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Natrice dal collare
Ci mettemmo d’accordo per andare a vederla. Eravamo io ed altri ragazzi, due di Roma e uno di Bari. Alla fine delle attività serali, che consistevano di solito nel programmare la giornata successiva e cucinare dolci, prima di ritirarci nelle nostre camere, saremmo a vederla. Da soli. Ognuno di noi avrebbe portato con sé una torcia elettrica. Tutti ne avevamo una, dato che ne era stata indicata l’essenzialità sin dai primi fogli che i nostri genitori avevano dovuto compilare, prima di iscriverci a quel campo estivo. La mia era pesante e nera, occupava quasi tutto il marsupio dell’Invicta che mi portavo dietro per le escursioni e le uscite serali, quando andavamo al paesino sulla costa, in fondo alla strada di campagna che tagliava in due la pineta. La nostra non era un’azione segreta, sebbene ci saremmo mossi di nascosto e con cautela, prima di raggiungere il canneto. Avevamo informato i nostri animatori della sua presenza sin da quando, per la prima volta, uno dei due ragazzi di Roma la vide sgusciare, una mattina, tra l’erba secca e gialla e scomparire nella piccola pozza di acqua stagnante, ricoperta di ninfee bianche e leggerissime lenticchie d’acqua e contornata da un rado canneto. Anzi, proprio uno dei nostri responsabili ci disse che era durante le ore notturne, che la si sarebbe potuta vedere in tutta la sua bellezza. Magari mentre cacciava, o usciva dall’acqua. O scappava da un predatore come un gheppio.
Quella sera, dunque, ripulimmo il tavolo al centro del salone da briciole e gocce d’acqua, spazzammo per terra con una grossa scopa di saggina dal manico ruvido e vuoto, spegnemmo la luce e andammo. i lavori di pulizia giostravano su due soli turni, quindi ogni giorno c'era da fare qualcosa.
I nostri passi attraversarono veloci il cortile del centro visitatori del Parco, mentre la luna si stagliava in cielo. Appena il sole tramontava verso l’Argentario, iniziava a far freddo e il vento che spirava dal mare si confondeva con l’aria tiepida che traspirava dalla melma del tombolo tra i nostri vestiti, passando attraverso le nostre unghie sporche e avvolgendo i nostri volti efebici e ansiosi. Non ci interessava delle nostre famiglie, che ci avevano iscritto a quel campo estivo per benestanti di città. Erano lontane, sparse per l’Italia, lavoravano in quell’estate mentre Gambaro, il terzino sinistro del Milan di Fabio Capello, passava da Milano a Napoli dopo essere stato salutato dallo striscione con lo Scudetto numerato sino a dodici dei Commandos Tigre rossoneri. Una persona per bene, come per bene po’ esserlo un personaggio di Hemingway, che non causa dolore. Giovanili della Sampdoria, tifoso genoano dell’entroterra ligure. Dove si mangia tanta verdura e si cucina bene, dove si cresce sempre in bilico guardando il mare con le spalle coperte, sempre.
Non avevo nostalgia dei miei genitori, comunque. Mi mancavano profondamente, anzi, le mie attività estive, di quando aspettavo di andare in vacanza, quelle che svolgevo senza di loro. Ormai ero diventato grande. Guardare qualche partita, seguire il calciomercato, andare a pescare, sentire i compagni di classe rimasti in città per andare a giocare a pallone in qualche campo tra i palazzi. Ero lì in mezzo a coetanei quasi sconosciuti, che in pochi seguivano il calcio. Il barese si chiamava Nicola e usava come pigiama una maglietta che recitava, arancione (ormai sbiadito) su bianco, “forza Bari, lo stadio s’innamora”. Il cortile terminava, come per inerzia, in un campo di mais, in mezzo al quale era incisa una strada sterrata che portava verso est, verso la grande palude. Accendemmo le torce elettriche. Sentivamo le rane gracidare, qualche gufo, i nostri passi erano una minaccia per quella natura così vicina ma così selvaggia. Non avevamo paura, eravamo in quattro contro nessuno. La strada finiva in una radura, dalla quale si poteva scorgere già il tombolo, che faceva da nemesi alla luna, alta nel cielo di giugno sulla Toscana.
Entrammo piano in quella radura, i due romani tenendosi per mano, Nicola davanti a tutti e io per ultimo. La luce delle nostre torce colpiva gli ontani e i pini marittimi che facevano da tribune per quell’anfiteatro. Al centro dello spiazzo, diradato ma vivace, vi era una pozza d’acqua sorgiva, che filtrava dalla laguna verso l’entroterra e trovava, a pochi metri dal campo coltivato, uno sfogo per risalire in superficie. Ci fermammo, dopo pochi passi. Uno dei due romani intimò l’alt. Ci separammo di qualche metro l’uno dall’altro. Aspettammo. Non trovammo il coraggio di spegnere le luci, così ce le mettemmo in tasca, ancora accese. Filtrava luce rossa tra le tele dei nostri pantaloni e la cosa ci fece sorridere.
Ed eccola. Arrivò dal campo di mais, strisciando lentamente. Era lunghissima, quasi due metri. La luna giocava sulla sua pelle mentre si muoveva ad anse, come se fosse un fiume diretto verso il mare. Le vidi gli occhi, rotondi e fissi verso la pozza d’acqua. Uno dei due romani emise un verso strozzato, tra commozione e paura. La natrice dal collare di cui tutti parlavano era come fosse lì per noi.
“Non fa niente, state tranquilli”, disse uno dei due ragazzi di Roma. Ma lo sapevamo, che non vi era pericolo: era una natrice dal collare che era andata a caccia. Si buttò nell’acqua della risorgiva senza nemmeno muoverne il pelo, come se fosse parte di un unicum con quella terra, quell’entroterra che la custodiva. La parte finale del suo corpo intermittente scomparì quando la testa, guizzante, era già affondata nell’abisso, nel suo piccolo abisso sotto le lenticchie d’acqua e la luna.
Rimanemmo fermi per qualche minuto, io ebbi appena la forza per afferrare la torcia elettrica ed estrarla dalla tasca dei pantaloni. Diressi il suo raggio verso i casolari nei quali dormivamo, oltre la piantagione, in fondo alla strada sterrata. Ci guardammo negli occhi e, felici, rientrammo nella nostra stanza, senza farci sentire.
Il giorno dopo era il mio turno per i piatti, dopo una mattinata di attività teoriche: finii di pulire la cucina che ormai erano le tre del pomeriggio. Alle cinque sarebbe iniziato un corso di vela al mare all’Argentario e avevamo un’ora di riposo prima della partenza, con il piccolo pullman messo a disposizione dalla Pro Loco di Grosseto.
Mi chiusi in camera, mi misi sotto le lenzuola candide e profumate di lavanderia industriale e piansi, perché avevo nostalgia del mio entroterra.
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