Tumgik
#mi trema il culo sinceramente
laurasblogs-stuff · 7 months
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I felt this interaction in my fucking bones.
They are so us coded it hurts
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scampoliditesto · 7 years
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Prima di Primavera
Nonostante sia coperto dalle nuvole, il sole è tiepido. Da almeno dieci minuti sto cercando di trovare una posizione comoda su questa sdraio. Adesso mi sto dondolando sfruttando i movimenti della schiena. Faccio pressione con le cosce sui listelli di plastica bianca che compongono la seduta. Sono piatti e lievemente arcuati. Muovo il sedere fino a quando non sono soddisfatto. Infine ruoto il collo. Lo faccio per cercare l’angolo che mi consente di rubare i pochi raggi che riescono a filtrare attraverso lo strato di sa-la-madonna cumuli. Allargo le narici e inspiro aria fino a quando non sento scricchiolare qualcosa: sono le mie costole macerate dall’umidità immagazzinata durante l’inverno. Visto il volume d’aria che sta fluendo attraversato il naso, mi aspettavo di sentire il profumo della campagna. Sono a decine di chilometri dalla città. Sono tra le colline e i vigneti, quindi dovrei fiutare roba tipo l’odore dell’erba, oppure gli aromi sprigionati dall’umidità prossima al punto di evaporazione. Non sento niente di tutto questo, anzi. Sento odore di cicli termodinamici, di auto ammassate in coda, di incubi color arancio alimentati da gasolio brodoso e stracolmi di persone che non sanno perché stanno andando da qualche parte. Insomma, sento l’odore della combustione. Apro gli occhi. Si abituano subito alla luce fioca. Davanti a me c’è LakePlumcake. In braccio ha un sacco di carbonella e gesticola borbottando qualcosa. Si gira verso di me e solo ora mi accorgo che è diventato davvero magro. Un bel pezzo della cintura svolazza libera oltre la fibbia. Ruoto lievemente il bacino per cambiare la distribuzione del peso. La sdraio emette uno scricchiolio. Continuando a parlare da solo, LakePlumcake lascia cadere il sacco di cartone pieno di carbonella e infila le mani in tasca. Poi comincia a piazzare sopra alla piastra del barbecue dei fazzoletti di carta usati e dei cubi di diavolina color ocra. Spero che la combustione faccia il suo dovere, mangiare le sue secrezioni ossidate non è proprio una cosa che mi fa venire l’acquolina. «È una merda» dice soffiando su una fiammella incerta. «Che succede?» «È questa roba» dice indicando un pezzo di diavolina. «Cosa ha che non va?» «È biologica» sbraita agitando la confezione tenendola con due dita. Ha l’aria sinceramente schifata. Avanzo di qualche grado con la schiena, allargo le braccia e quindi mi stravacco nuovamente sulla sdraio. «È fatta con gli scarti del legno. Truciolato, paglia, roba del genere. Fa schifo. Per questa roba serve la chimica. Guarda quanta cazzo ce ne vuole.» Vorrei spiegargli che quella roba è abbastanza malsana, che non basta scrivere su una scatola “biologica” per annullare la pericolosità del contenuto. Tra l’altro, è la tecnica che impiegavo regolarmente da ragazzino per nascondere le sigarette. Le infilavo dentro una custodia per audiocassette e sopra ci scrivevo un titolo assurdo, roba tipo “Primus – Live in Budapest” oppure “Sonic Youth – Best Of”. Lo facevo nella speranza che i miei genitori non provassero la smania irrefrenabile di deviare dai loro ascolti per sperimentare sgraziate melodie zappiane o scariche di rumore. E insomma, vorrei spiegare a LakePlumcake questo processo mentale, quindi gli dico che no, non deve fidarsi delle etichette, ma lui non mi ascolta. Anzi, continua ad aggiungere diavolina dicendo “cazzo, cazzo, ci vuole la chimica”. «La chimica» dice aggiustandosi i pantaloni che scivolano per mancanza di culo: sembra il personaggio tridimensionale di un videogioco straripante di bachi. Stendo le gambe producendo una serie di rumoretti sordi quasi articolati in terzine. Decido di lasciar perdere, così torno a pensare a qualcosa di grigio, qualcosa che si intona con il cielo.
La struttura in legno che ospiterà i grappoli di uva fragola trema lievemente. Il fuoco si è spento, così LakePlumcake la sta prendendo a calci. Smette di bestemmiare solo per chiedermi l’accendino. Guidato da un pensiero automatico scatenato da qualche collegamento sinaptico forgiato da migliaia di gesti ripetuti, dò una manata alla tasca destra dei jeans. È vuota. Con il pollice e l’indice formo un angolo retto e oscillo alternativamente la mano. LakePlumcake estrae dal marsupio la sigaretta elettronica. Aspira e ridendo sputa fuori una nuvoletta biancastra. Entrambi la guardiamo. Magari pensiamo pure la stessa cosa, d’altro canto siamo due scienziati. E forse pensiamo a HO-CH2-CHOH-CH3 (il glicole propilenico), al centro stereogenico e chissà quale altra cosa che ci siamo dovuti infilare nella testa per superare gli esami e festeggiare bevendo fino a vomitare in qualche angolo di Piazza delle Erbe. Ma in realtà, oltre che alla sostanza capace di trasformare l’acqua demineralizzata della sigaretta elettronica in fumo, pensiamo a quanto vorremmo fumarci una sigaretta vera. In preda alla visione di una Camel Light mi agito sull’affare di plastica che ormai ospita il mio culo da diversi minuti, culo che a differenza di quello di LakePlumcake sta diventando grossino abbastanza rapidamente. Mentre cambio inclinazione allo schienale aggeggiando con una maniglia, decido di abbandonare LakePlumcake al suo destino pirico, per così dire. Le nuvole stanno cedendo lentamente. Adesso il sole è caldo e sento che mi pizzica il naso. Mi addormento. «Cristo santo» urla LakePlumcake. È avvolto da una nuvola di fumo denso e di color bianco. «Che cazzo stai facendo?» «La carbonella era aperta e il cartone non isola. Cazzo ha preso l’umido.» «E quindi?» «Guarda che cazzo di fumo. Anche il barbecue era umido.» «Eh» faccio nella speranza di liberarmi del sonno convogliandolo in uno sbadiglio. Il vento sospinge il fumo verso di me, allora LakePlumcake unisce le mani e le usa come se fossero un mantice sgangherato. Poi si china verso il barbecue e soffia. «Smettila!» dico, «affumichi tutto!» «Non rompere il cazzo, altrimenti si spegne.» Tossisco e gli dico nuovamente di smettere di soffiare. «No no. Ci siamo quasi. Tra poco prende un bel po’ di diavolina. Ho fatto una bomba!» dice soffiando imperterrito. Sembra Coltrane sulla copertina di Giant Steps. E insomma, dopo qualche istante l’ultimo innesco di diavolina e fazzoletti di carta smoccicati dall’irregolare naso di LakePlumcake scatenano una fiammata che rende ancor più incandescente e rossastra la carbonella. Il pennacchio di fumo che si alza dalla piastra del barbecue incontra un refolo d’aria e arriva dritto sulla mia faccia. Quindi si infila su per le narici e, tra tutte le terminazioni che può colpire, cozza proprio con quella collegata all’area dei ricordi di quando ero ragazzino e passavo le estati girando tra la Val Fontanabuona e la Val Trebbia. E mentre la zaffata dovuta alla combustione sta svanendo, il mio cervello mi ha convinto di essere a Gattorna.
Per farla breve, a Gattorna ci andavo esclusivamente per tre motivi. Il primo era per una birreria molto famosa quando ero ragazzo. Non aveva niente di speciale però ci andavano tutti, così ci andavo anche io. Il secondo era perché a Gattorna d’estate c’era il campo da beach volley. Ovviamente non c’entrava lo sport, e neppure le ragazze che si scrollavano via la sabbia dalle tette dopo che si erano esibite in qualche tuffo per recuperare una palla facilissima. D’altro canto le armi di seduzione variano da generazione in generazione, devo dire che una volta si faticava di più. Il campo da beach volley di Gattorna non veniva mai coperto con nessun telone. Mai. E quindi diventava piuttosto rapidamente la lettiera di tutti i gatti della valle. Paradossalmente, al torneo estivo era meglio essere eliminati subito, altrimenti si rischiava di dover giocare la finale immersi nella merda di gatto fino alle ginocchia. Il campo da beach volley era a pochi metri dalla birreria. Una sera, in preda ad una sbronza, qualcuno ha scagliato un bicchiere nello spazio avvolto nel buio oltre il dehors del locale. Tutti si aspettavano un botto fragoroso, ma in realtà non successe proprio niente: la sabbia del campo aveva attutito il colpo. E quindi, ogni tanto andavamo lì per tirare nella sabbia boccali, svariati posacenere e palline sottratte al calcio balilla. A notte fonda, ben dopo l’orario di chiusura della birreria, andavamo a recuperare indisturbati la refurtiva. Non era vandalismo. Piuttosto era uno di quei gesti confusi che si fanno da ragazzi nella convinzione di favorire la giustizia sociale: il bottino sporco di sabbia serviva per rimpolpare la dotazione del baretto del paesino dove andavamo in villeggiatura. Il terzo motivo erano i fuochi di artificio. Venivano sparati dalla collina che sovrastava il centro di Gattorna, così tutti stavano con il naso all’insù: i carabinieri - vere e proprie celebrità della serata insieme ai pompieri, i bambini, gli anziani e le coppie. Insomma: proprio tutti. Alle undici precise, un botto annunciava l’inizio dello spettacolo fatto da qualche gracile fuocherello che esplodeva producendo uno schizzetto di lapilli a volte verdi, altre volte viola. E proprio ogni estate, la metaforica scagazzata di piccione fatta di acidi, carbonati e clorati incendiava la montagna. Si sentiva un suono strano, come un crepitio sovrapposto al rumore di un asciugacapelli, il suono della materia che si vaporizza in poderose correnti ascensionali. Poi apparivano lingue di fuoco alte svariati metri, una roba tipo la Pentecoste, però al contrario. E quindi, con il naso rivolto verso il bagliore rosso, tutti pensavano “vorsprung durch technik” ma dicevano “questi cazzoni non sanno nemmeno mettere un razzetto lontano dalle foglie secche”.
Mi sembra di sentire quel rumore. Agitandomi sulla sdraio, mi rendo conto che è reale. Con gli occhi ancora appannati dalla pellicola fatta di lacrime dense e ricordi, vedo solo una sagoma, sembra uno di quei disegni fatti sul vetro smerigliato che a volte si trovano nelle chiese. Almeno in quella dove ogni tanto vado c’è, lo so bene perché lo fisso per interminabili istanti nell’attesa che il prete finisca l’omelia. Lentamente l’immagine diventa nitida. Al posto di LakePlumcake ora c’è il Professore. Ha in mano un asciugacapelli e lo punta sul barbecue per alimentare le timide fiammelle: d’altro canto è troppo pigro per usare un attizzatoio, quindi non mi stupisco. Alza l’angolo destro della bocca stropicciando per un attimo la linea sottile tra le labbra. Per i suoi canoni sta ridendo e con un cenno del capo indica qualcosa dietro di me. Con fatica mi metto seduto e ruoto con il culo perché la torsione del collo non è sufficiente. Sul prato si vede l’ombra di LakePlumcake. Ha le gambe lievemente aperte e i jeans ammucchiati sulle scarpe. La cintura è inutile, quindi l’unica cosa che impedisce ai pantaloni di cadere è la fibbia del marsupio stretto in vita. Ride da solo. Poi si gira per un attimo verso di me, mi strizza l’occhio e sputa. Puh. Dalla sua bocca parte uno schiocco deciso. Aspetta qualche istante e scrolla la testa. Puh. Puuuh. Sputa nuovamente. Due volte. Gli sputi non sono tutti uguali. Nel senso, la matrice è sempre la stessa, si capisce che sono generati dalla bocca di LakePlumcake, ma sembra ci sia della grazia in quello che fa. Insomma, a ogni sputo cerca di modulare con le guance la forza dell’aria insufflata dai suoi polmoni. Puh. «Cazzo stai facendo?» chiedo. LakePlumcake si gira. Ha il sole in faccia e al posto degli occhi ha due fessure sottili. Se avessi degli spiccioli proverei a inserirli in quelle fessure, magari riuscirei ad ascoltare qualcosa che non sento più da tanto tempo. Qualcosa che non so più nemmeno cosa sia. «Vedi quel bicchiere?» dice indicando qualcosa davanti a me. Scrollo la testa. «È lì, cazzo. Davanti a te. Sei cieco?» e senza aspettare la risposta continua dicendo che deve fare centro. Con la mano mi costruisco una visiera di fortuna e la porto alla fronte. Piantato nell’erba c’è un bicchiere di plastica. È di colore bianco e le lievi difformità della tinta mi fanno intuire che deve esserci qualche disegno in rilievo: sono le zigrinature per aumentare l’attrito evitando che scivoli di mano. Puh. Puh. Puh. Puh. Spara quattro noccioline una dopo l’altra. Nessuna arriva a destinazione, anzi. LakePlumcake si ferma per prendere fiato. Inizio a ridere, allora tira un’occhiata che suona come “che cazzo vuoi?”. Poi ride. Ride a suo modo: singhiozzante, veloce e scomposto. L’eccesso di cuoio della cintura vibra sotto i colpi del suo diaframma.
Comunque, LakePlumcake ha dei precedenti con le noccioline. Quasi dieci anni fa, eravamo in una discoteca all’aperto sul mare. La chiatta dondolava cigolante e rendeva ancor più efficace i Cuba Libre che continuavamo a buttare giù senza troppi pensieri. Stavamo in un angolo a parlare di quello che immaginavamo sarebbe stata la nostra vita.   «Voglio qualcosa da mangiare» diceva una sua amica. «Non rompere il cazzo.» «Ma io ho fame.» «Toh, mangiati queste,» rispondeva LakePlumcake porgendole una ciotola. Così, nel buio di una notte nuvolosa, la ragazza metteva in bocca un’abbondante manciata di noccioli di oliva, i resti dell’aperitivo di chissà chi. E mentre sputava e bestemmiava, LakePlumcake rideva a squarciagola. Il suo culo non era ancora scomparso e la cintura gli segnava i fianchi. Io guardavo l’orizzonte cercando di orientare il mio volto verso un refolo d’aria fresca. Stavo bene come in una giornata di primavera, anche se non era ancora arrivata. Proprio come oggi.
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