci fanno perdere la memoria degli anni, di ciò che è rimasto. Ti guardi indietro, recuperi fiato. Ma la storia del mondo, intanto, va avanti. Va avanti e la tua storia personale annaspa, a perdifiato, senza riuscire a starci dietro. La mia generazione, forse, si sta meritando questi anni di purgatorio, perché è stata la generazione che ha visto i Mondiali più sprezzanti e sanguinolenti di sempre. Quelli di Burruchaga e gli inglesi a Cagliari, quelli delle dita di Roberto Baggio contro la Francia, i Mondiali con l’ultima Jugoslavia sulla faccia della terra, la Coppa del 2006 alzata da Barone, Amelia e Oddo. È come se la storia ci abbia avvisati: “Adesso, per un po’, basta. Avete già avuto tanto, troppo per quanto realmente vi siete meritati.” Generazione post BR (ma nemmeno tanto post) figli della bomba, generazione di rucola messa ovunque perché andava di moda, generazione di domeniche in famiglia passate in agriturismi con laghetto di pesca sportiva annesso, con le tinche che sanno di terra e detersivo che abboccano immediatamente. I cugini grandi che fumano di nascosto dietro ai casseri. I primi discount. Il sole che andava giù lasciando che tutto congelasse. I sabati pomeriggio a guardare Superclassifica Show mentre sotto passa l’aspirapolvere. Le corse negli androni lucidi delle case vicino alla tua ad annusare nuovi profumi. I modem che si connettono gracidando. Una generazione che crede ancora che sia il capitale a dover inseguire i lavoratori e non il contrario, una generazione che è stata terrorizzata dalle siringhe nei parchi. Malpensa 2000 e l’innovazione italiana nei trasporti. Non ti regaliamo la Specialized perché con quello che fai in bicicletta la rompi subito. El Cebolla fu schierato titolare anche negli ottavi contro la Colombia. Quella partita fu segnata dalla rete più bella della competizione, quella segnata da un altro Rodríguez, James. Stop di petto per andare ad accaparrarsi un pallone che sembrava inutile lasciato lì, fuori dalla lunetta, e missile da fuori area. Muslera salta, ci prova. Godín si gira riparandosi, ha paura, non fa più la sfinge. La palla finisce contro i pali, come in un flipper. Entra, i Cafeteros trionfano contro i rivali sudamericani e accedono ai Quarti. Ma questa è un’altra storia, una storia di classe e predestinazione che non ha nulla a che vedere con la nostra. Perché è stato Gastón Ramírez a condannare un’intera generazione. Dopo quel gol pensai che ok, eravamo fuori dal Mondiale, ma che sarebbe stato un nuovo inizio. Un mondo nuovo, prima e dopo che Gastón Ramírez posizionasse quel pallone su quella lunetta. In Sudafrica avevamo scherzato, eravamo i campioni in carica. Sarebbe arrivato l’inverno con la sua neve e le sue feste. Sarebbero arrivate nuove canzoni e il calcio, alla fine, avrebbe avuto un’altra occasione. Quell’inverno fu il primo senza vere nevicate in pianura.
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ufficiosinistri · 6 months ago
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Sharp as a knife
Entrai nel bar tabacchi che era già buio. Avevo parcheggiato proprio lì davanti, ero stato fortunato. Il ragazzo cinese mi salutò da dietro la vetrina delle giocate Sisal, contraccambiai. Pensai di essere l’unico cliente ma mi sbagliavo: c’erano infatti degli inglesi che stavano mangiando spaghetti, era una famiglia seduta ad un tavolo che non aveva nemmeno la tovaglia, in un angolo del locale, nella penombra più assoluta. I loro cinque piatti di spaghetti al sugo fumavano nel tardo pomeriggio milanese, in quel bar tabacchi con cucina per turisti, a due passi da Centrale.
Avete mai visto come si comportano gli Ibis durante l’inverno, in campagna? Si riuniscono attorno ai fossati fumanti mentre intorno a loro è tutto congelato. Vedi il vapore salire da lontano, se c’è il sole sembrano dei calderoni bollenti, in un cuocere perpetuo. Il fumo corre verso il cielo limpido, in controluce, senza fermarsi mai. Gli Ibis stanno fermi, in gruppi di sei o sette in piedi, intorno ai fossi, come se quel vapore li riscaldasse, in qualche modo. Con i loro becchi neri adunchi, con la loro altezza che li fa apparire degli uccellacci deformi.
Gli Ibis non sono pittoreschi. Sembrano dei giovani calciatori inglesi che stanno per sbocciare. Sono irrefrenabili e spietati e, in breve tempo, fanno il vuoto intorno a loro. Cacciano, per esempio, disponendosi a cerchio, in mezzo a una lanca. Le loro lunghissime zampe permettono loro di arrivare molto lontani dalla riva. Camminano poi verso il centro del cerchio, beccando tutto ciò che possono beccare appena sotto al livello dell’acqua. Coi loro becchi adunchi ed affilati non lasciano scampo nemmeno ai pesci di medie dimensioni, nemmeno ai grossi rospi che popolano le paludi. In un ecosistema come quello del delta del Nilo, dal quale arrivano, questa tattica permette loro di sopravvivere. Hanno dei predatori che durante questo rituale di caccia possono cacciarli. Ma nelle risaie e nei fiumi del Nord Italia, causano un disequilibrio totale tra le specie autoctone e i loro rispettivi, millenari predatori.
Pensate a quanto possono essere incazzati gli Ibis, a trovarsi nel pieno dell’inverno, dopo essere nati sul delta del Nilo, attorno a una roggia fumante in cerca di qualcosa da mangiare. Nessuno ha detto loro di venirci, sino a qua, ma sono incazzati lo stesso. Come se si pentissero della loro scelta e fossero stati rapiti dal corso delle cose, dal clima, dal mondo che va avanti.
Cole Palmer è un giovane calciatore inglese come tanti, un giovane calciatore inglese che sta facendo il vuoto attorno a sé. Non conosce ostacoli, per ora, a centrocampo, come non conosce rivali, tra i suoi coetanei, a livello mentale. È un giovane tifoso del City, nato nella Greater Manchester che si è spostato a Londra, per cambiare aria e dimostrare che possa crescere e migliorare anche lontano da casa. Cole Palmer è tagliente, nelle sue azioni. In grado di non sbagliare mai quando tira i rigori e quando butta la palla nel corridoio davanti a sé, appena fuori dall’area avversaria, di piatto. La traiettoria sembra lenta, sospinta da un refolo d’aria. Ma è efficace, ed è questo ciò che importa. Arriva sino a dove serve, sino a che qualche allocco di attaccante la spinga in porta e trasformi in goal quel refolo.
“Cold”. Esulta così, quando segna, forse più per una trovata pubblicitaria che per una reale volontà. Facendo il gesto di stringersi e strofinarsi le braccia, con arroganza.
Erano le sei e mezza di un pomeriggio di dicembre e quegli inglesi mangiavano spaghetti in un bar tabacchi di Centrale. Come se nulla fosse, discutendo del loro viaggio, probabilmente. Mentre la gente prendeva i treni, partiva, arrivava, andava in stazione per aspettare o per accompagnare qualcuno, passandoci relativamente poco tempo.  Magari entrando in un bar o in un negozio per far passare il tempo perché in anticipo, o semplicemente per ripararsi dal freddo tipico che ci assale nelle grandi stazioni.
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Come le cose che si dicono tra estranei, che quando non di capiscono, vengono lasciate lì. Come allo stadio, dove incontri persone che potrebbero vivere solo lì per quei pochi attimi e che non riesci ad immaginare in altri luoghi, a casa, al lavoro, Così sono le persone. Contrite nella folla.
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ufficiosinistri · 7 months ago
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Emiliano Battazzi - "Calcio liquido. L'evoluzione tattica della Serie A"
Palermo, 17 giugno 1990. Durante la partita del girone mondiale tra Irlanda ed Egitto, Pat Bonner tiene palla per sei minuti. Pat Bonner faceva, di professione, il portiere. Le partite finivano zero a zero, senza azioni clou e senza emozioni. Quel torneo fu l’emblema di questo calcio, che appariva molto più che catenacciaro. Appariva sgonfio ed entropico. Dopo Italia 90, la regola del retropassaggio al portiere, secondo la quale l’ultimo uomo poteva afferrare e trattenere senza regole il pallone anche di seguito ad un retropassaggio, venne abolita.
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Il gioco del pallone cambiò radicalmente. “Calcio Liquido” ci racconta delle mutazioni tattiche, anno per anno, campionato per campionato, che si succedettero dopo il 1992 e soprattutto dopo il 1995 e l’applicazione della regola dei tre punti, che significava porre praticamente sullo stesso piano pareggio e sconfitta. Si parte con Zeman, ex allenatore di pallavolo che cerca di riproporre i “posti” anche sul rettangolo di gioco: ovunque ci si trovi su un campo da calcio, bisogna esprimersi al massimo delle potenzialità e della bravura. Nascono così le terziglie e un metodo di allenamento che predilige la preparazione fisica a quella difensiva. Si arriva a Sacchi, che con il suo socialismo applicato al gioco del pallone non sopporta la presenza delle cosiddette “primedonne” e, maniacalmente, sfrutta le capacità tecniche di tutti gli undici giocatori in campo. Si passa per la cosiddetta “nuvola” di Guidolin al Vicenza e da Marcello Lippi alla Juventus, che sacrificò il roccioso stopper Jürgen Kohler per dare più spazio al centrocampo inserendo Antonio Conte come mediano. C’è anche una dimostrazione di come, con il tempo, giocare con i tre difensori centrali puri, come faceva Zaccheroni al Baracca Lugo, sia una tattica antesignana della “salida lavolpiana” applicata allo stremo dal Barcellona e dal City di Guardiola, col mediano che scende a prendere palla tra i difensori per eludere il pressing. Emiliano Battazzi, caporedattore di “Ultimo Uomo”, scrive un libro tutt’altro che facile, nonostante i nomi, gli argomenti, le partite e i tempi raccontati siano all’ordine del giorno, per chi mastica qualcosina di calcio. Ci sono i binomi Klopp – Guardiola, si parla dei gol e degli schemi che li hanno creati nei diversi campionati, ma si scava anche in profondità, alle origini degli eventi. Non basta dire che Ancelotti sia il diretto discepolo di Sacchi: bisogna capirne le motivazioni storiche e sociali (a livello sportivo) che hanno portato a questo passaggio di testimone. Se Valdifiori impostava e Pucciarelli faceva da muro nell’Empoli di Sarri, perché non studiare giocatori che ricoprono gli stessi ruoli nelle squadre e nelle competizioni odierne? L’Europeo di Mancini rappresenta l’epilogo del volume, mentre la morale, sempre la stessa, può essere trovata nel: “agli allenatori va dato il tempo necessario”.
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ufficiosinistri · 9 months ago
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Di quando mio padre mi presentò Giovanni Galeone
Vent’anni fa esistevano ancora le vacanze aziendali. Nel senso, le grandi ditte davano la possibilità ai propri dipendenti di poter usufruire di prezzi speciali in villaggi turistici che normalmente sarebbero stati fuori dalla portata dei loro portafogli. Solitamente il periodo era da scegliersi durante la bassa stagione, ma poco importava. Si trattatavi di luoghi che, altrimenti, in pochi si sarebbero potuti permettere. Anzi, era persino meglio: niente turisti che affollavano spiagge, musei o ristoranti, clima ancora sopportabile e prezzi, in generale, nettamente più coerenti.
Così, nel giugno del 1996, grazie all’offerta riservata ai dipendenti ENI, andammo per due settimane a Stintino, in provincia di Sassari. Mare azzurro come non lo avevo mai visto, da cartolina, spiagge bianche, gente che si divertiva, famiglie intere a spasso tra le case basse. Prendemmo il traghetto e stavo leggendo, in quei giorni, “Per chi suona la campana”. Le pagine erano sgualcite, ma chiudendo gli occhi e pensandoci intensamente riesco, tutt’oggi, a ricordare il loro profumo. Mi misi nella mia cuccetta dopo cena per leggere qualche pagina, ma mi addormentai quasi subito, che la nave bianca e blu della Tirrenia aveva appena abbandonato il porto di Genova. Mi risvegliai la mattina seguente con il sole che entrava dall’oblò e un gran viavai tra i corridoi. I rumori delle valigie che venivano appoggiate sulla moquette e le corse dei bambini. Eravamo arrivati.
Partimmo veramente presto, quel giugno, perché mi ricordo che dovetti chiamare un mio compagno di classe da una cabina telefonica per sapere i risultati finali degli scrutini: promosso senza nemmeno una materia da recuperare. Quell’anno scolastico era trascorso veramente liscio, tra le prime libertà di orari al sabato sera, i primi concerti, il Novara Calcio retrocesso in C2 per colpa di un gol di Jimmy Fialdini nel pareggio di Pistoia ai playout, i primi dischi e le magliette di Pearl Jam, Smashing Pumpkins e NoFX indossate sopra improbabili felpe col cappuccio.
La villetta a schiera dove alloggiavamo faceva parte di un residence molto elegante, con tante palme, tre bar, due negozi che ti vendevano di tutto, due piscine, i campi da tennis e tre ristoranti. Occupava praticamente tutta la dorsale est della collina che sovrastava il paese. La nostra, era una piccola casa gialla con il balconcino in mattoni e una scalinata ripida. Dal balconcino potevamo scorgere l’Asinara, dove stavano i brigatisti. Si vedevano il carcere e le luci, di sera, delle imbarcazioni che vi portavano i secondini. Prima di cena, tornati dalla spiaggia (riservata alle famiglie dei dipendenti anche quella) mi mettevo ad ascoltare musica e a guardare le navi che, in lontananza, attraccavano al porto di Sassari. Altri vacanzieri, altre macchine, altro divertimento al quale non ero abituato.
Mio padre si alzava sempre prima di tutti, di mattina. Non è mai stato un amante del mare, e la sua vacanza ideale in una località marittima come quella consisteva unicamente in passeggiate col cane, partite a tennis e qualche ristorante di pesce. Spiaggia, poca. Andava a piedi sino all’ingresso del complesso e comprava il giornale, portandoci dei dolci da uno dei bar.
Una mattina, mentre facevamo colazione, mi ragguagliò sui suoi giri mattutini.
Eravamo circa a metà della vacanza, era già passata una settimana e avevo nostalgia di casa. Mi mancavano i miei amici su in città. I giorni immediatamente successivi alla fine delle scuole erano, per noi del cortile, i più divertenti e spensierati di tutto l’anno. Senza impegni e senza scuola, passavamo il nostro tempo, dilatatissimo, giocando a pallone per tutti i campi del vicinato,  parchetti o prati che fossero, uscendo di casa appena dopo pranzo e facendovi ritorno giusto prima di cena, sfruttando le giornate più lunghe dell’anno per fare, essenzialmente, ciò che più ci faceva fare.  Erano giorni infiniti, ma che duravano poco: a fine giugno, infatti, c’era già chi partiva per le vacanze, chi si spostava al Sud per raggiungere i parenti al mare, chi andava in vacanza studio obbligato dai genitori. Tornati a settembre, sarebbe ricominciato di nuovo tutto da capo. Non trascorrere con gli altri quel periodo mi metteva angoscia, era come se mi stessi perdendo qualcosa di fondamentale per la mia vita.
<< Sai chi ho incontrato giù, all’edicola? Galeone, l’allenatore, lo conosci? >>
Mi ero appena svegliato. Il sole, in direzione del mare, era già alto. Volevo andare in spiaggia.
Certo che lo conoscevo, Giovanni Galeone. Nella stagione appena terminata aveva allenato il Perugia ed era stato esonerato prima di Natale, sebbene la squadra fosse saldamente al di sopra della zona retrocessione. Il presidente Gaucci, d’altronde, lo conoscevano già tutti. Nevio Scala ne prese il posto da gennaio e i Grifoni, a fine stagione, retrocessero in Serie B. Il Perugia era una di quelle squadre che mi erano sin da subito state simpatiche non appena salite nella massima serie. Andavo già allo stadio a tifare il Novara in quegli anni, ma ovviamente il campionato di Serie A, tra i miei coetanei, la faceva da padrone. Eravamo dei veri e propri nerds in materia.
<< Sì, l’allenatore? Cosa ci fa qui? >>
<< È qui in vacanza. Secondo te cosa ci fa uno, in un villaggio turistico?! >>
In effetti.
<< Non credevo fosse davvero lui, così gliel’ho chiesto. Abbiamo fatto due chiacchiere sul cane. Gentilissimo, tra l’altro. >>
Il cane in questione era il nostro, un incredibile meticcio giallognolo che stava simpatico a qualsiasi essere umano vi si avvicinasse.
Ci pensai su un attimo, alle parole di mio padre, perché ero sempre stato affascinato dalla persona, percepita attraverso uno schermo, di Giovanni Galeone. La sigaretta e il cappotto lungo, sembrava un attore di un film noir. Le maniere burbere e diametralmente opposte ai suoi colleghi, sempre azzimati e cordiali, anche nelle situazioni più difficili e critiche. Tutti ne parlavano come un innovatore, come uno Zeman di casa nostra, che non aveva paura ad attaccare ma che fondava il suo gioco sul fiato e le gambe dei due mediani, che aveva sempre avuto a disposizione e sempre preteso. Aveva riportato il Perugia nella massima serie dopo vent’anni e aveva forgiato la squadra in modo da creare un ambiente sano e duraturo. Avevo persino comprato Roberto Goretti e Federico Giunti al Fantacalcio, quell’anno, i due fari del suo centrocampo: arrivai secondo di un punto dietro un mio compagno che aveva praticamente tutta la Juventus. Me lo ricordavo a Pescara, ovviamente, e mi ricordavo anche della squalifica di un anno in cui incappò cinque anni prima per delle cose poco chiare riguardo a una partita, dicevano, inutile.
Il giorno dopo, mio padre, questa volta a pranzo, mi disse che aveva ancora incontrato Galeone, sempre all’edicola del villaggio, a far scorta di giornali. Lui comprava sempre “L’Unità” e ci tenne a sottolineare, con fare ironico, la diversità di vedute politiche con il mister. Avevano parlato del fatto che fosse senza squadra, e che fosse lì a Stintino in vacanza con sua moglie per un paio di settimane, a campionato chiuso e a ritiri non ancora iniziati. Aspettava una chiamata per ritornare in panchina.
<< Spero lo chiamino! >>, dissi. Ma non ne ero molto convinto. Più che altro mi sentivo abbattuto per a situazione di quel signore, che non avevo ancora conosciuto ma che aveva avuto modo di incontrare mio padre.
<< Guarda che non so quanto rimarrà qui ancora, se vuoi domani mattina te lo presento >>.
Erano diventati amici quindi, se si trovavano a fare due chiacchere ogni mattina. Mio padre amico di un allenatore di Serie A.
Avrei potuto seguirlo durante le sue passeggiate mattutine sin dall’inizio del nostro soggiorno, ma la pigrizia aveva sino a quel momento vinto in maniera preponderante sull’orario da rispettare. Decisi così che una levataccia mattutina poteva valere la candela.
Arrivammo al bar accanto all’edicola e in effetti Giovanni Galeone era lì, shorts bianchi e felpa in acetato, a parlare con il barista, all’ombra della tettoia del chiosco. Il sole picchiava già forte e non era nemmeno un orario così impossibile da sopportare.
<< Buongiorno, lui è mio figlio, Andrea! >> erano davvero entrati in confidenza, sembrava che mio padre mi stesse presentando a un suo amico di vecchia data. L’allenatore si girò verso di noi e salutò prima il cane, che stava scodinzolando già diversi metri prima. Ero stato derubricato anche dal quadrupede.
<< Buongiorno, Andrea. >> E gli strinsi la mano.
<< Giovanni, ciao. Finalmente hai accompagnato tuo papà a fare una passeggiata, lo vedo sempre in giro da solo! Ora che parto domani mi raccomando, accompagnalo tu! >>
Sorridemmo tutti e tre, lui ordinò un caffè appoggiando al bancone in marmo rosa la pila di quotidiani, sportivi e no, che aveva sottobraccio. Capii le dissonanze politiche dai nomi delle testate che aveva comprato, ma non importava. Io ordinai una bottiglietta di acqua frizzante e lo guardai più attentamente: non sembrava nemmeno uno di quei tanti allenatori di calcio italiani che si vedevano in televisione. Capello, Lippi, Trapattoni. La carnagione scurissima e quel modo, sicuro e metodico, di afferrare gli oggetti. Mi aspettavo si accendesse una sigaretta da un momento all’altro ma niente, non riuscii a scorgere nemmeno il pacchetto nelle tasche della felpa rossa e nera che indossava. Sembrava, in ogni suo movimento, a suo agio e non lasciava trasparire la malinconia che ero abituato a percepire quando mi capitava di vederlo in televisione, la domenica sera, intervistato.
Parlammo del luogo dove ci trovavamo, delle vacanze degli operai come lo era mio padre, di come fossero belle le spiagge e del fatto che erano ormai più di tre settimane che non buttasse una goccia di pioggia, in quelle zone. Non mi fece domande, non mi chiese come andassi a scuola o se giocassi a calcio: ascoltava e parlava con noi delle cose di cui parlano tutti gli esseri umani in vacanza.
Tre mesi dopo, io ero sui banchi di scuola ad affrontare una difficilissima seconda mentre lui, purtroppo, non aveva ancora ricevuto nessuna chiamata. A novembre arrivò a Napoli ma venne ulteriormente esonerato, ancora una volta con la squadra collocata ben lontana dai pericoli della retrocessione.
Ripensando a quei momenti, crescendo, non mi ero perso granché di quei giorni di giugno in città. Le vie del mio quartiere erano e sarebbero rimaste sempre le stesse anche senza di me, anche negli anni a venire. Mi accorsi che la mia presenza non fosse così fondamentale, anzi. Qualche palazzo nuovo, qualche lavoro di rifacimento dei marciapiedi, qualche targa commemorativa messa a caso nei parchetti dove giocavamo a pallone. Ancora oggi, però, quando vado a trovare i miei genitori, dopo essermi spostato da anni, avverto un senso di inadeguatezza, come se fossi in un paese straniero, o che abbia tradito. È come se quei luoghi fossero andati avanti correndo al doppio della velocità rispetto a me e rispetto ad altre zone della città. Come se mi rifiutassero, se mi ostracizzassero. Quando incrocio per caso qualcuno che conoscevo in quegli anni, qualche mio coetaneo con cui abbia condiviso dei momenti di gioco, l’unica emozione che riesca a provare è un misto di tranquillità e sollievo nel constatare che stia ancora bene, che abbia trovato una moglie, che abbia dei vestiti puliti e che si viva la sua vita in una casa accogliente. Non sono mosso dall’istinto di chiedergli che lavoro faccia, come stia di salute, dove abiti.
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Quella mattina d’estate in Sardegna, io, mio padre e Giovanni Galeone non discutemmo di calcio, anche se la sera prima di incontrarlo mi ero ripromesso di chiedergli, ad ogni costo, se secondo lui Carmine Gautieri fosse più forte di Francesco Moriero, o se gli mancasse il suo pupillo Milan Rapaìc.
Non ne sarebbe valsa la pena.
Tornammo a casa che giugno si avviava ad attraversare le sue giornate più calde e sarei rimasto da solo. avvertii questa sensazione strana appena saliti sul traghetto del ritorno, nella pancia della nave bianca e blu, parcheggiando l'auto nel caos e nel rumore di altre centinaia di automobili. Settembre sarebbe arrivato come ogni volta velocissimo, portandosi dietro gli strascichi di mesi di speranze e sogni da adolescente. Sarebbero tornati presto i pullman di linea affollati, la spesa del sabato, i compiti in classe, la pioggia che ti appiccica le foglie morte sotto la suola delle scarpe pesanti.
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ufficiosinistri · 10 months ago
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La Ragione di Stato - " Delitto e castigo"
“Delitto e castigo, l’Italia a Euro 2000” è sicuramente il libro sul calcio più atteso del momento. Dopo averci raccontato i mondiali nostrani ed essersi ingrandito a dismisura su svariate pagine online, ritorna il collettivo calcistico più sardonico ed aggiornato del panorama sportivo italiano. Su carta stampata, però, non è come sui social. Avverti il passare del tempo, ritorni sui tuoi passi, non hai paura dei giudizi degli altri, tieni il tuo ritmo, respiri a seconda dello sforzo e soprattutto non sei spinto da un’innaturale foga a voler dire la tua. I libri ti aiutano a soffermarti sui tuoi ricordi: possiamo risalire tutti a cosa stessimo facendo durante l’estate del 2000, è inutile negarlo. Io, per esempio lavoravo in una sala corse, e guardai tutte le partite dell’Italia dalla mia postazione, dietro ad una lastra di plexiglass, sugli schermi di quell’ambiente poco salubre ma così, drammaticamente, connesso con la realtà in cui mi trovavo.
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Chi lavorava, chi studiava, chi aveva la fortuna di essere già in vacanza. Chi era pendolare e chi aveva un bar o una panetteria. Delitto: i rigori contro l’Olanda in semifinale, le parate di Francesco Toldo, i falli di Iuliano e la tracotante giovinezza di Totti, che raggiunse l’apice con la leggendaria “Panenka” all’altissimo portiere olandese Van der Sar. Castigo: il disastro di Del Piero in fase di ripiego e le reti di Wiltord in pieno recupero e Trezeguet al golden goal, per quella finale che sembrava vinta. Fato, destino, karma e meriti. C’è poco Dostoevskij e tanto folklore, in questo libro che si legge tutto d’un fiato, complice una narrazione ficcante e sarcastica che, nonostante il finale noto, lascia, con il trascorrere del tempo di gioco, sempre un barlume di speranza nel lettore. Amato e Chirac in tribuna, noi e i francesi nelle piazze. Pizzul che non ce la fa più, Umberto Bossi che, abbandonata ormai del tutto l’idea federalista, si lascia scappare un “non tiferò per la Francia” a un giornalista che gli chiede di esprimersi sul risultato della finale. Nonostante il troppo scontato il capitolo finale, dedicato presente dei protagonisti di questa storia che sa tanto di “dove sono adesso”, “Delitto e castigo, l’Italia a Euro 2000” è uno dei volumi più commoventi e intimisti mai scritti sul nostro calcio. Dall’inizio alla fine. Non siamo usciti vivi dagli anni ’90, come non siamo riusciti a spazzare un pallone al novantatreesimo minuto di una finale europea. “Ma stavolta c’è qualcosa di diverso. A Napoli dieci anni fa, nel 1990, sono stati gli argentini a portarci contro la nostra volontà all’epilogo dal dischetto. A Pasadena nel 1994 e in Francia nel 1998 le partite si sono stancamente trascinate ai rigori per forza d’inerzia, senza che nessuno abbia fatto nulla o quasi per evitare questo finale. Stavolta è diverso. Stavolta siamo noi che abbiamo deciso, in scienza e coscienza, di portare l’incontro alla lotteria, di buttarla in caciara, di evitare che potesse vincere il più forte. Non dobbiamo avere paura di quanto abbiamo voluto.”
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ufficiosinistri · 1 year ago
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James Montague - "Fra gli ultras. Viaggio nel tifo estremo."
James Montague è un giornalista ed uno scrittore calcistico. Ci racconta del pallone. Ci spiega come funzionano le cose, le dinamiche societarie e sportive, ci racconta dei tifosi. Lo fa da sempre. È uno scrittore curioso, perché non si fida di ciò che vede in televisione o legge sui giornali. Lavora in zone difficili, dove ci sono scontri e guerre. Per questo, si affida ai rapporti umani, per descriverci la realtà. In “Fra gli ultras” succede proprio così. Girando il mondo tra città, stadi e bar, Montague ci racconta storie legate al mondo del tifo della gente, delle barricate, delle curve, della fede più radicale.
Il volume è diviso in diverse sezioni, a ciascuna della quali corrisponde una precisa area geografica o tematica. A loro volta, questi macro-capitoli sono suddivisi in altri capitoli, che corrispondono ad una nazione. In ogni Stato, in ogni città, in ogni stadio, l’autore inglese ha un “Virgilio”, una persona che lo porta ad assistere alle partite, facendogli vivere in prima persona l’atmosfera e le situazioni legate a quella partita e a quella tifoseria. Vicoli, porti, bar, night club. Mikael, un barbuto ultras dell’Hammarby, gli fa incontrare alcuni membri della Banda del Parque, la frangia più estrema del tifo del Nacional di Montevideo e lo guida sull’altra sponda del Rio de la Plata, tra i ragazzi della Doce che gli raccontano della finale di Libertadores giocata a Madrid dopo i disordini coi rivali del River Plate scoppiati a Buenos Aires. In Italia, incontra il Bocia e Diabolik prima che venga disputata la finale di Coppa Italia della stagione 2018-2019, ma durante il racconto non manca di parlare della situazione delle curve sul nostro suolo, chiamando in causa le illuminanti parole di Vincenzo Spagnolo sul “nemico comune” degli ultras, soprattutto dopo la morte di Gabriele Sandri e i disordini di Catania. Se ogni movimento ultras è figlio della propria epoca e si schiera in prima linea contro l’oppressione e l’opinione pubblica, ecco allora la parte sul Flamengo e l’opposizione della sua Torcida al leader di destra Bolsonaro e la chiacchierata con Ismail Morina, colui che fece atterrare un drone corredato dalla bandiera della Grande Albania sul terreno di gioco del Partizan di Belgrado durante un Serbia – Albania valido per le qualificazioni all’Europeo del 2016. Si parte dalle curve e dalla loro gente, ma si arriva, inevitabilmente, alle dinamiche societarie e di lega che caratterizzano le rispettive nazioni. Una partita del Friburgo, in Bundesliga, diviene così il pretesto per spiegare con occhio critico cosa significhi veramente il cosiddetto modello tedesco del “50+1”. Se esso metta veramente al centro l’importanza dei tifosi e quali siano le conseguenze a livello europeo di questa dinamica. I capitoli sugli Stati Uniti, dove Montague si reca a Los Angeles ed incontra alcuni esponenti della 3252, la sezione più schierata politicamente dei tifosi del LAFC, e sulla Turchia diventano poi, inevitabilmente, quelli più legati al conflitto politico. Trump ed Erdogan vengono riportati ad un livello più sociale e cittadino, e le loro decisioni su repressione e politiche sociali vengono analizzate proprio grazie alle testimonianze degli ultras, che diventano protagonisti della vita sociale delle città e delle manifestazioni. L’occhio di James Montague è perennemente vigile, durante i suoi viaggi e le sue avventure. Sa che può essere scambiato per un giornalista da un momento all’altro e non mancano infatti attimi di tensione, che gli impongono rinunce e passi indietro. In segno di rispetto per ambienti e persone a lui alieni, con il procedere dei racconti, capiamo quanto sia importante il conoscere in prima persona fatti e persone. Se tutto iniziò con gli ultras dell’Hajduk Spalato, che copiarono le coreografie e i cori delle Torcide sudamericane e portarono questa testimonianza in tutta Europa, chi legge testi come questo, formidabile, “Fra gli ultras. Viaggio nel tifo estremo”, non può fare altro che eliminare qualsiasi forma di pregiudizio e falso mito, lasciandosi trasportare dalla cultura di questo movimento internazionalista tra i più numerosi al mondo. L’ultimo, vero baluardo di resistenza non solo contro polizia e giornalisti, ma contro tutto ciò che la modernità sfoggia quotidianamente come mezzo di oppressione.
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ufficiosinistri · 1 year ago
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Avete perso Pizzaballa?
Era il 1994, e l’Unità aveva deciso di pubblicare settimanalmente, come inserto dell’edizione del lunedì mattina, una ristampa di un album di figurine Panini, uscito negli ultimi trentacinque anni, dal 1961 ai giorni nostri.  La pubblicità che si vedeva in giro, anche su altri quotidiani, recitava, nero su giallo fosforescente, “Avete perso Pizzaballa?”.  Lo storico portiere bergamasco non appariva infatti nella lista delle figurine stampate nel 1964, anno in cui era all’Atalanta, perché il giorno dello scatto delle foto di rito era infortunato e non si presentò nemmeno al centro sportivo dove si svolgevano gli allenamenti. Diventò una figurina mitologica, che fu stampata molto tempo dopo il lancio dell’album, che entrò subito nell’immaginario collettivo di quell’Italia da boom economico, tra sportivi e meno appassionati.
“Hai perso Pizzaballa?” Mi domandò mio padre, accorgendosi che stessi guardando quello slogan stampato sulla quarta di copertina del numero del quotidiano che stava leggendo, come sempre, seduto sul divano in salotto. Mi osservava, in attesa di una mia risposta, con lo sguardo che si alzava faticosamente al di sopra delle lunette.
Non seppi cosa rispondere, ovviamente, e lo guardai di sottecchi.
“Ogni lunedì, tu che passi davanti all’edicola di Viale Volta per andare a scuola, fermati e compra L’Unità, così facciamo la collezione degli album delle figurine. Non ti dimenticare, eh.”
Accettai, ovviamente.
L’edicola era posta su una cuspide del marciapiede, in uno spiazzo davanti ad un palazzo altissimo, uno dei più alti della città per l’epoca, in un quartiere che confinava con il mio in modo aleatorio,  senza delimitazioni precise, almeno per me e i miei amici. Chiamavamo quella zona “vicino alla scuola” oppure “tra i parchetti”, data la notevole quantità di aree verdi presenti, nemmeno avessimo vissuto a New York, dove il quartiere di Tribeca prese nome dalla temporanea abbreviazione che gli abitanti diedero alla zona di isolati, posti a triangolo, che si trovava a sud di Canal Street. “Triangle Below Canal Street”, Tri-Be-Ca.
L’intervallo del lunedì mattina divenne così un appuntamento fisso per consultare l’uscita dell’album del giorno. Ci soffermavamo sui giocatori più sconosciuti e dai nomi più insoliti. La triade Pin – Bon – Blason del Padova, gli oriundi del Napoli, gli esordi in massima serie di Marco Osio. Commentavamo i volti che cambiavano squadra e colori ogni lunedì, guardavamo le statistiche sui gol segnati. Moltissimi calciatori scomparivano o indossavano uno sponsor doverso sulla maglia, altri si tagliavano la barba o se la facevano crescere per la stagione successiva.
E poi c’era un giocatore dell’Inter che non cambiava mai. Appena giravo la pagina ( ero io il “master”, colui che, essendo il possessore dell’album, poteva dettare i tempi di consultazione ) dopo quelle dedicate alla Fiorentina o al Genoa, Fabio cambiava espressione e il volto lentigginoso gli si illuminava all’improvviso, come se non se lo aspettasse, come se ogni lunedì fosse una nuova e strabiliante scoperta.
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L’Inter di Mario Corso appariva lentamente, dispiegata su due pagine, come tutte le altre squadre.  Fabio abitava in un palazzo vicino al mio, al terzo piano. Il suo balcone era l’unico, del caseggiato, a non avere appesi i cd per tener lontano i piccioni. Nel mio condominio non avevamo questo problema, perché il nostro cortile era pieno di gatti e i volatili ne erano terrorizzati: ogni giorno trovavo una carcassa di piccione sull’asfalto, oppure solamente delle piume, a testimoniare il perpetuo massacro. Erano gatti domestici e quindi non li mangiavano, li uccidevano solo.
Contavo i soldi giusti per comprare L’Unità con la figurina di Mario Corso sin dalla domenica sera, quando mi ritrovavo a finire i compiti appena prima di sedermi a cena. Le sigle dei programmi sportivi, la cappa della cucina accesa che sovrastava ciò che avremmo mangiato in settimana, il pesante zaino fosforescente per terra ai piedi del letto pronto per affrontare altri sei giorni di scuola, mezzi pubblici, automobili, intemperie, strisce pedonali presidiate da nonni vigili.
Sentivo mia madre e mia zia parlare in cucina. La luce di camera mia era sempre fioca, come se vivessi di nascosto. Mia zia si sedeva sempre al tavolo da pranzo, mentre mia madre preparava la cena. Il lavoro, le vacanze che voleva fare, i miei nonni. Nel mentre, la aiutava ad apparecchiare. Alle volte mi controllava i compiti di latino per il giorno dopo, dato che lei lo aveva studiato alle superiori. Aveva fatto le magistrali e avrebbe potuto insegnare nelle scuole. Litigavamo perché a lei lo avevano insegnato in modo diverso, soprattutto quando si trattava di tradurre le versioni. Le facevo vedere i pezzi di traduzione che avevo trascritto, esattamente come erano riportati sul vocabolario, ma non ci credeva. Dopo cena se ne tornava a casa in macchina e io, ricontrollando i soldi che mi sarebbero serviti per comprare un album di figurine ristampato.
Avevo seguito le indicazioni di mio padre, e Fabio ne sarebbe stato contento. Mario Corso sarebbe stato ancora lì, uno sfondo colorato e quasi irreale, gli occhi vispi. Alcune fotografie lo ritraevano con le mani sui fianchi. Le annate delle Coppe dei Campioni, la sua estraneità alle rivalità consacrate del calcio italiano.
Quattro anni dopo, L’Unità iniziò a pubblicare un’altra collana. Si intitolava “Gli anni della Prima Repubblica” ed era curata dal giornalista Gianni Rocca. Dalla Costituzione alla vittoria elettorale dell’Ulivo di Romano Prodi, in ordine cronologico, ogni uscita raccontava due anni della nostra storia. Anche in quell’occasione mi fu affidato il compito di comprare il quotidiano il lunedì, prima di andare a scuola. Facevo già le superiori e l’edicola non era più la stessa degli album di figurine. Era posta in una piccola vetrina lungo il corso principale che percorrevo ogni mattina, uno spazio angusto totalmente all’opposto rispetto a quella che si trovava “tra i parchetti”. C’era sempre la fila prima di arrivare al bancone, nei giorni di pioggia o di grande freddo le persone si urtavano le une con le altre. Quando chiedevo L’Unità con l’inserto, alcune di loro mi guardavano con circospezione, ma non l’edicolante. Lui, mai.
In classe, durante i cambi d’ora, io e i miei compagni guardavamo e fotografie che ritraevano gli avvenimenti principali di quegli anni. Il Vajont, Sigonella, Berlusconi. Nessuno indicava nulla e non si aspettava nulla.
È strano pensarlo, ma il tempo che passa, anche se ci sembra tantissimo, da un evento importante, è facilmente calcolabile. Dalla finale di Coppa dei Campioni del 27 maggio 1965, giocata a San Siro contro il Benfica di Eusebio e Coluna, possiamo contare gli anni, i mesi, i giorni, sino ad arrivare ai secondi che ci separano. A volte è necessario, quindi, separare i sentimenti dai nostri ricordi.
Ed è per questo che mio padre, interista, per  smettere di pensarci, lo chiama tuttora “Mariolino”. Calzettoni tirati giù come sarebbe accaduto per  lo Scudetto con Berti e Serena, numero undici.
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ufficiosinistri · 1 year ago
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What will you be reading this weekend? Luca Baccolini - "Bravi e dannati"
Ogni volta che ci passavo davanti, mi incuriosiva. Esposto lì, in una grande libreria, assieme ad improbabili autobiografie, libri fotografici e manuali sul calcio. Il titolo che parafrasava un film epico di Gus Van Sant, “Belli e dannati” con Keanu Reeves e River Phoenix. Un libro che a prima vista, dalla copertina, mi sembrava commerciale e scontato. Dopo una, due, tre volte che ci passai davanti, decisi però di portarmelo via. “Bravi e dannati” è una corposa raccolta di brevi, a volte brevissimi biografie riguardanti calciatori che nelle loro carriere sono stati capaci di accomunare genio e sregolatezza, talento e spreco, impegno politico e vittorie. L’autore, il giornalista sportivo bolognese Luca Baccolini, ci racconta le loro imprese, calcistiche e non, analizzandole come fulmini a ciel sereno, contestualizzandone la narrazione nello spazio e nel tempo, riuscendo a coprire un secolo di storie da sviscerare in tutta la loro umanità.
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I “Carneadi” (termine che ricorre tantissimo nelle pagine del volume ) di Baccolini ci vengono raccontati con spudorata umanità e uno stile molto giornalistico, che evita ripercussioni emotive. Le storie descritte sono tristi, violente, iperboliche e a lieto fine. Appartengono a vite di calciatori, e quindi di esseri umani, e forse la bravura dell’autore risiede proprio nel raccontarle in maniera distaccata e disillusa, senza soffermarsi su giudizi e opinioni personali. Spetta quindi al lettore trovare spunti di riflessione e farne, in seguito, tesoro. La sgroppata trionfale di Saeed Al-Owarian nella partita contro il Belgio a USA 94, che fu classificata come il sesto gol più bello di sempre nella storia dei Mondiali, viene così narrata in contrapposizione all’intera carriera del trequartista saudita, conclusasi senza mai aver avuto la possibilità di giocare in un campionato europeo. Dino Ballacci, poi, il difensore partigiano che militò nel grande Bologna del dopoguerra, ci viene inquadrato nella sua più totale normalità di uomo che, oltre alla fede calcistica, visse la propria vita in nome di ideali libertari e di uguaglianza. Poco importa se si presentò al rinnovo del contratto portando con sé una pistola, perché sapeva che il presidente Dall’Ara ne avrebbe avuto con sé una. E poi la tragica storia di Fashanu e del suo soffertissimo coming-out, la Via Crucis giudiziaria a cui fu sottoposto Beppe Signori, la morte nel disastro del Vajont di Giorgio de Cesero. Persino la collocazione in rigido ordine alfabetico dei protagonisti ci fa rimanere con i piedi ben saldi a terra, e la parte finale, dedicata a citazioni e aforismi più o meno famosi, fa da corollario alla ricerca sociale dell’autore. “Bravi e dannati” trasuda di cultura e storia. Di politica e divertimento, di illusioni e vittorie. “Spiazzato di netto, il portiere egiziano si alza e proietta le braccia al cielo in un urlo liberatorio. Simultaneamente, tutti i giocatori del Camerun le portano dietro alla testa in un gesto di disperazione collettiva, condiviso da un Paese intero. Womé, l’eroe degli undici metri, questa volta ha tradito. Ma per lui, quello, è solo l’inizio dell’incubo. La sera stessa un gruppo di tifosi inferociti entra nella sua casa in Camerun e si porta via tutto. Nella fuga sfasciano anche l’automobile, rendendola inservibile. Non sfugge alla loro ferocia nemmeno il negozio della compagna del calciatore, saccheggiato e dato alle fiamme. Womé, nel frattempo, è stato scortato dalla polizia locale e imbarcato a bordo del primo aereo in partenza per l’Europa, come in un film di spionaggio. Quando atterrerà in Italia, ascolterà dalla bocca del suo compagno di squadra Samuel Eto’o un doloroso retroscena, che forse avrebbe preferito non venisse divulgato: >, rivelerà l’attaccante del Barcellona.”
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ufficiosinistri · 2 years ago
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What will you be reading this weekend? Gigi Riva, Gigi Garanzini – “Mi chiamavano Rombo di Tuono”
Lo vediamo abbracciato a Roberto Baggio, alla fine di quei maledetti rigori a Pasadena. Ce lo ricordiamo strattonare Gianni Rivera dopo il definitivo quattro a tre sulla Germania, a Città del Messico. Lo ammiriamo ancora oggi, a distanza di decenni, sia come giocatore che come persona: Gigi Riva è sempre stato considerato un uomo dell’altro mondo, un giocatore astrale, lontano dai soliti paradigmi calcistici ai quali siamo abituati, alle dinamiche europee di ieri e di oggi. Inclassificabile come ruolo in campo e come mentalità. Fu vero fenomeno, calcistico e sociale.
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“Mi chiamavano Rombo di Tuono” è un’autobiografia che ci aiuta a capirlo meglio, nella sua grandezza, e a riportarlo alla dimensione più umana, quella dimensione che proprio egli stesso ha sempre scelto di mantenere. Leggiuno, sponda varesina del Lago Maggiore. Il lavoro in fabbrica ed il primo contratto da professionista, coi Lilla del Legnano, e la successiva chiamata del Cagliari, in Serie B. Gli affetti familiari, i giorni bui passati in orfanotrofio, l’arrivo in una terra sconosciuta che lo accolse come un nativo. La storia di Gigi Riva è una storia proletaria, di fatiche e sacrifici, ma è anche la storia romanzesca e idealizzata di una vittoria, lo Scudetto conquistato dagli isolani guidati dal profeta Scopigno nel 1970, che in quei difficili anni di post-industrializzazione diede speranza allo sport e, nel nostro caso, nel calcio. Giocatore, attaccante, ma anche dirigente. I successi sul campo (ricordiamo, oltre al Campionato vinto col Cagliari, anche il successo al Campionato Europeo del 1968 che lo vide tra i protagonisti) si accompagnano a quelli ottenuti nel ruolo di dirigente, con il Mondiale del 2006 vinto assieme a Marcello Lippi: i giocatori della nostra nazionale potevano infatti contare su di lui come confidente, come se fosse uno di loro. La carriera del numero undici più famoso del mondo ci viene raccontata in prima persona, senza filtri. Rombo di Tuono ci parla della passione per i motori, del vizio del fumo e dell’incontro con Fabrizio de Andrè, il suo cantante preferito, avvenuto dopo una partita disputata a Genova contro la Sampdoria. Vengono descritte le amicizie cagliaritane ma anche quelle sbocciate sui campi da calcio, come quella, indissolubile, con il campione granata Gigi Meroni, un ragazzo “di lago” come lui. Per alcuni attimi ci dimentichiamo del Riva “campione”, il miglior marcatore di sempre in azzurro, quello che rifiutò i miliardi della Juventus perché li riteneva immorali e quello che si infortunò con la Nazionale due volte, ritirandosi dal calcio giocato giovanissimo, a trentadue anni. “Mi chiamavano Rombo di Tuono” è la testimonianza dolce e vissuta di un giocatore unico al mondo. Che venne adottato da un popolo intero, non solo da una tifoseria o una società calcistica. Che provava fascino più per le barche dei pescatori di Villasimius, che per gli yacht ormeggiati in Costa Smeralda.
“Un’altra volta in allenamento entrai duro su Martiradonna, perché mi stava marcando stretto come se fosse una partita scudetto. Scopigno la prese male. E disse, con quel suo tono che sdrammatizzava e insieme sottolineava, che se io ero importante perché facevo gol, c’era chi era altrettanto importante perché i gol non li faceva fare.”
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ufficiosinistri · 2 years ago
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What will you be reading this weekend? Corrado De Rosa - "Quando eravamo felici"
Il 1990 è l’anno che uso, di solito, per orientarmi tra infanzia ed adolescenza. Cosa è successo prima e cosa dopo? Quali avvenimenti importanti mi devo assolutamente ricordare? Il 1990, ed in particolare la sua estate, funzionano come spartiacque. Nessun anno solare ha mai sancito così nettamente l’esistenza di un “prima” e di un “dopo”. Il fatto è che tutti sapevamo, bambini e adulti, anziani e adolescenti, che sicuramente, dopo i Mondiali delle cosiddette "Notti Magiche”, il calcio, per come l’avevamo sempre vissuto a livello sportivo e sociale, non sarebbe stato più lo stesso. Abbiamo vissuto quell’esperienza come un’epifania sulla modernità, assaporandone ogni momento con infantile illusione, respirandone la magia ogni giorno, al lavoro, sui treni, sui divani, alla radio, nelle università, nelle fabbriche, nei supermercati. Eravamo al centro del mondo dopo anni tetri e violenti, dopo mille fatiche ci potevamo prendere una rivincita, almeno sul campo della spettacolarità. Dentro e fuori dal campo. Lo psichiatra De Rosa ci racconta però la fase per noi più drammatica di questo evento, le ore più incredibili di una Prima Repubblica che stava per declinare definitivamente, i momenti più difficili che ogni italiano ricorda, a livello sportivo. Il tre luglio di quell’anno, infatti, andò in scena a Napoli, Italia – Argentina, semifinale del Mondiale. Sappiamo tutti come sia andata finire, ma dato che stiamo parlando di letteratura sportiva, è giusto descrivere come l’autore ci faccia rivivere (o vivere, per chi non c’era), quelle ore. Il libro è diviso in due parti: un “prima” e un “durante”. I due blocchi, però, non sono monolitici, non sono statici. Si mischiano tra loro in un perenne inseguimento, aderendo e distaccandosi. Prima della gara, De Rosa parte da una descrizione di cosa fosse, a livello politico e sportivo, la nostra nazione. Questa sezione è densa quindi di rimandi storici, curiosità, spunti sociali e folkloristici, senza i quali non sarebbe possibile entrare appieno nella narrazione, in sé, dell’evento sportivo. Van De Korput che pensava di essere stato ingaggiato dalla Juventus ed invece si ritrova ad indossare la maglia dei rivali granata; Zahoui, il primo calciatore africano a giocare in Serie A, che non indossava i calzini; Diego Armando Maradona in fase calante dopo la mancata cessione all’Olympique Marsiglia. Perché il calcio è sempre, inesorabilmente, il calcio del tempo che stiamo vivendo. Nel 1990 come ora. E Cossiga che minaccia Matarrese qualora gli Azzurri non fossero arrivati in finale non è altro che la rappresentazione più veritiera del clima che si stava vivendo in quegli anni. Altro che i napoletani che tifavano Argentina.
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Durante la partita, invece, dopo aver minuziosamente descritto e raccontato i giocatori che vi presero parte, l’autore ci descrive per filo e per segno, adottando un linguaggio a volte molto più che tecnico, cosa avvenne sul rettangolo di gioco. Le gambe di Burruchaga, i campanili di Giannini, la posizione occupata da Basualdo, l’importanza di Gigi De Agostini nelle dinamiche della squadra, l’atteggiamento di Vicini e del suo omologo argentino Bilardo. L’Argentina non era una squadra programmata per arrivare così in fondo, in quella competizione. Non era più quella del “Tata” Brown, ed aveva vivacchiato troppo nella prima fase del torneo, per poterci far paura. Maradona non aveva ancora segnato un gol e giocava da mediano. L’Italia, invece, aveva tutto per poter trionfare. La dieta di Bergomi, i gol di Schillaci, la devozione di De Napoli, la linea difensiva più forte dell’epoca, le sane rivalità tra le sue stelle nascenti. Cosa avvenne, in fin dei conti, nel mondo, quel tre di luglio? Eccoci serviti. L’effetto dell’anestesia finì di colpo.
“Lo hanno chiamato il << Mondiale avaro>> perché quello in cui sono stati segnati meno gol, in media poco più di due a partita. È quello con la finale più brutta di sempre, con l’inno argentino fischiato, decisa da un rigore che non andava concesso. È rimasto in equilibrio fra due geopolitiche mondiali, fra due Repubbliche italiane. È stato un momento precario, eppure saldissimo, che teneva insieme le consapevolezze, le frustrazioni, le ansie, le attese, le speranze di generazioni diverse che si sono trovate a fare la ola allo stadio Olimpico e a tifare da casa. Italia ’90 è come un fantasma: si nasconde, si insinua. Ti ricorda che, se qualcosa può andar male, andrà male. Si è fatto carico dei nostri sogni e li ha interrotti. Ma dobbiamo essergli grati anche per questo: ci ha preparati con garbo a un’epoca di passioni tristi e disillusioni spietate. Italia ’90 è fra noi, Italia ’90 non muore mai.”
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ufficiosinistri · 2 years ago
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Pivato - Marchesini - "Tifo, la passione sportiva in Italia"
Da dove deriva la parola “tifo”? Ci possiamo rifare al termine greco “thyphos”, cioè “fumo”, in quanto sappiamo che i primi sostenitori erano soliti raggrupparsi per festeggiare gli eventi sportivi attorno a un falò, oppure dobbiamo collegarci alla febbre tifoide e alla sua letale contagiosità tra gli esseri umani? Marchesini e Pivato, due importantissimi accademici, partono dal ‘500, per raccontarci il tifo e le sue origini storico-culturali. Per arrivare nell’ottocento, epoca in cui vengono eretti i primi sferisteri e la gente li affolla, per poi abbandonarli nei primi anni del secolo scorso, trasportandoci poi sino al fatidico dopoguerra, quando le rivalità tra le nazioni si acuiscono a causa del cessato conflitto mondiale e persino i ciclisti italiani al Tour de France vengono inseguiti e presi a sassate. Perché, paradossalmente, gli sport nei quali il contatto fisico è più lieve, o addirittura inesistente, vantano i tifosi più violenti e maggiormente attaccati al culto dell’atleta. Il libro può considerarsi come diviso in due parti. La prima parla delle gesta dei campioni di diversi sport, dei gossip che li hanno riguardati durante le loro carriere e delle reazioni del pubblico alle loro imprese. Viene raccontata così la morte di Fausto Coppi, vero e proprio eroe mitologico le cui gesta sportive divennero un vero e proprio atto di rivincita italiana nel dopoguerra. La sua morte può così essere considerata come l’evento spartiacque, in ambito sportivo, tra l’epoca della bicicletta e quella dell’automobile, che acquisì sempre più maggiore importanza con gli anni, ovviamente, del cosiddetto boom economico degli anni ’60, nonostante le imprese a cavallo tra le due guerre di Tazio Nuvolari e Achille Varzi.
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La seconda sezione del volume, invece, si concentra sul vero e proprio ruolo dei sostenitori e dei luoghi in cui essi agiscono. L’analisi si sposta così sugli stadi e sulle arene, sulla loro (spesso pericolosa ) conformazione ed infine sulla loro responsabilità nel modificare inesorabilmente il paesaggio cittadino, isolando il pubblico dagli oneri e dalle preoccupazioni della vita quotidiana e “inscatolandoli” in un ambiente in cui, secondo la concezione propriamente baktiniana della fruibilità del divertimento, tutto viene concesso. Ci si ritrova infatti in veri e propri luoghi di culto, dove la fanno da padrone campanilismi e senso di appartenenza comunitario, principali cause delle contrapposizioni, spesso violente, con i sostenitori della squadra avversaria. Invasioni di campo, insulti nei confronti di arbitri e deputati al rispetto delle regole diventano sempre più frequenti sino allo sfociare, come tutti sappiamo, con i terribili fatti di Viareggio, nel 1920, quando la polizia uccise il guardalinee Augusto Morganti. Si tratta di un volume storico che scaccia qualsiasi fatalismo dalle odierne speculazioni sportive. Dalla boxe al ciclismo, dal calcio alla pallavolo, dall’epoca fascista sino al ’68 e all’epoca Berlusconi, lo sport viene raccontato con una lucida disanima sociale e culturale, che abbraccio i tifosi, sì, ma anche pubblico e opinione pubblica. Nonostante la gradevolezza e l’efficacia di questa seconda parte, però, “Tifo. La passione sportiva in Italia”, appare, in alcuni passaggi, come un semplice elenco di date, avvenimenti e luoghi, descritti per dare al lettore il più alto numero possibile di informazioni nel tempo più breve possibile: ecco quindi una densa galleria fotografica che riporta i luoghi d’interessa citati durante lo scorrere dei capitoli, e una bibliografia precisa e puntuale che scorre tra l’origini delle fonti citate. Marchesini e Pivato, infine, ci danno un affresco importante e accademico di ciò che, nel gergo comune, possiamo chiamare “tifo”, ma che al suo interno comporta uno studio che non può non essere profondo e disinteressato. “La passione del gioco nell’ottocento assume proporzioni tali che non sempre il diritto riesce a regolamentare. E quando i luoghi deputati dalla consuetudine ad accogliere il gioco si rivelano insufficienti o inadatti, i giocatori non esitano a sfidare le norme di polizia per appropriarsi di nuovi spazi . Le diatribe che sorgono fra le autorità pubbliche aiutano a capire la funzione sociale del gioco nelle comunità in cui avevano origine i conflitti. I documenti di polizia delle varie autorità governative palesano in realtà il timore che la proibizione del gioco potesse dare origine a disordini e tumulti. Di qui le preoccupazioni he le autorità centrali esprimono a quelle comunali, invitandole a riflettere in quanto <<la privazione degli antichi giochi potrebbe far nascere anche gravi lagnanze, e forse ancora qualche tumulto>>.”
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ufficiosinistri · 2 years ago
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La Ragione di Stato - "Dov'è la vittoria?"
“Dov’è la Vittoria?”, scritto dal collettivo La Ragione di Stato, è un libro innanzitutto divertente. Per come è scritto, per come tratta gli argomenti, per le metafore e le similitudini che utilizza per descrivere momenti ed emozioni diventati di totale dominio pubblico da decenni. Si tratta di una descrizione cronologica, sotto l’aspetto sportivo e sociale, dei tre mondiali di calcio che si sono disputati durante gli anni ’90: Italia, Stati Uniti e Francia. Sì, gli anni ’90, proprio quegli anni. Quelli di Rage Against the Machine e Red Hot Chili Peppers, della globalizzazione dell’impegno politico e dei consumi, dei jeans e i maranza, dei palazzinari e dell’Interrail.
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Nonostante gli anni ’90, ci sono stati i Mondiali di calcio, verrebbe da dire. Che con le loro contraddizioni, la loro risonanza mediatica e i loro campioni, queste tre manifestazioni sportive (perché di manifestazioni sportive, infine, si tratta), hanno saputo dare a quel decennio un tono ancora più violento e malinconico. Bebeto, Baggio, Lineker, Collina, Zidane, Ronaldo, Kenneth Andersson, Gascoigne, Tassotti con la 9, la fortissima e neonata nazionale croata, Montezemolo, Campos, Mancini sempre in panca, Raùl.
I protagonisti dei Mondiali raccontati in “Dov’è la Vittoria?” esprimono in loro stessi e nelle loro gesta sportive tutto ciò che di più nevrotico e folkloristico abbiamo vissuto durante quegli anni. Persino il gesto di Matarrese, che durante la cerimonia di inaugurazione di Italia ’90 alza la Coppa del Mondo al cielo di San Siro, rientra in questa grottesca visione antropocentrica di quel periodo. Quattro anni dopo gli risponderà Diana Ross, calciando fuori un rigore da due metri, sempre nella cerimonia inaugurale del Mondiale del 1994, come per continuare questa saga della realtà moderna. Scaramanzia cattolica, ma al contempo vanno contati i morti nei cantieri del San Nicola, le tangenti e gli appalti, i cartelli della droga. In quest’atmosfera dilaniante, La Ragione di Stato ci racconta, con una verve strettamente sportiva, il calcio nella sua massima esaltazione. Perché nonostante le squadre italiane avessero dominato in ogni competizione europea nella stagione ’89-’90, usciamo dopo aver subìto il primo gol ai quarti di finale e per giunta contro un’Argentina più picaresca che sportiva. Perché la storia l’hanno fatta la Giamaica nel 1998, in Francia, al primo mondiale a trentadue squadre, e la Svezia negli Stati Uniti, dove per la prima volta nella storia una finale venne decisa ai calci di rigore. Episodi come la sconfitta del Brasile durante il ritiro a Gubbio per mano di una rappresentativa umbra guidata da Ciccio Artistico, o la pazzesca sfida tra Argentina e Inghilterra a Saint-Étienne, vengono raccontati con la stessa e minuziosa sagacia, utilizzando un linguaggio ficcante ed esplosivo allo stesso tempo. “Dov’è la Vittoria?”, infatti, non fa distinzioni tra il tragico e il comico, tra il gesto eclatante e partita soporifera di fine girone: ciascun luogo, personaggio ed episodio fanno parte di una lunghissima avventura che risponde al nome di anni ’90, dalla politica alla società sino ad arrivare allo sport. Il disco che servirebbe a completare definitivamente la descrizione di questo volume potrebbe essere "With the lights out" dei Nirvana, che contiene covers, inediti e registrazioni risalenti ai primi anni dei novanta. Negli anni Ottanta e nel primo decennio dei duemila, insomma, l’abbiamo vinto. Ma negli anni Novanta ci siamo divertiti. E volete mettere?
“Il 3 luglio è il giorno di Italia – Argentina, sicuramente tra le cinque partite Cult della storia della Nazionale. La legge di Murphy, nostra usuale compagna di viaggio, ne combinò un’altra delle sue. L’organizzazione decise di far giocare la prima delle due semifinali a Napoli, nella convinzione che il calore del pubblico partenopeo avrebbe spinto gli Azzurri in finale. Il che sarebbe stato vero se non nell’improbabile ipotesi in cui l’Argentina fosse nell’ordine: passata per terza nel suo tipico girone fantasia; passata col Brasile con il trucco della borraccia e trentacinque pali dei Verdeoro; infine, passata con la Jugoslavia più forte e tecnica dell’era contemporanea dopo essere stata presa malamente a pallonate per 120 minuti. E murphyanamente andò tutto in quel modo, per filo e per segno.”
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ufficiosinistri · 2 years ago
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Cristiano Carriero - "Football Rail"
Ventidue città di tutto il mondo descritte in ordine alfabetico. Ventidue storie legate al calcio. Storie importanti, di tifo, di imprese, di amore, di lavoro, di amicizia. Ventidue autori: giornalisti, scrittori, content creator, opinionisti, coordinati da Cristiano Carriero, che da anni ha fatto dello storytelling il suo lavoro. Questo è” Football Rail”. Un libro che inseguivo da tempo e che, finalmente, ho trovato. Dall’avveniristica e totalmente ecosostenibile Copenaghen del 2050, in lizza per vincere una fantomatica Super-Champions League, ci spostiamo nella grigia Ruhr del Borussia Dortmund dei giorni nostri, per seguire un’appassionante storia ambientata tra esodi lavorativi ed un amore nato in Südkurve.
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Viene raccontata, con occhio omnisciente, l’esperienza di Tony Adams come allenatore del Qabala, ai confini dell’Impero Romano, in Azerbaijan, per dimostrare che il pallone, nella concezione moderna del termine, possa sembrare davvero alla portata di tutti ma che, tirando le somme, in pochi possono fruirne le vicende giocate. Sotto l’aspetto politico, poi, è fondamentale l’apporto dell’esperienza di Feyzi, un tifoso del Galatasaray imprigionato dopo la protesta di Gezi park a Istanbul, durante la quale le compagini ultras più importanti della capitale si trovarono unite, per la prima volta, contro la dittatura di Erdoğan. Trovare uno stile di scrittura univoco è, ovviamente, impossibile: gli autori, che descrivono a modo loro diverse città del mondo, partendo dal gioco del calcio, utilizzano chi uno stile giornalistico e chi una via narrativa più letteraria e autobiografica. Abbiamo poi diversi racconti impostati come se fossero dei veri e propri articoli che si affiancano a storytelling frenetici ed accorati, come quello sulla famosissima, ultima partita del campionato scozzese del 1986 nella quale gli Hearts of Midlothian di Edimburgo vennero sconfitti per due a zero dai padroni di casa del Dundee United, regalando così di fatto la vittoria della competizione al Celtic Glasgow. Dura e sconsolata, invece, la cronaca, tra Helsingborg e Milano, dell’eliminazione, da parte degli svedesi, dell’Inter di Lippi. Il rigore sbagliato da Recoba a San Siro urla ancora vendetta. Liberatorio e culturalmente ricco di rimandi e prospettive, infine, è il racconto del Saint-Étienne di Dominique Rocheteau, il centravanti dagli occhi verdi che leggeva Sartre e che portò all’apice del successo quella piccola città di minatori, sperduta nel Massiccio Centrale, negli anni ’70. La lettura, nel complesso, scorre ovviamente leggera e veloce, ma vi propongo un gioco: provate a non spoilerarvi, una volta finito un racconto, il nome della città successiva. Resterete sorpresi. “U” di Ushuaia.
“E il Dukla? Un tempo amata e la più vincente squadra del Paese, oggi raccoglie una quantità limitata di tifosi. Tutta colpa della sua storia e di quel passato con l’etichetta di “squadra di regime” che si trascina ancora oggi, consegnandole il titolo di squadra meno tifata nella capitale ceca nonostante le pagine di storia sportive scritte e i tanti campioni che hanno indossato la maglia giallorossa. Le pressioni dei coetanei e il carattere molto spesso accondiscendente non sono mai bastati: Pavel si è sempre dimostrato molto intransigente nel difender quei colori e quella squadra. Il nonno, la famiglia e non solo: quel maledetto problema congenito alla colonna vertebrali non gli permesso di coltivare il suo – così come tanti suoi amici e pari età – sogno di diventare un calciatore e il tifo per il Dukla è il collante con un mondo, quello del calcio, al quale è da sempre molto legato.”
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ufficiosinistri · 2 years ago
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Giovanni Tarantino - "Calciopop"
Si parte da un punto ben definito, e cioè da un altro libro: "La tribù del calcio", di Desmond Morris. Da qui nasce tutto, dalla sua pubblicazione in poi, finalmente, vengono delimitati gli ambiti culturali del calcio moderno. "CalcioPop" deve moltissimo a quest'opera del 1981, scritta da uno dei più famosi etologi di sempre, capace, pioneristicamente, di identificare questo sport come fenomeno di massa, fuori e dentro il campo di gioco. Per ogni lettera dell'alfabeto, l’autore, il giornalista palermitano Giovanni Tarantino trova diversi collegamenti. In ambito sportivo, ovviamente, ma anche in quello culturale, sociale e politico. La ricetta è semplice, ma soprattutto efficace. Dagli eventi più importanti, che hanno caratterizzato il calcio sin dalla sua nascita, grazie a "CalcioPop", ci facciamo trascinare vorticosamente da curiosità ed aneddoti meno conosciuti. Lo scopo è evidente: Tarantino ci comunica che, inesorabilmente, il pallone sia un'esperienza quotidiana, intrisa di tutto ciò che è "pop", ossia "popolare" nel senso più vero del termine.
Se Camus tifava Racing Parigi, allora Sartre, maggiormente legato alla capitale, parteggiava per il Paris Saint Germain. E chi sapeva di quella volta di Paolo Conte al Moccagatta di Alessandria, per assistere a uno dei derby del famoso "Quadrilatero del Pallone”, tra i grigi padroni di casa e quelli della Pro Vercelli?
Il calcio è radicato nel nostro immaginario da sempre. Dai fumetti di Andy Capp al profilo di Corto Maltese in bella vista su numerosi striscioni della penisola, dalle citazioni cinematografiche alle sezioni ultras il cui nome si ispira ai gruppi giovanili raccontati nelle pellicole di Kubrick e Walter Hill, Tarantino riesce ad eludere l'aura di scontato romanticismo che potrebbe intridere il modo di raccontare questi fatti, riportandoci ad un ragionamento che parte dagli albori del gioco e del tifo calcistici.
L'urlo di Morales al gol di Maradona ripreso dal Gotan Project, l'evoluzione dei protagonisti del cartone animato "Holly e Benji", la vicenda del cosiddetto "mockumentary" riguardante il Mondiale che si sarebbe disputato in Patagonia nel 1942, in pieno conflitto bellico, al quale, per la prima volta, nessuna delle due nazioni ospitanti (Cile e Argentina) avrebbe preso parte, e che avrebbe visto vincitrice una rappresentativa Mapuche ai danni di una molto più attrezzata Germania.
Il calcio è cultura, ma soprattutto è ovunque. Nelle metafore guerresche che assimilano la difesa milanista di Sacchi alla Linea Maginot, ma anche in Silvio Orlando, operaio meridionale tifoso del Torino e trasferito per lavoro in Piemonte in "Preferisco il rumore del Mare" di Mimmo Calopresti.
L’ultima parte del volume, infine, è dedicata al movimento ultras, su cui effettua una precisa e puntuale indagine storica, che forse sembra non avere molto a che fare con il titolo e la prima parte del volume, ma che a ben vedere, riesce a spiegare mode, vicissitudini e simbologie di questo fenomeno come raramente ho visto fare in altri libri o dibattiti.
Grazie a “Calciopop”, quindi, riusciamo a capire come le rappresentazioni grottesche di Neri Parenti in “Fratelli d’Italia” e la ribellione di Fantozzi al cineforum aziendale, non siano tanto differenti dalle conclusioni sociologiche di Raoul Vaneigem o dagli articoli romanzati di Gianni Brera, quando si tratta di raccontare la cultura che, da sempre, dà linfa vitale a questo perpetuo fenomeno storico.
Adorno di illustrazioni, fotografie e disegni esplicativi, "Calciopop" è una solida base di partenza per tutti coloro che, partendo da un'iniziale infarinatura, desiderano sviluppare tematiche più precise nell'universo calcistico. Irrazionalità ed estro sono destinate per natura a sfociare in sport, e quale attività se non il pallone può essere causa, ma anche effetto, dei nostri più normali comportamenti quotidiani?
"Proprio al medioevo risalirebbero le radici della passione popolare per lo sport anche secondo lo storico e antropologo olandese Johan Huizinga, autore di "Homo Ludens": lo sport come reazione spontanea a un modello di modernità che cercava di emarginare.
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il fattore ludico ed estetico della vita sociale. << Né il liberalismo, né il socialismo offrirono allo sport terreno favorevole. La sopravvalutazione del fattore economico nella società e nello spirito umano era in un certo senso il frutto naturale del razionalismo e dell'utilitarismo, i quali avevano ucciso il mistero.
Gli ideali di lavoro, di educazione e di democrazia lasciavano a malapena posto all'eterno principio del gioco.>> E allora il calcio riappare come la riemersione di tutta l'energia vitale rimossa dalla società produttivistica ed ecco motivati i riferimenti ai modelli antichi e medievali."
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ufficiosinistri · 2 years ago
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Fabio Fava - "Loco a Marsiglia"
Si parte con una citazione, sin dal titolo. “Duri a Marsiglia” è infatti un romanzo poliziesco scritto da Giancarlo Fusco che parla della malavita, nel periodo tra le due guerre, nella città focese. Parla di pastis, sparatorie, amori, ci racconta di come Marsiglia sappia uccidere ma anche amare, e che, in fin dei conti, non ci sia tanta differenza tra le due cose.
Questo filo conduttore, tra la città, le sue chiese e il suo porto, la sua cittadella e i suoi vicoli, e le persone che vi transitano, è un modo di vivere sempiterno che solo luoghi come questo possono mantenere. Tra questi personaggi, che vi transitano arrivando da tutto il mondo, vi è anche un nativo di Rosario, un argentino di nome Marcelo Bielsa Caldera, del quale, grazie all’acuta penna di Fabio Fava, viene raccontata l’esperienza, durata poco più di un anno, nel capoluogo provenzale, alla guida dell’Olympique Marsiglia.
La stagione è quella 2014-2015. Bielsa era chiamato a bissare, possibilmente, almeno le precedenti vittorie di Deschamps in Ligue 1. Il cosiddetto proyecto, però, partì male, anzi malissimo, con un presidente ( l’imprenditore Labrune, rampollo della borghesia parigina formata in Sorbona e quindi odiato dalla tifoseria biancazzurra ) che non riuscì a garantire al Loco i giocatori richiesti per affrontare una fase preparatoria adatta ai suoi canoni.
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Il legame con i tifosi e la città, però, ebbe la meglio sulle strategie societarie, e si instaurò tra il CT argentino e i tifosi dell’OM un sentimento di reciproca stima che andò al di là dei risultati sportivi, del cosiddetto 3-3-3-1, di un Vélodrome da riempire, dei rapporti tra commissario tecnico e calciatori. Bielsa rappresentò, secondo Fava, un’incarnazione sportiva della città come forse capitò solamente nella Napoli di Maradona.
Come dai tempi della vittoria del campionato argentino con il Newell’s Old Boys di Sensini, Balbo e Batistuta, lo scopo principale di Marcelo Bielsa fu quello, durante l’anno marsigliese, di restituire ai tifosi un calcio genuino, fondato su un gioco leale e destinato al puro divertimento, più che al raggiungimento degli obiettivi societari. Non si sarebbe più trattato del derby tra Canallas e Leprosos, bensì di andare a giocarsi un campionato in Corsica o alla Gerlande, affrontando i milionari del Paris Saint-Germain o i minatori del Saint-Etienne. La grandezza del personaggio Bielsa si fece percepire anche quando, dopo un girone di andata sensazionale, in quello di ritorno furono numerosissime le sconfitte o le occasioni mancate. Anche senza avere a disposizione i campioni che transitarono a Marsiglia del calibro di Drogba, Francescoli, Zidane e Waddle, El Loco compì un’impresa ben più storica di quella di riportare la vittoria all’ombra di Notre Dame de la Garde.
Copertina illustrata da Sarita Liguori e prefazione a cura di Matteo Dotto.
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ufficiosinistri · 2 years ago
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Vincenzo Paliotto - "Splendori del calcio socialista"
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Puntata numero 15
Vincenzo Paliotto – “Splendori del calcio socialista”
Il calcio nei paesi aderenti al Patto di Varsavia è stato un calcio violento e sperimentale. E non avrebbe potuto essere altrimenti. La politica, le guerre, i conflitti, impregnavano la dimensione calcistica in modo intrinseco più di qualsiasi altra epoca storica, assurgendo a ruolo apicale, più che di pretesto. Credo che il libro di Vincenzo Paliotto “Splendori del calcio socialista” abbia come scopo quello di spiegare letteralmente questo periodo storico, narrandone l’aspetto a noi più caro, quello del calcio, per farci comprendere più a fondo gli eventi.
Conoscenza. Si chiama così.
L’autore prende in esame nazione per nazione il gioco del pallone, descrivendo e raccontandone gli aneddoti meno noti, ma non per questo di minore rilevanza, di squadre locali e nazionali. Si parte dalla Bulgaria per poi arrivare alla Romania del presidente Nicolae Ceaușescu, che pone il veto sulla cessione di Hagi alla Juventus nonostante la promessa, da parte di Agnelli, di aprire uno stabilimento Fiat in Romania. Sempre rimanendo in zona, poi, Paliotto dedica un capitolo all’Universitatea Craiova, autentica outsider nei campionati nazionali nella quale militava il fortissimo Oblemenco, e a Barbulescu, artefice della storica conquista, da parte dello Steaua Bucarest, della Coppa Dei Campioni del 1986.
La Jugoslavia titina, ovviamente, viene messa al centro dell’indagine giornalistica di Paliotto, citando la finale, sempre di Coppa dei Campioni, contro i franchisti del Real Madrid del 1966, disputata dal Partizan Belgrado che aveva come capitano, al centro della difesa, quel Velibor Vasović, figlio di partigiani rossi, destinato a far parte del primo grande Ajax di quel calcio totale, definito a buon diritto la realizzazione più socialista di sempre avvenuta una disciplina sportiva. Forse ancor più della Russia calcistica, eterna incompiuta, che mentre alle Olimpiadi eccelleva in quasi tutte le discipline atletiche, all’Europeo del 1988 incocciava contro l’Olanda (che coincidenza!) di Van Basten.
Abbiamo le azioni, abbiamo le descrizioni dei gol, abbiamo gli aneddoti. Minuziosamente e, soprattutto, mai attraverso una vena nostalgica, ci viene descritto tutto, in questo volume edito da Urbone Publishing. Dalle scappatelle amorose di Müller in Albania alla gloriosa storia del Carl Zeiss Jena finalista in Coppa delle Coppe, per arrivare alla storica “riabilitazione”, dopo una squalifica, di Garrincha, in occasione della finale mondiale del 1962 in Cile contro la Cecoslovacchia, che senza di lui come avversario avrebbe potuto, forse, riscrivere la storia moderna di questo sport.
La bravura di Paliotto sta nell’affiancare puntualmente, in questo volume, gli aspetti sportivi con quelli storici, senza che gli uni risultino mai preponderanti sugli altri, raggiungendo il lettore in modo semplice e dinamico. Il rischio di scadere nella sommarietà delle informazioni fornite è grande, ma “Splendori del calcio socialista” non riflette nient’altro che materialismo e verità.
Dimostrandoci che Dragan Džajić, alla fine, segnando a Zoff negli Europei del 1968, abbia solamente compiuto il suo dovere di socialista. Perché il calcio che giocava era violento in quanto vitale, e sperimentale in quanto vincente.
“Intorno al quindicesimo minuto il rude difensore Rafael Angel, come nella peggiore scuola del calcio spagnolo, con un intervento frantumò la gamba di Kipiani, tenendolo lontano dai capi da gioco per molto tempo. L’arbitro belga Schoeters, uno chiaramente compiacente alla causa madridista, fece finta di nulla, ma Angel al 45’ fu costretto a lasciare il posto a Garcia Hernandez per evitare un’autentica caccia all’uomo da parte dei sovietici. La Dinamo, senza Kipiani e innervosita da quell’episodio, naufragò per 4-2.
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Era stato un vero e proprio agguato alla carriera di Kipiani, che i madridisti finirono per scontare gravemente. Il PCUS, infatti, si indispettì e bloccò un eventuale trasferimento di Blokhin al Real Madrid, sebbene l’allenatore madridista Boskov avesse messo al principio della sua lista dei desideri il nome di Gutsaiev, il finalizzatore delle giocate di Kipiani.”
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ufficiosinistri · 2 years ago
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Bruno Barba - "Ma quale DNA?"
“Ma quale DNA” è un saggio scritto da Bruno Barba che ha uno scopo ben preciso: quello di screditare e affossare qualsiasi teoria evoluzionista presente nel calcio, atta a portare un peggioramento della qualità culturale e comunicativa di narrazione e giornalismo. Il termine specifico oggetto della critica da parte di Barba, docente di antropologia, è, appunto, “DNA”. Parlare di DNA in uno sport nel quale, come sosteneva Socrates, “può vincere anche il peggiore”, risulta un’operazione anacronistica, che assume intrinsecamente concetti razzisti, che vengono così trasfigurati nello sport più mutevole e intriso di socialità, rivoluzione, rispetto ed accettazione di tutti i tempi. Frasi come “Questa squadra ha la vittoria nel DNA” oppure “questa società ha carattere” non hanno motivo di esistere quando si tratta di raccontare, mediante studi  empirici, o più modernamente con storytelling e messe in scena televisive, uno sport creato dagli uomini e da essi continuamente plasmato, come se vivesse in uno stato di continua evoluzione interiore.
Non esiste  infatti, in primo luogo una “maniera” di giocare a calcio: Sacchi, per esempio, si ispirò al modello olandese per arrivare a far giocare come prima punta il sardo Virdis, e pretese fortemente l’acquisto  dell’emiliano Ancelotti dalla Roma, dando vita ad un modulo studiato per poter competere con le squadre di quel preciso periodo storico e sociale. Allo stesso modo, ci viene raccontata l’Italia del 1982, che fu capace di prendere le distanze dal calcio di Pozzo, il calcio “da alpini”  delle due Rimet vinte di fila e in grado di trovare aperture e spazi, alla faccia della costante retorica del catenaccio all’italiana.  
In “Ma quale DNA”, le parole come “sincretismo” e "partecipazione" hanno maggior valenza rispetto agli slogan che vengono continuamente  diffusi dai social e da una maniera di raccontare il calcio troppo spinta verso la celebrazione delle vittorie e delle imprese sportive del singolo, più  che nei confronti degli uomini nella loro collettività, con i loro pregi e i loro difetti, che le hanno compiute.
Il calcio non viene descritto come materia minore rispetto ad altri sport, soprattutto quelli che esaltano in modo più spiccato l’individualità : dal giocatore di terza categoria all’amatore, dalla vecchia gloria che sta finendo la carriera in Serie D al giovane promettente di qualche cantera europea, tutti vengono posti sullo stesso piano, grazie ad una ricerca socio-antropologica esaustiva e rivelatrice, frutto dell’immensa cultura e dell’estremo interesse scientifico che il docente alessandrino mette a disposizione dei propri lettori.
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Stiamo parlando di un testo accademico e di tutt’altro che facile lettura, ma estremamente necessario, soprattutto per capire cosa significhi veramente parlare di calcio moderno. Essendo appena uscito, grazie alla lungimirante opera di Battaglia Editore, “Ma quale DNA” esamina ogni sfaccettatura antropologica del gioco del pallone, arrivando a parlarci degli ultimi Mondiali, disputati in Qatar, partendo dall’Homo Ludens di Huzinga per poi arrivare a Pavese, Gianni Brera e al Basaglia di “da vicino nessuno è normale”.  Perché il calcio, come gli uomini, è un fenomeno fluido, come fluida è la società nella quale prende vita e viene giocato ogni giorno, sul campetto di periferia come nelle grandi arene sportive.
Scrivere, raccontare e parlare di calcio dovrebbero essere, secondo Bruno Barba, pratiche veicolanti per trasmettere un’esperienza e, successivamente, interpretare i fenomeni che ne derivano. Saper descrivere il calcio per poi poterne parlare, saper individuare le cause tattiche per poter commentare un’azione sono operazioni che vanno ben più in là rispetto all’abbruttimento del linguaggio calcistico al quale siamo ormai da decenni abituati. Stiamo parlando di vera e propria fenomenologia, che non si scaglia a priori contro modernità e cambiamenti, in una retorica nostalgica ed ancorata al passato, me che ne entra a far parte in modo quasi naturale e descrittivo.
Raramente ho trovato un saggio calcistico che, in modo così naturale, eviti scontate sussunzioni e scada in effimere narrative nostalgiche per raccontare questo gioco. Se ovunque possiamo giocare a pallone, allora ovunque e a chiunque possiamo raccontarne le storie.
“Esiste una contraddizione di fondo tra il desiderio di formulare articolate teorie sui massimi sistemi calcistici e l’evidenza di alcuni fatti: se al novantesimo minuto della finale mondiale 1978 l’olandese Resembrink, invece che colpire il palo, avesse indirizzato la palla qualche centimetro più in là, sarebbe cambiata la storia di quella squadra arancione, dell’Albiceleste, e chissà persino il destino dell’Argentina e della sua infame dittatura.”
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