Tumgik
#io riassumo quello che hanno detto
buscandoelparaiso · 2 years
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Posso chiederti cosa hanno detto su Zaniolo su diretta azzurra? Me lo sono perso oggi
Dei giocatori si sono fermati solo Insigne e Bonucci? :)
Rimedio, Antinelli, Adani & friends si chiedevano perchè Zaniolo non fosse rimasto in ritiro nonostante l'infortunio alla caviglia/infiltrazioni al ginocchio, come hanno fatto Marcolino o Sirigu che nonostante fossero "'mezzi" infortunati sono rimasti col gruppo. Notavano come molti giocatori che arrivano a Coverciano un po' acciaccati, rimangono comunque a recuperare specialmente se hanno molte partite come in questo caso e più tempo per migliorare infortuni non gravi come quello che sembrava avere Zaniolo. Rimedio diceva che Zaniolo dovrebbe migliorare l'atteggiamento nei confronti della nazionale perchè il fatto che non fosse rimasto un secondo in più del dovuto, non ha dato un buon messaggio di attaccamento alla maglia ed è una cosa che giocatori di altre nazionali non farebbero mai (portava l'esempio delle nazionali sudamericane in cui i giocatori sono attaccatissimi alla maglia e anche se sono tutti rotti rimangono sempre ai ritiri) - diceva insomma che è la mentalità che deve cambiare, non solo per lui ma per tutti i giovani che non danno abbastanza importanza alla nazionale quando invece dev'essere un punto importante per ogni giocatore perchè i club vanno e vengono, ma la chiamata in nazionale è fondamentale per professionisti di livello come può essere Zaniolo. Antinelli diceva invece che probabilmente Zaniolo ha ancora paura di rompersi dopo i gravi infortuni e quindi non se l'è sentita di rimanere (oltre che per via del polverone mediatico degli ultimi giorni) ma che era un peccato perchè la nazionale poteva puntare su uno come lui che quando sta bene è validissimo. Hanno anche mandato un pezzo di intervista di Mancini che ha detto di aver parlato con Zaniolo appena arrivato a Coverciano e lui stesso gli aveva detto di non stare bene e che non se la sentiva di rimanere, Mancini non voleva forzarlo quindi l'ha lasciato andare.
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Domani sono due anni da quando se ne è andato, da quando è incominciato tutto. Ho la nausea di questi giorni, vorrei stare nel letto a rigirarmi perdendo la concezione del tempo che passa e di chi sono ma me lo impediscono.
Ma partiamo con calma, ho altre mille cose da dire.
Alla fine ho scritto a Fabio.
“Scusa se mi faccio viva così dopo mesi, ma ultimamente ho fatto un po' di mente locale, diciamo, e mi sono resa conto che ti devo un minimo di spiegazione, o almeno delle scuse decenti. Odio avere conti in sospeso”
Mi ha invogliato a parlare, nonostante ci stessimo parlando tramite messaggio.
“Dimmi tutto, Gloria.” 
“È difficile. È parte di una storia molto più complessa che ti riassumo perché sono stanca anch'io di spiegarla. Sai quando sono andata in montagna? Ecco, c'era il mio ex. Abbiamo bevuto troppo e ci siamo lasciati troppo andare, e sì ti ho mancato di rispetto e davvero mi dispiace un sacco, tanto che mi sono sentita malissimo ed era per questo che nei giorni seguenti non riuscivo a parlarti come prima. A parte questo, il genio ha fatto la furbata di farmi una finta micidiale, facendo retromarcia quando ero nel pieno della sbronza e quindi anche della disperazione. Ho avuto tantissimo da ridire con lui e ho perso completamente di vista te, anche perché non mi sembrava giusto continuare a coltivare un rapporto che avevo buttato da parte così facilmente per fare l'ennesima puttanata (anche se ti giuro che pur essndo ciocca gli avevo detto di parlare seriamente perché io stavo andando avanti e dovevo sapere con certezza se farlo o meno). E non sei stato né il primo né l'ultimo, era un anno e mezzo che facevo in quel modo e ho continuato a farlo. Ma alla fine la cosa che mi fa più sentire male è che a parte tutta questa spiegazione che non ti ho mai dato perché sono scappata come una codarda, non ti ho mai ringraziato per quel poco che avevamo avuto. Le parole che mi hai scritto mi hanno aiutato tanto, mi hanno fatto stare bene, e sono stata anche bene con te ma non avevo la testa giusta per notarlo, ringraziarti, fare qualcosa a mia volta. Mi dispiace un sacco, e mi dispiace anche per queste scuse un po' patetiche ma sono proprio parte (insopportabile) di me.”
“Grazie per queste parole inaspettate, non pensavo di risentirti dopo tutto questo tempo...in effetti non ci siamo più sentiti. Mi trovi in difficoltà perché capendo tutte queste cose conosco ora un nuovo lato di te...se ti va ci vediamo per un caffè.”
Era il mio obbiettivo dall’inizio, vederlo per un caffé. Spiegargli le cose con calma, magari fargli anche un po’ pena. Volevo un abbraccio mentre gli dicevo che mi ero fatta schifo da sola, che non si meritava di essere trattato così.
Mi ha detto che mi avrebbe riscritto per metterci d’accordo, ma sono passate quasi due settimane e ancora non l’ho sentito.
Non importa, non inseguo più nessuno. Quello che dovevo dirgli gliel’ho detto, tutto il resto era in più.
Marco non lo vedo da più di un mese. Mi ha messo un like su facebook dopo un sacco di tempo che non lo faceva e mi ha cercato la scorsa settimana chiedendomi se mi andava di vederci: gli ho risposto come aveva fatto lui quest’estate quando ero io a chiederglielo, ‘meglio di no’. Deve avergli dato molto fastidio perché il giorno dopo, dal nulla, mi ha scritto agitato.
“Comunque ti ricordo che mi hai cercato te.”
Così, con quel comunque che ricollegava a un discorso mai avvenuto, all’enessima delle litigate che abbiamo fatto in silenzio, senza sentirci né vederci.
Quel messaggio un po’ mi ha rincuorato, mi ha fatto rendere conto che almeno non sono l’unica pensa e ripensa alle cose.
“Non ti scaldare, se vuoi te lo spiego perché è meglio di no. Basta chiedere.” 
“Perché?” 
“Perché sinceramente in questo periodo sei l'ultima persona che vorrei vedere. Lo sai benissimo che mi fai ‘del male indirettamente’, quindi abbi un po' di pazienza porca troia, altrimenti addio e a mai più.”
“Ok.”
“Che cazzo mi rispondi ok?”
“Eh cosa ti devo dire ahahahahah”
L’avrei preso a schiaffi volentieri in quel momento, mi prudevano le mani e avevo i nervi a mille. La cosa che mi dava più fastidio è che come ogni volta ci ritrovavamo a discutere al cellulare, come dei ragazzini.
                         “Che non te ne fotte un cazzo, tanto è così. Mi sono rotta le palle di te e tutta sta storia.”
                         “Non è vero che non me ne frega niente.”
Ho riso istericamente quando ho letto il messaggio. Mi è venuta la tentazione di tirare il cellulare contro il muro, come se fosse la sua testa. 
Ho sentito la stanchezza di tutto quel rincorrersi in due anni invadermi tutt’ad un colpo. Non volevo davvero più saperne niente, non volevo più aggiungere parole.
“Non dirmi quello che voglio sentirmi dire. Smettila, sul serio.”                         Mi ha risposto solo l’indomani, mentre ero in classe. Ho letto il messaggio e sono andata fuori di testa, tanto che Amber ha dovuto parlarmi per farmi calmare perché avevo di nuovo dato in escandescenza e di nuovo volevo spaccare qualcosa.
“Ma io dico quello che è vero.”      
“Non rispondergli.” Mi ha detto Amber, togliendomi il cellulare dalle mani. “Visualizza e basta, non merita una risposta.”
“Questa non posso lasciargliela passare.”
“Si renderà conto da solo della puttanata che ha detto.”
Quando sono tornata a casa non riuscivo a smettere di pensarci. A furia di rimuginare ho trovato le parole giuste da dire, e il coraggio per farlo.
“No che non lo fai. Non lo hai fatto mai perché tu vivi nelle bugie, menti di continuo. Tu la verità non sai manco cosa sia, scappi sempre da lei. Non hai il coraggio di sentirla, dirla, affrontarla. E ti ricordo che io lo so benissimo, quindi non venire a dirmi ‘ste cose perché mi fai solo incazzare di più.”    
Pensavo che il discorso fosse finito lì, ma mi ha risposto: “Io non capisco perché tu dica questo, però va beh.”
Perché? Perché è l’unica cosa che ho imparato in questi due anni, perché sono stanca di te e del tempo che ho buttato via per starti dietro. Perché ho cinque pagine piene di tue bugie che mi porto sempre dietro, così nel caso t’incontrassi anche per sbaglio posso buttartele addosso, dirti che se vuoi una motivazione al mio rifiuto categorico di vederti ne hai così tante, leggi e basta, leggi e renditi conto del male che m’hai fatto, delle ferite che mi hai inflitto e che faccio vedere solo quando sono troppo ubriaca e inizio a piangere mentre vomito perché mi rendo conto che mi sono ridotta così solo per te.
Ho preso un respiro e gli ho risposto:
“È quello che ho visto di te in questi due anni. Non hai mai mantenuto una promessa, non sei stato mai coerente. Se ci tieni a me dimostramelo, cazzo. Io preferisco mille volte che tu mi dica che non ci tieni, che mi usi e basta. Evito tutte ‘ste litigate, ‘ste parole, i casini. Me ne faccio una ragione.”
In realtà una ragione me la sono già fatta, per forza di cose. Mi sono stufata, finalmente, e sono rinsavita. Lo provoco solo perché una parte di me pensa compulsivamente alla vendetta da infliggergli, pensa che alla fine se ne pentirà, si mangerà le mani, ha già iniziato a farlo.
Non voglio più dirgli che mi manca, mentirei. Non voglio più dirgli che ho bisogno di vederlo, che si cambia così tanto in tre mesi, che forse averlo sottomano mi ha fatto davvero vedere chiaramente chi è, e non è affatto lui. 
Sono stanca dei drammi, dei pensieri sempre rivolti al passato, a guardare un lui che non si sa manco se c’è stato o meno.
Basta, non voglio più saperne niente.
Marie ha lavorato un sacco in questi giorni e non siamo riuscite a vederci. Mi manca da morire.
La sento strana, l’altro giorno è esplosa dopo aver litigato con sua madre e si è messa a farneticare di volerla fare finita, che non ce la faceva più.
Io ero in giro con Amber e A, non sapevo come reagire. Ho cercato di calmarla, poi le ho parlato con calma. E io come farei senza di lei? Ci sentiamo poco perché negli orari in cui io sono libera lei lavora, la sera finisce tardi e io sto già dormendo, ma quei pochi messaggi che ci scambiamo durante il giorno mi servono, mi fanno sorridere, sono la nostra piccola abitudine. Voglio dirle tutti i cazzi che mi passato per la testa, mandarle gli screen delle conversazioni con Marco, Fabio, voglio dirle di quel tipo che m’ha scritto l’altro giorno per due ore e poi è sparito. È parte integrante di me, sempre e per sempre.
Amber e A ultimamente sono più vicine, e io sono una pasqua quando esco con loro. Mi fanno ridere, mi distraggono. 
Sabato ho avuto una piccola crisi esistenziale, loro mi hanno trascinato fuori casa, il pomeriggio, senza farmi troppe domande. Ne sono stata felice.
Oggi ho aperto facebook e ho trovato la foto che avevo scattato a Marie e Rachele a casa della prima, un anno fa. 
Ho voglia di un abbraccio che non arriverà mai.
Ho voglia di un futuro che non ho il coraggio di affrontare ma devo.
Tremo, 
lui non è qui 
e va bene così.
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pangeanews · 5 years
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“La civiltà non c’entra con il denaro, dipende dallo spirito degli esseri umani”. Su Patrick White, il genio ingiustamente sottovalutato
Avete letto qui del Nobel 1973 Patrick White. Ho trovato al Libraccio, a questo banco dei pegni contemporaneo, un suo lungo romanzo pubblicato da Einaudi, I passeggeri del carro. Di qui sono sbocciate altre curiosità riguardo le sue due raccolte poetiche – la prima, stampata in proprio e sotto pseudonimo a diciassette anni, è protetta in un caveau della biblioteca nazionale australiana perché White voleva che fosse fatta sparire da ogni biblioteca. La cosa buffa è che esistono solo altre tredici copie di questi suoi esperimenti poetici, o ‘juvenilia romantiche’ come le chiamano in Australia. Le sue altre poesie sono raccolte in Ploughman, edito nel 1935. Senza vanterie comuniste, alla ricerca di poeti contadini, White nel 1935 compone la sua elegia dedicata, secca, come nella tradizione scozzese, allo zappatore, al ploughman.
* Quando gli diedero il Nobel, dopo inchini sontuosi e mezz’ora di discorso giustificativo del premio, gli svedesi additarono il lupus in fabula: la malinconia dietro White. Ma leggiamo: “Il suo lavoro creativo, eseguito in solitudine e senza dubbio battendo i denti contro un’opposizione considerevole, tra vari generi di avversità, si è gradualmente composto raggiungendo risultati durevoli e sempre più apprezzati, nonostante i dubbi che lui stesso può aver nutrito riguardo il valore dei suoi sforzi. Il lato controverso di Patrick White si spiega con l’estrema tensione dell’autoespressione, col suo assalto ai problemi più complessi: qui ci sono le qualità che costituiscono la sua grandezza assoluta. Senza queste qualità non sarebbe stato capace di conferire quella vera consolazione che ritroviamo al centro delle sue malinconie: la convinzione che ci debba essere qualcosa più degno per noi di esser vissuto, qualcosa che offra di più che non sia la nostra veloce civiltà frettolosa”.
*
Del resto White non era un diplomatico nato. Mandò un conoscente a raccogliere il Nobel e dopo un discorso terra terra, tutto autobiografico, senza dichiarazioni di amori o innamoramenti estetici, terminava di punto in bianco così: “Qui, in Australia, spero di continuare a vivere, e mentre ne ho ancora la forza spero allo stesso modo di popolare il vuoto australiano nell’unico modo che sono capace di fare”.
Lo stesso anno del Nobel, nel 1973, White straparla sui giornali australiani contro il progresso facile & a ogni costo: prende le difese dei bianchi che si vedono espropriati dalle loro dimore storiche per far posto a inutili grattacieli, nel segno del dollaro mercuriale e della speculazione edilizia degli yankee.
L’articolo, oggi sperso in Patrick White speaks (1989) attacca con piglio deciso: “Quel che mi sembra essere continuamente sopravvalutato da chi pianifica lo sviluppo edilizio è la reazione di chi si trova più fortemente colpito da questo sviluppo – sono esseri umani di cui si dispone al pari di pecore e mucche. Questo mi passava per la testa quando vidi anche la strada dove vivo sotto il giogo della demolizione”.
Dopo questo attacco da giornalista strapazzato, ecco come si rialza nel finale, aprendo il ventaglio delle ingiurie: “Questi speculatori, a voler essere perfettamente franchi, sono abili ad afferrare le loro oche diventando milionari nottetempo. Dopo, ottengono il titolo di cavalieri. E dobbiamo riconoscere che se riescono in queste loro prodezze, lo si deve alla loro controparte australiana che è lieta di sottoporsi ai magheggi del dollaro rapido – doloroso constatare che fino a un decennio fa erano gli immigrati stranieri a rendere la vita australiana più interessante, più fruttuosa ed efficiente, aiutandoci a raggiungere qualcosa che rimane ancora lontano, che forse otterremo col passare del tempo: la civiltà. Perciò puntiamo a questa piuttosto che al ‘progresso’, un termine che potrebbe rivelarsi, contrariamente alle intenzioni di chi lo adopera, come vuoto di senso. La civiltà non è faccenda di denaro e concretezza. (Guardate cosa è successo agli Stati Uniti!). La civiltà, per come io la vedo, dipende dallo spirito degli esseri umani, dai loro valori”. E con queste parole White si è consegnato, coerentemente, all’oblio dei posteri… nonostante la sua seconda comparsa nel catalogo Einaudi nel 1976, con I passeggeri del carro (1961) fosse celebrata così sul retro della copertina: “Dal 1948 White vive in una fattoria non lontana da Sidney. È scrittore epico e visionario, della razza dei Melville e dei Conrad. È autore di nove romanzi e due raccolte di racconti. Nel 1973 gli è stato conferito il Premio Nobel per la letteratura”.
*
O forse no. Se qualche pio gentiluomo, se qualche degna madama entrasse al Feltrinelli lasciando al bancone dodici euro per comprare la ristampa Mondadori de L’esploratore Voss, avremmo fermato per un attimo il disordine dell’universo in espansione che frantuma anche White. Scherzo.
In realtà White non è mai uscito dalla discussione anglofona sul progresso e, per gli adolescenti australiani che si spostano a frotte sulla Pacific Coast, è ancora un totem. Prendete questo pezzo dello scorso settembre su Lithub, che è il santo Graal degli hipster. È firmato da una coetanea, Madeleine Watts, che fa rimpallare il pezzo, da brava, anche su Twitter. Devo dire che il suo articolo Su Patrick White, grande romanziere australiano dimenticato invoglia alla lettura, oltre che per il colore locale, soprattutto per la piccante madeleine delle prime righe: “Quando avevo 22 anni ero innamorata di un uomo che aveva una fotografia di White incorniciata sopra il suo letto. Sono cresciuta con le copie di libri di Patrick White ‘vissute’ da mio padre, ne ho studiato i libri all’università, ma solo anni dopo sono riuscita a guardare senza astio, con reale interesse, a questo autore – unico Nobel australiano – e alla sua opera”. Quando si dice che la psicanalisi ormai è inutile…
*
Al di là delle comode amenità di moda, dall’anno scorso è su Youtube una buona intervista rilasciata da White a caldo, appena saputo del Nobel. Siccome non sono disponibili i sottotitoli, vi riassumo per punti quella chiacchierata di mezz’ora:
“Il paesaggio dell’infanzia, quello che per me è importante sul piano creativo, può apparirmi senza personaggi. Mentre il paesaggio inglese, col suo verdume, non mi ha mai detto molto. Quello dell’infanzia australiana è diventato più tenue nel tempo, ma ho capito che era fondamentale”.
“I giovani possono anche andar via per del tempo, ma devono tornare a casa per avere una sorta di vita intellettuale. Non mi considero però un intellettuale ma un artista e come artista affermo che anche le persone ordinarie riescono ad avvertire il decadimento attuale, il decadimento materiale, morale. Non si può credere a nessuno, meno che mai ai politici: rapinano, rapinano più che possono tra case e yatch”.
“Mi sento un repubblicano australiano antimonarchico. Vorrei tornare in Inghilterra solo per i suoi teatri e lascerei l’Australia anche solo per non lasciare i miei soldi ai suoi politici”.
“Per quel che posso dire osservandomi, avrei voluto fare l’attore. Scrissi per il teatro ma proprio volevo diventare attore. Quando mi siedo a scrivere, per quanto brancoli, rimango solo; mentre l’attore deve collaborare con le altre persone. Le voci di alcuni attori da giovane mi ossessionavano, volevo scrivere per loro. Sai, quando i critici hanno paragonato L’esploratore Voss a Tolstoj hanno detto un nonsense. In ogni caso, odio Voss – è andato nelle mani di gente sbagliata e tutto è andato a rotoli quando se ne progettò il film. Non vorrei parlarne”.
“Se mi dicono che afferro la grandezza al modo di Thomas Mann, che ho un grande schema con le sue contrapposizioni: è come per i premi della corona Britannica, non accetterei mai quei complimenti. Li rimanderei al mittente. È stato già abbastanza difficile essere autonomo. Sono dell’idea di creare un premio in denaro per gli scrittori australiani. Purtroppo l’establishment vorrebbe metterli tutti quanti al museo”.
“Sono un pessimista, nell’insieme, ma tento di fare del mio meglio per far qualcosa che rechi più vita al mondo”.
*
Eccovi i passaggi mozzafiato del discorso per il ricevimento del Nobel: “Poco prima dei diciott’anni convinsi i miei genitori a farmi ritornare in Australia per vedere se, almeno, sarei riuscito ad adattarmi alla vita dei campi prima di tornare in Inghilterra per l’università a Cambridge. Lavorai per due anni come aspirante pecoraio [jackeroo], prima nelle montagne meridionali del Nuovo Galles, che divenne per me il posto più desolato del pianeta, e in seguito su una delle proprietà materne dei Whitycombe, da uno zio che abitava nel nord bollente e piagato alternativamente da siccità e alluvioni. Riesco ancora a ricordare come conducevo il mio cavallo attraverso sentieri allagati per andare a prendere la posta, mentre mi godevo un piatto di ortiche stufate a causa della penuria di verdure. Una vita simile mi era abbastanza congeniale, ma ogni discorso finiva sempre per ruotare intorno alla lana e al tempo che faceva. Sviluppai un’abitudine a scrivere romanzi nascosto da una porta chiusa, o al tavolo da pranzo da mio zio. Fatto ancora più grave, dopo esser passato per un colono alla scuola inglese, ora ero un ‘Pom’ per i miei conterranei australiani a causa della pronuncia inglese. Perciò non osavo più parlare e accolsi l’opportunità di scapparmene al King’s College di Cambridge. Anche se l’università si fosse trasformata in una nuova scuola dell’obbligo, avevo deciso di perdermi come un’anonima particella nella Londra che già amavo”.
Andrea Bianchi
L'articolo “La civiltà non c’entra con il denaro, dipende dallo spirito degli esseri umani”. Su Patrick White, il genio ingiustamente sottovalutato proviene da Pangea.
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penelopepitch · 7 years
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buonasera, questa volta vi propongo uno scritto che si divide tra l’essere un articolo vero e proprio e una risposta netta ad un video. comparso ieri sulla pagina Facebook di un “brillante” personaggio brianzolo. nel video in essere, questa persona (riassumo e non allego il link per non fargli ulteriore pubblicità) sostiene che gli italiani ma soprattutto i brianzoli hanno un vizio a suo avviso da pena di morte: aberrare gli affitti, starsene a casa per non “sprecare soldi” e aprirsi un mutuo, perché si sa: la sicurezza materialistica di possedere qualcosa per noi brianzoli è tutto (ma dove?!?). durante i pochi minuti che concede al suo pubblico, non si limita a sparare a zero generalizzando dei cliché della figura stereotipata del brianzolo o milanese che sia, ma si avventura persino in analisi e confronti con l’estero pur di portare avanti la sua teoria fino alla fine:
le persone in Italia, e nella nostra zona soprattutto, non accettano di vivere in affitto e quindi restano a casa finché il paparino non gli dà il benestare per comprare casa. con un mutuo, ovviamente.  come ho già anticipato nel video sulla mia pagina Facebook: io, che manco sono brianzola al 100% ma metà bergamasca, non la vedo proprio così.  anzi appena ho visto il video mi è venuto spontaneo pensare “MA VA’ A CIAPÀ I RATT* piuttosto che fare questi video idioti solo per i like”  ci sono parecchi punti che, il nostro Corrado, in arte Konrad sorvola bellamente pur di fare il suo show. certo, come commediante non è male e i suoi video sono buoni, quindi ha visualizzazioni record sia su YouTube che su Facebook... ma il fatto è un altro. come sa chi mi conosce bene, io saltuariamente creo contenuti ironici ma non mi sono mai messa a fare il pagliaccio su delle tematiche così importanti a livello sociale, culturale, economico e psicologico.
procedendo a ritroso, e partendo appunto dalla psicologia il nostro Corrado contrappone un desiderio di stabilità a quello di libertà. prendendo oggettivamente i due desideri, notiamo come non solo a livello psicologico non siano contrari l’uno dell’altro bensì sincronici per ogni essere umano.  citando banalmente ‎George Bernard Shaw “la libertà significa responsabilità: ecco perché molti la temono” frase correlata dalla teoria analitica di Jung che sostiene che “lo scopo della vita è il raggiungimento della completezza del Sé, che costituisce il punto centrale della personalità ed alla cui unità, stabilità ed equilibrio ogni uomo tende come meta fondamentale”. tutto ciò va letto nell’ottica che, l’equilibrio del Sé si raggiunge anche grazie alla libertà in ogni sua forma (in primis mentale, ergo contraria ai preconcetti) che deve essere però armonica rispetto alla quotidianità in cui l’individuo deve affrontare problemi relazionali, sociali, lavorativi e pratici in cui, senza stabilità, sarebbe perduto.
detto questo passiamo alla parte analitica delle affermazioni di Corrado che dice: “perché buttare i soldi in un affitto quando puoi stare comodamente a casa e poi comprarti a rate la tua bella casetta?”  qui vengono a mancare le basi minime per prendere seriamente le sue parole.  sapete forse che sì, l’Italia ha un alto tasso rispetto all’Unione Europea di proprietari di immobili (ergo non solo case ma anche uffici, studi etc.) e che l’80% degli italiani vive sì in una casa di proprietà, ma spesso piccola e da ristrutturare – ah se fossimo nati negli anni ‘60. sì perché attualmente richiedere un mutuo ti costa in genere: un rene, tre ipoteche, duemila garanzie e una bella rogna nel cercare la casa adatta.  come accennato nel video, l’80% delle persone che conosco (sì, brianzoli d.o.c.), tra i 24 e i 32 anni vivono fuori casa in affitto. questo perché le condizioni lavorative, la precarietà, le tipologie di contratto non sono minimamente allineati agli iter e le richieste delle banche.  quindi mi chiedo: per quale ragione un lavoratore con un contratto che può essere interrotto da un momento all’altro residente a Cantù dovrebbe comprare casa a Cantù per poi doversi magari spostare dopo un anno?  i più fortunati, come anche i più coraggiosi, se decidono di aprire un mutuo ci pensano almeno dei mesi prima di farlo. perché la responsabilità è grande, l’impegno anche e le spese annuali da tenere sotto controllo molto più che quando si è in affitto. 
per quanto riguarda l’affitto, sarò breve: basta sbirciare i dati dell’Annuario dell’ISTAT 2016 per leggere che: “per quanto riguarda il settore delle locazioni abitative nel 2015, il 18% delle famiglie italiane ha pagato un affitto per l’abitazione. La percentuale risulta più bassa nelle isole circa il 10,8%, mentre sale al Nord-Ovest e al sud, 20%”. è una tendenza solo brianzola? non credo proprio: in tutta Italia la gente, se può, compra casa. 
sparare dunque a zero sul fatto che culturalmente la Brianza è “materialista” e “legata al mattone” è incoerente. semmai bisognerebbe chiedersi perché c’è la necessità, in questo periodo di crisi nera, di avere un tetto sopra la testa. e qui, il caro Corrado, taglia corto: “è una cosa che ci tramandiamo per la cultura delle nostre zone dove bisogna fatturare per crearsi un futuro stabile”, insomma il classico sogno di una villetta a schiera, un marito, due figli, un giardino ed un cane. mi stupisco che ci dividano solo 15km e sei anni d’età, perché, ancora una volta, non riesco a trovare alcuna correlazione tra le sue parole ed affermazioni con il mondo il cui vivo io. dulcis in fundo, i suoi paragoni non si limitano all’Unione Europea – dove ricordo la politica lavorativa ed economica è completamente differente dalla nostra - ma si spinge fino oltreoceano dichiarando che “prima dei cinquant’anni nessuno pensa a comprare casa”. senza dover citare ogni singola città statunitense, mi limito a dire che a Miami, nel 2013 sono stati vendute 30,041 unità abitative, tra appartamenti e case private, con un incremento annuo del’8%**. detto questo, invito tutti (e non il carissimo Konrad, che forse dovrebbe puntare più sulla carriera da comico che su quella di critico ed opinionista) a fare mente locale su come state vivendo la vostra vita e se davvero, l’avere una casa con giardino potrebbe essere un limite per la vostra libertà. perché a mio avviso, anche solo l’idea di poter piantare dei fiori, avere un garage dove tenere la bicicletta, trovare un cane non rinchiuso in 20mq quando torno dal lavoro e potermi godere una serata tra la mia cucina, le mie pentole, il mio salotto non ha prezzo.  e no, non si tratta di becero materialismo, ma di sano egoismo per chi si merita una vita all’altezza delle sue fatiche e dei suoi sogni. 
* Va’ a ciapà i ratt: vai a quel paese ** Miami, capitale del mondo immobiliare?, 2014 per tutti i dati forniti senza fonte specificata si rimanda a: Le statistiche sui prezzi degli immobili residenziali nel mondo.  Tasso proprietà immobiliare nei Paesi dell’Unione Europea.
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okmugello · 7 years
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Prima della gara di Monza Max Mugelli ci era parso decisamente ottimista, tanto da dichiarare apertamente di puntare al podio come risultato minimo e di avere la vittoria come obiettivo. Al contrario questa volta il nostro Max si è dovuto ricredere: arrivato terzo al traguardo in gara 1, riceve una inspiegabile penalizzazione di dieci secondi retrocedendo dunque al sesto posto. In gara 2 invece, la rottura del radiatore in seguito ad un contatto ad un giro dalla fine (che lo costringerà al ritiro) impedisce a Max di lottare per il terzo posto fino alla conclusione della gara.
Max, iniziamo con l’episodio più controverso dell’intero fine settimana, ovvero la penalità di dieci secondi che ti è stata inflitta in gara 1. Cosa ci vuoi dire al riguardo?
Riassumo brevemente i fatti, dato che ne abbiamo parlato ampiamente nel comunicato successivo a gara 1. Mentre ero in terza posizione, sono stato penalizzato di dieci secondi per una supposta azione pericolosa ai danni dell’Audi di Reicher. Ad eccezione del direttore di gara, tutti hanno visto che non ho commesso alcuna irregolarità, così come le immagini televisive testimoniano ampiamente e come il mio on board camera chiarisce ancora meglio. Tra di noi c’è stato un leggerissimo contatto alla prima variante che non ha danneggiato nessuno dei due. Contatti di questo genere accadono quotidianamente in tutti i circuiti del mondo, senza che a nessun direttore di gara salti in testa l’idea di penalizzare i piloti per questo, ma questa volta a Monza devono avere pensato diversamente. Non voglio dilungarmi oltre, dico solo che sono transitato terzo sul traguardo, ma la decisione presa dalla direzione gara mi ha privato da un lato di un podio meritato, dall’altro toglie credibilità al campionato stesso e all’automobilismo sportivo in generale. Gli spettatori vogliono spettacolo e invece queste decisioni dei commissari sportivi lo limitano notevolmente.
Facciamo un passo indietro e soffermiamoci sulle qualifiche.
Finita la sessione ero abbastanza soddisfatto, anche se avevo iniziato a capire che Seat, Honda ed anche Opel erano molto più performanti su questo circuito di quanto avrei immaginato. Nel mio giro migliore in qualifica 1 sono state esposte le bandiere gialle e ho dovuto per regolamento alzare il piede dall’acceleratore, altrimenti avrei potuto conquistare la seconda fila. In qualifica 2 invece ho tirato fuori dal cilindro un giro quasi perfetto per le potenzialità della vettura concludendo al terzo posto, anche se fino a pochi secondi dalla fine era in seconda posizione che però mi è stata soffiata dalla Opel di Giacon. Resta il fatto che pagavo regolarmente nel secondo settore (quello che comprende variante della Roggia, Lesmo 1 e Lesmo 2) circa mezzo secondo dalla Seat e dalla Honda, questo perché la vettura soffriva di un fastidiosissimo sottosterzo.
Messa in archivio gara 1, le speranze erano riposte tutte in gara 2, ma la partenza ti ha complicato la vita.
Devo ammettere che sono partito male, perdendo tre posizioni al via. Nella sessione di test che disputeremo prima della prossima gara credo che dovremo lavorare molto anche su questo aspetto, altrimenti ogni volta si vanifica una bella qualifica. Seat e Honda avevano un passo inarrivabile per tutti gli altri e il miglior risultato possibile, così come in gara 1, sarebbe stato il terzo posto. Ho subito recuperato la posizione persa in partenza sull’Audi di Reicher effettuando un sorpasso all’esterno che penso sia stato spettacolare anche da vedere! Poi si è formato un gruppetto in lotta per il terzo posto fino al momento del tamponamento che mi ha costretto al ritiro a un giro dalla fine.
Ci puoi raccontare quel momento?
Mancavano circa due giri al traguardo e si era formato un gruppetto in lotta per la terza posizione composto da Gagliano (Golf), Kralev, io e Reicher (tutti e tre su Audi). Alla Lesmo 2 Kralev per chiudere la porta alla Golf ha una esitazione ed esce molto lento, io invece avevo preparato al meglio l’uscita perché uscendo forte dalla curva in piena accelerazione contavo di potere prendere la scia dello stesso Kralev e superarlo. Il tamponamento è stato inevitabile perché eravamo molto vicini l’uno all’altro ed io in piena accelerazione ho trovato l’avversario che procedeva molto più lentamente in traiettoria e non ho avuto neanche il tempo di frenare! Kralev ha proseguito la corsa, io invece mi sono dovuto ritirare a causa del rottura del radiatore.
Dopo sei gare dall’inizio del campionato, sei riuscito a migliorare il feeling con la vettura?
Gara dopo gara, chilometro dopo chilometro mi sto adattando alla guida con una trazione anteriore. La macchina mi piace e credo abbia potenziale, ma se devo essere sincero me la aspettavo più competitiva. Questa non è una critica al team Pit Lane Competizioni, che anzi sta facendo un ottimo lavoro e di cui sono soddisfatto. Credo che la macchina sia stata appesantita troppo nel Balance of Performance di inizio stagione (ad ogni gara ho circa 67 kg di zavorra che mi accompagna lato passeggero!) e spero che dal Mugello vengano presi provvedimenti in merito. Qui a Monza per esempio questi, chiamiamoli così, chili di troppo si sono fatti sentire nelle due curve di Lesmo dove ho patito un evidente sottosterzo. La velocità di punta c’è, ma faccio fatica a fare girare la macchina, a tenere la corda, e con il pieno di benzina la vettura peggiora! Inoltre questo peso mette in crisi anche i freni che a mio parere non sono adeguati a tutto questo peso. A confermare la mia opinione basta pensare che nello stesso weekend si è svolta la gara all’Hungaroring nel TCR Internazionale, dove le due Audi erano disperse verso la parte finale del gruppo (oltre il 15esimo posto) e Seat e Honda hanno fatto da padrone.
Cosa ti aspetti per la prossima gara che si disputerà sul circuito di casa del Mugello?
A Monza, prima della gara, avevo detto che potevamo puntare alla vittoria e non ho mantenuto fede alla promessa, anche per questo non mi voglio sbilanciare. Per fortuna saremo proprio al Mugello per una intera giornata di test il 4 luglio. Sarà un test importantissimo in vista della gara di casa: spero di potere sfruttare ogni minuto di questo test e riuscire insieme al team a preparare la vettura nel miglior modo possibile. Dobbiamo capire come sfruttare le sue qualità.
Intervista a Max Mugelli. Il weekend prima di Monza Prima della gara di Monza Max Mugelli ci era parso decisamente ottimista, tanto da dichiarare apertamente di puntare al podio come risultato minimo e di avere la vittoria come obiettivo.
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DIARIO DI BORDO. GIORNO 10.
La Bohème. Non nel senso dell’opera. Ovvero: tecniche di mistificazione geoculturale.
Domenica sera e non c’è aria di festa. Il vento è forte e la pioggia fastidiosamente sottile. I miei occhiali sono chiazzati di goccioline minuscole quanto moleste e le luci per le vie cominciano a spegnersi. Una chitarra manouche non troppo lontana mi invita a seguirla come un canto di sirena. La luna non è bella quanto la cupola del Sacre Coeur, illuminata come una sposa il giorno delle nozze. La gente nei resto ha fame con la pancia già piena. Non è ancora mezzanotte e tutto è silente a Montmartre. Entro nel locale della chitarra manouche, poche persone al bancone, proprio le rade facce che ho voglia di incrociare stasera, prima di tornare nella mia camera in alto sulla città. Ordino il giusto, mi siedo al bancone.
Porcavacca immacolata, penso di botto. Già mi accorgo che ho sbagliato tutto. Ingurgito il più in fretta possibile l’orrida cosa tipicamente francese che ho ordinato per sentirmi più à la page e già sto per saltare giù dallo sgabello quando una voce per niente soffusa, copre come un boato la delicata musica d’atmosfera, chiedendomi in un orripilante inglese – allò biuttiful, iu’r luking for a rial men? alla faccia della poesia. Da questo momento in poi, decido di trasformarmi in una francese che parla un inglese di merda per scoraggiare il mio interlocutore. Che in un nanosecondo viene raggiunto da tutti i suoi amici. Il dialogo è tutto in inglese, ma per motivi dialogici lo riassumo così: – ah, si frangés? bella che si fa qui la sera quanno nun hai vogghia di annà te curcà? – io non sapere, finito ora di lavorare, torno a casa. Stanca. – arrrooooo vai? siettete. volere birra? iamm Procopio offrici na birra alla uagliona. che stasera facciamo serata. Hai casa qui? vivere sola? E via dicendo, finché di malavoglia gli propino la storia di Sophie (che sarei io) una studentessa parigina purosangue che lavora la sera in uno studio fotografico per pagarsi lo studio in cui vive con il suo ragazzo russo alto un metro e novantacinque e molto geloso. I tipi abboccano, si scambiano sguardi d’intesa e ridono fra loro commentando nella loro lingua – a me il russo tuo pure che è cinque metri mi può fare una ricca pom Mi sbattono sotto il naso la birra forzatamente offerta di cui non ho assolutamente voglia, e cercano di darmi 7/infinite palpate sul braccio (a scendere) per mostrare la superiorità della rinomata mascolinità italiana. Io schivo le palpate, e mi bevo la birra alla salute del macho italico, preparandomi al peggio e in ogni caso studiando tutte le possibilità di fuga che mi consente il locale. Gennaro è un osso duro, evidentemente il leader incontrastato del gruppo di turisti incappati nella Magnifica, per saggiare le grazie del bacio alla francese. Cominciano gli aneddoti di vita vissuta del famosissimo paese di Santomenna di cui Gennaro e suoi sono gli indiscussi protagonisti. Scopro così, da ignara francese come mi mostro, che l’Italia in generale, e Santomenna in particolare, sono dei posti fantastici, dove la vita è più allegra, la gente si diverte e fa baldoria a ogni ora del giorno, della notte e pure del pomeriggio, dove si mangia molto meglio che qui, dove nun ge stonn tutte le feminedde e le frigide zoccn che stanno qua, e dove la gente non ti tratta come se feti ‘e mmerda. Ma soprattutto dove ci stanno gli uomini veri che di moscio non c’hanno niente e che non parlano come quatt ricchiungell Tutto questo in un inglese di cui William S., detto Guglielmo, andrebbe ben fiero. Resisto stoicamente agli attacchi palpatori, alle battute di cattiviamo gusto sulla fregna straniera, su quella italiana d.o.c. e sulla bontà della pizza e della musica italiana/napoletana e me ne esco con una faccia sorridente che non dice nulla ma nemmeno incoraggia ad ulteriori chiarimenti. Ma per Gennaro è più che sufficiente e una volta stabilito – da lui – che la fregna è come la pizza (per un’analogia raffinata che evito di ripetere), decide che io devo essere forzatamente d’accordo oppure devo essere capace di provare il contrario come supposta appartenente alla categoria di fregna d’oltralpe. Ovviamente sono d’accordo con lui, w la fregna e la pizza italiana. Gennaro guarda Procopio che si meraviglia quanto il suo amico della mia mancanza d’orgoglio nazionale e quasi mi fissa di sbieco chiedendosi ma dov’è finito l’onore delle famose parigine rivoluzionarie, che si arrendono senza battersi nemmeno. Rimanendo imperterrita fedele alla sua idea, finisco d’un fiato l’ultimo sorso di birra e tento un salto acrobatico dallo sgabello che ormai è circondato da – nell’ordine: Procopio, Gennaro, Cosimo, Salvatore e Nunzio. Sono quasi riuscita a infilarmi la giacca quando succede quello che non sarebbe mai dovuto succedere. La chitarra manouche si ferma giusto un attimo, piccolissima pausa fatale ma sufficiente a cambiare le sorti della storia. Un incidente da niente, spesso, è stato causa di ben più acerrime guerre. Un particolare da poco, un commento appena sussurrato che molti avrebbero tralasciato, una parolina che forse parecchi avrebbero lasciato cadere nel vuoto, come se nulla fosse. In un silenzio inaspettato arriva al mio orecchio la melodica – sort ‘e zoccol!
Lo so. Non è un attacco ad una connazionale, la cui vera appartenenza geografica i cinque di Santomenna ignorano. Non è neppure un reale attacco a un’appartenente dell’altro sesso in base a una mancanza di gentilezza – mi hanno pur sempre offerto una birra. Non è neppure una nota sarcastica al mio defilarmi all’inglese difronte a una pretesa dimostrazione di superiorità gastronomica (là dove: fregna=pizza). Forse, si tratta di un banale conflitto d’interessi (là dove: non ve la do=facit cacà l’anima di chi v’e bbiv). Forse è solo che Gennaro e compagnia bella hanno bevuto un bicchiere di troppo. Lo so. Non avrei dovuto rinunciare alla mia neo identità francofona da perfetta Sophie, per rispondere:
– MAMT! (in italiano corrente: riferisci quanto hai comunicato a me piuttosto alla tua legittima genitrice)
Non avrei dovuto, lo so. La classe non ammette eccezioni. Ma è la vita bohème che è fatta così. Oggi a me, domani, a tua madre.
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pangeanews · 5 years
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Incongruenze, sciatterie, banalità: analisi sistematica del romanzo di Fabio Volo (senza considerare il personaggio). Ovvero: sulla nascita di un nuovo genere letterario, il libro che devi leggere saltando le pagine
Premessa. Ogni volta che Fabio Volo pubblica un romanzo, nella bolla editoriale cresce l’agitazione.  Da anni, come è uso in Italia, l’affaire Volo si è ridotto a tifoseria (metto la maglietta di Fabio nostro o vado nella curva avversaria per insultarlo?), ed è difficile leggere recensioni distaccate dal clima da stadio. Su Pangea Matteo Fais e Viviana Viviani hanno ben stroncato il nuovo romanzo, “Una gran voglia di vivere”, senza risparmiare ottime considerazioni sugli elementi culturali di un successo non solo commerciale. Per offrire una visione completa di un fenomeno non ignorabile (forzatamente?), mi è sembrato interessante impelagarmi in una analisi del testo di “Una gran voglia di vivere”. Perché è giusto che il testo puro, da solo, parli per l’autore.
La trama. Marco e Anna, entrambi architetti, vivono una crisi di coppia. Lui è molto preso dal lavoro, al contrario lei lo ha messo da parte da quando hanno avuto un figlio, Matteo. Rispetto ai primi tempi del rapporto, le differenze tra i due sono diventate pesanti; tuttavia la decisione di separarsi è difficile da prendere, considerate anche le conseguenze che ci sarebbero per Matteo. Per questo decidono di intraprendere un viaggio in Australia e in Nuova Zelanda, sperando così di risanare il loro legame. La storia è narrata da Marco. Il romanzo è una favoletta morale, durante la quale Marco e Anna incontrano persone che raccontano le loro vite, con crisi esistenziali e coniugali, fughe da lavori stressanti, fughe dalla città verso la natura e la conquista di ciò che hanno capito essere la vita vera. Al lettore potrebbe sembrare assurdo, alla lunga pesante, la facilità con la quale ognuno di questi personaggi sveli dettagli personali agli sconosciuti. Senza considerare che tutti discutono proprio delle tematiche che riguardano il protagonista. Potremmo accontentarci di definirla una esigenza narrativa colmata con molta pigrizia. Ci sono criticità più evidenti.
La struttura. La struttura è sciatta e lo stesso vedremo per lo stile. Non sempre è chiaro dove si trovino i personaggi. Gli spostamenti di narrazione tra passato e presente sono bruschi, talvolta confusi. Ci sono omissioni che definirei comodissime – l’autore fa di tutto per assecondare la pigrizia. Non mancano incongruenze logiche. Partiamo da queste ultime.
Marco racconta di quando ha conosciuto Anna. Era a una cena tra amici: “Gli uomini erano fuori, vicino alla griglia, con delle birre in mano a chiacchierare e ridere. Le donne, in cucina, preparavano insalate, tagliavano pomodori e mozzarella, stavano ai fornelli per fare la pasta”. Marco passa in cucina per un saluto e poi raggiunge gli uomini. “Mi hanno subito passato un bicchiere di vino rosso”. Bevono birra, ma offrono il vino? Strano.
Qui una svista grave, soprattutto per un editor: “le sarebbe piaciuto andare in Australia e Nuova Zelanda durante l’estate, quando qui da noi è inverno”. Partiranno a marzo.
Durante un’altra cena, narrata nel capitolo 9, Marco rivede una compagna di scuola.“Di fronte a me c’era Loredana. È sempre stata la ragazza più bella del gruppo, quella che tutti sognavamo e su cui facevamo fantasie. Era ancora una bella donna”. Dopo la cena, chiacchierano nel parcheggio. Sempre Marco: “Guardavo Loredana mentre parlavo, e c’era qualcosa in lei di diverso, attraente, che non riuscivo bene a spiegarmi, durante la cena non l’avevo notato”. Sembra il contrario.
Ancora incongruenza logica al capitolo 23. “Il colpo di grazia è stato quando mi ha detto che le sarebbe bastato anche solo un lungo abbraccio”. In realtà è dall’inizio che leggiamo di contatti fisici tra Marco e Anna, talvolta non intensi come le prime volte, ma che avvengono. Invece qui, improvvisamente, Anna si sta lamentando dell’assenza totale di contatti, non della loro sincerità.
Nel capitolo 16 Marco visita un albergo particolare. “Ogni materiale era organico, riciclato, non trattato chimicamente”. Mi permetto un inciso professorale: in natura tutto è chimica. Tornando a noi, stupisce leggere che un architetto, che sospettiamo essere esperto di design, possa definire un materiale riciclato come non trattato chimicamente. Ma torneremo presto sulla professione di Marco. Per ora ci concediamo una previsione ironica: trattandosi soprattutto di legno, se davvero il materiale non fosse trattato farei sgomberare la struttura.
Nel capitolo successivo Marco chiacchiera con una barista: “Una parte seguiva il dialogo con lei, rispondeva alle domande, cercava di dire cose interessanti e divertenti con l’intento di sembrare brillante”. Non viene riportata una sola battuta di questo dialogo dall’intento brillante. Scelta comoda per l’autore.
Riassumo una scena del capitolo 18, nella quale Anna convince Marco a comprarsi un cappello. L’acquisto viene effettuato controvoglia. Marco si sente ridicolo e lo ribadisce più di una volta. Ciò non gli impedisce successivamente di andarsene in giro con il copricapo della discordia. “Prima di uscire ho indossato il cappello nuovo. Nel tragitto, ho avuto la tentazione di togliermelo, avevo paura di sembrare ridicolo”. Né durante la scelta del cappello, né successivamente troviamo una minima descrizione. Non conosciamo il modello, neppure il colore. Perché il cappello è ridicolo? Ancora una pigrizia. Vero è che qualcosa all’immaginazione del lettore va sempre lasciato. Qui però siamo davanti al nulla.
Al capitolo 25 c’è un passaggio poco chiaro. I protagonisti entrano nel negozio di un artigiano. Marco sottolinea: “da sempre mani capaci mi affascinano, qualsiasi sia il lavoro che stanno facendo”. Con un ingiustificato e oscuro cambio di registro, mentre chiacchiera con l’artigiano Marco comincia a trovarlo ridicolo. E così pure Anna. Entrambi si trattengono dallo scoppiare a ridere. Cosa che faranno appena usciti.
“«La prima cosa che ho imparato è stato concedermi una semplice passeggiata, non per andare da qualche parte, ma per il piacere di farlo.» Anna mi ha guardato, non mi ha detto nulla, ma ho capito che si stava sforzando di non ridere. «Poi ho iniziato facendo piccole cose, cose apparentemente stupide.» «Di che tipo?» ho chiesto. «Una sedia.» Io e Anna non potevamo guardarci, ero sicuro che saremmo scoppiati”. Marco specifica: “Non diceva cose insensate, era il modo in cui lo faceva a rendere tutto ridicolo”. Quale sia il modo in cui parla, perché Marco e Anna stiano scoppiando dal ridere sono misteri che restano tali.
*
Tocca dilungarmi sull’incongruenza del capitolo 31. L’ennesimo personaggio che descrive il proprio matrimonio finito ha una figlia. Marco ha una domanda importante da porgli: “«Vai d’accordo con tua figlia?» gli ho domandato. Volevo capire se fosse possibile mantenere un buon rapporto con i figli dopo la separazione, non avrei sopportato di mettere a rischio il futuro tra me e Matteo”. Il problema è che nei due capitoli precedenti si legge che le cose stanno migliorando, e di molto. Infatti nel capitolo 29: “C’era una buona energia quella sera, tutto girava bene, in modo naturale, senza fatica”. E il capitolo si conclude con con risate, scherzi e Anna che: “Mi ha messo una mano sul petto e mi ha spinto in camera”. Azione importante, in quanto era lei a rifiutarsi di fare sesso.
Il capitolo 30 invece è dedicato – seppure con superficialità – al rapporto tra Marco e Matteo. Rapporto che, sempre da ciò che narra Marco, si solidifica. Per questi motivi leggere nel capitolo 31 che l’idea della separazione sia tornata a essere concreta è davvero illogico. Prima del lieto fine – c’è da dire poco approfondito –, la coppia vive un periodo di separazione. Nel capitolo 36 seguiamo Marco che torna al paese natio. “La verità era che del paese non ricordavo quasi nulla, solo la stanza d’albergo in cui mio padre e mia madre ridevano complici”. Poi racconta di un episodio che si conclude con il padre che ride: “Era l’unica volta in cui avevo visto mio padre ridere”. Ma nel capitolo successivo: “Mi mancava ridere con lui, le poche volte in cui era accaduto”. Un padre che ha riso più volte davanti a Marco, il quale dichiara di averlo visto ridere un’unica volta.
Proseguiamo con piccole sciatterie. Capitolo 1, ripetizione inutile: “Ho fatto un lungo respiro e, per la prima volta, le ho detto la verità, le ho detto quello che sentivo veramente”. Capitolo 18: “Quando ero piccolo, per colazione mio nonno faceva un piccolo buco in un uovo e poi lo beveva. Alla fine mi dava il guscio vuoto. Anna ha fatto lo stesso con me, mi ha svuotato ed è rimasto solo il guscio”. Il ricordo del nonno è improvviso e senza seguito; inoltre non rinforza la similitudine del guscio, che per quanto scontata avrebbe fatto il suo anche senza introduzioni. (Tranquilli, torneremo sulle similitudini).
Nel capitolo 20 Marco conosce Elias, un ragazzo che viaggia con la bici e dorme in tenda. “Scriveva su un taccuino. Ho immaginato fosse il suo diario di bordo”. “Il suo diario” sarebbe stato sufficiente. Tanto più che Elias non naviga. Se mi si volesse tacciare di pignoleria, potrei rispondere che mi aspetto altrettanta pignoleria da un libro Mondadori.
Il capitolo 24 si apre con una descrizione paesaggistica imbarazzante. Ricordiamo che a descrivere è un architetto:“un paesaggio così perfetto da sembrare un dipinto: sulla sinistra un lago blu intenso, sulla destra una montagna che passava dal verde chiaro al marrone scuro. Il cielo era attraversato da nuvole bianche e gialle. Siamo rimasti a bocca aperta, senza parole”. Senza parole.
Il capitolo 25 si apre con una nozione enciclopedica: “Petricore è un termine coniato da due ricercatori australiani e indica il profumo della pioggia sulla terra quando ha appena smesso di cadere”. Bisogna considerare che il capitolo precedente si era concluso con un acquazzone. Tuttavia questa informazione, riportata con un notevole cambio di registro, non ha un seguito. Infatti continua: “Mi sono svegliato e sono uscito subito dal camper, fare la pipì all’aperto è una delle cose che più regalano un grande senso di libertà. Passeggiavo vicino al lago, tutto era tranquillo e silenzioso, sentivo il sole tiepido sul viso, sulle braccia, l’aria tersa, vivificante”. Nessun accenno al petricore.
Altro pleonasmo al cap 32: “vedere nell’altro quello che si vuole vedere”. Fine del capitolo 34: “«Ho un lavoro da fare qui» ho risposto ingoiando le lacrime”. Peccato che Marco non stia piangendo, lo farà dopo. Il lettore dovrebbe intendere “trattenere le lacrime”? Ancora: “I bambini vivono a una velocità diversa dalla nostra, muoiono ogni volta che vanno a dormire, e ogni mattina rinascono”. Non vedo l’esclusività dei bambini in questo. Tanto che la metafora, largamente inflazionata, è possibile leggerla in molti altri testi con riferimento a personaggi adulti.
Concludo gli esempi con un passaggio simbolo della sciatteria, che introduce in parte il discorso sul personaggio di Marco. Nel capitolo 13 Marco ricorda: “lì abbiamo fatto l’amore per la prima volta. È stato intenso e coinvolgente”. La narrazione si sposta subito altrove, e difficilmente posso credere che un lettore rimanga coinvolto leggendo questo comunicato stampa.
*
Il lavoro di Marco. Sia chiaro: i personaggi non hanno spessore. I dialoghi non rivelano nulla. Le voci sono identiche tra loro. Qualcuno potrebbe obiettare che in un romanzo simile la bidimensionalità sia, addirittura, auspicabile. L’idea non mi convince. I personaggi di un romanzo risultano articolati e definiti se lo sono altrettanto le loro relazioni. Purtroppo queste ultime sono accennate. Non solo le relazioni con i personaggi secondari, ma la stessa relazione con Anna, che di conseguenza rimane impalpabile. E non parliamo del piccolo Matteo. Tale inconsistenza non risparmia Marco. All’inizio del romanzo leggiamo: “Quando Anna mi ha chiesto se la amavo ancora, ho capito che lo stava facendo in un modo diverso, voleva una risposta onesta. Non potevo risponderle come avevo sempre fatto. Sono rimasto in silenzio, dovevo decidere se essere sincero o dire una bugia che mi avrebbe permesso di rimandare ancora. Non ero sicuro di voler rendere ufficiale la nostra crisi. Se avessi dato una risposta vera, non avremmo più potuto far finta di niente”. Queste considerazioni rimarranno inalterate fino alla fine. Saranno ribadite con petulanza, con giri di parole che non hanno effetto diverso di un copia-incolla del paragrafo sopracitato. A causa di una evoluzione del personaggio inesistente, la decisione finale di rimanere insieme nasce senza cause decisive. Né da parte di Marco né, figuriamoci, di Anna. Giusto perché – ci risiamo – l’autore aveva deciso di chiudere il romanzo.
Ad avermi spiazzato è ciò che chiamo Il problema del lavoro di Marco. Sappiamo che è un architetto, che lavora in uno studio, si presume importante, certamente con professionisti di pari livello. Marco dichiara più volte di amare il lavoro e le sfide che comporta, di non poterne fare a meno, di dedicare tantissimo tempo della giornata ai progetti che gli vengono commissionati. Se tali dichiarazioni sono numerose, e mi pare inutile riportarle, purtroppo non abbiamo una sola scena nella quale Marco stia lavorando. Viene narrata una riunione nel capitolo 5, successivamente Marco incontra il capo in ufficio. Ma non sappiamo come Marco, nel concreto, trascorra le molte ore di lavoro giornaliero. Nel capitolo 6 Marco racconta di quando Anna, anche lei architetta, decise di non lavorare per stare con Matteo: “si era resa conto che rientrare a pieno regime non sarebbe stato così facile, […] lei non si sentiva di lasciarlo ad altri per dieci ore al giorno”. Volendo ipotizzare che anche Marco lavori dieci ore al giorno, mi tocca constatare che di queste non ne viene descritto un solo minuto. Tanto che è disorientante leggere al capitolo 7: “E quando era nato Matteo mi chiedeva di accompagnarla dal pediatra. Mi sembrava che spettasse a lei, al limite poteva domandarlo a sua madre. Mi stupiva che mi facesse quelle richieste, Anna conosceva bene il mio lavoro, sapeva quanto era difficile”. Anna lo sa. I lettori no.
Ultimo esempio. Nel capitolo 14 Marco descrive un hotel design nel quale aveva portato Anna. “Conoscevo lo studio che l’aveva realizzato e avevo il sospetto che avrei visto cose che mi avrebbero infastidito. Non mi sbagliavo, non era bastata la vasca in mezzo alla stanza, l’architetto aveva pensato fosse una bella idea non mettere la porta al bagno, nascondendo il water dietro un muretto. Ho dovuto usare sempre i servizi vicino alla sala colazioni”. Per quanto sia dubbioso, un insolito ottimismo mi spinge a credere che un architetto esperto capisca quale sia il problema. Sembra un tentativo di dare solidità alle conoscenze del personaggio. Tentativo fallito.
*
Similitudini. Ammetto che un discorso sulle aspettative potrebbe rendere poco efficace questa parte dell’analisi. Vorrei però ricordare che Fabio Volo non ha mai risparmiato lamentele per il fatto che non venga considerato nei premi letterari importanti. Mia modesta opinione è che una aspirazione del genere dovrebbe portare uno scrittore a evitare di scrivere come chiunque – sì, in alcuni casi mi arrendo all’idealismo. Prima di riportare alcune similitudini scontate, confesso di avere provato a contare quante volte appaia nel romanzo la parola come. Parola che non sempre introduce un paragone o una similitudine, questo è chiaro. Ma intanto in un volume di 216 pagine ho trovato la parola come più di 150 volte.
Per amore di precisione: ho smesso di contare non ricordo dove, ma sospetto possa superare le 200. Stavolta perdonate la mia, di pigrizia. Per rifarmi dichiaro di avere contato una parolina da tenere sempre d’occhio: tutto. 142 volte. E un’altra che mi ha sorpreso ritrovare così spesso, tanto da inserirla nei conteggi: momento. 45 volte.
Ora una lista delle similitudini più scontate:
“come se in quel buio stessi precipitando”
“sarebbe volata via come un palloncino a una festa di paese”
“mi sono ritrovato a vivere in una distanza densa, come una gelatina”
“come se per la prima volta ci trovassimo su due barche diverse e ognuno andasse al largo sulla propria”
“come se qualcosa dentro di me avesse preso la parola”
“Il cuore mi si è sciolto come burro”
“Le sue parole continuavano a girarmi in testa, come se avessero fatto scattare un cortocircuito”
“sembrava sereno come un lago”
“come se fossi un condannato a morte in attesa della sedia elettrica”
“ho sentito come se qualcuno mi stesse strappando il cuore dal petto”
“mi sentivo solo come un cane”
“Giravo come un animale in gabbia”
Mi ha colpito la seguente: “Come un uccello che vola e che non si cura dei muretti e delle staccionate”. Perché dovrebbe?
*
Triplette e anche di più.  A rendere la lettura pesante è uno stilema che, per esperienza personale, ho riscontrato spesso in chi è alle prime armi. Posto che rifuggo le ortodossie, le triplette di Fabio Volo sono innumerevoli e ridondanti, in alcuni casi a poca distanza l’una dall’altra. Eccone alcune:
“C’era stato più trasporto, più forza, più passione”
“Ho avuto la sensazione che tra me e lei fosse finito un modo di stare insieme, una bugia sospesa, la nostra storia”
“Era una creatura rara, preziosa, sospesa”
“Amo seguire qualcuno quando ha una visione chiara, innovativa, coraggiosa”
“Un uomo intelligente, pacato, maturo avrebbe ingoiato il boccone”
“Il lavoro è fatto di disciplina, di mestiere, di regole”
“Ero uno spirito libero, rispettoso degli altri, dei loro spazi, delle loro necessità”
“alla fine si era spento tutto, l’amore per lei, l’amore per altre cose, l’amore per me stesso”
“Era difficile accettarlo, mi sembrava stupido, ingiusto, sbagliato, addirittura scorretto.” (Qui addirittura quattro! NdA)
“non ci sarebbero più state cose eccitanti, nuove, avventurose”
“Ero preso dalle mie paure, dai miei dubbi, dai miei inspiegabili umori.”
“Per uscire da quella crisi servivano forza, energia, volontà”
“ma certo sembrava ringiovanito, più sorridente, più pieno di energia.”
“Tutto era delicato, silenzioso, rilassante”
“mi desse un’aria più matura, più profonda, più intelligente”
“quando viaggio mi sento acceso, vivo, pieno di energia”
“aggravavo la situazione con nuove proiezioni, supposizioni, scenari”
“La calma, l’ordine, l’assenza di confusione mi destabilizzavano”
“la mia mente aveva smesso di tormentarmi con mille supposizioni, congetture, proiezioni, paure” (di nuovo quattro! NdA)
“la mia vita era diventata sbrigativa, veloce, superficiale”
“Non avevo bisogno di più cose, più relazioni, più persone”
*
Conclusioni. Una caratteristica nominata spesso riguardo i romanzi di Fabio Volo, e letta anche per “Una gran voglia di vivere”, è la scorrevolezza. Dato che da questa piccola analisi sono emersi problemi su più piani e diffusi, e dato che ho letto romanzi scorrevolissimi scritti meglio; verrebbe da chiedersi se un romanzo scritto malissimo possa comunque risultare scorrevole. Se tutti i romanzi scritti male siano scorrevoli, oppure se ci sono romanzi scritti male scorrevoli e romanzi scritti male non scorrevoli, e a questo punto perché. Ho un sospetto sul perché “Una gran voglia di vivere” possa essere definito scorrevole, e nasce proprio dalle criticità viste finora. Un romanzo con personaggi abbozzati, con un narratore interno alla storia che presenta una situazione uguale a se stessa in ogni capitolo, dove le differenze tra ambienti anche distanti non sono notevoli, né il tempo della storia è ben definito, è un romanzo che si può leggere saltando continuamente le pagine. Il rischio di perdersi passaggi importanti è nullo. Forse è questo il grande segreto di un romanzo scorrevole. Al di là di come sia scritto.
Marco Parlato
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