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#ma perché è DEL TUTTO EVITABILE
lunamagicablu · 1 year
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La teoria dei bambini indaco, oggi adulti indaco, è una delle più popolari e dibattute. Secondo i suoi sostenitori, essi sarebbero gli adulti dell’imminente era dell’Acquario e parte attiva del progresso spirituale in atto, una “razza”, se così possiamo definirla, nuova e più evoluta. Ecco 7 segni che caratterizzano gli Adulti Indaco:
1. Hanno sempre bisogno di sapere il perché delle cose. Gli adulti indaco accettano raramente le cose senza chiedersene il perché. Hanno un forte bisogno di capire perché le cose accadono in un certo modo, si interrogano su tutto, cercando sempre di capire il significato nascosto dietro i vari avvenimenti. Gli indaco detestano disuguaglianza, sofferenza, odio e guerra.
2. Non amano l’autorità. Una delle cose che gli indaco spesso mettono in dubbio è proprio l’autorità. Questo perché non credono che l’accettazione di ciò che ci viene imposto dall’alto sia sempre corretta. Gli indaco possono aver avuto periodi difficili a scuola perché litigavano con gli altri per il modo di fare le cose.
Possono spesso essere visti come polemici e provocatori, tuttavia, non necessariamente vogliono causare problemi, semplicemente non possono tacere quando vedono l’ingiustizia e l’ineguaglianza. Per questo motivo, gli Indaco spesso diventano apatici nei confronti dei sistemi politici e sociali convenzionali.
3. Non possono sopportare di vedere la sofferenza. Gli adulti indaco trovano molto difficile sopportare la sofferenza degli altri, a causa della loro natura profondamente empatica. Per questo motivo, gli Indaco possono arrivare a evitare di guardare cosa succede nel mondo, non perché a loro non importi… al contrario… ma perché sono troppo empatici e sensibili.
Per un indaco, guardare persone innocenti soffrire per carestia, guerre o disastri naturali è traumatico e le sensazioni sono aggravate quando la causa del dolore sarebbe evitabile, come in caso di guerre, sfruttamento o di uso improprio di risorse da parte di grandi corporazioni.
4. Hanno una stretta affinità con gli animali. Se sono in grado di farlo, possono darsi da fare per salvare animali o sostenere associazioni di beneficenza. Gli Indaco amano passare il tempo in natura e si divertono a prendersi cura di giardini e piante d’appartamento. Amano anche guardare documentari sul comportamento degli animali e la bellezza del pianeta. Gli Indaco non credono che gli animali siano meno importanti degli umani in questo mondo, perché capiscono che tutto è connesso e che siamo tutti uguali e interdipendenti.
5. Hanno sentimenti di disperazione esistenziale. Molti adulti indaco hanno provato depressione, impotenza e disperazione nelle loro vite. Questi sentimenti potrebbero aver avuto inizio negli anni dell’adolescenza e sono spesso causati dal fatto che essi semplicemente non riescono a comprendere il perché gli uomini si facciano del male l’un l’altro.
Gli indaco spesso non riescono ad adattarsi ad una società che a volte sembra fredda e indifferente. Possono trovare difficoltà nelle relazioni e nel rapportarsi agli altri e temono che le persone pensino che sono “strani”. A loro non piace giudicare gli altri e non sono interessati ai pettegolezzi. Non sono interessati nemmeno alle cose materiali o alla cultura popolare.
6. Hanno avuto alcune esperienze spirituali insolite. Gli adulti indaco spesso sviluppano un interesse per i fenomeni psichici o spirituali sin dalla tenera età, con grande sorpresa della loro famiglia e dei loro amici. Non è raro che i bambini indaco condividano il desiderio di visitare edifici religiosi o di pregare, meditare, nonostante siano cresciuti in famiglie non religiose. Questo interesse continua a svilupparsi mentre raggiungono l’età adulta. Gli adulti indaco hanno una mentalità aperta riguardo alla spiritualità e alla religione.
7. Sentono un forte bisogno di trovare il loro scopo di vita. Gli adulti indaco spesso sentono il desiderio ardente di trovare e raggiungere il loro scopo di vita. Tuttavia, non è sempre facile per loro trovare questo scopo all’interno della società in cui viviamo. In una società che apprezza il duro lavoro, il successo finanziario e sociale, il potere politico e il consumismo, gli Indaco possono spesso sentirsi dei falliti. Questo può portare a profonda frustrazione.
Imparare ad ascoltare la propria intuizione potrebbe essere il primo passo che un adulto indaco deve intraprendere per raggiungere il proprio scopo di vita. La loro intuizione li condurrà quindi verso persone con valori simili che li sosterranno nel loro percorso.
Gli adulti indaco possono fare la differenza nel mondo, grazie ai loro doni speciali. Se pensi di essere un Indaco, allora vale la pena esplorare questa dimensione della tua spiritualità per permetterti di portare i tuoi doni unici di luce e amore nel mondo.
Rivisto da www.fisicaquantistica.it Fonte: https://emozionifeed.it/le-7-particolarita-degli-adulti... art by MelekatosheeOleak
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The theory of indigo children, now indigo adults, is one of the most popular and debated. According to its supporters, they would be the adults of the imminent age of Aquarius and an active part of the ongoing spiritual progress, a "race", if we can define it as such, new and more evolved. Here are 7 signs that characterize Indigo Adults:
1. They always need to know the why of things. Indigo adults rarely accept things without asking why. They have a strong need to understand why things happen in a certain way, they wonder about everything, always trying to understand the hidden meaning behind the various events. Indigos abhor inequality, suffering, hatred and war.
2. They dislike authority. One of the things that Indigos often question is authority. This is because they do not believe that accepting what is imposed on us from above is always correct. Indigos may have had a hard time at school because they fought with others about the way they did things.
They can often be seen as argumentative and provocative, however, they don't necessarily want to cause trouble, they just can't shut up when they see injustice and inequality. Because of this, Indigos often become apathetic towards conventional political and social systems.
3. They cannot bear to see suffering. Indigo adults find it very difficult to tolerate the suffering of others due to their deeply empathetic nature. Because of this, Indigos may come to avoid looking at what is happening in the world, not because they don't care… on the contrary… but because they are too empathetic and sensitive.
For an indigo, watching innocent people suffer from famine, war or natural disaster is traumatic and the feelings are aggravated when the cause of the pain is avoidable, such as war, exploitation or the misuse of resources by large corporations.
4. They have a close affinity with animals. If they are able to do this, they can get involved in saving animals or supporting charities. Indigos love spending time in nature and enjoy tending to gardens and houseplants. They also love watching documentaries about animal behavior and the beauty of the planet. Indigos do not believe that animals are less important than humans in this world, because they understand that everything is connected and that we are all equal and interdependent.
5. They have feelings of existential hopelessness. Many indigo adults have experienced depression, helplessness, and hopelessness in their lives. These feelings may have started in the teen years and are often caused by the fact that they simply cannot understand why men hurt each other.
Indigos often cannot adjust to a society that sometimes seems cold and indifferent. They may find it difficult to relate and relate to others and fear that people will think they are "strange". They don't like to judge others and are not interested in gossip. They are not even interested in material things or popular culture.
6. They have had some unusual spiritual experiences. Indigo adults often develop an interest in psychic or spiritual phenomena from an early age, much to the surprise of their family and friends. It is not uncommon for Indigo children to share a desire to visit religious buildings or to pray or meditate, despite being raised in non-religious families. This interest continues to develop as they reach adulthood. Indigo adults are open-minded about spirituality and religion.
7. They feel a strong need to find their life purpose. Indigo adults often feel a burning desire to find and achieve their life purpose. However, it is not always easy for them to find this purpose within the society in which we live. In a society that values hard work, financial and social success, political power and consumerism, Indigos can often feel like failures. This can lead to deep frustration.
Learning to listen to your intuition may be the first step an Indigo adult must take to achieve their purpose of life. Their intuition will then lead them to like-minded people who will support them on their journey.
Indigo adults can make a difference in the world through their special gifts. If you think you are an Indigo, then this dimension of your spirituality is worth exploring to enable you to bring your unique gifts of light and love into the world.
Reviewed by www.fisicaquantistica.it Source: https://emozionifeed.it/le-7-particolarita-degli-adulti... art by MelekatosheeOleak 
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pettirosso1959 · 1 year
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BAKHMUT È CADUTA!
Il buff-1 di Kiew (lo digito alla tedesca, così evitiamo polemiche) doveva scatenare l'offensiva finale, quella tosta della serie "glielafacciovedere IO ad Apputin!" a maggio.
Maggio è passato.
E il suonatore di piano con il pizello ha perso anche Bakhmut/Artyomvsk. Non ci sarà nemmeno una offensiva a Giugno, se è per questo. Perché non c'è più un esercito ucraino degno di questo nome, viene mantenuta in vita l'apparenza grazie a "iniezioni" di volontari.
Questa guerra non è nell'interesse dell'Europa (e come Europa intendo il Vecchio Continente, non quel consesso di puttane e criminali che siede a Strasburgo e Bruxelles).
Questa guerra non è nell'interesse degli Stati Uniti.
Questa guerra non è nemmeno nell'interesse della Russia o dell'Ucraina.
E dell'Italia, che doveva tirarsene fuori ed essere pedina mediatrice.
Sopratutto: questa, come quasi tutte le guerre, era evitabile, non sarebbe MAI dovuta iniziare, se l'Europa e la NATO avessero firmato gli accordi di Minsk non per prendere tempo (come ha ammesso alla BBC la Merkel) ed armare l'Ucraina, ma per finalmente dare la meritata dignità ai russofoni d'Ucraina.
Ma i cittadini d'Europa non contano nulla: le elites hanno le loro ragioni, sorde ai popoli che governano. I Britannici ricercano la vendetta contro i Russi, colpevoli di aver assassinato Nicola II, imparentato con la monarchia Windsor (o dovrei dire Sachsen-Gotha-Coburg?), e la UE vede un'ottima occasione per perseguire l'Agenda 2030 (basta leggere i giornali tedeschi e le deliranti dichiarazioni dei due Verdi che sono ai dicasteri chiave, Esteri ed Economia, del governo Federale.
I cittadini americani non contano nulla: La guerra è un tentativo di coprire le malefatte della presidenza Obama prima e quella di Biden poi. Specialmente quest'ultimo ha lucrato, tramite il figlio, pescando a mani basse da aziende statali ucraine, riempiendo le sue tasche e quelle del DNC, il "partito democratico" americano. Quale miglior tappeto dove nascondere la sporcizia degli affari di Biden che una guerra, nel patetico tentativo di far dimenticare, in nome del patriottismo, le porcate commesse da Vicepresidente prima e da Presidente poi? Solo che gli Americani, dopo tre anni di bugie e di diritti erosi, non sono convinto che si stringeranno attorno a PedoJoe. Hanno altre preoccupazioni.
I Russi e gli Ucraini ne avrebbero fatto volentieri a meno: sono due paesi dove le storie reciproche si incrociano e sovrappongono, come i vecchi torti (russi) ai nuovi (ucraini). La Russia, se riuscirà a spuntarla, potrebbe inaugurare un ordine mondiale diverso. L'Ucraina, invece, non ha nessuna speranza, tra povertà (era già uno dei paesi più poveri d'Europa), corruzione, le mire territoriali russe (Ucraina dell'est) e quelle polacche (Ucraina dell'ovest).
L'italia? È una mosca cocchiera. Perché esistono interessi privatissimi e nessuno pubblico. Gli italiani non vogliono avere niente a che fare con l'Ucraina e la guerra (tranne i soliti idioti, faziosi e ciechi, che non capiscono che non c'è nulla da difendere né nel sistema NATO né nel sistema UE e che sarebbe ora di allontanarsene prima che crolli tutto rimanendo sotto le macerie). I governi, invece, anche se frutto di elezioni (in italia NON si possono eleggere governi, si nominano, leggetevela la Costipazione ogni tanto...) rappresentano solo se stessi e interessi altri. Perché il sistema è talmente corrotto e manca così tanto una identità ed un popolo (Clemens von Metternich aveva ragione, purtroppo...) che chi è al potere non sa quanto durerà la cuccagna. Per cui fa scorta di favori a terzi per il giorno in cui la politica lo scalzerà dalle poltrone (v. Di Maio, che ha raccolto il premio per aver fatto eleggere dai suoi la von der Leyen).
L'italia, se proprio la si vuole unita, è per sua natura federale. Cattaneo l'aveva capito. I Savoia prima e i Comunisti poi, invece, no.
E non lo capiscono nemmeno gli italiani, un popolo che festeggia il 25 aprile una falsità storica e militare e che la parola LIBERTÀ non sa nemmeno compitarla.
Intanto Bakhmut/Artyomoovsk è caduta, perno sul fianco della ben più importante Kramatorsk. I Russi avanzano, piano ma inesorabilmente.
E noi (alluvione Emilia-Romagna docet, ma anche gli abbracci sgangherati al suonatore di piano con il pizello da parte della nostra presidenta del Consiglio) continuiamo ad essere governati da chi si fa i cazzi suoi, con effetti disastrosi.
Paolo Ortenzi.
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realnews20 · 20 days
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Roma, 22 mag. (Adnkronos) - Il colpo di scena arriva in serata, con un video sui social in cui Giorgia Meloni annuncia di aver messo in 'stand-by' il decreto ministeriale firmato da Maurizio Leo, e che, di fatto, resuscita il redditometro reso dormiente dal 2018. Il 'radar' del fisco per stanare furbi e furbetti fa ballare per 24 ore la maggioranza, e attiva il fuoco amico verso Fdi e la sua leader, che di redditometro non ha mai voluto sentir parlare. Un fuoco incrociato che parte nella mattinata di ieri e che, a distanza di un giorno, non accenna ad arrestarsi. E' così che il decreto pubblicato in Gazzetta ufficiale lunedì scorso genera un vero e proprio terremoto, con Lega e Fi che si intestano la battaglia per sbianchettare la norma, le opposizioni che attaccano e la premier, ma anche Fdi, che arrancano, con l'aggravante, o meglio la convinzione, che la norma si trasformi in un boomerang ad appena due settimane dal voto. Bisogna correre ai ripari. E così di buon mattina la premier, sempre sui social, assicura che mai "nessun grande fratello fiscale verrà introdotto da questo governo". E apre spiragli su imminenti modifiche. "Mi confronterò personalmente con il Vice Ministro Leo, al quale ho chiesto anche di venirne a riferire al prossimo Consiglio dei Ministri. E se saranno necessari cambiamenti sarò io la prima a chiederli", mette in chiaro. Il Cdm è in programma venerdì, all'odg anche il 'salva case' su cui Matteo Salvini punta le sue fiche, alla lista delle misure si aggiunge la 'resa dei conti' sul redditometro. Ma Meloni, consapevole del 'pasticcio', accelera: riceve Leo a Palazzo Chigi, di certo indispettita per un incidente di percorso evitabile. Insieme decidono di mettere in stand-by la misura. Se non addirittura in soffitta. Una virata che segna un deciso cambio di rotta, anche se, nel video sui social, Meloni non sconfessa la norma. "Abbiamo ereditato una situazione molto pericolosa - mette in chiaro - nella quale non c'è alcun limite al potere discrezionale dell'amministrazione finanziaria di contestare incongruenze tra il tenore di vita e il reddito dichiarato. Da qui la necessità di emanare un decreto ministeriale che prevedesse precise garanzie per i contribuenti. Quel decreto ha però prodotto diverse polemiche", dunque "meglio sospendere" il provvedimento "in attesa di ulteriori approfondimenti, perché il nostro obiettivo è e rimane quello di contrastare la grande evasione e il fenomeno inaccettabile, ad esempio, di chi si finge nullatenente ma gira con il suv o va in vacanza con lo yacht senza però per questo vessare con norme invasive le persone comuni''. Ed è questa la rotta. Un 'restyling' "ci sarà e sarà radicale", riferiscono beninformati all'Adnkronos. Il che si traduce, in soldoni, nella volontà di smantellare la norma, limandola fino all'osso. E 'sforbiciando' in maniera netta gli indicatori che faranno scattare l'allarme. Via dal 'radar' del fisco -stando ai rumors che circolano in queste ore- le spese per abbigliamento e calzature, men che meno saranno passate sotto la lente di ingrandimento quelle sostenute per medicinali e visite, bollette e spese del mutuo o del telefono. Il campo dovrebbe essere circoscritto in "maniera sostanziale", lasciando in piedi solo quelle variabili che consentano all''accertamento sintetico' -così la norma nel gergo tecnico- di stanare chi dichiara redditi 'da fame' ma di fatto vive nel lusso: leggi suv, barche o seconde case in località di grido. E fatta salva, ça va sans dire, la facoltà per i contribuenti di difendersi e di dimostrare che il finanziamento delle spese è avvenuto con redditi diversi da quelli posseduti nel periodo d’imposta. O che le spese attribuite hanno un diverso ammontare o sono state finanziate con un reddito messo su nel corso di anni precedenti. Per cambiare la norma in corsa tecnicamente "viene differita l’attività applicativa" del decreto ministeriale firmato da Leo, "nelle more di un successivo provvedimento normativo di revisione dell’istituto", spiegano fonti di governo in serata.
E dovrebbe essere questa la direzione che il governo, nella persona di Leo, imboccherà per avviare la 'revisione' della norma, che, per ora, dovrebbe comunque restare in 'ghiacciaia'. Guadagnando tempo anche per rassicurare gli elettori -l'ordine di scuderia di via della Scrofa- sulle reali intenzioni del governo "per un fisco amico", slogan sbandierato per mesi e mesi salvo finire nella morsa del redditometro. [ad_2] Source link
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valdis-d · 6 months
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Shantaram
20 Dicembre 2023
Come scrivo meno ora che sono più sereno. Non è solo questo, è anche il fatto che praticamente vivo insieme a V., e quindi non ho il tempo di stare da solo per una mezz'ora, e scrivere qui. Mi preoccupa questa relazione. Mi piace tanto V., però ho paura di subire un cataclisma se mi dovesse lasciare. Ho fatto un sogno l'altro giorno, proprio in cui mi lasciava, ed era tremendo il modo in cui riuscivo solo a dire o no di nuovo. Temo per il mio equilibrio mentale, ciò che un rifiuto così può portare.
Le serate come questa, in cui sono da solo, mi guardo attorno e mi sento alla mercé di qualcosa altro, come se fossi da solo ad affrontare la mia mente. Quando non sono da solo, e di recente capita di rado, i problemi del mio cervello sono smorzati, attutiti, soffocati dal momento, dalla necessità immediata di avere la mente concentrata non su sé stessa. Ma quando sono da solo, la mente vaga e come un viaggio in Lovecraft raggiunge pensieri burrascosi, l'umore si ottenebra e lo spirito so chiude, come se si arricciasse.
In una serata come questo mercoledì, mi trovo a leggere Shantaram. Da storia di avventura di Lin a Bombay, negli ultimi capitoli si è trasformato in un tragico racconto di morte, della perdita di Prabaker e Abdullah, poi la perdita di Karla, e quella di Khader Khan e Khaled.
Questi nomi non dicono nulla, ma questo ultimo in particolare mi ha colpito, perché è il caso di un amico sincero, qualcuno per cui e su cui puoi contare che semplicemente sparisce, camminando nelle fredde montagne afghane perché impazzito dal dolore. Mi ha colpito perché è una morte di follia, una morte a prima vista evitabile, stupida, ma dove allo stesso tempo sei così impotente ed è così frustrante. Sulle montagne innevate dell'Afghanistan esattamente come le montagne della follia di Lovecraft. Un racconto tragico di ricerca di se stessi e di relazione con le perdite. Non so se l'autore avesse previsto tutto ciò, ma io mi ritrovo molto in questo libro. La mia esistenza e quella di Lin sono diversissime, ma in questi ultimi capitoli mi sento molto vicino al Lin in Afghanistan.
Non riesco ancora a parlare a V. di tutto questo, go troppa paura che mi lasci, che gli faccia schifo, o paura, o rassegnazione, o noia, o che desideri cercare qualcuno di più "normale".
Cercherò di scrivere ancora per Capodanno, ma rileggendo questo blog vedo come sono cambiato tanto in questi anni e sono contento di aver cominciato a scrivere.
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giancarlonicoli · 6 months
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15 dic 2023 11:11
“L’UCRAINA NELL’UE? CREEREMO UN BUCO NERO DI DIMENSIONI EPOCALI. LA RICOSTRUZIONE È STIMATA DALLA BANCA MONDIALE 500 MILIARDI DI DOLLARI” - LUCIO CARACCIOLO: “IN UCRAINA VINCE PUTIN? DI SICURO PERDE ZELENSKY E PIÙ DI LUI L'UCRAINA, CHE NON RECUPERERÀ I TERRITORI E SARÀ UNO STATO FALLITO - GLI UCRAINI SONO STATI USATI DAGLI AMERICANI PER DISSANGUARE I RUSSI E HANNO SBAGLIATO A RINUNCIARE ALLA MEDIAZIONE TURCA - MA ALL'ORIGINE DI TUTTO C'È LA CRISI AMERICANA - IL QATAR? È UN'AGENZIA DI SERVIZI. UNA VOLTA SI CHIAMAVA COSTA DEI PIRATI - L'UE E NATO HANNO PERSO SENSO. L'EUROPEISMO? UN'ILLUSIONE CHE HA ESASPERATO I NAZIONALISMI. PATTO DI STABILITÀ? UN LIMITE PER L'ITALIA"
Estratto dell’articolo di Francesco Rigatelli per "la Stampa"
«Il via libera del Consiglio europeo ai negoziati per l'ingresso dell'Ucraina nell'Ue aiuta a guardare oltre, ma da qui a immaginare un vero ruolo dell'Europa ce ne corre. Certo se questo non ci sarà creeremo un buco nero di dimensioni epocali». Lucio Caracciolo, 70 anni a febbraio, 30 anni della rivista di geopolitica Limes da lui fondata, in tutto questo tempo ha capito «che tra la realtà e il modo in cui la percepiamo c'è un abisso che cerchiamo faticosamente di colmare».
In Ucraina vince Putin, come insinua l'Economist?
«Di sicuro perde Zelensky e più di lui l'Ucraina, che non recupererà i territori e sarà uno stato fallito. Ha perso un terzo degli abitanti, molti dei quali rifugiati che non torneranno.
È dipendente da Usa e Ue, e questo avrà dei costi politici ed economici soprattutto per l'Europa visto il disimpegno americano. La ricostruzione è stimata dalla Banca mondiale 500 miliardi di dollari».
A livello globale come cambiano gli equilibri?
«La situazione volge a favore della Cina, perché la Russia recupera territori tra cui la Crimea, ma il Paese del Dragone diventa più influente sull'ex impero sovietico. Questa guerra era evitabile dagli Usa, che a partire dai primi anni 2000 hanno finanziato forze antirusse in Ucraina. I neocon, ben rappresentati al Dipartimento di stato da Blinken, hanno scommesso sull'Ucraina nella Nato e sulla caduta di Putin».
Hanno fallito tutti?
«Gli ucraini sono stati usati dagli americani per dissanguare i russi e hanno sbagliato a rinunciare alla mediazione turca su pressione degli angloamericani. […] All'origine di tutto c'è la crisi americana, che ha portato a una sconfitta strategica provando sulla pelle degli ucraini l'inconsistenza della propria capacità di deterrenza. Putin ha attaccato un protettorato Usa e ora tutti nel mondo sanno di poter fare altrettanto».
Passando al teatro israeliano, la soluzione due popoli-due stati è un'utopia?
«Una specie di Palestina informale è stata Gaza, ma Israele l'ha evacuata pensando di impiantarvi l'Autorità palestinese mentre Hamas si è opposta. Non dimentichiamo l'ambiguità israeliana per cui Hamas è stata foraggiata indirettamente per usarla contro l'Autorità palestinese.
L'atto inaudito di terrorismo di massa del 7 ottobre ha inferto a Israele una ferita incancellabile. Netanyahu ora vuole fare tabula rasa a Gaza, allagare i tunnel e gestire la Striscia al posto di Hamas, così come intende avanzare in Cisgiordania. Una reazione eccessiva? Israele poi si sentirà più sicuro e che conseguenze questo porterà sulla diaspora? Domande da porsi, anche se Israele è uno stato, mentre i palestinesi non sono nemmeno una nazione bensì una questione umanitaria».
In questi teatri di guerra ci sono interessi secondari, per esempio la vendita di armi?
«Gli accordi di Abramo hanno una componente militare importante. Quando i sauditi hanno compreso che gli Stati Uniti li proteggevano di meno dall'Iran hanno ordinato i sistemi di difesa israeliani. Far discendere tutto dalle armi però sarebbe troppo, anche perché queste guerre hanno mostrato una crisi incredibile dell'industria americana. Il primo motivo dell'intervento Usa in Ucraina è semplicemente strategico, cioè colpire la Russia, renderla una potenza secondaria e staccarla dalla Cina. Un obiettivo fallito».
Che ruolo ha il Qatar nello scacchiere globale?
«È un'agenzia di servizi. Una volta si chiamava Costa dei pirati. Si tratta di un piccolo Paese ricco di gas, di cui impiega i proventi per proteggersi e influenzare diversi teatri. Negli anni è diventato un luogo di incontro tra americani, europei, israeliani, iraniani e sauditi. C'è una grande base americana e i turchi forniscono la guardia pretoriana al palazzo dell'emiro Al-Thani. Certamente la crisi israeliana non era nelle intenzioni del Qatar, che ha pagato una tangente mensile ad Hamas per sostenerla e dimostrare agli israeliani la propria affidabilità».
In tutto questo l'Italia ha riacquisito centralità dopo la caduta del muro di Berlino?
«Oggettivamente sì. Si trova in una zona calda tra Balcani, Medioriente e Nordafrica, ha il secondo schieramento militare americano in Europa, non a caso dopo la Germania, ed è considerata una portaerei sul Mediterraneo».
In Italia si avverte più propaganda americana o russa?
«Più che propaganda abbiamo un maggiore vincolo culturale e strategico con l'America e questo si sente. La propaganda russa qui non ha grande effetto ed è più spesso rivolta al proprio interno. La spedizione sui vaccini fu però curiosa e l'idea che un Paese Nato come l'Italia abbia permesso a militari russi di scorrazzare liberamente meriterebbe un'indagine adeguata».
Trump vincerà le elezioni Usa dell'anno prossimo?
«Contro Biden sì, ma tutti gli scenari sono aperti».
Sarebbe un disastro?
«Sarebbe la conferma della crisi americana. Trump con modi eccessivi ha solo ripetuto quello che si sapeva già dalla fine della guerra in Iraq ovvero che c'è una tendenza al disimpegno. Questo ha attivato alcune medie potenze come Turchia, Polonia, India e Giappone».
La Cina supererà gli Stati Uniti?
«Dipende dai parametri. Come Pil sì, come guida del mondo libero meno. La Cina ha sempre vissuto nell'idea di essere il mondo più che di conquistarlo».
Esiste ancora una superiorità morale americana?
«Sì, anche se sempre di meno, ma la Cina non ambisce e comunque non ha le qualità per sostituire la leadership americana».
[…] Per l'Ue ha ragione Macron ha puntare su Draghi?
«Draghi o no il problema è la sostanza dell'Ue, che non evolve verso una qualche forma di statualità e soggettività geopolitica, ma ognuno gioca per sé e scarica i problemi sugli altri. Ue e Nato sono strutture burocratizzate difficili da cambiare, hanno perso senso e sono più sterili.
All'atto pratico alcuni Paesi europei si metteranno d'accordo rispetto ad altri: Italia, Francia, Spagna e Germania hanno interessi comuni, mentre altri dell'Est o del Nord meno. L'europeismo è stato un'illusione che ha esasperato i nazionalismi più che mettere assieme gli europei».
Ha ragione Mario Monti ad elogiare la politica estera del governo Meloni e a suggerire il veto sul Patto di stabilità?
«È simile a quella dei governi precedenti, molto tattica più che strategica e non pienamente consapevole dell'evoluzione di cui abbiamo parlato.
La stagione dei vincoli esterni è finita e questo significa assumersi maggiori responsabilità nell'alleanza atlantica. Il rapporto con l'America non può essere solo passivo, ma deve essere anche attivo. Il Patto di stabilità è un limite per l'Italia e questo sistema, di cui siamo parte e non spettatori, non è nel nostro interesse».
La premier Meloni sosterrà la nuova Commissione Ue?
«Penso vorrà far parte della maggioranza, che temo però non cambierà i destini né dell'Ue né del mondo».
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bergamorisvegliata · 8 months
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EMISFERO DESTRO CHIAMA
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Questa è carina.
Tanto so già che questo post scatenerà millemila reazioni, sulla base del percepito personale. E va bene, tanto sono abituata da tempo.
Ma la vogliamo dire una cosa? Che esistono traditori, fetenti, meschini, irresponsabili, egoisti, menefreghisti, imbecilli… molti dei quali sono convinti di essere su un percorso spirituale, è innegabile.
Allora se l'idiozia arriva da un inconsapevole, passi. Ma se arriva da chi pensa di essere a chissà quale livello di levatura morale e spirituale, allora no.
E fermiamo subito, vi prego, le fregnacce spiritualiste sulla personalità che soffre e si identifica e sull'anima che dispensa lezioni da imparare. Basta. Fatela finita. Il dolore è dolore, e a volte sarebbe tranquillamente evitabile, con un po' di sensibilità, maturità e coraggio. E invece accade che egoismo, opportunismo, pavidità, insensibilità e immaturità facciano dei danni immani.
Lo vogliamo vedere? Chi subisce colpi del genere, e ne ho visti parecchi anche in seduta e nei corsi di #teatrotrasformativo, ha bisogno di comprensione, e di qualcuno che gli dica: sì, hai ragione, hai subito un'ingiustizia, ti è successa una cosa inspiegabile, capisco come ti senti, è terribile.
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Basta con le cazzate spiritualiste del "è tutto perfetto", "c'è una lezione da imparare" e via discorrendo. Ma chi l'ha detto che è così? È una teoria, è un'ipotesi, è una filosofia di vita, è un credo, al pari di tanti altri. La mente e l'inconscio possono apparecchiarci la tavola esattamente come noi pensiamo che debba essere apparecchiata. Ad alcuni fa comodo, perché questo costrutto conferma la loro idea. Ad altri fa meno comodo, perché li manda in pezzi senza dare ragioni e spiegazioni. E, perdonate, ma senza ragioni e spiegazioni non si va avanti.
Per superare momenti drammatici, devastanti e per giunta incomprensibili, non basta la "fede". Non abbiatemene, ma di fronte a certi comportamenti umani ed episodi traumatici, la fede serve a poco. Serve ridare senso all'accaduto, alla vita, al presente e al futuro. E a volte il primo passo è ammettere: sì, quel tizio è un coglione. Si è comportato da delinquente. Sì, mi ha devastato e ciò che ha fatto è inqualificabile. Non serve pensare che "tutto può cambiare", "l'altro è un mondo imprevedibile", "non abbiamo controllo sugli eventi" eccetera.
Un momento: la vita è fatta di scelte e decisioni, e quelle decisioni, se uno è consapevole, radicato, stabile, maturo e sveglio, le fa con tutta l'attenzione e l'accortezza del mondo. Si dà tempo, tiene conto di tutti i fattori, dà il giusto peso alle cose, dà valore a ciò che merita valore, decide con accortezza e discernimento cosa scartare e cosa tenere. Non può mai trattarsi di "switch" improvvisi e repentini, ignorando tutto ciò che questo comporta. Per questo è da irresponsabili. Se un padre si alzasse una mattina e decidesse di abbandonare i suoi figli sarebbe un pazzo incosciente e sì, potremmo dargli del coglione, indipententemente da ciò che in maniera teorica e presunta le anime avrebbero deciso per la loro evoluzione.
Perciò, la prossima volta che ascoltiamo di un caso umano che ha generato dolore nella vita di qualcuno, mostriamo comprensione umana e lasciamo stare le cazzate new age sui piani animici e il volere divino di sta fava. Accogliamo il dolore di chi si vede la vita distrutta per un genitore crudele, un partner egoista e opportunista, un amico traditore, un collega o un socio bugiardo e scellerato.
Telegram (https://t.me/Transformational_Experience) Elisa Renaldin
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Emisfero destro chiama 🌌 Intuizioni, suggestioni ed eventi creativi per uscire dai recinti percettivi ed esplorare la vita con occhi nuovi
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deathshallbenomore · 2 years
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filorunsultra · 2 years
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Francesco
Ho intervistato per la prima volta Francesco l’estate scorsa, per una rivista specializzata. Avevo scritto le domande con le ginocchia in bocca, raggomitolato tra un frigo da campeggio e il sedile posteriore della macchina della mia ragazza, di ritorno da qualche giorno in Gran Sasso con amici. Era un’intervista a fini commerciali; ma non essendo venditori di scarpe credo che nessuno dei due si fosse sentito a suo agio. Così gli ho chiesto se avesse voglia di fare un’altra intervista per un blog segreto che leggono sì e no in dieci persone. Ha accettato, ed è uscito questo. Buona lettura.
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Prima di questa volevo pubblicare un’intervista ai Coconino Cowboys, ma non ho ancora avuto voglia di trascriverla. Volevo intervistarti perché mi sono chiesto: ‘Ma perché al Puppi nessuno fa mai delle domande interessanti?’. In realtà ti ho già intervistato una volta, per un magazine, ma lo spazio era quel che era. Ecco la prima domanda: ti annoi a fare le interviste?
Non mi annoio, ma preferisco fare interviste che non parlino troppo di me, ci sono cose ben più interessanti. Perciò torniamo ai Coconino Cowboys, o al limite salutameli…
L’ultima volta ti ho buttato lì un «facciamo un po’ di cazzo di cultura». Cosa significa per te fare cultura della corsa e dello sport?
Rispondere alle domande di questa intervista ;) Significa far conoscere a chi ha voglia e tempo di ascoltare – idealmente il pubblico più vasto possibile – cosa significa produrre qualità dal punto di vista sportivo. Che non necessariamente vuol dire performance, ma può toccare altre sfere culturali come storia, comunicazione, approccio, fisiologia. C’è gente che ha progetti fighi e ha tanto da comunicare ma corre oggettivamente molto piano. Ci sono atleti incredibili ma che dal punto di vista culturale non dicono nulla. In relazione a quello che facciamo qui, credo possa voler dire far uscire il trail runner quadratico medio dal provincialismo, dalla mediocrità atletica e culturale attraverso un messaggio e un allargamento degli orizzonti oltre confine, oltre l’approccio amatoriale (nella connotazione negativa del termine).
Una volta intervistai un’atleta, e le chiesi chi fosse il suo riferimento sportivo, lei mi rispose col nome di una sua amica. Fin qua tutto bene, se non che questa amica era stata sospesa due anni per EPO. Non per mettere in dubbio la loro amicizia, ma ho trovato abbastanza triste la risposta. Ritieni che quello del doping sia un problema culturale realmente affrontabile?
Penso che stiamo tentando di mettere sullo stesso piano due cose, il riferimento sportivo e l’amicizia, che sono diverse ed è bene che mantengano una certa distanza. Culturalmente ritengo inaccettabile che il riferimento sportivo di un atleta sia una persona sospesa per doping. L’amicizia, invece, non riguarda solo l’ambito sportivo. Anche un dopato ha diritto ad avere degli amici – sebbene la sua credibilità possa essere parecchio deteriorata dal suo status, dal mio punto di vista. Per fortuna in tanti casi i riferimenti sportivi delle persone non sono nello stesso tempo loro amici, quindi il problema è in un certo senso evitabile. Bisognerebbe solo insegnare a queste persone a scegliersi dei riferimenti puliti.
Come atleta professionista in che modo ritieni di dover essere tutelato da questo punto di vista?
Facendo sì che ci siano controlli veri per gli atleti professionisti in and out of competition. Con controlli veri intendo l’antidoping WADA, non un “health program” come il Quartz, che genera solo ambiguità e confusione. Mi è capitato diverse volte di essere controllato in gara (anche sette volte in un anno), ma molto meno spesso lontano dalla competizione. Mi piacerebbe che esistesse un organo ufficiale o delle persone addette a seguire il nostro sport dall’interno, conoscendone le dinamiche e gli interpreti, così che i controlli potessero essere più mirati e non solamente a spot. Il fenomeno del doping va investigato, studiato, seguito. Penso poi che il problema andrebbe affrontato dal basso, soprattutto dal punto di vista culturale e mediatico. Non tutti gli atleti hanno la fortuna di crescere in un ambiente sano e non tutti hanno chiari i valori di uno sport pulito purtroppo. Anche la narrazione riguardo al tema doping dovrebbe cambiare; allo stato attuale siamo spesso portati a dubitare del sistema antidoping: da un freno allo sviluppo dello sport a un garante di equità e lealtà che aiuta il suo sviluppo ad alto livello.
Si tende a stigmatizzare gli atleti che hanno un passato di doping. Pur rendendomene conto, in parte lo faccio anche io: a Translagorai non facciamo partire atleti con precedenti, anche se non stanno scontando squalifiche. Ma noi non siamo una gara, è solo una questione di principio. C’è anche da dire che se ti dopi per vincere un adesivo è più un problema tuo che mio. Come la vedi?
Penso che tu stia barando, a prescindere dal fatto che ti trovi su una linea di partenza per vincere un adesivo o un assegno da un milione di dollari. Sono proprio i presupposti e l’approccio di base a dover cambiare.
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La corsa in montagna probabilmente è lo sport meno cool al mondo. Perché ti piace?
Intendi corsa in montagna pura o in generale il trail? Scelgo di interpretare la domanda in senso stretto. Secondo me la corsa in montagna non è cool perché non viene comunicata in modo cool. Anzi, tante volte non viene comunicata proprio. Ma la ragione per cui corro in montagna non è per essere cool, che è una cosa che riguarda l’apparire. Riguarda la performance, che ha a che fare con l’essere, e probabilmente questa è una cosa talmente poco cool e apparentemente irraggiungibile per la maggior parte delle persone che servirebbe un cambiamento culturale non da poco per invertire questa tendenza. Esistono delle equazioni i cui membri andrebbero riscritti una volta per tutte. Penso che tutti sappiano a cosa mi riferisco. La dispercezione creata dall’era social attorno a tante tematiche, l’incredibile ritardo di sviluppo che ha avuto la corsa in montagna a livello di comunicazione, investimenti e sponsorizzazioni, la volontà di cercare scorciatoie e vie alternative per chi corre piano, la miopia e l’incompetenza di diverse persone che hanno avuto enorme influenza su questo sport negli anni hanno generato la situazione attuale. Devo dire che la corsa in montagna ha fatto parecchio per rendersi estremamente poco attraente e quasi detestabile agli occhi dei più. A me non piace solo la corsa in montagna, mi piace un approccio alla corsa a 360° che abbia come focus la qualità della performance che sono in grado di produrre. Mi interessa confrontarmi agonisticamente con l’élite della corsa di lunga distanza e lavoro per presentarmi alle gare nella miglior forma fisica possibile.
Libro, film e sito/blog sulla corsa preferiti?
Scelgo tre film. Mi è piaciuto molto Transcend, la storia di Wesley Korir, vincitore di una Boston Marathon e successivamente parlamentare Kenyano che ha lottato per migliorare le condizioni di vita delle persone nel suo paese. Takayna, film di Patagonia sull’impegno di una attivista ambientale per salvare le foreste pluviali della Tasmania, anche attraverso la corsa. I am Bolt invece è un film molto ignorante ma mi ha pompato su parecchio. Sito/blog: irunfar my all time reference, molto ben fatti i coverage, gli articoli di approfondimento e la weekly review che leggo sempre. Mi piacciono i blog di Jon Albon e – nel mio piccolo – anche il mio, anche se non lo aggiorno da un po’. Come libro scelgo Due Ore, di Ed Caesar: un excursus sulla barriera delle 2h in maratona – quando ancora Kipchoge non l’aveva abbattuta (pur nelle circostanze particolari che tutti credo conosciamo).
Qualche tempo fa hai scritto un post in cui parlavi dell’eloquenza di certi titoli di giornale, e dell’abuso di espressioni come ‘eccezionale’, ‘da record’ e così via. Che tipo di contenuti vorresti vedere sulle riviste di settore?
Dei contenuti che si concentrano su ciò che succede nel nostro sport, che raccontino davvero le gare, gli atleti, gli eventi e quanto c’è di bello da vivere sul trail. Non articoli preconfezionati, scontati, privi di qualsiasi profondità tecnica e culturale, frutto di una informazione mordi e fuggi, clickbait e fondati sul modello Gazzetta Online. Che mi fa schifo, per dirlo in italiano.
Ti piacciono le schifezze? Quei tipici cibi da corridori, tipo Snickers, caramelle gommose, Coca Cola o Dr. Pepper?
No, ma mi piacciono molto il cioccolato e le Clif Bar.
Sapevi che gli Snickers in alcuni paesi venivano venduti come Marathon Bar?
Certo!
Ad alti livelli sono frequenti i problemi di alimentazione negli atleti?
Direi di sì.
In percentuale sono più uomini o donne?
Riguardano più le atlete, basta leggere qualche studio. Ma credo che sia un problema presente anche negli uomini, solo che spesso lo nascondono più facilmente.
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Come funzionano i contratti di sponsorizzazione degli atleti? Corrispondono ai risultati che uno ottiene?
Funzionano in maniera spesso strana. C’è molta confusione attorno a questo argomento, che si sovrappone ai contratti degli ambassador (chi indossa il materiale tecnico di un brand ma non riceve un compenso economico) e agli influencer. Come atleta, mi sento parecchio disorientato di fronte a questo argomento. Come faccio a stabilire il mio valore nella negoziazione di un contratto di sponsorizzazione con una azienda? Quali sono i parametri? Ovviamente queste informazioni sono un po’ un tabù, ad alto livello se ne parla ma nessuno si sbilancia mai sulle cifre e i contratti sono sempre complicati. È importante che atleti di alto livello non si ‘svendano’ e si leghino a un brand per meno del loro valore, perché questo abbassa la qualità dei contratti per tutti. Potrebbe esserci un terreno fertile per agenti e manager, ma il nostro sport è davvero pronto ad accoglierli come succede in altri sport? L’altro problema che vedo è che non sempre le gare di maggior livello coincidono con quelle con più visibilità. Un atleta che fa decimo alla CCC e prende un’ora dal vincitore per me non ha fatto un risultato di livello. Ma la sua visibilità, rispetto a tante altre gare, è altissima, e alle aziende interessa spesso quello. Gli athletes manager nelle aziende spesso non sono così esperti da valutare la qualità tecnica di una performance e valutare le sponsorizzazioni in maniera oggettiva sulla base dei risultati. Che poi, forse, non è nemmeno l’approccio più corretto. Un atleta va valutato nella sua interezza, a partire dai risultati sportivi ma anche dai valori che porta al suo sport, a come interpreta la sua attività, alla sua personalità. Pochi giorni fa ascoltavo un episodio di Trail Society, il podcast di Corinne Malcom, Keely Henninger e Hillary Allen, che parlava proprio di questo argomento in maniera molto interessante.
Trovi giusto che un atleta di livello come Dylan Bowman sia pagato di più dalle aziende per la visibilità che ha attraverso il podcast? Mi spiego, che un’azienda sia più disposta a pagare un atleta che ha visibilità, oltre che per i suoi risultati sportivi, è necessariamente un aspetto negativo?
Trovo giusto che Dylan sia pagato anche per la sua visibilità, il podcast, Freetrail e gli altri progetti che sta portando avanti oltre che per i suoi risultati. Non so se sia effettivamente pagato di più per una cosa o per l’altra; il punto di equilibrio non lo conosco e non sta a me deciderlo. Penso che Dylan sia un pioniere in questo senso, che sia tra i primi ad aver non solo intuito ma anche interpretato il fatto che per un’azienda si può essere ambassador e produrre valore non solamente in relazione alla performance sportiva. Lui ha trovato il suo modo di essere utile a un brand e ai suoi followers attraverso la cultura sportiva (trail culture, come la definisce lui), che è un bel modo per creare consapevolezza nelle persone e raggiungere un pubblico più ampio.
Per una serie di ragioni – se a qualcuno interessano, cosa che dubito, le trova su questo blog –, per una serie di ragioni ultimamente ho ripreso ad allenarmi da solo, almeno momentaneamente. Hai un bel libro da consigliarmi sull’allenamento?
A 14 anni mia mamma mi aveva regalato L’allenamento del maratoneta di medio e alto livello di Arcelli e Canova, che rimane uno dei migliori libri che abbia letto sull’allenamento. Mi piacciono anche Lore of Running di Tim Noakes e Training for the uphill athlete di Kilian Jornet, Scott Johnston e Steve House. Sono tutti manuali tecnici per la corsa.
Ah, volevo farti quest’ultima domanda. Di solito si polarizzano competitività e attitudine alla ‘pane e salame’. La prima non mi appartiene, la seconda ha rotto i coglioni, non serve a nessuno e invece di sdrammatizzare fa anticultura e basta. La stessa cosa vale per l’alcol: in Italia una birra analcolica è il male, e un brand come Athletic Brewing (un birrificio che produce birre artigianali analcoliche) non potrebbe esistere. Anche questo è un problema culturale. Penso che ci sia tanto condizionamento sociale, che impedisce alle persone di fare semplicemente quello che si sentono. Non sono astemio, bevo quasi solo birra, ma l’alcol in sé non mi piace. Nel tuo caso credo sia diverso perché sei un atleta professionista, che rapporto hai con l’alcol?
Hai detto bene, l’attitudine ‘pane e salame’ ha rotto i coglioni ed è ormai ora di crescere. La competitività e la serietà di un pro invece sono spesso stigmatizzate dagli altri fellow athletes. Sono problemi culturali, anche questa sarebbe una bella riflessione da sviluppare. Penso che il mio rapporto con l’alcool sia simile al tuo, bere in fondo non mi piace ma lo faccio soprattutto per condivisione. Ciò che mangiamo e beviamo ha una componente culturale e relazionale che non andrebbe mai dimenticata… Athletic Brewing è super figo, e poi sponsorizzano Molly Seidel, come potrebbero non esserlo?
Trovi stupido dare come premio per una gara un adesivo olografico?
Dipende da cosa ci disegni sopra no? Io ti direi vai sereno.
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(P.S. mi sono accordo che alle ultime tue due domande ho risposto con altrettante domande, pazzesco…) F.
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lamiaprigione · 3 years
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Già adesso, a un paio di settimane dalla “fiesta” – in un disincanto che si affinerà ulteriormente nel tempo- molti tratti dell’Italia a EURO 2020 si ridisegnano e ricompongono. “Il Mancio” ha svolto un grande lavoro di (ri)fondazione, ma la sua meravigliosa Nazionale non è stata, come da troppe rappresentazioni iperboliche, l’Olanda di Michels-Cruijff o la Spagna-Barça. Certo, ha avuto il merito di surclassare quasi ogni squadra quanto a condizione atletica (in un torneo in cui si arriva, com’è noto, sulle ginocchia) e a focus di principi di gioco (possesso-fraseggio, movimenti collettivi); ma soprattutto ha unito a quei vantaggi una lucidità e una resistenza psico-agonistica decisive nel capitalizzare un quadro caratterizzato da involuzioni strutturali (l’Olanda) o contingenti (il Belgio e l’Inghilterra), o da veri e propri harakiri (la Francia o la Germania, che pure ha forse giocato, nel match col Portogallo, il miglior calcio del torneo, insieme a lunghi momenti della Spagna). Quanto al contesto, qualche sketch sarebbe stato evitabile, come l’eterno ritorno della compiaciuta esibizione dei propri stereotipi (Bonucci in stile Sordi); e in generale, la (sacrosanta) sbornia carnevalesca è servita ancora una volta da surrogato socio-assistenziale, con l’Italia manciniana ammirata quasi solo per il risultato, quando invece – come ha notato Roger Abravanel – diversi suoi caratteri distintivi (“ambizione, innovazione, meritocrazia”) potrebbero ispirare molta imprenditoria familistica e arretrata.
Ma c’è una sequenza – subito fissata in icona – che va oltre, come scolpita da un vento post-temporalesco, uno di quei venti che danno a un paesaggio un rilievo da HD o 4K naturale: quella dell’abbraccio finale a Wembley tra Mancini e Vialli, “preparato” dai due abbracci di esultanza nei supplementari con l’Austria. Il quid di quelle immagini l’ha riassunto bene il Mancio: «Trent’anni fa eravamo insieme e abbiamo sofferto molto. Oggi si è chiuso un cerchio. Nel 1992 ho pianto lacrime amare a Wembley, oggi erano lacrime di gioia. Poi erano anche quelle di due un po’ anziani». L’allusione è alla finale di Champions persa conto il Barça di Cruijff (20 maggio) proprio a Wembley; ma anche, più estesamente, a un percorso problematico-fallimentare in azzurro. È una ferita plurima che Vialli condivide, anche se con una lieve diffrazione, perché lui la Champions l’ha poi vinta: all’Olimpico, nel ’96, con la Juve e contro il grande Ajax di Van Gaal. Una diffrazione che si estende se si pensa ai loro percorsi paralleli proprio a partire dal passaggio di Vialli in bianconero: e che li porterà a convergere a Wembley 2021 da strade molto diverse.  
La sintesi visiva di quella diffrazione è nelle versioni che circolano dell’abbraccio nella notte dell’11 luglio. La più diffusa è la “recto”, quella col volto in profilo del CT, i singhiozzi liberati come un fiume troppo a lungo tenuto in costrizione carsica. Meno diffuso, il “verso”, il rovescio, con Vialli in primo piano in un pianto simmetrico a quello dell’amico-compagno, e, come quello, della stessa intensità e compostezza che ci colpisce in certi “compianti” della pittura italiana medieval-rinascimentale. Nel pianto di Vialli, però, c’è anche altro.
Risalirne la genesi composita è anche l’occasione per ripercorrere, in breve, la parabola tecnica e umana di uno dei nostri giocatori più esaltanti e – qualità rara – intellettualmente e affettivamente più coinvolgenti.
La ferita (le ferite)
Non si può non ritornare, in prima battuta, a quel 20 maggio, allo scontro tra la Samp di Boškov e il primo Dream Team di Cruijff. Le istantanee di quel match rimbombano ancora oggi in modo spietato: le diverse occasioni mancate dai doriani; la punizione-laser di Koeman che frantuma il “tempo fermo” dei supplementari (al minuto 111) mentre Pagliuca è già proiettato mentalmente sulle inclinazioni e i tic dei rigoristi blaugrana; su tutto, il pathos opposto del post-partita. Da una parte, l’estasi blaugrana: il “guerriero basco” Alexanco che percorre solennemente i 39 gradini – proprio come nel film di Hitchcock – verso il palco della premiazione; e il giovane Pep che gira avvolto nella bandiera catalana, in sfregio all’anniversario della “sexta” madridista. Dall’altra, il marasma blucerchiato, col capitano Mancio che rincorre – trattenuto da Mimmo Arnuzzo – l’arbitro tedesco Arno Schmidhuber, già messo nel mirino due mesi prima (quando gli aveva annullato un gol contro l’Anderlecht) e ora reo di aver fischiato la “dubbia” punizione battuta da Koeman. Appendice surreale: una premiazione livida, col Mancio – gli occhi gonfi di lacrime di rabbia – che offre la mano inerte a quella del presidente UEFA Johansson; e una conferenza stampa (evento senza precedenti) disertata da uno delle due squadre, dato che per i doriani non si presentano né il tecnico né il capitano.
Se di Mancini, in quella notte, restano quei frame isterici e disperati, di Vialli non resta (quasi) nulla, se non per attributi negativi: sbaglia un paio di occasioni nel secondo tempo (un colpo a volo di controbalzo su assist filante di Lombardo e uno “da sotto”, fuori di poco); esce per crampi al minuto 100, sostituito da Buso (lui che in futuro irriderà ai crampi – e alle lacrime – altrui); e non appare nemmeno alla premiazione, smaterializzandosi da Wembley. Opposti anche i commenti degli “inseparabili”: Mancini parla di “chiodo fisso” e non si rassegna («Prima o poi avrò ancora una chance in Coppa dei Campioni», dall’anno dopo, per la cronaca, Champions League); Vialli in apparenza glissa, tra snobismo e nichilismo («La vita continua, non è la morte di nessuno»), ma di fatto è già della Juve, con cui – come detto – la Champions verrà vinta. Anche se non a Wembley, e – soprattutto- non col Mancio.
A questa ferita originaria (Wembley, la Champions), Mancini & Vialli aggiungeranno le ferite in azzurro; cioè, nel dettaglio, i fallimenti ai Mondiali ’90 e ‘94; quest’ultimo, in particolare, invelenito per tutti e due dai contrasti e dalle incomprensioni con Sacchi, fino alla rinuncia: anche se lo zelo mediatico – puntiglioso fino alla morbosità nel ricostruire quelle tensioni – ha completamente rimosso le dichiarazioni successive dei due giocatori, anche recenti, sul loro rimpianto di non aver accettato le riaperture di Arrigo prima del torneo. Vialli, in particolare, si distingue nel post-USA per il suo inconfondibile touch sarcastico, parlando di “Mondiale dei crampi e delle lacrime”. Non una grande empatia verso un altro abbraccio-simbolo della nostra Storia calcistica, quello perdente – e struggente – tra Sacchi e Baresi dopo la sconfitta ai rigori col Brasile. Ma non avrebbe senso moraleggiare; in primo luogo, perché una volta attraversata la linea bianca dal campo alla panchina, sia Vialli che – soprattutto – il Mancio mutueranno diversi principi di gioco e dinamiche di squadra e di reparto dal sacchismo; e poi, in quel momento, quel sarcasmo è comprensibile, se il Vialli di quegli anni è ancora un Lucignolo o un Franti; un Franti, s’intende, che nasconde, nemmeno troppo, molti tratti da Garrone.
Dopo il ’94, i percorsi degli “inseparabili” non potrebbero essere – per quasi un quarto di secolo – più divergenti. Il Mancio – riassumendo brutalmente – entra nella fase-Eriksson, il tecnico già avuto (o meglio voluto, da lui e da Vialli) alla Samp del post- Boškov, con cui vince alla Lazio un secondo scudetto da underdog, esercitando già sul campo – l’ha ricordato Eriksson stesso – come allenatore. È una fase, per inciso, di imprinting decisiva, perché proprio la Lazio dello svedese si sedimenterà nell’archivio mentale del Mancio come un software fondativo, un primo “strato” di architettura dinamica in cui verranno calate le conoscenze successive, fino alla sintesi della Nazionale. Conoscenze acquisite per specifiche esperienze; molto più del doppio passaggio interista, quelle estere, in particolare quella inglese al City (2009-2013), in cui il 4-4-2 clonato da Eriksson comincia a spettinarsi e ibridarsi, portando il Mancio a un gioco via via più aggressivo-offensivo, ben riassunto nei tanti match dell’anno di vittoria in Premier; l’1-5 al Tottenham, l’1-6 nel derby a Old  Trafford a un sir Alex stordito, la chiusa nella parossistica partita interna con il disperato QPR, coi Citizen che segnano i due gol necessari per il 3-2 con gli ultimi due tiri, il 43° e il 44° verso la porta (score mostruoso), in un finale frantic. Lì il Mancio comincia (senza saperlo o meglio senza averne certezza, perché è un disegno che leggiamo ora, a posteriori) il lento avvicinamento alla presa dell’Inghilterra, alla riconquista di Wembley e alla cura della ferita originaria.
Il bambino nel cortile
Vialli, da parte sua, quell’avvicinamento l’ha cominciato dieci anni prima, approdando a Londra sponda Chelsea, dove in un quinquennio, tra ’96 e 2000, è attivo come giocatore, player-manager e coach puro, senza arrivare alla Premier ma vincendo 5 titoli tra Regno Unito e Europa; spiccano, in particolare, una Coppa delle Coppe nel 1998 stendendo in finale lo Stoccarda del giovane Joachim Löw (dopo aver eliminato in semifinale il Vicenza di Guidolin) e una Supercoppa (stesso anno) stendendo il Real che aveva steso la Juve di Lippi in finale Champions.
A Stamford Bridge, Vialli diventa il dominus dopo altri due player-manager, Glenn Hoddle e Ruud Gullit; pratica e ruolo ormai al tramonto, secondo un trend avviato in Inghilterra nei ’70, che vedrà ancora qualche ultimo esempio isolato, come un altro doriano, Attilio Lombardo, al Crystal Palace. Dominus, a rigore, in senso psicologico e “carismatico”, da supervisore-trascinatore, perché il lavoro di base viene svolto da Graham Rix (già al Chelsea), da Ray Wilkins (uno dei veri amici di Vialli) e dall’AD Colin Hutchinson (che si occupa di contratti e trasferimenti). Anche se questa “divisione del lavoro” non gli impedisce di diventare un breaker, un apripista sottovalutato, che innesca un processo di crescita del club (in era pre-Abramovich) poi completato da Ranieri e Mourinho. Il che può succedere perché il Vialli di Stamford Bridge riprende il discorso interrotto nel passaggio-Juve dove, nonostante il Palmares, era stato in fondo uno dei tanti Terminator programmati da Ventrone in un team dell’establishment, non adatto a lui. Torna cioè a giocare in continuità con l’anarchismo scapigliato della Cremonese e della Samp; l’eterno malandrino dagli occhi ridenti-sfottenti e dall’inconfondibile sorriso a incisivi separati.
Il bel libro in cui Vialli approfondisce l’avvicinamento all’Inghilterra (The Italian Job, scritto a quattro mani con Gabriele Marcotti) non è un’autobiografia; anzi, lui stesso critica lì esplicitamente quei giocatori che – magari a metà carriera, per monetizzare una fama incerta – aprono le porte dello spogliatoio e della loro vita privata. Però è un libro con segmenti autobiografici illuminanti, che aiutano a focalizzare gli snodi della sua evoluzione.
Uno di quei segmenti (il denso flashback sull’infanzia-adolescenza) mostra dove e come si generi il Vialli che conosciamo, a livello sia tecnico che caratteriale. Si tratta di un doppio imprinting (di città e di campagna) e di un doppio paternage calcistico (un coach esteta e uno più “risultatista”), il tutto in successiva e progressiva integrazione, a comporre un’architettura fondativa. L’imprinting di città è quello di tanti bambini che “giocano nel cortile”, proprio come in Io vagabondo dei Nomadi; nel suo caso, il cortile rettangolare (i garage adibiti a porte) che si traduce in un campo “più largo che lungo”, inducendolo anche ad “allargarsi” per crossare e disegnando quindi il futuro giocatore in grado di svariare “su tutto il fronte d’attacco” e aggredire insieme ampiezza e profondità. L’imprinting “di campagna”, invece, è quello estivo (giugno-fine agosto) reso possibile dallo spostamento della famiglia da Cremona-città alla grande magione rinascimentale a Grumello, Villa Affaitati di Belgioioso  (Vialli padre è un ricco imprenditore nel settore prefabbricati): lì, lui e il fratello si esercitano – dopo gli inverni nebbiosi sul porfido urbano – in grandi prati dall’erba “spessa e rigogliosa”, che permette di provare rovesciate e colpi in acrobazia, tutte le variabili atletico-tecniche che caratterizzeranno il Vialli stoccatore (Stradivialli, secondo uno dei tanti geniali nickname del brand breriano, con riferimento a Stradivari, il liutaio cremonese forgiatore di violini sublimi).
Viene in mente, per associazione, il misconosciuto imprinting tattico di Maradona, che inizia come libero di costruzione: “da libero vedi tutto da dietro, hai il campo intero davanti a te, hai la palla e dici: pim!, usciamo di là, pum!, proviamo dall’altro lato, sei il padrone della squadra”. In fondo – semplificando – è proprio quello ha fatto, spostando il baricentro d’azione avanti di 50 metri e sostituendo le uscite di costruzione con sempre nuove eversioni dello spaziotempo, verso il gol o l’assist, simili alle torsioni degli edifici in Inception di Nolan.    
Quanto ai coach – dopo un’atipica lezione oratoriale di Don Angelo, che istruisce il ragazzo Vialli  sull’amoralismo del calcio e dello sport tutto – l’esteta è Franco Cistriani, che al mattino incanta gli alunni spiegando la “grande letteratura” e al pomeriggio allena i Giovanissimi del Pizzighettone: in coerenza col suo mantra, tra Valdano e Bielsa (“Non importa se si vince o se si perde, l’importante è come giochi”) cura, più e prima del risultato, “i passaggi, il movimento, il controllo”; su tutto, induce i ragazzi a “ascoltarsi” (cioè a completarsi tecnicamente) e a giocare “senza paura di sbagliare”. Il coach “risultatista”, invece, è il leggendario Guido Settembrino, che accoglie Vialli – dopo l’exit dal Pizzighettone per un inghippo burocratico – tra i giovani della Cremonese. Straordinario scout (vedi la scoperta dei fratelli Baresi, con l’Inter che prende Beppe ma scarta Franco perché “mingherlino”), Settembrino è alla fine un “sergente” che impone ai ragazzi una disciplina implacabile, tecnica prima che comportamentale, smistando multe a chi sbaglia uno stop o un passaggio. Cercando l’unità e la compattezza del gruppo come base per arrivare a vincere, è il “concavo” rispetto al “convesso” di Cistriani (o viceversa); due aspetti della sua formazione che Stradivialli troverà riassunti in parte, com’è noto, dal terzo maieuta delle origini, Emiliano Mondonico, a sua volta giocatore “scapigliato” (da buon sessantottino) e protettore dei giocatori creativi, ma tatticamente poi virato in italianista estremo.  
È più di una semplice digressione-suggestione ritrovare, nell’Italia di EURO 2020, le matrici della formazione di Vialli. La matrice-Settembrino, per la verità (la capacità di resistenza-resilienza e di “esaltazione nella difesa”) è in parte costitutiva della nostra storia calcistica, dalle origini al Mondiale 2006: vedi la “capacità di soffrire” contro la Spagna (un concetto inimmaginabile nella visione-Cruijff, quasi un tabù). Mentre la matrice-Cistriani è una venatura o una fioritura rara, emersa a singhiozzo: per questo nell’Italia del Mancio (e di Vialli) ha impressionato proprio il continuo giocare “senza paura di sbagliare” (esemplare la reazione al gol di Shaw), premessa e insieme conseguenza concettuale essenziale per un lavoro tecnico, prima che tattico, sofisticato e complesso (passaggio, ricezione, pazienza nella costruzione e nel riavvio di giro-palla, eccetera) su cui si è scritto troppo poco. Un lavoro, va da sé, svolto soprattutto (se non quasi solo) dal Mancio, ma in cui Vialli – totalmente sintonico con quella visione – potrebbe aver detto, chissà, qualche parola di peso, molto più che da semplice “capo delegazione”.
Il paziente inglese
Londra, per Vialli, diventa presto una “seconda patria”: il luogo degli affetti profondi (è la città in cui conosce la futura moglie Cathryn) e dell’uscita definita dalla “provincia” italiana, siglata dal primo domicilio a Belgravia. L’impatto è disintossicante, non gli sembra vero di poter sprofondare in un anonimato protettivo: passeggiare per Hyde Park senza essere riconosciuto, o fare spesa ai magazzini Harrods senza dover rilasciare autografi. Infatti, l’impiego del suo tempo libero anticipa le abitudini successive, quelle che si consolideranno dopo la rinuncia alla carriera di coach: le viste ai giardini botanici di Kew, alla National Gallery, al castello di Windsor.
Mentre penetra nei segreti del football insulare, puntualmente scannerizzati in The Italian Job (l’incidenza del meteo e soprattutto del vento sulle dinamiche di gioco; la strana obbedienza anaffettiva dei giocatori a coaching; le analogie e le differenze con l’Italia, a partire dai media), cerca di capire la società e l’antropologia inglese tout court. Ed è anche grazie a questa apertura comparativa che affina la sua “filosofia”, per esempio quando inquadra il “suo” machiavellismo: «C’è una linea sottile che divide il cinismo dal realismo, e Machiavelli probabilmente si sarebbe definito soltanto realista». Vale per il calcio, ma non solo.
Dopo la bonus track al Watford di Elton John (2002, in cui esaurisce la sua esperienza di coach), Vialli è quindi pronto per il ruolo di commentatore-entertainer, che si distende in parallelo al quindicennio in panchina del Mancio. Da quel momento, Sky diventa la dorsale della sua attività, dai commenti TV ai match (sempre marcati da originalità analitica e ironia tagliente) al docu-reality Squadre da incubo, prodotto da Sky Italia e andato su TV8, co-conduttore Lorenzo Amoruso. In mezzo, a contrappunto, diversi altri impegni, dalla Fondazione per la ricerca sulla SLA (in condomino con Massimo Mauro) ai contributi editoriali per vari libri, in primo luogo quelli sullo stesso argomento.
Tutto scorrerebbe in una sorta di routine illuminata, non fosse per l’irruzione, nel 2017, del nonsense della malattia (un tumore al pancreas), in tempi e modi da lui stesso raccontati – col solito mix di schiettezza e pudore – nella coda criptata di un altro libro, Goals, in cui raduna un centinaio di quotes, ciascuna seguita da un racconto esemplare su sportivi notissimi, misconosciuti o ignoti.
Il racconto dettagliato dell’esordio della malattia (subdolo, come spesso in oncologia), del suo decorso e delle diverse terapie è in quelle poche, intensissime pagine. Pagine in cui non si può non restare toccati da certi passaggi psicologici: le rassicurazioni risolute ai genitori («prometto a mio padre che non me ne andrò prima di loro»); il momento di dirlo “alle bambine”, il giorno di Santo Stefano, per non intaccare il Natale; la presa di coscienza dello squilibrio della contesa («non è una lotta per sconfiggere lui», il cancro, sottintendendo una lotta impossibile) e della vera posta in palio (la “sfida a cambiare se stessi”). Ma soprattutto colpisce la dissimulazione cui Vialli deve (vuole) ricorrere: quella esteriore (i maglioni sotto la camicia per nascondere il feroce dimagrimento) e quella “narrativa” («una versione della storia che è solo una parte della verità») per non restare intrappolato in un’ipocrisia ben peggiore, quella degli amici sani che fingono di non sapere: «non voglio che cambi il modo in cui mi parlano e scherzano con me». Una dissimulazione, va da sé, sostenibile fino a quando è sostenibile l’ambiguità diagnostica, fino a quando le terapie non alterano la fisionomia e la malattia viene ufficializzata. E tutto questo mentre il sé vacilla tra la vergogna («Quasi che quanto è successo fosse colpa mia») e la paura, «la paura vera, quella che ti fa chiudere in bagno a piangere».
La svolta – la possibilità di cominciare “a dialogare” con quella stessa paura – avviene quando il professor Cunningham, eminente oncologo che prende in carico il paziente dopo la fase di cure italiane, lo rassicura circa la possibilità concreta, credibile, di una guarigione. Da quel momento, Vialli costruisce una “nuova, formidabile routine”, intessuta di “piccole frasi fondamentali”, “dettagli piacevoli”, “silenzio”: una strategia costruttiva minimalista e zen, che possa aggregare frammenti di senso lungo il nonsense generale. Ma il minimalismo non è per lui. Altro lo aspetta. Stiamo pur sempre parlando di Stradivialli, forse il nostro più grande attaccante dopo Meazza e Gigi Riva.
La cura
Nel quindicennio scorso in parallelo, gli “inseparabili” continuano a sentirsi, in un “cazzeggio” ininterrotto (Mancio dixit) che assume al tempo della malattia la forma di un elegante esorcismo, tra elusività e rispetto. Arrivato alla Nazionale (14 maggio 2018), a un certo punto il Mancio sente il bisogno di accorpare al gruppo l’amico di una vita (come si vedrà, insieme a mezza Samp, dello scudetto e non); e ha onestamente poca importanza che il gesto sia anche dovuto a pura spinta affettiva, persino una disperata pietas fraterna. Se anche fosse… Il punto è che il CT vuole avere a fianco il gemello nel cercare di sanare l’antica ferita originaria del 20 maggio ‘92 e il suo (il loro) rapporto fallimentare con la Nazionale; tanto più che – con le finals a Wembley – Vialli è l’antidoto ideale in quanto diventato nel frattempo un inglese d’adozione, come riassumono iconicamente le tante, belle foto in cui appare con varie fogge di flat cap, da “mister” british storico.
Scritturato dalla FIGC nel novembre 2019 (ufficialmente come dirigente, in realtà come caretaker tecnico-psicologico), Vialli diventa a EURO 2020 (21) una delle chiavi “culturali” del successo. Quanto riesca incidere nel crescendo delle 7 partite lo riassume Florenzi: «So che queste parole lo faranno arrabbiare, ma è importante che tutti lo sappiano. Noi abbiamo un esempio che ci mostra ogni giorno come si deve vivere, come ci si deve comportare in qualsiasi ambiente ti trovi e in qualsiasi situazione. Per noi è speciale: questa vittoria senza di lui, così come senza Mancini e gli altri, non sarebbe niente. Lui è un esempio vivente».
Di questa incidenza profonda – tecnica, motivazionale, affettivo-emotiva – noi spettatori abbiamo assorbito solo alcune sequenze avvincenti, comunque sufficienti a tracciare uno stato di grazia: il rituale del pullman, che dopo aver “dimenticato” Vialli a terra prima di Italia-Turchia, ripete per altre sei volte la pantomima apotropaica; la declamazione alla squadra riunita (la vigilia della finale) del celebre discorso del Presidente-soldato Teddy Roosevelt (L’uomo nell’arena), sentito decine di volte nello sport (vedi LeBron James al tempo degli Heat) e nei business meeting aziendali, ma da lui depurato da ogni scoria retorica; i rigori (specie l’ultimo) vissuti spalle al campo, nell’attesa di un’euforia sonora prima ancora che visiva; la progressione degli abbracci col Mancio a Wembley, da cui siamo partiti, i due nei supplementari con l’Austria e quello nella notte dell’11 luglio.
Torniamo così a quell’abbraccio, ricordando – ancora e sempre – come sì, lì il cerchio si chiuda, ma in una visione a posteriori, secondo il corso di una necessità come esito di tante scelte giuste (e fortunate) in biforcazioni o sliding doors non scontate; sarebbe bastato meno di un rigore sbagliato, una semplice deviazione, uno scarto qualsiasi degli eventi, per vanificare quella circolarità.
A cerchio chiuso, però, non si può non vedere la potente condensazione, in senso psicologico-analitico, di quell’abbraccio: la ferita (le ferite) di Mancini & Vialli sanate collettivamente, come se la squadra e l’ambiente intero, a partire dagli altri doriani, avessero fatto propria quell’extra-motivazione monstre, innervandola con forza lungo un desiderio di riscatto più generale, sia calcistico-sportivo (dopo il crash traumatico che nega il Mondiale 2018) sia psicosociale, con l’abbraccio che – più di ogni altro – risolve simbolicamente la negazione di quel gesto, cioè una delle mutilazioni profonde dell’era-COVID. Una negazione primaria per l’animale umano, come ricordano i testi omerici; l’abbraccio mancato di Achille a Patroclo, in sogno: quello, triplice, di Odisseo alla madre, nell’Ade.  
E non si può non tornare – condensazione soggettiva – all’abbraccio dal punto di vista specifico di Vialli, il “verso” di cui abbiamo detto. Una lunga vertigine che (almeno ai nostri occhi, ma forse anche per lui) connette tutto: il bambino nel cortile e le sue acrobazie sull’erba, Cistriani e Settembrino, Boškov e Eriksson, Mondonico e Sacchi, i crampi e le lacrime propri e quelli altrui, su su fino alla malattia e alla metamorfosi che gli ha imposto, scatenando in lui una forza paradossale, con cui è riuscito a strappare al nonsense non qualche frammento, ma una sequenza memorabile di senso qual è la vittoria all’Europeo.
A sintesi di tutto, c’è poi, tra le altre, una terza versione dell’abbraccio: frontale, le teste e i volti dei “gemelli” perfettamente simmetrici. Lì, le ragioni del pianto condivise dal Mancio e da Vialli e quelle soggettive di ciascuno, sembrano compenetrarsi una volta per tutte. Lì, il Mancio sembra piangere anche per la malattia dell’amico e per come l’ha elaborata. Quello che non ha mai potuto dirgli fuori dal cazzeggio (l’indicibile), avrebbe potuto dirglielo solo in quel modo.
Coda
La diffrazione, lo scarto di Vialli rispetto al Mancio e alla squadra, diventa tangibile nel post Europeo. Quando la Nazionale viene ricevuta al Quirinale da Mattarella e Draghi, lui resta a Londra; e mentre tutti raggiungono favolosi luoghi di vacanza, indigeni o esotici (il “duo di Harvard” Bonucci-Chiellini in Sardegna, i napoletani a Ibiza, lo stesso Mancio – dopo la rimpatriata jesina – in Salento) lui torna a Grumello, la sua Itaca senza mare (o dal mare d’erba), nella parte del “castello” che il padre gli ha lasciato in eredità. L’unica foto postata è quella col suo volto sorridente davanti al vicino Santuario della Beata Vergine della Speranza, una scabra chiesa settecentesca, quasi spoglia. A commento, solo cinque parole: «È il tempo della gratitudine».
Il “dialogo con la paura” – in quel tipo di malattia- non può mai davvero finire, ma solo declinarsi in forme diverse. Eppure, Vialli è già andato aldilà del suo obiettivo primario, dichiarato in Goals: «Voglio essere di ispirazione agli altri. Voglio che qualcuno mi guardi e mi dica: “È anche per merito tuo se non ho mai mollato”». Ci ha offerto molto, molto di più. Ci ha mostrato come nessuna limitazione sia un alibi sufficiente per farci provare solo a sopravvivere; come l’animale umano – anche, anzi a volte proprio nelle condizioni più difficili – abbia la possibilità, per natura e cultura, di provare a vivere.
Sandro Modeo, Gianluca Vialli ha chiuso un cerchio
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corallorosso · 3 years
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“Nata perché mia madre scelse di non abortire”. Cara Meloni, nel 1976 l’aborto era illegale di Selvaggia Lucarelli Il libro di Giorgia Meloni ha un incipit forte, di quelli che invitano il lettore a riflettere sulla caducità della vita, sulla forza delle donne, su quanto nascere, talvolta, sia pura coincidenza e su quante coincidenze si scriva la storia. Insomma, l’incipit perfetto per la biografia di un leader che mira- come da tempo sta accadendo- ad umanizzare la sua figura. Giorgia Meloni infatti, a pagina 13 e 14, dice “Devo tutto a mia madre, (…) devo a lei il bisogno di dire la verità che mi porto dentro”. A proposito di questo bisogno di verità, andiamo avanti a leggere: “Voglio dire grazie. Anzi. La frase esatta è “Devo tutto solo a mia madre”: Perché la verità è che io non sarei mai dovuta nascere. Quando rimase incinta, Anna aveva ventitré anni, una figlia di un anno e mezzo e un compagno con cui non andava più d’accordo (…), l’avevano quasi convinta che non avesse senso mettere al mondo un’altra bambina in quella situazione. Ricordo quando me l’ha confessato, e ricordo il tempo per digerire quel sasso. Ma poi ho capito il combattimento di una donna sola: farti nascere o farti tornare nel niente. La mattina degli esami clinici che precedono l’interruzione di gravidanza si sveglia, rimane digiuna e si incammina verso il laboratorio. A questo punto mi ha sempre raccontato, si ferma davanti al portone, esita, vacilla. Non entra. ‘No non voglio rinunciare, non voglio abortire’. È una mattina di primavera. C’è un’aria dolce e pulita. Sente di avere preso la decisione giusta. Adesso deve solo ratificarla, in qualche modo. Entra in bar: ‘Buongiorno, cappuccino e cornetto’. Tutto molto d’effetto, molto struggente, molto poetico. C’è solo un problema in questo racconto scritto con quell’impellente bisogno di verità che Giorgia Meloni si porta dentro: e cioè che quando la madre di Giorgia Meloni era incinta di Giorgia Meloni la legge sull’aborto non esisteva. Giorgia Meloni infatti è nata il 15 gennaio 1977. La madre rimane dunque incinta più o meno ad aprile dell’anno prima, ed infatti nel passaggio del libro sulla mattina della decisione la Meloni specifica che era primavera. Dunque stiamo parlando della primavera del 1976. Nel 1976 l’interruzione volontaria di gravidanza era una pratica illegale. Abortire era un reato che prevedeva una pena dai 2 ai 5 anni. L’aborto, nel 1976, era consentito solo secondo quanto stabilito dalla sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975, che “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 546 del codice penale, nella parte in cui non prevede che la gravidanza possa venir interrotta quando l’ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre”. La legge 194 sull’aborto, grazie alla quale oggi l’interruzione di gravidanza in Italia è consentita entro i primi tre mesi (escluso l’aborto terapeutico), è del 22 maggio 1978. Giorgia Meloni, il 22 maggio del ’78, aveva un anno e 4 mesi. A questo punto, i casi sono tre: Giorgia Meloni ha mentito, infiocchettando un racconto e dunque questo è un romanzo e non una biografia. O forse una non-fiction, tipo Gomorra, dunque Giorgia Meloni sarebbe pericolosamente simile a Roberto Saviano e questa è comunque una notizia. La mamma di Giorgia Meloni le ha raccontato una storia un po’ diversa, perché al massimo ha tentato la via dell’aborto clandestino ma non funzionava esattamente così, con le analisi in un laboratorio, l’attesa, poi il cappuccino al bar e “vabbè ci ripenso”. Prima del 1978 si abortiva dentro case di privati, dalle “mammane”, in poche cliniche clandestine spesso fuori dalle grandi città in un clima di segretezza e paura. Si stava commettendo un reato (sia chi praticava che chi abortiva), si rischiava di morire per un’emorragia, si rischiava di venire scoperte. In questo caso Giorgia, se inconsapevole della bugia della mamma, è comunque responsabile di una grave lacuna culturale: visto che è pro-vita e ritiene l’aborto una sconfitta, potrebbe almeno imparare la data in cui è nata la legge 194. Giorgia Meloni non è nata nel 1977 ma qualche anno dopo. Probabilmente, in quanto leader di un partito, è tra le poche donne ad aumentarsi gli anni per acquisire più autorevolezza. In ogni caso, questo incipit non è scritto con l’impellente bisogno di verità che la cara Giorgia racconta di portarsi dentro. Chissà il resto del libro e le sue dichiarazioni politiche, a questo punto.
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unfilodaria · 3 years
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Semplice semplice... “I vaccini, solitamente, funzionano all'incirca così: - Si crea una versione "depotenziata" del patogeno da voler contrastare; - Si inietta questa sua versione nei pazienti da vaccinare; - Il loro corpo imparerà a combattere il patogeno, che essendo depotenziato, non rappresenterà un reale pericolo; - Qualora il patogeno "vero" dovesse entrare, il corpo ricorderà la lezione precedente e sarà in grado di combatterlo. Benissimo. Il vaccino Pfizer no. Nulla di tutto questo. Nel nuovo vaccino anti-Covid, il virus SARSCoV-2, non c'è (ripetete con me: non c'è). Ma zero, eh. Neanche una puntina, neanche una foto stampata. Neanche una versione depotenziata, assonnata, annoiata, niente. Niente di niente. Nada de nada. Non ce n'è Coviddi! Il nuovo vaccino utilizza infatti una molecola chiamata mRna (Rna Messaggero). Ma che cacchio è sto mRna? E come funziona? A chi appartiene? Di chi è figlio? Che c'azzecca? L'Rna messaggero è una molecola in grado di trasportare informazioni alle cellule. È innocua, non contiene virus né patogeni, né spade né bastoni, né coppe né denari. Contiene soltanto un'informazione. Un messaggio, appunto. Una volta iniettato, il vaccino Pfizer (o comunque tutti i vaccini cosiddetti ad mRNA) si limita a raggiungere alcune cellule del corpo e dire loro"Uè guagliò, occhio che in giro c'è il Coviddi. Chistu fetenzone utilizza una proteina brutta e cattiva (Spike) per riprodursi e fare danni, rubare i motorini e suonare i citofoni per dispetto. Se vedete 'sta proteina o quel brutto testina di minchia, attaccate. Mo' vado che c'ho pilates alle 7." E si disintegra. "Ah ma vogliono iniettarci il Covid!" No, no e poi no. "Ah ma vogliono modificarci il DNA!" No, no e poi no. "Ah ma c'è dentro il 5G!!!!" No, no e poi no. E fatevi vedere da uno bravo. L'Rna messaggero non fa una fava. È un postino frettoloso. Ha fretta perché c'ha pilates alle 7 e deve solo consegnare un messaggino, facile facile eppure fondamentale. Comunica il messaggio di pericolo, insegna alle cellule cosa fare e poi si disintegra. Qualora dovesse presentarsi il Covid, le cellule del corpo diranno "O vè dov'è, quel ladro di motorini. Forza guagliò!" E lo neutralizzeranno. Fine della storia. Detta così, su due piedi. In modo brutto e breve. Giusto per dare l'idea. Ora: è fondamentale rispettare il SACROSANTO diritto di libero arbitrio. Vaccinarsi o non vaccinarsi, fidarsi o non fidarsi, pillola rossa o pillola blu. Ognuno sceglie e sceglierà liberamente, ed è giusto così. È giusto anche accettare le scelte degli altri, per quanto diverse esse siano, perché ce lo ha detto anche Voltaire e la democrazia e la costituzione e blabla. Tutto sacro e inviolabile. Solo una cosa, però, mi sento di chiedere: Informatevi. Approfondite. … Però da fonti attendibili. Non da noncielodicono. it e nemmeno da vostro cugino e men che meno dai tanti laureati su Facebook. Capite come funziona e poi decidete cosa fare. Perché scegliere liberamente e con consapevolezza è bello e giusto, ma c'è una cosa che è invece ingiusta e bruttissima, che rischia di danneggiare voi e chi vi sta intorno, in modo meschino e del tutto evitabile: scegliere senza avere la minima idea di cosa si stia scegliendo.”
#soloquesto #certezzadellafonte #ilibrichebellacosa
Testo in cerca di autore #sardinecreative
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arreton · 3 years
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Noi stiamo con l’idea che tra il timore della tragedia e la tragedia stessa sia meglio la tragedia, se proprio si deve scegliere, se proprio non è evitabile. Che senso ha nascondersi, fare finta che non ci sia niente di storto, che tutto è normale se poi tutto comunque è destinato a saltare in aria perché non regge più? Tanto vale che tutto salti in aria e vedere di costruirci qualcosa con quelle macerie. Anche perché a sforzarsi di tenere obbligatoriamente tutto in piedi quando in piedi non ci riesce proprio a stare, ci si sforza il doppio, il triplo, il quadruplo di quanto ci metteresti a ripartire da ciò che si è rotto, ché la ripartenza non è mai del tutto da zerozero. 
Tutto quello che stiamo vivendo, che abbiamo vissuto, tutto il dolore sociale che stiamo attraversando - perché non è che stiamo soffrendo io, tu, lui, la tipa, il tipo, la nonna, la nipote, lo zio, il cognato, stiamo soffrendo noi come società, come membri di categorie sociali, ci rendiamo conto di ciò? - per via di questa pandemia è terribilmente tragico e frustrante, si poteva evitare, ma nel contesto che si era creato è stato inevitabile. Tutti sapevamo che il sistema sanitario era in pessimo stato, nessuno ha mai fatto niente di concreto; così con la scuola; così con il lavoro; così con le imprese, i bottegai, gli sfruttatori ecc ecc ecc. Lo sentivamo che c’era qualcosa di ingiusto, lo vivevamo, ma fin quando in qualche modo si trovava il contentino, fin quando in qualche modo si tirava a campare, appunto: si tirava a campare, chi l’avrebbe mai immaginata una pandemia a far saltare tutto? Ed invece... Un incubo che si trasforma in realtà. Ma veramente, però, rimpiangiamo i tempi del pre-covid? Stavamo correndo una corsa cieca verso la catastrofe, l’incognita non era se fosse arrivata, ma quando. E ora la stiamo vivendo. Sono tempi difficili, lo vediamo e non solo su noi stessi. A volte, se teniamo in conto i presupposti che abbiamo adesso, ci chiediamo: ma vale la pena continuare a campare (così)? E non è una domanda sulla base di noi come tautologiedialettiche, ma di noi, anche, come membri di questa società; cioè non ce lo chiediamo solo perché la nostra esistenza individuale è quella che è, ma perché la nostra esistenza sociale non ha delle basi sulla quale poter esistere. E non stiamo nemmeno tra i peggiori. Ma qual è il meno peggio, davvero? Noi non distinguiamo più la merda leggermente meno merda, vediamo solo massi e massi di merda ovunque: hanno un nome diverso, ma sempre merda è. Dunque, la domanda, di nuovo, è: davvero si rimpiangono quei tempi di ‘normalità’? Davvero quei tempi erano ‘normali’? Se l’obiettivo è riportare tutto alla situazione pre-covid credo che stiamo tutti quanti sbagliando obiettivo. L’obiettivo dovrebbe essere, infatti, quello di superare al meglio questa situazione e di evitare di ridurci di nuovo in questo stato; la situazione del pre-covid non ha portato altro che vivere questa tragedia. Davvero rimpiangere, quindi, quei tempi? Noi crediamo di no. In questo stato di cose, una mezza speranza ci potrebbe pure essere; nello stato in cui eravamo prima, tutto era destinato semplicemente a sbattere contro un muro ed infatti lo abbiamo preso in pieno. Ma forse siamo stati talmente anestetizzati che l’unica cosa che vogliamo fare è semplicemente continuare a tirare a campare. Il contesto, d’altronde, pare non favorire una riscoperta del senso sociale. L’idea di individuo autonomo al di là della società è diventata quasi una cultura, nemmeno ideologia, proprio stato culturale al quale tutti grossomodo vi hanno aderito. Solo che però poi è inutile piangere la propria solitudine, piangere la sofferenza che si è scelti. Se si sceglie una strada la si deve percorrere fino alla fine, con tutto ciò che comporta.
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realnews20 · 21 days
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Roma, 22 mag. (Adnkronos) - Il colpo di scena arriva in serata, con un video sui social in cui Giorgia Meloni annuncia di aver messo in 'stand-by' il decreto ministeriale firmato da Maurizio Leo, e che, di fatto, resuscita il redditometro reso dormiente dal 2018. Il 'radar' del fisco per stanare furbi e furbetti fa ballare per 24 ore la maggioranza, e attiva il fuoco amico verso Fdi e la sua leader, che di redditometro non ha mai voluto sentir parlare. Un fuoco incrociato che parte nella mattinata di ieri e che, a distanza di un giorno, non accenna ad arrestarsi. E' così che il decreto pubblicato in Gazzetta ufficiale lunedì scorso genera un vero e proprio terremoto, con Lega e Fi che si intestano la battaglia per sbianchettare la norma, le opposizioni che attaccano e la premier, ma anche Fdi, che arrancano, con l'aggravante, o meglio la convinzione, che la norma si trasformi in un boomerang ad appena due settimane dal voto. Bisogna correre ai ripari. E così di buon mattina la premier, sempre sui social, assicura che mai "nessun grande fratello fiscale verrà introdotto da questo governo". E apre spiragli su imminenti modifiche. "Mi confronterò personalmente con il Vice Ministro Leo, al quale ho chiesto anche di venirne a riferire al prossimo Consiglio dei Ministri. E se saranno necessari cambiamenti sarò io la prima a chiederli", mette in chiaro. Il Cdm è in programma venerdì, all'odg anche il 'salva case' su cui Matteo Salvini punta le sue fiche, alla lista delle misure si aggiunge la 'resa dei conti' sul redditometro. Ma Meloni, consapevole del 'pasticcio', accelera: riceve Leo a Palazzo Chigi, di certo indispettita per un incidente di percorso evitabile. Insieme decidono di mettere in stand-by la misura. Se non addirittura in soffitta. Una virata che segna un deciso cambio di rotta, anche se, nel video sui social, Meloni non sconfessa la norma. "Abbiamo ereditato una situazione molto pericolosa - mette in chiaro - nella quale non c'è alcun limite al potere discrezionale dell'amministrazione finanziaria di contestare incongruenze tra il tenore di vita e il reddito dichiarato. Da qui la necessità di emanare un decreto ministeriale che prevedesse precise garanzie per i contribuenti. Quel decreto ha però prodotto diverse polemiche", dunque "meglio sospendere" il provvedimento "in attesa di ulteriori approfondimenti, perché il nostro obiettivo è e rimane quello di contrastare la grande evasione e il fenomeno inaccettabile, ad esempio, di chi si finge nullatenente ma gira con il suv o va in vacanza con lo yacht senza però per questo vessare con norme invasive le persone comuni''. Ed è questa la rotta. Un 'restyling' "ci sarà e sarà radicale", riferiscono beninformati all'Adnkronos. Il che si traduce, in soldoni, nella volontà di smantellare la norma, limandola fino all'osso. E 'sforbiciando' in maniera netta gli indicatori che faranno scattare l'allarme. Via dal 'radar' del fisco -stando ai rumors che circolano in queste ore- le spese per abbigliamento e calzature, men che meno saranno passate sotto la lente di ingrandimento quelle sostenute per medicinali e visite, bollette e spese del mutuo o del telefono. Il campo dovrebbe essere circoscritto in "maniera sostanziale", lasciando in piedi solo quelle variabili che consentano all''accertamento sintetico' -così la norma nel gergo tecnico- di stanare chi dichiara redditi 'da fame' ma di fatto vive nel lusso: leggi suv, barche o seconde case in località di grido. E fatta salva, ça va sans dire, la facoltà per i contribuenti di difendersi e di dimostrare che il finanziamento delle spese è avvenuto con redditi diversi da quelli posseduti nel periodo d’imposta. O che le spese attribuite hanno un diverso ammontare o sono state finanziate con un reddito messo su nel corso di anni precedenti. Per cambiare la norma in corsa tecnicamente "viene differita l’attività applicativa" del decreto ministeriale firmato da Leo, "nelle more di un successivo provvedimento normativo di revisione dell’istituto", spiegano fonti di governo in serata.
E dovrebbe essere questa la direzione che il governo, nella persona di Leo, imboccherà per avviare la 'revisione' della norma, che, per ora, dovrebbe comunque restare in 'ghiacciaia'. Guadagnando tempo anche per rassicurare gli elettori -l'ordine di scuderia di via della Scrofa- sulle reali intenzioni del governo "per un fisco amico", slogan sbandierato per mesi e mesi salvo finire nella morsa del redditometro. [ad_2] Source link
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strawberry8fields · 4 years
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[Di intenzioni esplicite e di prese di posizione irreversibili.]
L’epilogo
Una fine è sempre in qualche modo tormentata. Non è necessario capire tutto. Nulla passa inosservato. Non è neanche propriamente inattesa. Ne avverti i sintomi prima: la tensione costante, la rigidità, l’inferno di pulsioni elementari, la mancanza di dialogo. Solo che li sottovaluti fin quando non senti chiaramente che non ci sono altre possibilità da sfruttare, che tutto è diventato irreversibile. Tutto quello che rimane sembra essere un lungo piano-sequenza immortalato da una videocamera ondeggiante. La prova di resistenza si è conclusa nel peggiore dei modi.
È doloroso vedere il luogo che chiamavi casa disabitato e svuotato. Traslochi disillusa da un paesaggio all'altro con un balzo di una velocità stupefacente. Ritorni dagli abbagli alla realtà e ti ritrovi a fare i conti con la tua quotidianità ferita e amputata. Così, ti limiti a raccogliere ciò che ne è rimasto.
Ti sembra tutto così surreale che stenti a crederci ma non puoi sfuggire dalla coscienza lapidaria che ne porta alla luce tutti i risvolti. Conversi con te stessa. Ti abbandoni al flusso dei pensieri. Scavi nella matassa dei tuoi sentimenti. Ti interroghi sul cambiamento. Non ti limiti ad assistere stupefatta alla fine con il peso dell’angoscia nel cuore ma provi a ricostruirne con dovizia di particolari il climax pur nel suo ritmo serrato e indecifrabile.
La fine è sempre ascrivibile a un errore o a un comportamento evitabile?
Forse bisognerebbe semplicemente prendere consapevolezza di quanto tutto sia mutevole, perfino quel sentimento che credevi immutabile, coglierne la verità oggettiva, senza per forza dover cercare uno o più pezzi difettosi e giustificarne l’usura.
Una storia dovrebbe essere una narrazione di due vite che si compenetrano sulle pagine in una scrittura uniforme, che rimangono volutamente impigliate tra i fogli alimentate dal desiderio, che si denudano vicendevolmente nelle parole, che risuonano d’amore in una continua ricerca di espressioni che ne arricchiscono la trama, che si lasciano rileggere con eccitazione continuamente rinnovata.
- Che cos'è che ha depredato la forza di quell'amore e che ha continuato a farlo giorno dopo giorno allora? Perché la scrittura è diventata arzigogolata arrivando ad un epilogo che manda simultaneamente in frantumi l’intero percorso di crescita? - ti chiedi.
Non ho una risposta, semmai un corollario di sentenze diverse. Probabilmente, non ne avrò mai solo una. Quello che ho imparato è che bisogna rivolgere uno sguardo su sé stessi prima che sull'altro. Forse, bisognerebbe capire che una fine può essere una valida guida per affrontare quel viaggio interiore nella nostra sofferenza che abbiamo da sempre rimandato e che è arrivato il momento di fare. Arrivare a una consapevolezza più ampia. Indagare le motivazioni dietro alle azioni e agli sbagli attraverso un mosaico di tasselli autobiografici. Svelare le reali pulsioni dietro alle solite interazioni quotidiane. Dialogare con il disagio. Non prendere per forza come scusa la natura mutevole e incostante dei comportamenti altrui.
Ho una sola certezza: fra le pieghe di qualsiasi argomentazione razionale si staglia sempre l’evoluzione del sentimento e il suo deterioramento.
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ca-la-bi-yau · 4 years
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Mi ricordo tutto
Mi ricordo tutto, mi ricordo tutto di due anni che hanno segnato, in un modo o nell'altro, la mia vita. Mi ricordo la prima volta che sei entrata in aula VI e quando poi mi hai detto che quel giorno ti guardai male. Mi ha sempre fatto male quando dicevi così, che ti guardavo male e mi sono sempre chiesto se eri tu a vedermi così, se ero io ad avere uno sguardo così o se in viso sono scavato e scolpito da tristezza e rabbia. Non l'ho ancora capito. Mi ricordo la prima volta che mi hai chiamato, da san lollo, di notte e io mi sentivo per la prima volta impotente, lontano, incapace di aiutarti ma anche allora mi sarei fatto mezza Roma per venire da te. Mi ricordo quant'ero impacciato, quella notte di febbraio, in cui tu per la prima volta mi cercavi ed io ero spaventato, a morte, dallo scoprire una nuova intimità. Ricordo tutto il periodo successivo, fino a giugno, in cui ci siamo cercati, continuamente, fino a quel giorno, fino a quella piazza di quel lunedì e quella sera in cui finalmente ci incontravamo e accendevamo la prima miccia della prima bomba. Ricordo la bottiglia d'olio che spaccai, io, come al solito, il solito disastro. E poi ricordo tutto, ricordo tutte le volte che ho cucinato e tu lavavi i piatti, tutte le volte che hai cucinato tu e io, canticchando lavavo i piatti. Mi ricordo le pizze, le colazioni, i pranzi e le cene ad orari sempre continuamente sballati, tra una sessione d'amore e l'altra, tra il sesso e il dolce far niente. Mi ricordo la nostra prima estate, in cui abbandonavo per un po' le ansie e i progetti per la tesi per lasciarmi andare, con te, te... Un'estate in cui imparavo ad amarti, in tutti i sensi, mi ricordo Bari e Polignano e tutti tutti i posti che abbiamo girato, il mare e le canne e casa dei tuoi e tutte le giornate passate a scopare senza mai voglia di smettere, e le canne e Stalin e Milù e tutto, tutto quanto, le birre che tua madre mi offriva per il viaggio, la cena che preparó per noi e i panzerotti in giro, le peroni a 2 o 1 euro, le prese in giro, e ancora le canne e il lungomare di notte e l'imbarazzo ma anche tanto tanto amore. Mi ricordo tutto, anche le litigate, le volte che ci siamo feriti, attraversati, accarezzati, spinti via. Ricordo le mie crisi e le tue e come abbiamo a poco a poco imparato ad avvicinarsi un po' cercando di non ferirsi. Ricordo quando mi hai preso, raccolto, sostenuto mentre mi stavo buttando via e così tornavo a terapia, a farmi aiutare. Ricordo tutte le volte che mi hai accolto, abbracciato, fatto sentire al sicuro, nonostante quel che ero. Ricordo tutte le ore di studio perse perché qualcuno dei due aveva bisogno di piangere e il freddo delle panchine della sapienza e lo stringersi, starsi vicino, asciugarsi le lacrime. Ricordo i pranzi sul pratino, le battute, il giocare continuamente, prendersi in giro, i tuoi pasti da uccellino, la mia mela nello zaino. Se ci provo, ricordo ogni bacio che mi hai dato, da quelli più forti, dominanti, come a prendersi a morsi e quelli più dolci, quelli abbandonati, quelli arrabbiati, quelli bagnati dalle lacrime. Ricordo la prima volta che ti dissi Ti amo, ricordo tutte le volte che ti ho accompagnato a casa, i notturni, i tram, le feste, i gelati, le cene improvvisate, il ramen a termini, le brutte disavventure in stazione, tutte le volte che ti ho accompagnato in stazione con valigie più grandi di te e le volte che ti ho atteso dall'altra parte fremente, in attesa di abbracciarti e baciarti forte. Non ho voglia di ricordare le cose negative. Non ne ho voglia e non ne ho la forza. Mi ricordo quando ballavamo a piedi nudi in casa su Janis Joplin e come, dopo una giornataccia, lo stesso, su note immaginarie, su Patti smith, su quella spiaggia piena di conchiglie blu. Ricordi sparsi, ricordo casa a san giovanni e il davanzale e un qualsiasi mobile su cui mi sarei seduto a fumare, ricordo le altre case, ricordo ogni particolare delle case in cui sei stata, della tua stanza, qualsiasi cosa, le coperte, il telo, le lucine, i tuoi libri e il tuo disordine che assieme al mio creavano un caos niente male, tra lubrificanti, preservativi e frammenti sparsi di vita. Ricordo con precisione la tua voce al mio orecchio e i tuoi gemiti e i miei gemiti, le tue urla e il nostro supplicare, i tuoi e i miei orgasmi. Ricordo tutto, le città che abbiamo visto insieme e tutte quelle di cui abbiamo parlato, su qualche terrazzo con qualche canna in mano, ricordo tutti i giri per Roma che abbiamo fatto, dalle prime volte alle ultime, dal Colosseo al tufello, le mostre, i biscotti a trastevere. Mi ricordo tutte le manifestazioni, le proteste organizzate insieme, i cartelli, le foto, le tue foto e ancora oggi le uniche foto che ho di me, le uniche foto che non odio sono le tue e tutte quelle che abbiamo insieme. Ricordo tante tante cose, ricordo tutto anche se non tutto mi va di ricordare e potrei andare avanti per ore a elencare i momenti stupendi passati insieme ma il cuore mi si stringe, gli occhi si bagnano e sento di non aver molto altro da scrivere.
Ricordo quando ho sentito il mio cuore spezzarsi in più punti, più volte. E ricordo anche il momento in cui ho sentito e visto scricchiolare e poi cedere il tuo. E ora, che posso fare, ora che è andata così? Avrei potuto fare molto prima. Ora sto per andare a farmi una radiografia, l'ennesimo problema di questi mesi infiniti, che non finiscono mai, mesi in cui sembra che niente, niente, niente debba andare bene. E ripenso che hai ragione, avrei potuto fare tanto altro, avrei potuto non spezzarti il cuore in quel modo, avrei potuto presentarmi da te con dei fiori in mano e tanto altro, ma non l'ho fatto. Non l'ho fatto. Anche se con i metodi più sbagliati, ferendo la persona che amavo, avevo bisogno di quella distanza, di quella solitudine, dolorosa, pesante, insostenibile a volte ma necessaria. Mi sento morire ogni volta che leggo, che sento o che mi dici che stai male e so che quanto è responsabilità mia e mi sento morire ogni volta che penso che sarebbe bastato poco per evitare tanto dolore, dolore da entrambe le parti, dolore appunto evitabile. Mi sento male ogni volta che ti leggo e capisco come ti senti. E capisco quanto sia difficile, forse impossibile, farti cambiare idea, farti capire che tu per me non hai mai smesso di essere importante, di essere così importante... E ora sei diventata anche un enorme macigno che pesa sul mio cuore. Anche il mio cuore è spezzato, si è spezzato nel momento in cui ho capito, in quell'istante in cui ho realizzato che stare con la persona che amavo non mi faceva stare bene come volevo, come pensavo sarei dovuto stare, non mi faceva provare quel che pensavo avrei dovuto provare. Non ho voglia di tirare fuori ancora la paura, la rabbia, la tristezza, tutte quelle emozioni provate e di cui in questo momento sono saturo. Non scrivo quasi mai qualcosa così di getto, da pubblicare, senza rileggerla ma se non lo facessi mi perderei nelle mie solite masturbazioni mentali e cancellerei tutto di botto. Invece mi sento di scrivere qui, sul mio blog, sul mio diario dove sei tu l'unica che mi legge, l'unica che mi conosce. E anche, in senso lato, sei ancora la persona più vicina a capire il mio io, la persona che ha compreso di più la persona che io sono, la donna che mi ha amato e per questo ha dovuto soffrire tanto, per colpa del mio ego, del mio narcisismo, del mio dolore, del mio non stare bene con me e con gli altri. Tante cose sono cambiate in questo 2020. A volte mi sento solo un po' più vuoto ed invecchiato. Anche se so che non è così, anche se so che quel vuoto che mi ha sempre accompagnato non è più come prima, è ridotto, è combattuto, per una volta. A volte mi sento solo ancora un bambino sballotatto in una vita da adulto. Mi voglio un po' più bene, mi conosco un po' di più, forse questo è il mio grande traguardo di quest'anno.
Ti devo tante cose. Ti devo un mazzo di fiori e forse altre scuse. Ti devo tante cose. Vorrei tornare indietro, asciugare ogni tua lacrima, abbracciarti ogni volta che ne senti il bisogno, vorrei tornare ad essere la persona che ti faecva sentire bene, che ti faceva sentire i tuoi diciannove anni, vorrei non essere la persona di cui hai paura, la persona che ti fa soffrire, il carnefice, l'assassino, l'heartbreaker. Vorrei tornare indietro, forse o forse no. vorrei solo fare le cose diversamente. Non scambierei i traguardi raggiunti quest'anno con niente, però continui a mancarmi, continua a mancarmi il tuo amore, continua a mancarmi il mio amare. Non baratterei i cambiamenti che ho fatto, la persona che sono diventato, avrei voluto solo farli con te, cambiare con te, evolvere con te. Era possibile ma non l'ho creduto tale. E per questi e tanti altri motivi continuo a tormentarmi e continuerò ancora, non so per quanto. Quando ci siamo visti non ho saputo darti tutte le risposte che volevi, non ho saputo risponderti come forse avresti voluto ma ti ho ascoltata, ti ho ascoltata fino in fondo, ho visto la persona che sei diventata e ho capito molto, di te, di me, di noi. Avrei voluto sapere cosa dire, avrei voluto avere tutte le risposte, avrei voluto non provocare e vedere quelle lacrime, quell'ansia, quella paura. Vederti piangere mi ha colpito al cuore, come una coltellata, un'altra volta... ma ero sempre io ad avere in mano la lama e come un pazzo continuo ad agitarla e ad affondarla, un po' a turno, dentro te e dentro me.
Avrei tante cose da dirti ma non te le dico, non so perché. Anche quando ci siamo visti non sono riuscito a dirti tutto, le cose belle e le cose brutte che ho passato e vissuto, la persona che sono diventato e quella che sto diventando. Non sono riuscito a farti cogliere, penso, tutti i cambiamenti che ho fatto, forse perché non ne ero in grado, davanti al tuo sguardo, non ero in grado di reggerlo e forse ho fatto come al solito, mi sono rifugiato in una pantomima, in una sceneggiata, ho messo su una maschera e non mi sono comportato molto diversamente da come facevo prima e di questo mi dispiace. Ancora una volta ho nascosto il mio vero io, forse perché fragile, sì, perché il mio io e la mia identità sono ancora fragili, in fase di costruzione e ricostruzione. Come umano, come persona, continuo a farmi e a disfarmi, a rifarmi, scompormi e ricompormi. Sto cercando di diventare una persona migliore di quella che sono stata con te.
Avrei tante cose da dirti ma non te le dico, continuo a scrivere, fumo e scrivo, scrivo tanto, scrivo per te, scrivo di te.
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surfer-osa · 5 years
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Questa è la mia canzone salva vita.
L'ho ascoltata centinaia di volte, come tutto il disco che la contiene, in ospedale.
Piccolo riassunto delle puntate precedenti: ho un tumore raro, al momento incurabile. Sono stata sottoposta ad un importante intervento chirurgico, a varie terapie sperimentali e a diversi cicli di chemioterapia. Per ora tutto è fermo, ho costantemente dolore ma l'inquilino tace. In gergo medico mi sta discretamente andando di culo, sono qua.
Quando il reparto di oncologia diventa la tua seconda casa ti trovi a dialogare con tantissime cose. Qualcuna fortunatamente è meravigliosa: l'empatia e la delicatezza del personale che lavora lì, un aspetto insostituibile. Qualcuna è pesante ma francamente evitabile: la conversione in extremis a Dio. O meglio: il fatto che molti pazienti e volontari (suore, frati) ci tengano al fatto che anche io mi unisca alla gloriosa schiera di nostro Signore Gesù.
Rispetto la volontà e il credo altrui ma non voglio essere indottrinata per trovare un senso a tutto questo, grazie.
Io non riesco a dire che Dio mi ha dato questo "dono" perché sono più forte degli altri e posso portare questo peso. Non sono una martire, non aspiro a diventarlo, e se il cancro viene da Dio io lo maledico.
Così, al culmine di giornate sorprendentemente penose e difficili, mi sono messa le cuffiette nelle orecchie ed ho fatto partire questa canzone perché riesce a tirare fuori tutta la mia angoscia e a dare una forma bellissima alla mia rabbia.
La rabbia è importante, bisogna saperla usare bene.
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