“Se pubblicano Catalano ed Evan come poeti, io non sono più un poeta ma un anacoreta, uno scrivano di nome Bartleby che dice sempre di no, un uomo pleonastico, pleistocenico”. Elogio, da Cotignola, di Giovanni Strocchi, una specie di Dino Campana
Rivive a Cotignola il rito dell’Arena delle balle di paglia, alla sua undicesima edizione. Dove il Canale emiliano romagnolo incontra il fiume Senio nascerà quindi anche quest’anno il più grande teatro di paglia del mondo, che avrà per tema i somari che volano. Una suggestione quasi bambinesca, che ritrova le sue radici in antichi modi di dire e di fare capaci di creare associazioni di pensiero non sempre corrette e non sempre sensate: l’Arena, come un somaro che vola, esiste e non esiste, è fatta di una parte concreta e di altre parti – le più importanti – effimere, impalpabili, come le relazioni che servono per costruirla o i sentimenti che risiedono in chi la vive.
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Lo scenario naturale è quello di un’ampia golena del fiume illuminata dalla luna e dalle stelle, dominata da un ordinato boschetto di acacie che fanno da sfondo al palcoscenico. Un’arena greca effimera immersa nella campagna. Concerti, teatro, narrazioni, land art, esplorazioni ed incontri poetici, che nascono sul filo della paglia e dell’immaginazione.
Dall’11 al 16 luglio cosa succede se guardi dentro gli occhi di un asino che riflette sulla tua vita? Cosa ti suggerisce un paese che si racconta in un quaderno del dopoguerra? Cosa rispondi ad una casa che decide di trasformarsi in un museo? Cosa ti succede dentro, se vedi scomparire un bosco di fiume? Domande che si raccolgono come stati d’animo, carezze d’estate da mettere sotto spirito, come le ciliegie di maggio, sentimenti dispersi e aspersi. Il programma è succulento, si va da Roberto Mercadini a Gianni Parmiani (grandi attori troppo poco conosciuti), da Nada a Cavazzoni. Tra una bisciagallina e una spiga di grano il somaro del Senio ti accoglie con gli occhi di lucertola e il corpo da pesce di fiume che entra ed esce dalla terra dell’argine. Nelle ore notturne vola come un drago, ma lo fa quando non lo vede nessuno per non suscitare l’invidia dei cavalli, che si credono gli unici in grado di volare. C’è poi lo spigare storie nella stanza delle finestre, il gomitolo matto di maschere di paglia, il trebbo del canale, il bar delle acacie, perché alla fine tutti siamo responsabili a fare bene!
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Ma qualche anno fa, fra le solite balle, in un tempo sempre presente, gli allungo affabile qualche libercolo di poesie spicciole e speciali. Gianruggero fingeva gentilezza e giubilo e si mette i volumetti sotto le ascelle come baguette, prima di riporle elegantemente nella sua borsa di pelle e montare a cavallo della sua moto americana come uno sceriffo della Bassa Padania. Mentre il Manzoni fuma l’ennesima sigaretta – Mi piace pippare – mi fa, con quell’aria da contrabbandiere armeno un po’ spia, un po’ sicario, io non so cosa rispondergli, vorrei starnutirgli tutto il mio raffreddore da fieno di quella serata incommensurabile e irrespirabile, ma la vera questione è che il poeta vero è un altro e il Manzoni è lì per questo, per lui: Giovanni Strocchi, nato a Faenza 43 anni or sono e risiedente a Barbiano, Cotignola (fra un soggiorno facoltativo in strutture psicoaffabili e trattamenti obbligatori in ospedali psichiatrici, rimpinzato e bombardato di antidepressivi e calmanti), una specie di Dino Campana, con però l’unico elettroshock della poesia. Lo Strocchi è già al terzo libro, dopo un esordio innato e osannato dalla critica, nel lontano 2010, con Una Finta Manana, in cui Guido Vicari lo mette fra i vacui gridi, posizione profetica e fatale, e di cui Gianruggero incastra e incastona una raggiante e invitante prefazione, a cui segue Nereide Cervese, storia d’amore marittima di cui esce un introvabile audiolibro, legge Franco Costantini, voce tetra e teatrale che rende al meglio i passaggi densi dei versi sparsi e spersi. Tra un reading e l’altro al teatro Binario e al circolo del dimenticatoio, eccoci alla terza fatica. Dopo annui di bui ragionamenti sono qui a proporvi estratti del nuovo lavoro.
La mia è più un’ostensione che una recensione.
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Conosco Giova da tempo, da quando i miei passi vagabondi e raminghi si fermarono qui, tra lande desolate e pianure scompaginate dai venti e dalle nebbie, dove il mio pellegrinaggio ha trovato riposo e ristoro, bonifica delle mie paludi più melmose. Con grande stupore e ammirazione ho ritrovato anche qui poeti di alto calibro e artisti un po’ troppo narcisisti, tra questi orizzonti verdi e fissi, a perdita d’occhio, lineari e piatti come il cardiogramma di un morto, fra lagne di campagna, nella bassissima romagna, stroncata dal sole e dall’umidità.
L’amicizia con Giova, intervallata dai ricoveri, si ripropone e si rinnova ogni volta che ci rincontriamo, questa volta in una trattoria di Godo, Russi, e subito fra un bicchiere di burson e uno di rambela, mi allunga un’email con le nuove composizioni – Adesso sto abbastanza bene, ho ricominciato a scrivere, devo chiedere a un mio amico un giudizio critico, ma sarei onorato e lusingato se tu le leggessi e mi dicessi un tuo incontaminato parere. Alcune parlano della figa, ma lascia stare, ogni uomo ha le sue tare. Ora ho un contatto con una rivista americana – mi sovviene Emanuel Carnevali, glielo accenno, madido di grazia, lui fa finta di non conoscerlo, ignoranza superba, nosocomi che si ripetono come un mantra.
Me le divoro come un latte brulè, me le assoporo come un tortello di zucca, come un filetto di carne cruda, gustandomele bene sulle papille neuronali. Degne di nota, di merito, merito di una mente classica e filosofica, greca e persiana, persa persino fra persiane e psicofarmaci, le ultime liriche hanno un’intensità sita fra tra una coltre di nuvole e un solco di terre aride. Credo che nel panorama italico attuale Giovanni Strocchi sia voce fuori dal coro, che nasca già arcaico e classico, tra Pound, Hölderlin borderline e Montale, epigoni e paragoni di agoni agonizzanti. Versi liberi, disadattati e distanti apertamente da certe idiozie pubblicate oggi – Sono in contatto con La Bradipo Edizioni. La vera poesia non si pubblica per deontologia – gli dico. Se pubblicano Catalano ed Evan come poeti, io non sono più un poeta ma un anacoreta, uno scrivano di nome Bartleby che dice sempre di no, un uomo pleonastico, pleistocenico, che verga sulla pietra segni indecifrabili, e ghigna in una grotta. La parola di Strocchi è alta, vera e non può sottomettersi al mercato, deve infiltrarlo come l’acqua, asciugarlo come un vento, deve indagare l’animo, deve scavare varchi e scovare disastrose menti.
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Strocchi lima il verso per entrare come uno stiletto, col verso giusto in pieno petto, al cuore del cervello. Strocchi è difficile, ti devi fermare, soffiare, soffermare, tortuoso ma lineare, armonico musicale, ti devi bloccare come in un rilassamento autogeno e masticare e digerire il senso, altrimenti il senso non lo sa, se no il senno se ne va, sotto il setto l’insetto nasale. Creta è vicina e Zeus guarda dall’alto la turpitudine di creta, di fango, dell’uomo adamitico – una mela al giorno leva l’eden di torno. Tornando allo Strocchi e ai suoi occhi malocchi, compagno di bevute e di bagigi (arachidi in lughese), il suo poetare mi porta altrove, attratto dalla tristezza ad attraccare in territori e in porti che non portano da nessuna parte, ma mai visti, valli velleitarie, vette attive come vulcani, volere arrivare a rive veraci e virali e varare nuove e rare vie, nel rivivere lo scacco di Archiloco su madrigali magri e fedoni fedifraghi. Se Giovanni è dono di dio secondo la sua etimologia, la sua poesia è eretica perché estatica, scismatica e sciamanica. Con questi scritti Strocchi dissotterra il terreno con un aratro che verga un solco che non si cancella, come dire solo semi si nasce, semi miseri, semi di rami, Semiramidi smemorate.
Non scrivere una poesia al giorno, se vuoi che la tua identità sia conservata, mi scrive a mo’ di epigrafe, come introduzione alle liriche postate. In oggetto di posta, in palio, la posta è altissima e messa a repentaglio in un’esistenza funambolica da maudit, che passa da una clinica all’altra e torna a casa solo per ricominciare ad impazzire.
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Anamnesi
Come grani deposti a fioritura sono gl’anni,
e tu cominci a contarli dall’omega.
Intanto il tempo parte prima di finire,
e l’ombra delle meridiane ne è misura.
Come sai che ciò che dirai dopo
sarà la stessa cosa che sapevi prima?
Memoria e verità si sdipanano all’indietro,
ma il filo lungo delle inesistenze
che noi chiamiamo anamnesi
è un tipo sempre falso di sapere.
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Il furto
Hanno tempo i lucidi occhi
bellissimi che hai,
trapassarono le età dei sonni
in notte vera,
desti o cupi,
apparenti od illustri di chiarità.
Ma troppa fatica di fede
è di grado distogliere:
sono infiniti i rivali dello spirito,
ed a colui che passa inavvisato
e senza volontà
ruberemo il dèmone.
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Il cappello
La morte è una sorella antica,
madre e nemica
dell’inganno che amiamo
chiamare cose che non sono
con il nome giovinezza.
Fine e principio di ogni beltà
radiante dal viso,
quanti ritorni di fiori
avrai come respiri?
Il tormento del pensiero
è posto alcuni gradi
dell’essere più giù
del sommo essere piacere.
Ma quando passi il limitar degl’anni
che non desideravi,
o scruti come un augure i futuri,
allora cada il tempo,
e se la Moira lo vorrà,
un dio si volga all’Ade
– quando la fronte s’allarga
e il tuo cappello è già lì.
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Socrate il cinico
Per le nebbie del Tartaro,
Socrate ha smarrito
la via delle domande:
voleva sciogliere piogge di dubbi
e ragioni sospese.
Interrogando i sapienti,
il cane dell’agorà
voleva confutare un dio!
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Tetti d’inverno
Gli amanti della lana sono pigri.
Fuori del mio anello
un nevischio non attacca e quasi piove.
Lungo le scarse vie,
le mani indurite o scorticate
volgono a sparire.
La strada lassa si scioglie
dove per largo alcuno non ha piede,
o come forse dice Omero:
– Tutti stanno sotto il coperchio delle case.
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Nell’ora del morire
Forse nel bruno sparso
il giorno si riposa,
o dorme risanando la memoria:
una nebbia eternamente dimezzata.
Da queste ore del morire
credo di non essermi mai mosso:
questa pace finale
desidera preghiera.
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E nel frattempo, nel mio girovagare a zonzo fra i canali magri e laidi di Lugo, dove la pioggia fa il sugo e il sole si nasconde dentro il Pavaglione come in un baco da seta una crisalide, dove la gente è arcigna e spiovente come le ombre strette fra le case a strapiombo e le strade distratte, incontro Filippo Margionti, un ragazzo ventenne così timido che il sole lo arrossisce, che la sua ombra lo spaventa, che esce di casa solo per una boccata d’aria (che talvolta gli va di traverso) e scrive canzoni che nessuno ha mai ascoltato.
Un incrocio fra Francesco Guccini e Claudio Lolli, un personaggio fantastico, appassionato di manga e Stephen King, dotato di una cultura cinematografica eccellente (ama Haneke e Kim Ki Duk) e letteraria disarmante (cita Cioran su tutti), unite ad una gentilezza e affabilità degne di un Oscar Wilde senza ostentazioni. Una testa di capelli brizzolati sopra a un corpo già appesantito lo rendono molto più vecchio di quello che è, e il suo eloquio forbito e preciso oltre a quello che canta (bene), che suona (meglio) e che scrive (ottimamente, per essere così giovane e autodidatta) fanno di lui un nome da tenere d’occhio, anche se la sua predisposizione al massacro e a scomparire, insieme ad un cinismo e ad un ironia spietata e lontana dalla ragionevolezza e dalla socievolezza, potrebbero precludergli parecchie strade, soprattutto mainstrem, ma quello che racconta ha l’esattezza cristallina di una feritoia di luce in una stanza buia, il disincanto e la critica feroce e centrata alla massa e all’attuale condizione umana di orwelliana memoria e un’analisi così accurata e diagnostica che sembra sia in possesso di una visione radiografica a raggi X. Spero di deliziarvi, come lui ha fatto con me, con le sue canzoni, che purtroppo qui potete solo leggere, iniziando dai quattro funerali.
Luca Gaviani
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E poi disse che “sembrava come perso
nel primo sonno profondo”
ma alle volte c’è chi al pianto
c’è chi al mondo non resiste
e senza portar con sé alcun segreto
lascia il mondo per ritornare indietro,
senza sprecar parole
senza simboli nel cuore;
e lui ch’era silenzioso
nella sua piccola bara
non volle aggiunger nulla
sulla Provvidenza amara
d’esser morto nella culla
così piccolo e indifeso
come poi lo siamo tutti
quando arriva il dì inatteso;
poi i parenti e i loro amici
in quel clima nero e tetro
si avviarono alle auto,
mentre lui rimase indietro.
E poi disse che “mi sembra di vederlo,
così giovane e anche forte”
ma si dice nella Bibbia
che nel pieno della vita
camminiamo con la morte,
e le giovani ambizioni
possono restare incolte;
e poi disse “sembra ancora qui con noi,
sembra ancor così presente”
benché chiuso in una bara,
benché pallido ed assente;
e il buon senso ci racconta
che era caro al nostro Dio,
che ora è in un posto migliore
e il suo corpo è ancora qui
per dirgli addio.
E si disse “non può essere successo,
sarai nelle mie preghiere,
e non so se veramente
da lassù ci puoi vedere…
a noi restano i sorrisi
di tante foto-ricordo del tuo volto,
l’universo non restituisce mai il maltolto;
e quante ore avrà lavorato sodo
il tuo imbalsamatore,
guarda qui che risultati!
Sembra quasi come se stessi dormendo
ma se è vero che morendo
non devi più preoccuparti per il tuo futuro
e non vale più la pena di tenere ancora duro
né di lottare per qualcosa che comunque
non è fatto per durare;
ora hai il riposo eterno
per poterti riposare!
Amica mia, di mezz’età,
là dove sei che cosa c’è da fare?”
E poi dissero “le nostre
più sentite condoglianze”
è sempre molto triste ritrovarsi
solo in queste circostanze;
però nonostante tutto si va avanti,
d’altra parte è solo un vecchio uguale a tanti;
quindi niente che non sappia di già visto
il lutto non è molto grande
se l’età poi l’ha previsto;
forse nelle prime file
si sospira un po’ il dolore,
fuori piove e la giornata
sta perdendo il suo colore;
“Tutto è buio” rantolava
mentre se ne stava andando;
il necrologio all’aria aperta
si sta già consumando;
e poi è andato all’improvviso
con un’espressione oscena
che diceva tutto e niente
che ricorda tanta pena;
e il ricordo del suo viso
è già un po’ più evanescente
ora che stanno portando
il suo corpo putrescente,
finché non rimarrà niente,
a murarlo nel cemento,
mentre con tutti i parenti
si dà voce al testamento.
L'articolo “Se pubblicano Catalano ed Evan come poeti, io non sono più un poeta ma un anacoreta, uno scrivano di nome Bartleby che dice sempre di no, un uomo pleonastico, pleistocenico”. Elogio, da Cotignola, di Giovanni Strocchi, una specie di Dino Campana proviene da Pangea.
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