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#nella morte avvinti
ophelia-network · 2 years
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“I've come to this belief that, if you show me a woman who can sit with a man in real vulnerability, in deep fear, and be with him in it, I will show you a woman who, A, has done her work and, B, does not derive her power from that man. And if you show me a man who can sit with a woman in deep struggle and vulnerability and not try to fix it, but just hear her and be with her and hold space for it, I'll show you a guy who's done his work and a man who doesn't derive his power from controlling and fixing everything.” —Brené Brown
Nella Morte Avvinti (In Death Conquered) by Roberto Ferri, the writing within the painting reads “qui deposito le mie lacrime... parte di me... frutto intimo che si fa specchio” / “here I deposit my tears... part of me... an intimate fruit... that becomes a mirror”
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Possa tu, Signore,
degnarti di venire a questa mia tomba,
di lavarmi con le tue lacrime,
poiché nei miei occhi inariditi
non ne ho tante da poter lavare le mie colpe!
Se piangerai per me sarò salvo.
Se sarò degno delle tue lacrime
cancellerò il fetore di tutti i miei peccati.
Se sarò degno che tu pianga
qualche istante per me,
mi chiamerai dalla tomba di questo corpo
e dirai: “Vieni fuori!”,
perché i miei pensieri non restino
nello spazio ristretto di questo corpo,
ma escano incontro a Cristo e vivano alla luce,
perché non pensi alle opere delle tenebre,
ma alle opere della luce.
Chi pensa al peccato,
cerca di chiudersi nella propria coscienza.
Chiama dunque fuori il tuo servo.
Quantunque, stretto
nel vincolo dei miei peccati,
io abbia avvinti i piedi,
legate le mani
e sia ormai sepolto nei miei pensieri
e nelle “opere morte”,
alla tua chiamata uscirò libero
e diventerò “uno dei commensali”
nel tuo convito.
E la tua casa si riempirà di prezioso profumo,
se custodirai ciò che ti sei degnato di redimere”.
Amen.
(S. Ambrogio)
Maria, Rifugio dei peccatori, prega per noi.
BUONA E SANTA DOMENICA.
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anagkeh · 5 years
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Roberto Ferri, "Nella morte avvinti"
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foxpapa · 5 years
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Nuova vita per i trabocchi
Usati da secoli per la pesca, oggi questi monumenti alla cultura marinara abruzzese sono stati riscoperti e trasformati
Una veduta dal Promontorio dannunziano mentre un acquazzone estivo si avvicina. Qui nel 1889 D’Annunzio soggiornò insieme all’amante Barbara Leoni in un piccolo casolare di pescatori che prenderà il nome di Eremo dannunziano. Da questo promontorio il Vate trasse ispirazione e ambientazione per il romanzo Trionfo della Morte; è qui che i due protagonisti “precipitarono nella morte avvinti”
National Geographic Traveler Autunno
di Giuseppe Ortolano
foto di Barbara Dall'angelo
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ilquadernodelgiallo · 4 years
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Si può spendere ogni propria forza soltanto per vedere cosa accade alla fine del regno, ansiosi di osservare abbattersi su di noi la sanzione definitiva. La sciatteria si pratica, gesto finale, come barbarie normale e quotidiana. Chissà dopo cosa viene, cosa preme dietro ogni muro pronto al crollo. Non piange lui, non piange lei. Le lacrime si situano a uno strato precedente nella geologia del dolore e nella sedimentazione umana. Si è oltre le lacrime, come immergendosi in apnea si raggiungono certe profondità e la pressione quasi fora i timpani, tutto non è soltanto muto ma anche inaudito, sospeso per troppa densità. Ci si è spinti troppo avanti o si è stati scagliati al di là della soglia di sopportazione? Chiunque sa che cosa ha da fare: è questa una consolazione offerta da qualunque rito. “La chiamiamo: depressione neonatale. Bisogna comprendere. Il mondo è troppo. Vengono alla luce, sono abbagliati, l'insopportabile dolore della coppia di polmoni che schiocca, trovarsi di colpo a reggere questo corpo innaturale, che pesa, questa spugna di tessuto adiposo e di avorio e di legno e di plasma, questa aberrazione che non ci appartiene se non per qualche decennio. Si abbattono. Non reggono. Non ce la fanno. Non mostrano felicità o, se la mostrano, non avendo memoria, quando se ne scordano, fanno trionfare lo sconforto per questa melma di carne e sangue che è il mondo. Chi sono questi giganti idioti che da vicino sorridono e barriscono suoni incomprensibili? Cosa è questo tessuto ruvido che sfrega contro le mie pareti? Questa gomma con cui mi tormento l'osculo da cui emetto gorgoglii? Arti che non controllo, nervi che scattano contro la mia volontà, ombre spaventose, luci improvvise, ripetute perdite di conoscenza e repentini risvegli dolorosi, in una zona centrale addominale io avverto fitte lancinanti… È il troppo di mondo. Si dissociano dal corpo. Quando la dissociazione è radicale, l'anima esce dal corpo. Io sono laico, ma ammetto: la morte dei neonati è la prova più potente che l'anima esiste - non un dio, dico proprio l'anima… Voi non dovete sentirvi in colpa per l'infelicità che avete fatto provare procreando, addirittura tentanto in ogni modo, nel vostro caso, visti gli sforzi per la fecondazione…” ___________________ …nato con la nascita delle tv private, ideatore dei programmi negli anni Ottanta per emittenti provinciali, stie di allevamento industriale per comici che un decennio successivo avrebbero pronunciato il verbo, nella immensa bolla vuota della mente vacua italiana e italiana perché soltanto in Italia poteva accadere, dove le rovine si ammassano a creare la sensazione di una bellezza trasandata e ignorata in quanto definitivamente posseduta e non ricevuta in eredità da tramandare. “Tu devi divertirti. Non esiste altro. Siamo divertiti e felici di essere barbari: la abbiamo costruita pezzo per pezzo, con fatica, a una velocità prodigiosa, questa barbarie, questa civiltà. È bella. È artificiale e naturale al tempo stesso. Senti la pelle di questo divano? È morbida. è come essere avvinti a un corpo.” Mi sto inabissando. La voce dello Zio è trasognata ma consapevole. Esistono sogni lucidi, infatti. “Bisogna essere precisi, sistematici, spietati nel preparare le condizioni del nostro piacere. La rigidità però non può capire. La cultura è una gran cosa, ne so qualcosa, ma irrigidisce. Dico proprio i muscoli della schiena, gli psoas, sono contratti, state seduti, cercate di chiacchierare in modi sempre più diversi, sempre più nuovi. Il di più è una crepa che abbiamo immesso nel tutto tondo di una civiltà. La crepa è un vizio vecchio: da lì entra la luce”. Sospira: “Non vivere è terrificante”. Non morire è terrificante? La tv qui e come sempre prima ha fatto a pezzi la storia, la ha incollata da brandelli, salti di contesto, montaggi inquieti che risultarono inquietanti un tempo, barbagli audio, salti di sintassi, balbettii ora indistinti. La cospirazione alla luce del sole fu la sua unica verità, ne fu la monomandataria, disseminata eppure una strategia unica, leviatana. Questo era una volta ma ora siamo oltre gli schermi, la storia è andata così. Siamo oltre la televisione, ma la gente si attarda, presa al laccio dalla malizia. ..."la gente", sono più che un migliaio, accalcati su due tribune circensi, urlano, scatenano l'istinto grossolano e violento che per un decennio di terrorismo e timore comunista hanno trattenuto. È venuto il momento di alleggerire, di alleggerirsi. Qui, ora, nell'atmosfera fausta di un sogno collettivo che deve ancora nascere e prosperare e figliare le sue legioni di ultracorpi. La finzione del wrestling, o meglio ancora del catch, è lo spettacolo più sincero che si sia allestito in Occidente. La smaccata dichiarazione che la maschera esiste, che qualcosa è truccato, che il costume è tale e può anche invadere la realtà: ecco alcuni effetti poetici di una rappresentazione carnevalesca della storia umana. I morti risorgeranno incorruttibili. Noi saremo mutati. Infine la curiosità divenne, come sempre, intorpidimento. "Dimmi parole eleganti, belle. Te le pago, sai?" Nessuna morte ha immagine ed è per questo che le parole esistono. Se la morte ha immagine, non esistono le parole. Prova, tu, descrivi il cadavere del povero ragazzo ucciso nell'ospedale carcerario romano! La tua oscenità sarà grande, il tuo omaggio misero: maledizione su di te! Maledizione sulle immagini! Maledizione su ogni linguaggio e testo! ___________________ La mia vita svuotata di senso, tutto perduto, rendeva irrapresentabile qualunque realtà, anche immaginaria. Si trattava oramai di descrivere e di spegnersi. Un decennio, un ventennio addietro, qui, la vita era altra cosa. Si teneva in equilibrio il senso della futilità di impegnarsi e quello della necessità di lottare. La convinzione che il fallimento fosse inevitabile e nondimeno l'intenzione di riuscire - e, più ancora, la contraddizione fra la mano morta del passato e i nobili propositi del futuro. Riuscire nell'intento in mezzo ai mali comuni - domestici, professionali, personali - consentiva al futuro padre di proseguire nella traiettoria di dardo scagliato dal nulla al nulla con una forza tale che soltanto la gravità lo avrebbe riportato infine a terra. Una nuova incombenza rappresentava al più una gradita prospettiva per il giorno dopo. Era una vita molle e indegna, condotta a scapito del pianeta e del futuro della specie: insensibilmente. Chiunque riteneva reale il momento presente. E poi, dieci anni dopo, tutto a un tratto si sono resi conto di essere crollati prima del tempo.
Giuseppe Genna, Fine impero
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t-annhauser · 7 years
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Storia di Roma: La Repubblica sotto assedio
Dove morto un eroe se ne fanno altri, Publio Valerio tergiversa, si duella all’ultima spada e you shall not pass, you shall not pass! Eroismo di Muzio Cordo, detto il Mancino
509 a.C., Lucio Giunio Bruto, fiero sul suo cavallo da guerra, comanda l’esercito romano presso la Selva Arsia, un boschetto fuori le mura di Roma al confine con la città etrusca di Veio (nord-ovest di Saxa Rubra, est dell’Olgiata). L’esercito veiente è in grigio, il suo colore di battaglia. A fronteggiare Bruto uno dei figli del Superbo, Arrunte Tarquinio (Arruns Tarquinius), che attacca subito a ricoprire l’avversario di insulti riversando frasi oltraggiose sulla di lui madre. Giunio Bruto come suo solito prende subito fuoco e sprona il suo cavallo contro il vile calunniatore, il quale parte a sua volta alla carica senza pensarci su due volte. I due, come in una singolar tenzone, vengono alla spada nel medesimo istante trafiggendosi contemporaneamente al costato, i corpi ricadono a terra stecchiti avvinti dall’abbraccio della morte. Fine di Lucio Giunio Bruto, il fondatore della Repubblica, e fine del secondo figlio del Superbo che in un’imboscata già aveva perso Sesto, lo stupratore di Lucrezia.
L’altro Console, Publio Valerio, ritornante vittorioso seppur di un soffio da una speculare battaglia contro i tarquinesi, predispone funerali solenni e una parata di trionfo per onorarne la memoria e le vittorie sul campo. Tirandola un po’ per le lunghe, al punto da far pensare ai romani che stesse tramando per mantenere da solo il potere, Publio Valerio si risolve dopo alcuni giorni carichi di tensione a nominare il sostituto, la scelta ricade su Spurio Lucrezio Tricipitino, il padre di Lucrezia, che però data l’età avanzata e forse anche l’emozione muore di lì a pochi giorni. Al suo posto viene allora eletto Marco Orazio Pulvillo, anch’esso suffectus, cioè facente funzioni fino al termine del mandato.
Nel frattempo il Superbo si rifaceva sotto appoggiandosi a un famigerato e spavaldo condottiero etrusco, Lars Porsenna. Le loro truppe erano lì lì per superare il ponte Sublicio e penetrare così nella carne viva dell’Urbe quando un valoroso eroe romano si fece avanti piantandosi a gambe large sul ponte come Gandalf sull’abisso di Khazad-dûm: you shall not pass, you shall not pass!: il suo nome era Publio Orazio, detto il Coclite per aver perso un occhio in battaglia. Publio, che si diceva discendente dagli Orazi che avevano sconfitto i Curiazi ad Alba Longa, pur con un occhio solo affrontò da solo l’esercito nemico menando fendenti a destra e a manca dando così il tempo all’esercito romano di riorganizzarsi. Stremato dal formidabile sforzo si gettò infine nel Tevere, dove di lì a poco venne recuperato dai commilitoni, acciaccato e con una gamba rotta, così che da quel giorno venne chiamato, oltre che l’Orbo, anche lo Zoppo.
Ma non è finita qui, mancava ancora all’appello il monco. E infatti si fece avanti un illustre quanto coraggioso comandate romano, Muzio Cordo, il quale aveva in animo di penetrare nell’accampamento del Porsenna e di pugnalarlo a morte fingendosi un disertore (già vista). Ormai disperati, i romani si dissero d’accordo di tentare l’impresa. Muzio riuscì in effetti a penetrare nel campo e ad estrarre il coltello, ma tradito dall’oscurità e dalla toga porporata che lo faceva sembrare il capo dei capi pugnalò invece l’uomo sbagliato scambiandolo per Porsenna. Arrestato e posto davanti al comandante, Muzio dimostrò inventiva e forza d’animo: egli si disse così amareggiato e così pronto al supplizio che mise la sua mano sinistra, quella usata per pugnalarlo, su di un braciere fino a consumarla, aggiungendo che lui era solo il primo di 300 valorosi coscritti che avevano giurato morte a Porsenna, e che uno dopo l’altro sarebbero comunque giunti ad attentare alla sua vita. Mentiva, ma la minaccia, unita alla grande impressione che aveva destato l’atto valoroso di incenerirsi la mano, ammansì il condottiero, che all’istante lasciò perdere l’assedio e si lasciò generosamente ricompensare da Roma per il gradito pensiero.
Da quel giorno Muzio venne chiamato lo Scevola, cioè il Mancino.
[continua]
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sanremista-dal51 · 4 years
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Io ti porterei Laggiù Dove l’acqua è fuoco Laggiù Dove il buio è luce Io ti porterei Dove tu saresti Quella che non sei Che non sei Quassù Dove l’acqua è acqua Quassù Dove il buio è buio E luce non è mai Dove tu sei veramente Quel che sei Quel che sei Ti porterei Dove il vecchio è un bambino Dove l’odio è amore Dove il pianto è un sorriso Ti porterei Dove tutto è diverso Dove non mi puoi dire Che non mi ami più Dove il buio è buio E luce non è mai Dove anch’io purtroppo Sono proprio io Proprio io Ti porterei Solo per un momento Fuori da questo mondo Fuori dall’universo Ti porterei Dove allora potrei Essere un altro E capire Che non mi ami più Dove il buio è buio E luce non è mai Dove anch’io purtroppo Sono proprio io Proprio io. (Leano Morelli) #sanremo #sanremo27 #sanremo77 #sanremo1977 #festivaldisanremo Brano: Io ti porterei Immagine: Nella morte avvinti - Roberto Ferri - 2010 https://www.instagram.com/p/B9RJTAcqxut/?igshid=a22ophqu49r0
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pangeanews · 5 years
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David Maria Turoldo, il poeta fondamentale. Leggerlo vuol dire perdersi, con entusiasmo
Di David Maria Turoldo, quasi subito, mi affascinò la scelta più che il poeta, l’abisso prima del verbo. L’impeto di DMT – questo quotidiano assottigliare la grammatica in chiodi – distrugge ogni giudizio sull’esito. L’esattezza del compito è superiore alla suggestione retorica.
*
Che egli, dico, scardinando il proprio nome – si chiamava Giuseppe – decida di vivere da David, da salmista a cui è chiara l’inquietudine, che sganghera nel nulla. Proprio dov’è la contraddizione, insanabile, e Dio si mostra come buco, come ferita, come assurdo, che il Salmista concentra la lira. Dio va eletto al dubbio, non carezzato di certezze.
*
Turoldo muore a Milano il 6 febbraio 1992, due giorni dopo ne avrei fatti 13. Fino a pochi istanti prima dell’ultimo – così testimonia il numero di “Servitium” 84, novembre-dicembre 1992, che lo onora, con nota di Giorgio Luzzi – Turoldo raffina la sua vita ai Salmi. Alcune Meditazioni liriche “Super Psalmos” sono affascinanti per vigore d’urgenza, scassinano la lingua sacra con il carisma di uno Iacopone da Todi.
Fino a quando, Signore? Di anfratto in anfratto il grido si propaga Dai silenzi dell’anima.
Fino a quando continuerà a ingoiarmi la Notte? E tu a nasconderti: perché?
Forse anche a te è negato svelarti, e resterai sconosciuto anche sotto la coltre di morte?
Ma il canto ci salverà, e splenderanno gli occhi anche dell’oscura tua Notte.
*
Finché un frate dell’ordine di Turoldo – e che aveva conosciuto Turoldo –, fra’ Antonio, un autentico maestro spirituale, mi portò quel libro – e capii. Capii, intendo, cosa significa che “il canto ci salverà”. Era il Salterio corale “della Liturgia delle ore, nella proposta poetica di David M. Turoldo”. Intendo dire. Turoldo veniva pregato. Le sue traduzioni dei Salmi e dei canti liturgici accompagnavano la vita dei frati. Appena svegli, durante la Messa, prima di mangiare, a tavola. Verbo di cui fare pasto, verbo che sopraffà ogni ragionamento e s’impone come codice ai gesti, come preparazione all’intimità con Dio. Poesia che va in litania ed ipnosi, disancorata dal ‘giudizio’, al di là del pensare, confitta al mistero, all’ambiguo, nelle narici del tremendo. Tremai, intendo.
*
Pregare recitando un salmo è diverso da leggere una poesia. Quando fra’ Antonio – un rigoroso rivoluzionario – scelse, a mia insaputa, di costruire una liturgia su alcuni Salmi che avevo tradotto, fui tramortito udendoli ripetere dall’assemblea. Quei versetti, indubbiamente, non erano miei – ma erano pur sempre miei. Con che spudoratezza pensai alla loro efficacia… Insomma, io parlavo alla comune dei poeti, traducevo consegnandomi, per evento, alla storia letteraria: quei versetti, verticali, avvinti alla codardia, avrebbero disancorato Dio dal rancore? Tremai, ripeto.
*
“Sempre storia dell’uomo che diventa canto; memoria che si compone in musica. Nella sostanza nulla di diverso dai salmi, solo testimonianza di creatività e di improvvisazione: segno che il cuore è pieno e trabocca”, scrive Turoldo introducendo il Salterio corale, con una esortazione “cantare tutti; e cantare per tutti”. Frate Antonio mi diceva che accordarsi nel canto comune è sigillare l’armonia tra gli uomini, dissimili – il vero patto è consonanza, anzi, consuonare, cantare.
*
Qui Turoldo traduce il profeta Isaia:
Chi nella mano raccoglie gli oceani e con il palmo misura gli spazi? C’è forse un altro che mai ha raccolto come in un’anfora tutta la terra?
O c’è qualcuno che possa pesare sulla bilancia montagne e colline? Chi mai diresse la mente di Dio, o consigliere gli fu nello spirito?
Gocce d’un secchio per lui le genti appena polvere sulla bilancia: i continenti sono come granelli pesano le isole quale pulviscolo.
*
Gabriel Del Sarto, poeta notevole – ricordo I viali, per Atelier, 2003; Il grande innocente, Aragno, 2017 – pubblica per Lamantica un “Saggio sulla poesia di David Maria Turoldo”. Si intitola Raccontare la verità – e dice già l’attitudine di Turoldo: ancorarsi al vero più che presunto per retorica, dare pregio al fatto che forma è rivelazione. “Turoldo, nel suo complesso, non è un grande poeta, ma è un poeta fondamentale”, scrive Del Sarto, penetrando uno scarto.
*
Quando frate Antonio mi disse che la mano di Turoldo era nella traduzione delle “Costituzioni” dei Servi di Maria, in effetti affascinanti (“Secondo l’ispirazione mendicante del nostro Ordine, viviamo i valori evangelici della provvisorietà, della insicurezza e della disponibilità ad andare dove urge il nostro servizio”), pensai che un poeta è proprio quello: rompe ogni regola per scrivere la regola. Adempierla è abitare poeticamente. (d.b.)
***
Per gentile concessione pubblichiamo un brano da: Gabriel Del Sarto, “Raccontare la verità. Saggio sulla poesia di David Maria Turoldo”, Lamantica, 2019
Turoldo nel considerare la sua poesia come una necessaria attualizzazione e amplificazione dello spazio poetico della Sacra Scrittura, si è assunto il compito di tendersi sul presente. La sua poesia è quindi funzionale: i versi sono uno strumento di preghiera, di riflessione, di messa in contatto col divino, sono una porta accessibile. Per questo assegna alla poesia un compito alto, che la nostra sensibilità catalogherebbe forse come ingenuo (ma, proprio per questo, libero): «Poesia/ è rifare il mondo, dopo/ il discorso devastatore/ del mercadante».
Per rifare il mondo serve il silenzio. Turoldo sa bene che per gli Israeliti il nome di Dio è fatto di quattro consonanti che non si dicono, che si tacciono. Il nome di Dio è silenzio, non perché è muto, ma perché contiene tutti i suoni e li sintetizza su una frequenza fuori banda. Il silenzio del nome di Dio è la perfezione di tutte le voci, di tutti i canti, che nessuno ascolta.
Il silenzio è amico di una delle verità più crude che il Vangelo tramanda: l’anima deve morire, perché l’uomo possa vivere in Cristo. In verità il nostro io non è che questo: una serie di comportamenti osservabili. Non siamo altro che rappresentazione, da questo punto di vista. In poesia l’io, quindi, si risolverà in una mera posa grammaticale. A meno che non sia svuotato di sé, kenoticamente. Se muore l’anima, quel piccolo mutevole io distinto dallo Spirito, anche Satana muore, e con lui le tenebre.
Satana è presente anche nel cuore di chi legge. La poesia di Turoldo chiede al suo lettore lo stesso impegno: essere disponibile a svuotarsi, a far morire l’anima. Non è poesia che diletta, non si vuol far leggere perché bella, ma è bella perché si deve far leggere. Essa si pone come strumento di ricerca della verità. Lettori diversi, attenti al grado di letterarietà di un testo e non alle sue motivazioni, in definitiva meno inquieti e più tiepidi, non sono contemplati. Per loro basta la condanna dell’Apocalisse di Giovanni.
Ogni poeta sceglie poche verità e decide su quelle di costruire, più o meno consapevolmente, la sua visione delle cose, e di imporla. La verità di Qohelet è necessaria perché sorga la verità di Giobbe: la prima è puramente riflessiva, speculativa, la seconda è una storia, dolorosa al massimo grado e cucita insieme da una speranza contraria ad ogni speranza, ad ogni logica. Per questo la prima è funzionale alla seconda. Per questo la seconda è più profonda e valida.
C’è stata un’epoca in cui i poeti erano degli entusiasti del pensiero. C’era una spinta in avanti e insieme una capacità di reggere la pressione del reale che permettevano l’immaginazione, l’illusione e, talvolta, anche la speranza. Turoldo sembra avere in mente poeti di questo spessore, ogni volta che riflette sulla poesia e sul suo destino.
 Wallace Stevens scrisse in Imagination as Value: «I grandi poemi del paradiso e dell’inferno sono già stati scritti, ma rimane da scrivere il grande poema della terra». È probabile che questo poema non sarà opera di uno solo, ma di diversi, semmai sarà scritto. Turoldo potrà, a mio avviso, essere annoverato fra costoro.
La poesia di David Maria Turoldo è il tentativo di amare e tenere tutto questo insieme: la polvere della terra, le infinite galassie, il nome di Dio. Perché se non manterremo vivo l’amore – quel costante colloquio fra noi – anche il suo nome luminoso andrà in frantumi.
Gabriel Del Sarto
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valeria-manzella · 7 years
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..PAPA FRANCESCO..UDIENZA GENERALE..Piazza San Pietro..La Speranza cristiana..Emmaus, il cammino della Speranza..Cari fratelli e sorelle, buongiorno!..Oggi vorrei soffermarmi sull’esperienza dei due discepoli di Emmaus, di cui parla il Vangelo di Luca (24,13-35). Immaginiamo la scena: due uomini camminano delusi, tristi, convinti di lasciare alle spalle l’amarezza di una vicenda finita male. Prima di quella Pasqua erano pieni di entusiasmo: convinti che quei giorni sarebbero stati decisivi per le loro attese e per la speranza di tutto il popolo. Gesù, al quale avevano affidato la loro vita, sembrava finalmente arrivato alla battaglia decisiva: ora avrebbe manifestato la sua potenza, dopo un lungo periodo di preparazione e di nascondimento. Questo era quello che loro aspettavano. E non fu così..I due pellegrini coltivavano una speranza solamente umana, che ora andava in frantumi. Quella croce issata sul Calvario era il segno più eloquente di una sconfitta che non avevano pronosticato. Se davvero quel Gesù era secondo il cuore di Dio, dovevano concludere che Dio era inerme, indifeso nelle mani dei violenti, incapace di opporre resistenza al male..Così, quella mattina della domenica, questi due fuggono da Gerusalemme. Negli occhi hanno ancora gli avvenimenti della passione, la morte di Gesù; e nell’animo il penoso arrovellarsi su quegli avvenimenti, durante il forzato riposo del sabato. Quella festa di Pasqua, che doveva intonare il canto della liberazione, si era invece tramutata nel più doloroso giorno della loro vita. Lasciano Gerusalemme per andarsene altrove, in un villaggio tranquillo. Hanno tutto l’aspetto di persone intente a rimuovere un ricordo che brucia. Sono dunque per strada, e camminano, tristi. Questo scenario..la strada..era già stato importante nei racconti dei vangeli; ora lo diventerà sempre di più, nel momento in cui si comincia a raccontare la storia della Chiesa..L’incontro di Gesù con quei due discepoli sembra essere del tutto fortuito: assomiglia a uno dei tanti incroci che capitano nella vita. I due discepoli marciano pensierosi e uno sconosciuto li affianca. È Gesù; ma i loro occhi non sono in grado di riconoscerlo. E allora Gesù incomincia la sua ..terapia della speranza..Ciò che succede su questa strada è una terapia della speranza. Chi la fa? Gesù..Anzitutto domanda e ascolta: il nostro Dio non è un Dio invadente. Anche se conosce già il motivo della delusione di quei due, lascia a loro il tempo per poter scandagliare in profondità l’amarezza che li ha avvinti. Ne esce una confessione che è un ritornello dell’esistenza umana..Noi speravamo, ma…Noi speravamo, ma...(v. 21). Quante tristezze, quante sconfitte, quanti fallimenti ci sono nella vita di ogni persona! In fondo siamo un po’ tutti quanti come quei due discepoli. Quante volte nella vita abbiamo sperato, quante volte ci siamo sentiti a un passo dalla felicità, e poi ci siamo ritrovati a terra delusi. Ma Gesù cammina con tutte le persone sfiduciate che procedono a testa bassa. E camminando con loro, in maniera discreta, riesce a ridare speranza..Gesù parla loro anzitutto attraverso le Scritture. Chi prende in mano il libro di Dio non incrocerà storie di eroismo facile, fulminee campagne di conquista. La vera speranza non è mai a poco prezzo: passa sempre attraverso delle sconfitte. La speranza di chi non soffre, forse non è nemmeno tale. A Dio non piace essere amato come si amerebbe un condottiero che trascina alla vittoria il suo popolo annientando nel sangue i suoi avversari. Il nostro Dio è un lume fioco che arde in un giorno di freddo e di vento, e per quanto sembri fragile la sua presenza in questo mondo, Lui ha scelto il posto che tutti disdegniamo..Poi Gesù ripete per i due discepoli il gesto-cardine di ogni Eucaristia: prende il pane, lo benedice, lo spezza e lo dà. In questa serie di gesti, non c’è forse tutta la storia di Gesù? E non c’è, in ogni Eucaristia, anche il segno di che cosa dev’essere la Chiesa? Gesù ci prende, ci benedice..spezza..la nostra vita..perché non c’è amore senza sacrificio..e la offre agli altri, la offre a tutti..È un incontro rapido, quello di Gesù con i due discepoli di Emmaus. Però in esso c’è tutto il destino della Chiesa. Ci racconta che la comunità cristiana non sta rinchiusa in una cittadella fortificata, ma cammina nel suo ambiente più vitale, vale a dire la strada. E lì incontra le persone, con le loro speranze e le loro delusioni, a volte pesanti. La Chiesa ascolta le storie di tutti, come emergono dallo scrigno della coscienza personale; per poi offrire la Parola di vita, la testimonianza dell’amore, amore fedele fino alla fine. E allora il cuore delle persone torna ad ardere di speranza..Tutti noi, nella nostra vita, abbiamo avuto momenti difficili, bui; momenti nei quali camminavamo tristi, pensierosi, senza orizzonti, soltanto un muro davanti. E Gesù sempre è accanto a noi per darci la speranza, per riscaldarci il cuore e dire..Vai avanti, io sono con te. Vai avanti..Il segreto della strada che conduce a Emmaus è tutto qui: anche attraverso le apparenze contrarie, noi continuiamo ad essere amati, e Dio non smetterà mai di volerci bene. Dio camminerà con noi sempre, sempre, anche nei momenti più dolorosi, anche nei momenti più brutti, anche nei momenti della sconfitta: lì c’è il Signore. E questa è la nostra speranza. Andiamo avanti con questa speranza! Perché Lui è accanto a noi e cammina con noi, sempre!..
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pangeanews · 5 years
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“Vorrei distruggere tutto ciò che ho scritto e ritirarmi sull’isola deserta con un’enciclopedia”: Borges compie 120 anni! Auguri con inedito
Vorrei dire: bye bye Borges. Vorrei dire, per dare altro gas al fausto anniversario, chiudiamo Borges nel mausoleo dei grandi, releghiamolo tra le mummie, possiamo farne a meno. Imitato, criticato, adorato, pubblicato fino all’infima filastrocca cucita sul calzino sinistro, salutiamo Borges come qualcosa di passato, di spassionatamente vecchio. Invece. Borges ha inventato una formula narrativa semplice & perfetta, cristallina, come un proiettile di diamante – direbbe Marlon Brando/Kurtz – che perfora il cranio del Novecento ma pure quello del nuovo millennio. Comunque sia, non ne puoi fare a meno: Borges ti frega sempre, i suoi racconti sono sciarade circolari, sono rebus salutari, e a me capita di rileggerli per ritrovare una postura letteraria adatta, per ricongiungermi a una disciplina, come si entra in monastero e il silenzio, grato, ci fa camminare più eretti, cuce le labbra, rende avidi gli occhi.
*
Scrittura limpida, lucida, da moralista francese, ed erudizione, enigmistica trascendentale. Machiavelli nel corpo di un bramino, Montagne nella sfera di un sufi, Hemingway con un cervello da talmudista, Kafka incrociato a Fozio. Borges è talmente originale che quando si tratta di parlare di sé, rimanda sempre ad altri, i suoi santi – un gesto che non ha nulla dell’umile protervia, ma è gratitudine. Così, grazie a Borges, sono sinceramente andato a Henry James e all’Edda, a Ray Bradbury e a Stevenson e a Plotino, a Marcel Schwob e a Beowulf, a Dante, al Corano, a Walt Whitman, a Kafka e a Thomas Carlyle, a Melville e a Mark Twain, e anche se ciascuno di questi, in fondo, non ha alcuna parentela letteraria con Borges, che li evoca per sovranismo enciclopedico, poco importa, perché il verbo è tutto e tutti, dice il grande cieco di Buenos Aires, stiamo scrivendo lo stesso poema, a cui siamo avvinti e di cui non siamo padroni.
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Poi, bisogna andare a Buenos Aires per capire che dietro ogni vicolo puoi trovare il solido platonico e nel frinire delle lame, nel tubare delle automobili, si cela la cifra che svela il cosmo e lo fa diventare un granello di sabbia sotto l’unghia del pollice. Penso sia anche una questione di spazi: l’ossessione dell’infinito, degli specchi, dell’implacabilità eterna, del libro sconfinato, è coltivata dal figlio di una austera arpia che traduce la Mansfield e Faulkner, in una città ‘parigina’ cresciuta sulla melmosa foce del Rio della Plata, in una terra sconfinata, patagonica, tra tango e florilegio di ghiacciai, nella feconda nostalgia di un passato europeo.
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Ciascuno ha i suoi. Certamente L’Aleph (uscito 70 anni fa) è la quintessenza dell’opera di Borges, per alcuni lo è Finzioni: qualcuno preferisce La biblioteca di Babele, altri Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, c’è chi ama alla follia La casa di Asterione e chi L’immortale. Borges da un incendio purificatore avrebbe salvato Il libro di sabbia. Io ammetto la mia passione per un racconto che si intitola Tigri azzurre, anche se, alternativamente, Borges mi piace da ogni lato, anche quel libro che si chiama Atlante. Le sue poesie non vanno lette come poesie – altrimenti modeste – ma come peculiari appendici ai suoi racconti, chiose, chiodi lirici, nodi che fanno dei libri di Borges un’unica grande opera.
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Sylvia Iparraguirre, maestra della letteratura argentina, già allieva di Borges all’Università, amica, lo ricorda nel suo libro autobiografico, La vida invisible, “la genuina, esemplare modestia di Borges posso testimoniarla in prima persona e riguarda uno degli argomenti borghesiani per antonomasia: lo scrittore che vuole scomparire, che vuole essere inghiottito nell’oblio. Quando suo padre gli diede da leggere The Invisible Man di H.G. Wells, Borges gli disse che voleva diventare così, l’uomo invisibile; quell’invisibilità si connette al desiderio di occultarsi nel nulla, di ‘smettere di essere Borges’. Il tema lo portava a raccontare la storia, che ho ascoltato direttamente da lui, di quell’andaluso che quando gli chiesero il nome rispose: ‘Sempre lo stesso, il problema è il tempo che passa’, risposta che, secondo Borges, contrastava tutti gli affanni della fama”. Mi sembra interessante, e in qualche modo analogo, ciò che Borges rivelò intervistato da Liliana Heker: “Quando ero giovane ero incline alla tristezza, a teatralizzare me stesso; volevo essere Amleto o Raskol’nikov, e ora non più”.
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Lego la nada a nadie: è l’ultimo verso di una poesia, Il suicida, raccolta in La rosa profonda. “Lascio il nulla a nessuno”, traduce Domenico Porzio, inevitabilmente perdendo l’assonanza mistica tra nada e nadie – dove il nulla ha sempre un nitore mistico (gola-caverna di Dio), e nessuno l’esito di una nitidezza (lo è Ulisse, dopo la verifica del mostro). Quando scavi nell’opera di Borges ne trovi molteplici, un Borges per ogni giorno, per ogni comodino. Condannato a non sparire, ci ha consegnato un’opera, però, alla fine della quale non scopriamo altro che il nostro smarrimento, un enigma in scroscio. (d.b.)
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Susan Sontag amava Jorge Luis Borges, lo riteneva lo scrittore più influente del secondo Novecento, un rivoluzionario. “Mi manchi. Continui a fare la differenza. Alcuni di noi non abbandoneranno la Grande Biblioteca. Continuerai a essere il nostro eroe”, gli scrive, nel 1996, in una lettera oltremondana, che celebra i dieci anni dalla morte del grande scrittore. Nel 1985 i due si incontrarono, dialogando pubblicamente nel contesto della “Feria del Libro di Buenos Aires”. La trascrizione del dialogo, inedita in Italia, è stata pubblicata su El Clarin per festeggiare i 120 anni dalla nascita di Borges (tra le tante manifestazioni in atto in Argentina, segnalo il ciclo di convegni organizzato dalla Fundación Internacional Jorge Luis Borges). Eccone alcuni stralci.
Forse sono solo un impostore. Involontario. “Non sono modesto, sono semplicemente lucido. Mi stupisce essere conosciuto. Sono trascorsi cinquant’anni, la gente mi nota, ho smesso di essere un uomo invisibile. Eppure, questo è per me uno sforzo terribile. A volte penso di essere una specie di superstizione, ora piuttosto diffusa. In ogni momento puoi scoprire che sono un impostore, in ogni caso, un impostore involontario”.
Se non ci fossero Emerson, Melville, James, non esisterei. “Se penso alle personalità che il New England ha dato al mondo – forse gli astrologi possono aiutarmi – e comincio ad elencare, Emerson, Melville, Thoreau, Henry James, Emily Dickinson, penso che se non ci fossero non esisteremmo, penso che siamo una proiezione di quella costellazione nata in New England”.
Elogio del rileggere. “Penso che uno scrittore sia influenzato da tutto il passato, non solo di quello di un paese e di una lingua, ma anche da scrittori che non ha letto, che non appartengono alla sua lingua… Ho perso la vista nel 1955 e da allora mi dedico alla rilettura più che alla lettura. La rilettura è una attività importante, perché rinnova un testo: il libro è uno, ma noi non siamo mai gli stessi nel momento della rilettura. ‘Non ci si bagna due volte nello stesso fiume’, dice Eraclito. Il fiume scorre, Eraclito scorre, e io sono quel vecchio Eraclito che fa il bagno non nello stesso fiume, ma in un altro, e ringrazio la frescura di quelle acque”.
Forse non scriviamo altro che la stessa storia. “L’originalità è impossibile. Si può variare leggermente il passato, uno scrittore può avere una nuova intonazione, una sfumatura, nient’altro. Forse ogni generazione non scrive che lo stesso poema, non racconta che la stessa storia, ma con una piccola, preziosa differenza: l’intonazione, la voce, ed è sufficiente”.
Per l’isola deserta voglio un’enciclopedia. “Amo la letteratura scandinava, le saghe, l’Edda islandese… ma tutta la letteratura è stupefacente. Immaginare il mondo senza Verlaine, senza Hugo, sarebbe molto triste, sarebbe impossibile. Ma perché astenersi da qualcosa? Perché essere un asceta delle biblioteche? Le biblioteche ci danno una felicità continua, una felicità accessibile. Forse, se fossi Robinson Crusoe, il libro che mi porterei sull’isola sarebbe la Storia della filosofia occidentale di Bertrand Russell. Certo, se potessi trasportare una enciclopedia sarebbe meglio, dato che per un uomo curioso e ozioso come me la lettura dell’enciclopedia è quella migliore”.
Tutto è finzione. “La filosofia è una finzione, il mondo intero è una finzione, senza alcun dubbio, è una finzione”.
Voglio imparare il giapponese. “Sto cercando di studiare il giapponese, ma è una lingua così complessa che gli idiomi occidentali paragonati al giapponese sono come il guaraní rispetto allo spagnolo. È una lingua piena di sfumature, gli haiku sono saggiamente ambigui, come i libri di Henry James. Nell’haiku si vuole cogliere il momento. La totale assenza di metafore significa che ogni cosa è unica, che nulla può essere paragonato ad altro. Eppure, i contrasti abbondano. Un bellissimo haiku recita, ‘Sopra la grande campana di bronzo si è posata una farfalla’. La campana imperturbabile, duratura, e la farfalla soave, effimera: creano un contrasto senza confronto”.
Per dare autenticità, aggiungo un errore. “Tutto ciò che pubblico, per quanto appaia imperfetto, presuppone almeno dieci o quindici bozze. Non riesco a scrivere senza bozze, ma nell’ultima versione aggiungo un errore evidente, per rendere tutto spontaneo. Per me sarebbe impossibile non scrivere. So da sempre che il mio destino, come lettore o come scrittore, è connesso alla letteratura”.
Non mi importa vendere, voglio sognare. “Ammetto di essere stato conquistato dall’esempio di Emily Dickinson: scrivere senza pubblicare. Però ho commesso qualche imprudenza. In un’occasione ho chiesto ad Alfonso Reyes che senso avesse pubblicare: mi ha risposto, ‘Pubblichiamo per non passare la vita a correggere le bozze’. Penso che avesse ragione. Ogni volta che viene pubblicato un mio libro, non so cosa gli succede, non leggo nulla di ciò che è scritto intorno a lui. Non so se vende o meno. Cerco semplicemente di sognare altre cose, di scrivere un libro diverso, anche se di solito è molto simile al precedente”.
Vorrei distruggere tutto quello che ho scritto. “Come si può parlare di ‘edizione definitiva’? Come può un autore non lamentarsi di un aggettivo, di una virgola? Assurdo. Vorrei distruggere tutto ciò che ho scritto. Salverei soltanto un libro, Il libro di sabbia, e forse La cifra… il resto può essere dimenticato”.
Voglio fondare la Setta dei Lettori. “Scrittori ce ne sono molti, ma di lettori pochi, quasi nessuno. Dobbiamo fondare una Setta dei Lettori, una società segreta dei lettori”.
*In copertina: Jorge Luis Borges fotografato da Ferdinando Scianna, a Palermo, nel 1984
L'articolo “Vorrei distruggere tutto ciò che ho scritto e ritirarmi sull’isola deserta con un’enciclopedia”: Borges compie 120 anni! Auguri con inedito proviene da Pangea.
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