Tumgik
#più strutture aperte. però ora come ora...)
omarfor-orchestra · 4 months
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Ah quindi gli agenti hanno mandato le letterine di scuse ai ragazzi che hanno prestato fino a fargli perdere conoscenza, che carini
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susieporta · 1 month
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Il Giudizio
"La Chiamata del Destino"
Un'ondata di Nuovi Codici sta attraversando la Struttura Interiore.
Stiamo rilasciando strati antichissimi di Dolore e contestualmente integrando una inaudita quantità di informazioni di Riattivazione.
E' una fatica fisica davvero intensa.
Ma non è straziante.
Non fa male, come qualche tempo fa.
Semplicemente richiede maggior riposo, più attenzione ai tempi di recupero, meno contatto con elementi di destabilizzazione.
Potremmo sentirci più "raccolti", concentrati in un dialogo interiore più solitario e meno condiviso.
Questo perché nostra Chiamata sta spingendo per una veloce risoluzione dei conflitti latenti, quelli ancora trattenuti nella antica struttura di Dolore.
Questo Rilascio, così intimo e così ancestrale, ci sta traghettando nella condizione di aderire al nostro prossimo passo con "coscienza partecipata", con lucidità di Direzione, con posata consapevolezza.
Stiamo per salutare tanti Archetipi del Passato, tanti schemi di disfunzione e di irretimento, tante dinamiche di dissociazione e di immaturità.
Questo ci crea una condizione di sottile nostalgia, mista, però, ad una estrema emergenza di chiusura.
Sappiamo che nulla di ciò che contornava il nostro "quotidiano paesaggio" potrà ritornare.
Già in molti non ci riconoscono più, già in tanti si sono sentiti traditi dal nostro Cambiamento. Non hanno accettato la nostra "uscita dal teatro", non l'hanno compresa.
Come potevano?
Le loro strutture erano intente a bloccare e negare la loro Trasformazione interiore. Ed interpretavano il nostro allontanamento, attraverso le loro Ferite interiori.
Altre Anime terrene, invece, hanno accolto a braccia aperte e con sentita commozione il nostro ritrovato contatto con l'Autenticità e l'Origine.
Esse resteranno al nostro fianco anche nel prossimo passaggio. Saranno la nostra nuova Famiglia d'Anima, pronta ad allargarsi e a creare nuovi cerchi di relazione e progettualità.
Ora che pian pianino stiamo sistemando i "file interiori" e pacificando le relazioni, i luoghi e i ruoli del Passato, forse potremmo anche incorrere nella tentazione di "restare", goderci i frutti del nostro lavoro di rappacificazione, ma non funzionerebbe.
La Vita chiama.
E certo, "non si poteva andare senza risolvere".
Ma questo non significa bloccare per l'ennesima volta la spinta all'Evoluzione.
Nuovi Strumenti, nuovi Scenari di Manifestazione.
Non possiamo fermare ciò che ci sta magneticamente attirando a sé.
Nemmeno per affetto o attaccamento.
Ciò che deve cambiare, non guarderà in faccia nessuno.
Il suo compito è portarci a vivere una nuova Esperienza di noi stessi, diversa, più matura, più allineata con i nostri Doni, con i nostri desideri, con i nostri battiti del Cuore.
La Vita ci vuole di nuovo innamorati di noi stessi, della nostra "Missione Interiore", del nostro ritrovato e profondo dialogo con la Manifestazione Terrena.
Stiamo lasciando definitivamente il Vecchio.
Una folata di Vento sta per trascinare via da noi ogni simbolo dell'Antica Alleanza Umana.
Per ricongiungerci allo Spirito, alla potente connessione con l'Origine.
Dove tutto è armonico. Dove le melodie del Cuore sono sintonizzate con il Diapason Universale. Dove ciò che si crea nella Realtà percepita, è assolutamente in linea con i nostri Sogni Animici.
Sarà un Autunno di commossi addii... preparate i fazzolettini. Qualche lacrima di nostalgia scenderà.
Il Vecchio Sé prenderà il largo. Ci saluterà definitivamente.
Lasciamolo andare. E' tempo.
Mirtilla Esmeralda
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freedomtripitaly · 4 years
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La costa di Trapani e del suo territorio è da sempre considerata la più selvaggia di tutta la Sicilia. Un ventaglio di natura, centri storici, borghi marinari e collinari, spalancati a braccia aperte sul mare, sul il Tirreno e il Mediterraneo, con le isole Egadi e le coste tunisine, così vicine da poterle toccare, Pantelleria e le coste nordafricane e dell’isola di Malta. 150 km di litorale unico al mondo, l’antico approdo di Arabi, Fenici, Greci, dei Mille di Garibaldi. Terra di sole e di cultura, di profumi lontani. Terra di confine tra il cielo e, soprattutto, il mare cristallino che lambisce queste coste, ora frastagliate ora ricoperte di sabbia finissima, senza nulla da invidiare a destinazioni più esotiche e molto più distanti. La Sicilia e le spiagge di Trapani, invece, sono dietro l’angolo. Il golfo di Castellammare e la tonnara di Scopello La spiaggia di Alcamo Marina è la prima costa trapanese che si incontra venendo da Palermo. Lunga circa 3 km e attrezzata, è molto amata dagli abitanti della zona e non solo e durante i mesi estivi può diventare parecchio affollata. Superata la foce del fiume San Bartolomeo, il litorale prosegue, diventando la spiaggia principale, chiamata Playa, di Castellammare del Golfo, anch’essa sabbiosa e parzialmente attrezzata, seguendo la quale si raggiunge il centro storico della cittadina, affacciata sul mare e sul porto, con il suggestivo castello arabo-normanno e la piccola cala Petròlo. Superato il porto di Castellammare la costa comincia a farsi più frastagliata. Qui si nascondono piccole spiagge rocciose, più riparate e tranquille, come cala dei Sogni, cala Bianca e cala Rossa, dopo le quali si apre la baia, di nuovo sabbiosa e ben attrezzata, di Guidaloca. Qui il mare, riparato da entrambi i lati da alti speroni di roccia, è di meraviglioso blu profondo. Dopo questa rilassante baia, ricomincia la costa rocciosa e frastagliata dove si apre la cala dell’Alberello e poi Scopello, con la splendida baia punteggiata, sull’acqua, da due immensi faraglioni mentre sulla costa si erge l’antico profilo della tonnara, attorno alla quale si sviluppano i bastioni di cemento – l’ingresso è a pagamento (3€ circa) – sui quali godersi il sole a pochi centimetri dall’acqua. Alle spalle della tonnara di Scopello si staglia la tozza figura di un promontorio sulla cui sommità si trova una torre di guardia, alle spalle della quale la costa prosegue con il suo intrico di calette di sassi e scogli (cala Mosca, cala Baialuce e cala Mazzo di Sciacca). Qui, dove l’immediato entroterra è disseminato di bellissime ville e strutture ricettive di livello si arriva al centro visite della riserva Naturale dello Zingaro, della quale Scopello rappresenta la porta d’accesso orientale. Le calette selvagge della riserva dello Zingaro La riserva dello Zingaro protegge una delle zone naturali più belle e selvagge di tutta la Sicilia. Costoni rocciosi, ripidi sentieri bianchi e grotte preistoriche si perdono nella vegetazione bruciata dal sole fino all’azzurro del mare, a meravigliose calette dove il tempo sembra fermarsi e le narici si riempiono dei profumi della macchia mediterranea, gli stessi che hanno inebriato gli antichi popoli che solcavano le acque del Mediterraneo. Qui il mare diventa non solo relax e bellezza ma anche un paradiso per gli amanti dello snorkeling. Ecco allora che si incontrano cala Capreria, con i suoi ciottoli bianchi, seguita da cala del Varo con punta Leone, cala della Disa, cala Beretta e cala Marinella, fino a cala dell’Uzzo, una delle più affascinanti, dominata dai ruderi dell’omonima torre e raggiungibile a piedi in 15 minuti seguendo un sentiero abbastanza agevole completamente immerso nella natura. Nei pressi della caletta, meritano una segnalazione alcuni punti di interesse della riserva dello Zingaro: il museo dell’Intreccio, la grotta preistorica dell’Uzzo e il museo della civiltà Contadina. Tornando sul sentiero che costeggia il mare si raggiunge inoltre il museo delle attività Marinare, situato su un promontorio roccioso sotto al quale si apre, come in una favola, cala Tonnarella dell’Uzzo, la spiaggia principale della riserva dello Zingaro. La strada poco dopo sale improvvisamente con un paio di tornanti, che girano intorno alla torre dell’Impiso, per poi rituffarsi nel mare antistante cala Grottazza. Ora seguiamo il capo verso nord, superando la curiosa caletta chiamata lago di Venere si apre il golfo del Firriato, chiuso a nord da punta Solanto. Il mare caraibico di San Vito lo Capo e le scogliere di Macari Qui la costa rocciosa assume un’atmosfera quasi lunare, spezzata solo dai resti della cinquecentesca tonnara del Secco e dall’imponente profilo di monte Monaco, aggirato il quale si apre la spiaggia antistante San Vito lo Capo, considerata una delle più belle della Sicilia. Con il suo mare trasparente e caldissimo, la sabbia dorata e il fondale basso sembra di stare ai Caraibi. Per dare un ulteriore tocco di esotismo si consiglia di non lasciare San Vito lo Capo senza aver assaggiato il suo impareggiabile cous cous. Oltre la punta sulla quale si erge il faro di Capo San Vito e cala Rossa si scende di colpo verso sud fino a cala Mancina, la grotta dei Cavalli, la spiaggia di Salinella e quella di Isulidda, antistante l’omonima isoletta selvaggia e completamente rocciosa, fino ad arrivare a un’altra delle località balneari più belle della Sicilia: il borgo di pescatori di Macari e le sue bellissime calette. La spiaggia del Bue Marino sotto a una scogliera di antichissime falesie, cala di punta Lunga, la spiaggia di baia Santa Margherita, Scaru Brucia, cala Bove. La costa si fa piatta fino al mare, dove si apre spiaggia di Seno dell’Arena, la Chianca, punta Bucerno e spiaggia Agliareddi. La baia del Cornino e la spiaggia di San Giuliano Oltre gli Agliareddi si apre il territorio compreso nella riserva Naturale del monte Cofano, un altro scrigno di natura incontaminata del trapanese. Il promontorio di monte Cofano si sporge arrotondato sul mare con l’antica tonnara omonima e la punta del Saraceno, superata la quale tra la roccia emergono antiche tracce dei colonizzatori dell’isola: l’edicola di San Nicola, la grotta e la cappella del Crocefisso, la torre del Cofano, fino alla splendida baia del Cornino con la grotta Mangiapane e le sue spiagge ora sabbiose, ora ghiaiose, interrotte da stupende scogliere a picco sul mare superabili grazie a dei pontili di legno, che delimitano l’area balneare. Proseguendo lungo la costa si incontrano poi la piccola spiaggia di rio Forgia, lido Valderice, il borgo marinaro di Bonagia, la sua stupenda spiaggia di ciottoli e sabbia, il suo mare trasparente e una seicentesca tonnara, oggi trasformata in struttura ricettiva, a dominare la natura selvaggia di questo piccolo golfo. Trapani e le sue spiagge, il cuore di questo tratto di costa siciliana, dista ormai solo una decina di km. Dopo Pizzolungo, la litoranea prosegue fino alla lunghissima e sabbiosa spiaggia di San Giuliano, sia libera che attrezzata, che si trova ancora nel territorio di Erice, anche questa sicuramente tra le più belle della costa trapanese. Le spiagge sotto alle mura di Trapani Con il promontorio della tonnara Tipa, compreso oggi in un rigoglioso parco urbano, comincia la spiaggia cittadina di Trapani, che si distende a fianco del lungomare Dante Alighieri fino a lido Paradiso, privato e a pagamento, a piazza Vittorio Emanuele, per poi svilupparsi al di sotto delle mura di Tramontana, dove prende il nome di spiaggia porta Botteghelle. A pochi passi da qui si può passeggiare per il centro storico di Trapani, nella suggestiva piazza del mercato del Pesce affacciata sul mare come una scenografica rotonda e visitare la cinquecentesca cattedrale di San Lorenzo, duomo della città. Il punto più suggestivo delle spiagge cittadine di Trapani è però senza dubbio la scogliera al di sotto della torre di Ligny, la punta estrema del molo cittadino che si distende dentro il mare. Non c’è una vera spiaggia ma si può scendere in acqua dagli scogli con molta facilità, per godersi un bagno al tramonto. Da qui si gode di uno stupendo panorama sulle vicinissime isole Egadi oppure, alle spalle, sul monte Erice. Una volta ammirato lo splendido panorama e respirato l’odore di questo porto proiettato così profondamente nel Mediterraneo da sembrare un’isola nella grande isola siciliana occorre superare il porto e le saline di Trapani, oggi riserva naturale, con un’interessante museo all’interno dell’area, per proseguire lungo la costa trapanese, raggiungendo la bella spiaggia di Marausa. Marsala e la spiaggia di punta Tramontana Superato l’aeroporto di Trapani, il paesaggio cambia di colpo, l’aria si fa umida, la terra diventa piatta quasi più del mare. Siamo sempre più vicini all’Africa e da qualche parte si sente già il deserto. Quello che si vede, invece, è un grande specchio d’acqua, la laguna di Marsala, separata dal mare dall’isola Grande, che racchiude e protegge la spiaggia di San Teodoro con la sua torre, le saline cittadine, l’isola Mozia e la riserva Naturale dello Stagnone. All’interno di quest’area protetta si trova anche la lunghissima spiaggia di punta Tramontana, fiore all’occhiello di Marsala, nota per il mare trasparente e la sabbia bianca, da atollo tropicale. A Marsala sbarcarono i Mille di Garibaldi e sarebbe un peccato lasciarsela alle spalle senza aver fatto visita alle storiche Cantine Florio. Le antiche coste di Mazara, Capo Feto e Selinunte Lasciandosi alle spalle Marsala, la strada scende verso sud incontrando la lunga spiaggia bianca e fine di Lido Signorino e la costa lunare di Mazara del Vallo, con la bellissima spiaggia di capo Feto: 5 km di litorale che si scontra con il mare turchese in un suggestivo paesaggio di dune sabbiose e paludi d’acqua salata. Oltre c’è Mazara e la sua casbah, le tracce del passato normanno e di quello arabo, mentre il viaggio prosegue lungo la costa meridionale della Sicilia, il confine estremo tra il mare e l’Africa. Qui la costa si fa ripida e la litoranea corre quasi a picco sul mare. Perché ricominci il litorale occorre arrivare sino alla torretta di capo Granitola, con la suggestiva cala dei Turchi, una spiaggia di sabbia e roccia incastonata in una scogliera di tufo il cui nome ricorda gli antichi sbarchi dei pirati Saraceni in Sicilia in questo mare trasparente. Oltre il faro di capo Granitola la costa fa una decisa svolta a sinistra, dirigendosi in linea quasi retta verso ovest, dove si incontra la bellissima spiaggia di Tre Fontane, nel territorio di Campobello di Mazara, tra le più belle di tutta la Sicilia. Ampia, sabbiosa e percorsa da sorgenti di acqua dolce è come una grande oasi che è scivolata fino alla costa. Il tratto finale del viaggio lungo le coste e le spiagge di Trapani giunge al termine in un’area dove natura e testimonianze storiche antichissime si mescolano insieme per dare a questi luoghi un’atmosfera unica. La costa compresa nel territorio di Castelvetrano comprende sia un’eccellenza storica che una naturale. Per prima s’incontrano infatti le rovine della necropoli di Selinunte. Questo luogo incredibile custodisce i resti di un’antica città greca sviluppatasi sulle coste siciliane e che deve il suo nome al sedano selvatico, che ancora cresce rigoglioso in quest’area. Poco prima del sito archeologico, venendo da Tre Fontane, si trova Triscine, con il suo lunghissimo litorale sabbioso e, subito dopo, Marinella, con la sua sabbia dorata, il mare limpido e piacevolissime brezze marine che cullano le falde degli ombrelloni. Oltre Marinella si sviluppa lo straordinario habitat che popola la foce del fiume Belice, oggi riserva naturale, con una suggestiva spiaggia incorniciata da dune desertiche, rada vegetazione e sparuti alberi, i cui profili si stagliano sull’azzurro del mare. Proprio qui, pervasi da brezze nordafricane e i profumi trascinati sul Mediterraneo, finisce questo lungo viaggio lungo le spiagge della costa di Trapani e del suo territorio. https://ift.tt/2WNmkSl Le spiagge più belle di Trapani e dintorni La costa di Trapani e del suo territorio è da sempre considerata la più selvaggia di tutta la Sicilia. Un ventaglio di natura, centri storici, borghi marinari e collinari, spalancati a braccia aperte sul mare, sul il Tirreno e il Mediterraneo, con le isole Egadi e le coste tunisine, così vicine da poterle toccare, Pantelleria e le coste nordafricane e dell’isola di Malta. 150 km di litorale unico al mondo, l’antico approdo di Arabi, Fenici, Greci, dei Mille di Garibaldi. Terra di sole e di cultura, di profumi lontani. Terra di confine tra il cielo e, soprattutto, il mare cristallino che lambisce queste coste, ora frastagliate ora ricoperte di sabbia finissima, senza nulla da invidiare a destinazioni più esotiche e molto più distanti. La Sicilia e le spiagge di Trapani, invece, sono dietro l’angolo. Il golfo di Castellammare e la tonnara di Scopello La spiaggia di Alcamo Marina è la prima costa trapanese che si incontra venendo da Palermo. Lunga circa 3 km e attrezzata, è molto amata dagli abitanti della zona e non solo e durante i mesi estivi può diventare parecchio affollata. Superata la foce del fiume San Bartolomeo, il litorale prosegue, diventando la spiaggia principale, chiamata Playa, di Castellammare del Golfo, anch’essa sabbiosa e parzialmente attrezzata, seguendo la quale si raggiunge il centro storico della cittadina, affacciata sul mare e sul porto, con il suggestivo castello arabo-normanno e la piccola cala Petròlo. Superato il porto di Castellammare la costa comincia a farsi più frastagliata. Qui si nascondono piccole spiagge rocciose, più riparate e tranquille, come cala dei Sogni, cala Bianca e cala Rossa, dopo le quali si apre la baia, di nuovo sabbiosa e ben attrezzata, di Guidaloca. Qui il mare, riparato da entrambi i lati da alti speroni di roccia, è di meraviglioso blu profondo. Dopo questa rilassante baia, ricomincia la costa rocciosa e frastagliata dove si apre la cala dell’Alberello e poi Scopello, con la splendida baia punteggiata, sull’acqua, da due immensi faraglioni mentre sulla costa si erge l’antico profilo della tonnara, attorno alla quale si sviluppano i bastioni di cemento – l’ingresso è a pagamento (3€ circa) – sui quali godersi il sole a pochi centimetri dall’acqua. Alle spalle della tonnara di Scopello si staglia la tozza figura di un promontorio sulla cui sommità si trova una torre di guardia, alle spalle della quale la costa prosegue con il suo intrico di calette di sassi e scogli (cala Mosca, cala Baialuce e cala Mazzo di Sciacca). Qui, dove l’immediato entroterra è disseminato di bellissime ville e strutture ricettive di livello si arriva al centro visite della riserva Naturale dello Zingaro, della quale Scopello rappresenta la porta d’accesso orientale. Le calette selvagge della riserva dello Zingaro La riserva dello Zingaro protegge una delle zone naturali più belle e selvagge di tutta la Sicilia. Costoni rocciosi, ripidi sentieri bianchi e grotte preistoriche si perdono nella vegetazione bruciata dal sole fino all’azzurro del mare, a meravigliose calette dove il tempo sembra fermarsi e le narici si riempiono dei profumi della macchia mediterranea, gli stessi che hanno inebriato gli antichi popoli che solcavano le acque del Mediterraneo. Qui il mare diventa non solo relax e bellezza ma anche un paradiso per gli amanti dello snorkeling. Ecco allora che si incontrano cala Capreria, con i suoi ciottoli bianchi, seguita da cala del Varo con punta Leone, cala della Disa, cala Beretta e cala Marinella, fino a cala dell’Uzzo, una delle più affascinanti, dominata dai ruderi dell’omonima torre e raggiungibile a piedi in 15 minuti seguendo un sentiero abbastanza agevole completamente immerso nella natura. Nei pressi della caletta, meritano una segnalazione alcuni punti di interesse della riserva dello Zingaro: il museo dell’Intreccio, la grotta preistorica dell’Uzzo e il museo della civiltà Contadina. Tornando sul sentiero che costeggia il mare si raggiunge inoltre il museo delle attività Marinare, situato su un promontorio roccioso sotto al quale si apre, come in una favola, cala Tonnarella dell’Uzzo, la spiaggia principale della riserva dello Zingaro. La strada poco dopo sale improvvisamente con un paio di tornanti, che girano intorno alla torre dell’Impiso, per poi rituffarsi nel mare antistante cala Grottazza. Ora seguiamo il capo verso nord, superando la curiosa caletta chiamata lago di Venere si apre il golfo del Firriato, chiuso a nord da punta Solanto. Il mare caraibico di San Vito lo Capo e le scogliere di Macari Qui la costa rocciosa assume un’atmosfera quasi lunare, spezzata solo dai resti della cinquecentesca tonnara del Secco e dall’imponente profilo di monte Monaco, aggirato il quale si apre la spiaggia antistante San Vito lo Capo, considerata una delle più belle della Sicilia. Con il suo mare trasparente e caldissimo, la sabbia dorata e il fondale basso sembra di stare ai Caraibi. Per dare un ulteriore tocco di esotismo si consiglia di non lasciare San Vito lo Capo senza aver assaggiato il suo impareggiabile cous cous. Oltre la punta sulla quale si erge il faro di Capo San Vito e cala Rossa si scende di colpo verso sud fino a cala Mancina, la grotta dei Cavalli, la spiaggia di Salinella e quella di Isulidda, antistante l’omonima isoletta selvaggia e completamente rocciosa, fino ad arrivare a un’altra delle località balneari più belle della Sicilia: il borgo di pescatori di Macari e le sue bellissime calette. La spiaggia del Bue Marino sotto a una scogliera di antichissime falesie, cala di punta Lunga, la spiaggia di baia Santa Margherita, Scaru Brucia, cala Bove. La costa si fa piatta fino al mare, dove si apre spiaggia di Seno dell’Arena, la Chianca, punta Bucerno e spiaggia Agliareddi. La baia del Cornino e la spiaggia di San Giuliano Oltre gli Agliareddi si apre il territorio compreso nella riserva Naturale del monte Cofano, un altro scrigno di natura incontaminata del trapanese. Il promontorio di monte Cofano si sporge arrotondato sul mare con l’antica tonnara omonima e la punta del Saraceno, superata la quale tra la roccia emergono antiche tracce dei colonizzatori dell’isola: l’edicola di San Nicola, la grotta e la cappella del Crocefisso, la torre del Cofano, fino alla splendida baia del Cornino con la grotta Mangiapane e le sue spiagge ora sabbiose, ora ghiaiose, interrotte da stupende scogliere a picco sul mare superabili grazie a dei pontili di legno, che delimitano l’area balneare. Proseguendo lungo la costa si incontrano poi la piccola spiaggia di rio Forgia, lido Valderice, il borgo marinaro di Bonagia, la sua stupenda spiaggia di ciottoli e sabbia, il suo mare trasparente e una seicentesca tonnara, oggi trasformata in struttura ricettiva, a dominare la natura selvaggia di questo piccolo golfo. Trapani e le sue spiagge, il cuore di questo tratto di costa siciliana, dista ormai solo una decina di km. Dopo Pizzolungo, la litoranea prosegue fino alla lunghissima e sabbiosa spiaggia di San Giuliano, sia libera che attrezzata, che si trova ancora nel territorio di Erice, anche questa sicuramente tra le più belle della costa trapanese. Le spiagge sotto alle mura di Trapani Con il promontorio della tonnara Tipa, compreso oggi in un rigoglioso parco urbano, comincia la spiaggia cittadina di Trapani, che si distende a fianco del lungomare Dante Alighieri fino a lido Paradiso, privato e a pagamento, a piazza Vittorio Emanuele, per poi svilupparsi al di sotto delle mura di Tramontana, dove prende il nome di spiaggia porta Botteghelle. A pochi passi da qui si può passeggiare per il centro storico di Trapani, nella suggestiva piazza del mercato del Pesce affacciata sul mare come una scenografica rotonda e visitare la cinquecentesca cattedrale di San Lorenzo, duomo della città. Il punto più suggestivo delle spiagge cittadine di Trapani è però senza dubbio la scogliera al di sotto della torre di Ligny, la punta estrema del molo cittadino che si distende dentro il mare. Non c’è una vera spiaggia ma si può scendere in acqua dagli scogli con molta facilità, per godersi un bagno al tramonto. Da qui si gode di uno stupendo panorama sulle vicinissime isole Egadi oppure, alle spalle, sul monte Erice. Una volta ammirato lo splendido panorama e respirato l’odore di questo porto proiettato così profondamente nel Mediterraneo da sembrare un’isola nella grande isola siciliana occorre superare il porto e le saline di Trapani, oggi riserva naturale, con un’interessante museo all’interno dell’area, per proseguire lungo la costa trapanese, raggiungendo la bella spiaggia di Marausa. Marsala e la spiaggia di punta Tramontana Superato l’aeroporto di Trapani, il paesaggio cambia di colpo, l’aria si fa umida, la terra diventa piatta quasi più del mare. Siamo sempre più vicini all’Africa e da qualche parte si sente già il deserto. Quello che si vede, invece, è un grande specchio d’acqua, la laguna di Marsala, separata dal mare dall’isola Grande, che racchiude e protegge la spiaggia di San Teodoro con la sua torre, le saline cittadine, l’isola Mozia e la riserva Naturale dello Stagnone. All’interno di quest’area protetta si trova anche la lunghissima spiaggia di punta Tramontana, fiore all’occhiello di Marsala, nota per il mare trasparente e la sabbia bianca, da atollo tropicale. A Marsala sbarcarono i Mille di Garibaldi e sarebbe un peccato lasciarsela alle spalle senza aver fatto visita alle storiche Cantine Florio. Le antiche coste di Mazara, Capo Feto e Selinunte Lasciandosi alle spalle Marsala, la strada scende verso sud incontrando la lunga spiaggia bianca e fine di Lido Signorino e la costa lunare di Mazara del Vallo, con la bellissima spiaggia di capo Feto: 5 km di litorale che si scontra con il mare turchese in un suggestivo paesaggio di dune sabbiose e paludi d’acqua salata. Oltre c’è Mazara e la sua casbah, le tracce del passato normanno e di quello arabo, mentre il viaggio prosegue lungo la costa meridionale della Sicilia, il confine estremo tra il mare e l’Africa. Qui la costa si fa ripida e la litoranea corre quasi a picco sul mare. Perché ricominci il litorale occorre arrivare sino alla torretta di capo Granitola, con la suggestiva cala dei Turchi, una spiaggia di sabbia e roccia incastonata in una scogliera di tufo il cui nome ricorda gli antichi sbarchi dei pirati Saraceni in Sicilia in questo mare trasparente. Oltre il faro di capo Granitola la costa fa una decisa svolta a sinistra, dirigendosi in linea quasi retta verso ovest, dove si incontra la bellissima spiaggia di Tre Fontane, nel territorio di Campobello di Mazara, tra le più belle di tutta la Sicilia. Ampia, sabbiosa e percorsa da sorgenti di acqua dolce è come una grande oasi che è scivolata fino alla costa. Il tratto finale del viaggio lungo le coste e le spiagge di Trapani giunge al termine in un’area dove natura e testimonianze storiche antichissime si mescolano insieme per dare a questi luoghi un’atmosfera unica. La costa compresa nel territorio di Castelvetrano comprende sia un’eccellenza storica che una naturale. Per prima s’incontrano infatti le rovine della necropoli di Selinunte. Questo luogo incredibile custodisce i resti di un’antica città greca sviluppatasi sulle coste siciliane e che deve il suo nome al sedano selvatico, che ancora cresce rigoglioso in quest’area. Poco prima del sito archeologico, venendo da Tre Fontane, si trova Triscine, con il suo lunghissimo litorale sabbioso e, subito dopo, Marinella, con la sua sabbia dorata, il mare limpido e piacevolissime brezze marine che cullano le falde degli ombrelloni. Oltre Marinella si sviluppa lo straordinario habitat che popola la foce del fiume Belice, oggi riserva naturale, con una suggestiva spiaggia incorniciata da dune desertiche, rada vegetazione e sparuti alberi, i cui profili si stagliano sull’azzurro del mare. Proprio qui, pervasi da brezze nordafricane e i profumi trascinati sul Mediterraneo, finisce questo lungo viaggio lungo le spiagge della costa di Trapani e del suo territorio. Trapani e i suoi dintorni sono un territorio spettacolare, dominato da spiagge meravigliose e contrasti tra acqua e zone deserte tutti da assaporare.
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kon-igi · 6 years
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KON-ICE: picchiarello picchiatello stai attento al mattarello.
[mia nonna aveva certe filastrocche per tenermi a bada...]
Una certa qual tamblera, la cui energia propulsiva vitale supera di gran lunga la propria capacità di calcolare la traiettoria di non collisione della sonda Insight propria testa contro i mobili, mi chiede cosa fare nel caso in cui il moto di rivoluzione terrestre porti il pianeta terra contro il suo pregiato capo.
Associare il nome di divinità a quello di fauna, reale o di fantasia, con l’aggiunta di aggettivi dispregiativi in forma superlativa può aiutare ma aggiungiamo qualche più efficace dato tecnico.
Intanto l’evoluzione che c’ha fatto uscire dall’oceano ha detto ‘questo animale tiene un organo che un giorno gli sarà utile per fare cose tipo il televoto sul Grande Fratello o supportare Ƹalvini quindi proteggiamolo con qualcosa di più bello di un esoscheletro’ (io l’avrei preferito. Non l’esoscheletro, proprio rimanere nell’oceano):
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Naturalmente mi tira il culo cercare immagini migliori alle 6 del mattino quindi vi riciclo un telencefalo (quello comunemente conosciuto come ‘cervello’) contenuto all’interno della protezione di cui sopra, LA SCATOLA CRANICA.
La scatola cranica è formata da varie ossa di diversi colori sgargianti
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solo che circa 150.000 anni fa il Demiurgo ha finito le resine colorate per la stampante 3D e adesso il bianco slavato è quello di serie sul modello Homo Sapiens.
Queste ossa sono unite fra di loro tramite alcune SUTURE (le ‘fontanelle’ che nel neonato sono aperte per facilitare l’uscita da quella cosa che una sola volta nella vita viene imboccata dalla parte sbagliata) che paiono inesistenti e invece favoriscono movimenti di pochi millimetri, rendendo il cranio ‘elastico’; inoltre queste ossa hanno spessori e conformazioni differenti, selezionate dall’evoluzione di modo ché fossero pronte a ricevere la maggior parte dei traumi.
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(i colori possono variare senza preavviso da quelli sul catalogo, quindi mandate sempre una mail di conferma a Dio prima di fare un ordine).
Per concludere la parte protezione, l’encefalo (che non è solo il cavolfiore molle ma tutto l’insieme di strutture neuroanatomiche contenute nel cranio) è pure avvolto in tre sacchetti chiamati MENINGI, che a vederle paiono tre sacchetti biodegradabili fradici di olio di tonno che faticano a contenere un cavolo bollito, le quali, grazie alla presenza al loro interno di LIQUIDO CEFALO-RACHIDIANO, ammortizzano l’encefalo dai microtraumi delle percussioni contro la scatola cranica durante una corsa o un salto.
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(Dall’esterno verso l’interno, anche se poco distinguibili, Dura madre, Aracnoide e Pia Madre, ovviamente senza liquido cefalo-rachidiano, probabilmente colato sulle scarpe dell’anatomo-patologo).
Ma cosa succede alle strutture encefaliche (da qui in poi CERVELLO) quando si riceve un colpo in testa?
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Intanto avviene un TRAUMA CRANICO cioè il nostro cranio riceve un trauma (subito Nobel del Graziarcazzo a Monsieur Lapalisse) e poi possono succedere diverse cose:
Gesù piange, i vicini vengono a vedere se il laboratorio di crack è esploso e tu metti il ghiaccio sul bernoccolo protundente alla Tom&Jerry ma non ci sono manifestazioni neurologiche, tranne magari un mal di testa.
Ti viene una COMMOZIONE CEREBRALE, la qual cosa non significa che ti piange il cervello per il dolore ma che per un periodo più o meno limitato di tempo (ore, giorni, settimane) le funzioni motorie e corticali superiori possono essere compromesse: confusione mentale, capogiri, difficoltà di concentrazione e a compiere azioni complesse o prolungate (ora mi direte che ogni notte qualcuno viene a commuovervi il cranio con una spranga imbottita). Non ci sono danni cerebrali evidenti o definitivi ma ci possono essere sequele fastidiose negli anni a venire.
Hai una PERDITA DI COSCIENZA più o meno prolungata. Questo non è uno step successivo slegato dalla commozione cerebrale o da altri eventi più gravi ma di sicuro una manifestazione evidente e quantificabile che deve sempre mettere in allarme e spingere la persona ad andare da un medico.
Ti becchi una FRATTURA DELLA TECA CRANICA, UN’EMORRAGIA E UN’EMATOMA CEREBRALE.
Qua mi fermo e comincio un’altra lista, quella brutta, perché se per i primi tre punti il trattamento è casalingo (sempre previa consultazione del medico), qua invece andiamo nell’ospedaliero spinto.
Prima di tutto nemmeno il neurologo in pronto soccorso sa come può evolvere un trauma cranico (infatti ti mandano a casa con IL FOGLIO... poi spiego) e spesso una brutta botta non nasconde nessun tipo di problema e invece uno scappellotto ti può far finire in coma e, all’interno dei problemi seri citati, una frattura può non voler dire emorragia cerebrale e parimenti ci può essere emorragia cerebrale senza frattura. E puoi svenire a distanza di ore. E ci può essere una micro-frattura non rilevabile all’RX. E avere un’emorragia silente a distanza di giorni. Insomma, con la testa è sempre un casino.
FRATTURA DELLA TECA CRANICA
Si chiama teca perché non è un osso duro e compatto ma a strati lamellari sovrapposti (aponeurosi, periostio, osso), proprio per il suddetto discorso di ammortizzamento e quindi una sua frattura (di per sé non terribile perché quasi sempre trattata conservativamente in attesa della sua ri-ossificazione) può nascondere traumi sottostanti ben peggiori.
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EMORRAGIA ED EMATOMA
Cominciano i soncazzi.
Anche senza frattura, un qualsiasi trauma può lasciare intatto l’osso ma ledere i vasi sottostanti con conseguente fuoriuscita e raccolta di sangue.
La sede di elezione è lo spazio tra la dura madre e l’aracnoide (EMATOMA SUBDURALE) mentre per quella tra l’aracnoide e la pia madre (ESA - Emorragia sub-aracnoidea) l’eziopatogenesi è più vascolare (aneurismi) che traumatica. 
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Se non sapete leggere il cirillico, quello in rosso è un ematoma subdurale (o epidurale se è tra teca cranica e dura madre) e quello in blu è un ematoma sub-aracnoideo.
Alla fine, se escludiamo le cause, la sabbia nella vaselina è che il sangue viene trattenuto dalla scatola cranica e quindi comincia a spingere il cervello con l’insorgenza di tutta una serie di sintomi più o meno gravi dati dall’ischemia (se comprimi un organo, non ci arrivano più sangue e ossigeno) e dall’ipertensione endocranica.
Il grosso problema è che non sempre l’ematoma si forma contestualmente al trauma ma la quasi totalità delle volte il sangue si infiltra molto lentamente (anche giorni) con uno sviluppo subdolo della classica nausea, giramenti di testa, vomito, perdita di equilibrio etc. Questo è il motivo per cui in pronto soccorso, anche se ti fanno un RX e/o una TAC, poi ti mandano a casa con il succitato foglio in cui scrivono che se si presentassero tali sintomi di tornare subito. E di farsi svegliare frequentemente perché è un attimo passare dal sonno al coma.
Nel caso in cui, il trattamento è molto semplice (seppur cruento): ti scalpano, aprono un buco nel cranio (o ti scalottano proprio), sezionano la meninge d’intralcio, scucchiaiano la gelatina al ribes, riappoggiano la meninge, rimettono il coperchio e ricuciono lo scalpo. E se non sono passati troppi giorni torni smetti di pisciarti addosso e torni nuovo come prima.
Se riuscite, guardatelo il video ché didatticamente ne vale davvero la pena
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Per ciò che riguarda LE EMORRAGIE CEREBRALI VERE E PROPRIE, c’è solo da incrociare le dita e sperare di svegliarsi dal coma sapendo ancora parlare o pisciare nel posto giusto.
Concludo dicendo che non esiste una regola precisa per riconoscere quanto sia serio un trauma cranico e cosa fare per valutarne la gravità (però farsi dire cinque nomi di oggetti e cercare di ripeterli tutti è un buon sistema per capire se c’è commozione cerebrale), quindi vi posso solo invitare a essere loquace maggioranza nei confronti di chi vi cura istituzionalemente qualora il pianeta terra dovesse collidere col vostro cranio.
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somarolove · 4 years
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“THE END”
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E’ passato più di un mese dal rientro a Luang Prabang ma il riadattamento alle energie psichiche della città è durato poco. Non si può rimanere attaccati per sempre all'emozione estatica del rincontro con la Natura. Prima o poi l'aperto torna a farsi chiuso e bisogna fare i conti con la ripetizione. Ciò è vero soprattutto dopo la biciclettata più lunga della mia vita, anche e forse soprattutto perché è avvenuta dentro la sospensione epocale prodotta dalla pandemia. Il ritorno per questo è stato un riadattarsi a un ritmo ibrido di un presente che non sa di ripresa o di proiezione in avanti, ma di ripetizione orizzontale dello stesso, in un’attesa continua che l'Altro modifichi le regole del gioco. Ci troviamo un pò tutti a fare i conti con forme di spossessamento del sé e con un regime di impotenza imposto da una contingenza biologica. Ma ci sono fattori aggiuntivi perchè questo processo di assoggettazione avviene in forma consapevole, quasi accettata, in nome di un'emergenza che obbliga ad incorporare una rinnovata modalità esistenziale.
C’è però un aspetto di Luang Prabang che ha a che fare con la sua turisticizzazione\mercificazione e con la sua memoria contesa che si aggiunge alla sospensione pandemica e che rende peculiare la quotidiana esperienza del tempo, cioè di come passato e presente esistono nel presente. Ogni abitante di una città d'arte deve relazionarsi con l’apparente quanto necessaria immutabilità del suo patrimonio storico ed artistico. Da un punto di vista psichico, è come se ad un'impotenza di contesto determinata dall'epidemia se ne aggiunga una strutturale. Per certi versi un passato da conservare sostituisce o si aggiunge a tutta una serie di rituali formalizzati e, come quei rituali, partecipa di processi sociali che reificano gerarchie e ruoli. Conservare il patrimonio storico artistico di una città implica un insieme di dispositivi che aspirano a fissare, recintare, tutelare, impedire un uso piuttosto che un altro dello spazio. Ciò comporta un'esperienza storicizzante della quotidianità che produce soggettività radicalmente diverse da quelle di una città in cui è prassi comune distruggere il vecchio per ricostruire. Ma stabilisce anche un ordinamento giuridico-morale che ordina le modalità accettabili in cui il passato deve e può manifestarsi nel presente. Questo secondo aspetto è quello che più mi interessa ora perché ha a che fare con la "Legge" e con un ordine e fa del patrimonio storico artistico una modalità del godimento. Come tale, produce fantasie che si vincolano ai meccanismi di produzione del desiderio, o per dirla con Zizek, che "insegnano [al soggetto] a desiderare".
In altre parole questo significa che in una città come Luang Prabang esistono tutta una serie di processi con cui la fantasia si allaccia alla memoria storica dei luoghi, quindi ad una memoria collettivizzata dai dispositivi del potere, per poi vivere quasi di vita propria, facendo immergere le diverse soggettività che la abitano in vere e proprie fantasticherie sul suo passato a volte grandioso, a volte taciuto. “Timeless” è la parola chiave che sintetizza questa atmosfera magica. Racconta un presente senza tempo su cui sono stati prodotti video, immagini e campagne pubblicitarie per il turismo da ormai 20 anni. Hotel, bar e ristoranti ne hanno fatto un paradigma distintivo dell’esperienza turistica che offre la città. Vecchi edifici coloniali, stanze di re e regine o giardini di principi e principesse che affacciano su uno dei più suggestivi fiumi dell'Asia sono oggi disponibili ai curiosi e facoltosi turisti che desiderano immergersi per qualche giorno in una ricostruzione immaginaria della Colonia o dell’epoca monarchica. Il passato si fa così performance quotidiana in cui tre generazioni di laotiani di tutte le etnie hanno imparato ad indossare abiti d’epoca e a servire mantenendo il sorriso e la postura corretta mentre esaudiscono ogni desiderio del visitatore. Molti di questi giovani arrivano da villaggi vicini in cerca di un salario o di maggior fortuna in città. Tutti insieme partecipiamo di una vera e propria costruzione utopica di Luang Prabang in cui la Storia riemerge sia come rimemorazione vivente del passato, sia come grande rimosso, cioè come racconto incompleto che non svela mai pienamente il suo segreto scabroso: quello di essere una città dal passato monarchico che oggi gode della sua bellezza architettonica per essere stata "responsabile” e, per questo salva, dai bombardamenti che hanno riguardato invece il resto del Paese. L'oscenità nascosta della sua bellezza è il motore immobile della città ma cosa significa abitarla cercando di non rimuovere l'orrore primordiale che ha costituito il suo patrimonio storico ed artistico?
Le macchine desideranti
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Foto: restaurazioni a Luang Prabang, serie “una mattina mi son svegliato”
La risposta a questa domanda riprende direttamente alcune questioni lasciate aperte nel post precedente a proposito di società democratiche oltre i loro ordinamenti istituzionali e giuridici formali. In un suo libro recente, Recalcati analizza l'essenza delle comunità democratiche come comunità di desiderio. Rivisita radicalmente, in chiave psicanalitica, i rapporti di forza dei legami sociali e delle relazioni tra soggettività, suggerendo di spingerli dentro un continuo tentativo di superamento delle relazioni di reciprocità e delle dinamiche di colpa-debito. Piuttosto che osservarle materialmente attraverso pratiche come il dono, Recalcati si muove nell’inconscio per trovare un modo di pensare e quindi di vivere l’aperto e stabilire le forme “dell’eguaglianza dei non eguali”. Ritrova quelle dinamiche per superarle nella vitalità del desiderio che non può chiudersi nel suo Oggetto e si fa invece condizione di ricerca creativa continua; una spinta vitale che supera ogni sua rappresentazione consumistica. Contro ogni settarismo, Recalcati sembra qui accogliere alcuni temi cari a Deleuze e Guattari nel loro lavoro su Capitalismo e Schizofrenia. Sottolinea cioè l'importanza di un desiderio che si faccia deviante, spingendo verso un divenire femminile da opporre al divenire panico del desiderio contemporaneo, in cui le capacità empatiche dell'umano sembrano accartocciarsi sul gruppo, dentro percorsi identitari che escludono il non facilmente comprensibile. Come già suggeriva Bifo qualche anno fa, in questo mondo accelerato e caotico, in cui i vecchi ordinamenti istituzionali sembrano incapaci di arginare le deterritorializzazioni imposte dai flussi economici, demografici ed ambientali, a mancare non è il Padre, cioè, la legge o l'ordine, ma la Madre, intesa come eccesso emotivo, sensibilità e percezione dell'altro.
Come trasportare però questa necessità di cambiamento trasformativo dalla psiche e dalla soggettività al sociale e alle formazioni storiche? In che modo interpretare la performance messa in scena dalla foto di sopra? L'aprirsi al divenire femminile riguarda una profonda riconsiderazione delle dimamiche di dominio e delle forme della sua incorporazione. Riguarda le modalità di accoglienza dell’altro e le modalità di superamento delle ferite dell’incontro. Signfica assumere la necessità di ripensare sistemi produttivi e riproduttivi basati sullo sfruttamento di alcuni per il bene degli altri. In questo senso quella Jeep non lascia scampo. La sua simbologia fallica, che alcuni associano facilmente a violenze indicibili, trova nel restauro dell’economia di mercato una nuova vita "vintage" ma ripropone anche il mondo visto in “blocchi” che ha segnato la seconda metà del novecento e la storia recente del Laos in particolare. Il suo percorrere le vie della quotidianità si perde così nel mare delle immagini social che raccontano una città dalla bellezza senza tempo e dal passato idilliaco. Ma afferma anche tra le righe, che tutto è permesso, grazie all’impunità di coloro che arrivarono ed andarono via in silenzio ed ora “ritornano” per vendere un prodotto ma forse anche per riprendersi qualcosa attraverso un ricordo potente. Ecco quindi dispiegarsi il paradosso della creatività del desiderio che sembra fare del capitalismo una forza deluzianamente rivoluzionaria, capace di frantumare ogni barriera e muro divisorio ed affermarsi come l’unico sistema economico disponibile per rendere attuali le comunità di desiderio. In questa apparente riproposizione del “non c’è alternativa”, può allora essere utile riaffermare la natura profondamente anticapitalista del pensiero femminista in cui dovrebbe iscriversi il divenire femminile.
Come dimostrato dalla Federici, tra le altre, le "rivoluzioni industriali" che hanno dato vita al sistema capitalistico sono inestricabilmente relazionate allo sfruttamento della donna in quanto "sorgente" della forza lavoro. Il suo confinamento negli spazi chiusi della riproduzione e la sua esclusione sistematica da qualsiasi lavoro salariato per lunghi periodi storici hanno costituito uno schiavismo di classe che insieme ai processi di privatizzazione delle proprietà, le cosiddette enclosure, e alla tratta di persone, ha formato un asse portante dello sviluppo industriale-capitalistico occidentale. Con gradazioni e modalità diverse, tutto ciò è anche osservabile nei modelli di crescita economica e di gestione delle risorse dei paesi che furono “il secondo mondo”. Alcuni testi di antropologia sociale raccontano la transizione da economie centralizzate e statalizzate ad economie non regolamentate e di mercato nella loro riscoperta di reti familistiche e di strutture di appoggio informali che hanno permesso agli attori economici di gestire il rischio e l’incertezza delle nuove condizioni produttive. In alcuni casi, come quello descritto dalla Humphrey in Siberia, il passaggio “dallo Stato al Mercato” è avvenuto attraverso un vero e proprio revival di “tradizioni”, famiglia e di altre relazioni personali, tanto da ricostituire forme di fiducia e di reciprocità su di uno sfondo propriamente culturale piuttosto che burocratico e istituzionale.
La culturalizzazione delle relazioni economiche come risposta alle dinamiche deterritorializzanti del Capitale è un fenomeno vasto ed ubiquo. Tuttavia la subalternità delle donne è stata così riproposta come chiave di sopravvivenza di produzione e riproduzione. “La Madre” è cioè entrata in un processo di marketizzazione per cui l’aperto che rappresenta è divenuto un’àncora di salvataggio contro le periodiche crisi del Capitale che ravvivano desideri panici e protezionistici. In questa prospettiva, quel ritorno invocato da Bifo a livello dell’inconscio del soggetto ha prodotto nei capitalismi del nuovo millennio un altro confinamento produttivo della donna. Ora oltre al ruolo di generatrice della forza lavoro associa anche quello di protettrice ultima della continuità del Capitale e si oppone direttamente alle cicliche cadute della produzione (qui una bella testimonianza di questo processo nell’Italia pandemica). La religione del Capitalismo intercambia alla bisogna “Padre” o “Madre” in base alle necessità produttive e del marketing politico di quell’aperto apparente che è la liberalizzazione dei mercati. Il divenire femminile deve invece riguardare altro e cioè la capacità di superamento delle ferite che l’aperto e l’accoglienza dell’ignoto genera. Riguarda il superamento delle binarietà e dei legami biologici dentro una transizione in cui il divenire sia agito quanto subito. E deve necessariamente riportare il piacere che manca, come afferma Godani, non dell’imperativo capitalista “Godi!”, ma del “godi” che fa dell’ozio un’azione sovversiva delle microforme di dominio del quotidiano (1 e 2). Ma come materializzare questa trasformazione?
Al riguardo, potrebbe essere interessante raccontare qualcosa sulle comunità di desiderio di Luang Prabang e su come la pandemia sembra ne stia mostrando un lato più oscuro a causa del panico economico che si è diffuso tra certi segmenti popolazionali, creando una corsa all’accaparramento invece che spinte collaborative. Per ragioni che spiegherò meglio, la città ha costruito un’immagine di sè come avanguardia dei modelli di sviluppo sostenibile del sudest asiatico. Vorrei mostrare però che questa costruzione immaginaria è un prodotto di precise scelte di marketing che aspirano a posizionarla come un “marchio” sul mercato regionale turistico. Appare inoltre il frutto di una rinnovata spinta elitaria della città in cui il divenire femminile nasconde proprio quelle dinamiche di protezione del Capitale che ho discusso in precedenza e dietro cui si cela l’immagine della Jeep. Nonostante ciò esistono degli elementi della transizione in atto che mostrano percorsi di ibridazzione liminali che meritano una descrizione più accurata.
La pedagogia di Holliwood
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Prima di tutto elencherò alcuni elementi che costituiscono nell’immaginario locale la specialità di Luang Prabang. 1. Da ormai due decadi, è considerata un luogo LGBTQ+ friendly; 2. Le donne hanno un ruolo economico di primaria importanza nelle dinamiche produttive urbane. 3. Da qualche anno i maggiori hotel cittadini hanno inziato un processo di conversione economica per garantire sostenibilità ambientale: dall’approvigionamento a chilometro zero, a prodotti  biologici, dalla riduzione del consumo di plastica, ai primi timidi tentativi di utilizzo di forme di trasporto elettrificato. 4. In quanto patrimonio mondiale dell'UNESCO, è una delle poche città dell'area che possiede un piano regolatore che ordina, seppur parzialmente, il consumo del territorio e le scelte architettoniche e dei materiali di costruzione. 5. La burocrazia municipale è formata dentro scuole militari, ma per vedere armi bisogna andare fino al poligono di tiro sportivo. 6. E' un centro buddista di discreta rilevanza regionale con alcuni tratti dottrinali unici non rintracciabili in altre aree del Buddismo Theravada. 7. A Luang Prabang e dintorni la World Bank non finanzia strade e dighe ma progetti di conservazione della biodiversità. 8. Facebook è considerato la porta per la libertà di espressione e uno strumento imprescindibile di organizzazione di gruppi ed azioni collettive. L’insieme di questi elementi segnalano una certa potenzialità liminale della città ma potrebbero anche celare l’ipocrisia tardo capitalista e quella sostituzione di “Padre” e “Madre” citata in precedenza.
Per fondare empiricamente l’osservazione di queste dinamiche ho fatto di necessità virtù e, viste le mie difficoltà con il laotiano, in questi mesi ed anni ho sfruttato la conoscenza di altre lingue per immergermi, come molti e con fortune alterne, nel mondo dei migranti che, in un modo o nell’altro, hanno un regolare permesso di soggiorno: "gli expat". Partirò quindi da questo campo di analisi per proporre alcune considerazioni sulle materializzazioni del divenire femminile a Luang Prabang.
Dividendo la società in due macrocategorie che sono quelle dei potenti e quella dei dominati, è probabile che la maggioranza degli expat (nonostante alcuni ricevano salari con molti zeri) rientrino nella seconda categoria. Sebbene vi siano indubbie differenze di classe tra gli "expat", i più "vecchi" sono riusciti ad arricchirsi e a vivere al di sopra delle loro aspettative finanziarie proprio grazie alla decisione di migrare in Laos al momento giusto. Tante storie locali di successo condividono una precisa finestra temporale, il primo decennio del 2000, e raccontono un mix di capacità personali, etica del lavoro, opportunismo e sensibilità rispetto alle dinamiche socio-culturali locali. Su queste biografie “dell’individuo” si allaccia poi la necessità di regolarizzare la posizione migratoria per i fini dell’accumulazione di Capitale.
La migrazione per ragioni economiche ha infatti prodotto un’infrastruttura giuridico-legale che sostiene la presenza degli expat e dei loro investimenti nell’impossibilità di un expat di diventare “proprietario” di edifici e di terreni. La tipologia di visto ottenuta racconta quindi un’altra storia. In molti casi accade che l’arrivo in città sia dovuto ad un’amicizia che diventa amore. In altri la relazione è invece prettamente commerciale. Seguendo queste due traiettorie è possibile allora descrivere l’incontro tra gli expat e gli abitanti di Luang Prabang attraverso due macro categorie: 1. quella di legami di parentela con famiglie più o meno importanti formalizzatisi con matrimoni per amore o di comodo; 2. e quella di legami commerciali con reti locali di potere formalizzatisi con la costituzione di società con prestanomi o con soci locali. Come sempre accade ci sono diverse gradazioni e incroci possibili tra i diversi estremi, ma la sostanza del discorso non cambia. Ogni expat può essere inquadrato dentro questo spettro giuridico-legale attraverso il quale una prima forma di diversità è stata via via assorbita e normalizzata nelle dinamiche economiche della città.
E’ poi possibile identificare i flussi migratori intorno all’asse linguistico più che strettamente geografico o culturale. Ci sono quindi: filippini, coreani, cinesi\mandarino, cinesi\cantonese, tailandesi, vietnamiti, inglesi (americani, australiani, inglesi), francesi, canadesi, italiani eccetera. Ma vi è anche una componente religiosa legata a gruppi e sette che fanno capo a diverse forme del cristianesimo evangelico, dell’ebraismo, dello shivaismo, dell’islam e di altre pratiche buddiste zen. Sovrapponendo le diverse categorizzazioni tra di loro è possibile ritrovare reti di appoggio e\o commericali in cui individui, famiglie e gruppi impresariali locali sono inseriti e in cui l’elemento più propriamente culturale si intreccia con quello economico.
In tempi recenti, con l’aumentare dei mega progetti sul territorio nazionale e con l'accresciuta importanza degli investimenti esteri diretti (soprattutto nell'edilizia e nelle catene hotelere, nelle infrastrutture e nel settore minerario), i flussi migratori hanno iniziato a complicarsi ulteriormente venendo a mancare le reti di appoggio linguistiche sostituite direttamente dalle Company che portano gli operai attraverso il sistema di visti previsti dalle licenze commerciali, nazionali o internazionali. Ad esempio, alcuni campi di lavoro per infrastrutture hanno creato dei veri e propri spillover popolazionali sulle città e i villaggi che sorgevano nelle prossimità delle opere in costruzione. Negli anni sono poi aumentati anche i lavoratori specializzati, oltre al personale esperto di vari organismi internazionali, i quali però se non sviluppano legami emozionali del tipo 1 rimangono solo per pochi anni. Dentro questo insieme di regole e definizioni generali si articolano relazioni ed incontri che rappresentano in maniera evidente un aspetto della transizione iniziata in Laos alla fine del 1900 (qui un altro aspetto della transizione).
L’incontro multiculturale e cosmopolita tra classi medie e medio-basse si è così inserito ed intrecciato alle pratiche e alle narrazioni della ricostruzione e della pacificazione del Paese dopo la guerra americana. Si tratta di un processo spesso silenzioso e molto simbolico di riconciliazione ma anche di rievocazione di antiche divisioni (come mostrato dalla foto della Jeep). Non tutti i nuovi arrivati sono però in grado di percepirlo ed interpretarlo a causa di una naturale ignoranza delle storie locali sul passato conteso. In questa cronica incoscienza si gioca un aspetto cruciale delle modalità in cui passato e presente vivono nel presente. In estrema sintesi, sempre più persone in città non trovano eccessivamente problematica la presenza della Jeep sulle strade.
Pur partendo da traiettorie distinte o da credi politici per certi versi non conciliabili, a Luang Prabang è possibile definire una convergenza ideale intorno a posizioni politiche se non proprio “anticomuniste” per lo meno avvezze all’idea che il comunismo sia uno degli esperimenti politici falliti della contemporaneità. La transizione economica in atto ne sarebbe la prova più evidente. In questo senso il dispiegamento delle forze del Mercato rappresenta la vera energia rivoluzionaria che ravviva la quotidianità, tra consumo simbolico e microvittorie commerciali ed estetiche sul “vicino di casa”. Ad aiutare questo sviluppo creativo autoctono è il fatto che la forma del capitalismo di Luang Prabang non ha le sembianze invasive di un’acciaieria o di una miniera d’oro, ma quella della conservazione del patrimonio per l’industria turistica e ben si presta a costruzioni ideologiche nazionaliste ed identitarie. Non importa quindi da dove arrivano i materiali di costruzione o i fondi necessari per restauri, abbellimenti, ricostruzioni e conservazioni. E non importa se molti dei guadagni prodotti dipendono da rendite da posizione dominante oppure dal bassissimo costo del lavoro. Per ragioni di marketing e di profitto, la città viene tutelata e protetta non solo da certe forme antiestetiche di speculazione edilizia, ma anche da pensieri negativi sulla sua posizione cosmologica nella regione.
In questa prospettiva, le comunità di desiderio di Luang Prabang potrebbero avvicinarsi ad un’interpretazione destrorsa di “Capitalismo e Schizofrenia”, per cui la rivoluzione sembra dispiegarsi pienamente attraverso le forze di un capitalismo buono e giusto, che recinta le isole produttive e dispone sistemi di sicurezza intorno ad esse. Questa vittoria dell’economia di mercato si manifesta attraverso comunità di desiderio che creano esperienze produttive quasi archetipe e modelli di best practice da imitare. In un ipotetico continuum che rappresenta il nuovo capitalismo laotiano, troveremmo allora da un lato un vero e proprio elitismo hipster, sussidiato e biologico, e dall’altro forme di restaurazione del gusto nobiliare ed aristocratico di vecchi gruppi collaborazionisti con nuove ambizioni di potere. In mezzo al cammino si posizionano invece gli osceni tentativi del “Governo” di accaparrare risorse deturpando l’ambiente e censurando la creatività del desiderio. In questo modo il vecchio è tutto condensato su di un “capo espiatorio” che rinforza le spinte rivoluzionarie del capitalismo buono (1 e 2).
I tempi della memoria
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Già nel 2008 Marina Abramovich aveva proposto un’interpretazione delle difficoltose rielaborazioni dei processi storici e sociali che erano in atto a Luang Prabang. Nelle foto e nei testi prodotti dopo circa 4 anni di workshop e percorsi esperienziali sono raccolte diverse testimonianze di una certa rilevanza sull’incontro tra temporalità e memorie. Nel suo caso specifico, la Abramovich aveva mostrato con eccezionale forza simbolica come monaci buddisti ed esercito comunista cercassero spazi di coabitazione, sopportazione e comprensione reciproca. Vista la sua personale biografia, il suo partecipare all’incontro segnalava una via d’uscita estetica ai conflitti latenti della città dentro percorsi di pacificazione che parevano innovare visioni culturaliste più mainstream secondo le quali comunismo e spiritualità non potevano trovare spazi di convivenza.
Nei diversi testi però non si entra mai nel merito di alcune riscotruzioni storiche del periodo bellico laotiano in cui si mostra che il movimento anticoloniale contava nelle sue fila anche molti monaci buddisti che mantenevano posizioni politiche dal nazionalismo fino al marxismo. Molti guerriglieri Pathet Lao provenivano dai monasteri non per via di infiltrazioni comuniste ma per oggettivite condizioni di marginalità e perchè vi erano entrati per essere educati non potendo accedere alle più costose scuole dell’elite coloniale. Questo comunismo come movimento di liberazione anche spirituale è spesso dimenticato nelle rieleborazioni locali. Attualmente sono molti i buddisti praticanti a sgranare gli occhi pensando che dei guerriglieri provenissero dai monasteri. Se alcuni negano in toto che ciò sia veramente accaduto, altri ritengono quella scelta un errore, come se quei novizi non avessero compreso “la via” e si sottoposero a necessità contingenti che nulla hanno a che fare con il Buddismo. Tuttavia, vi sono prove sufficienti che dimostrano che in alcune zone del paese i monasteri divennero obiettivi militari delle forze collaborazioniste. Mentre in altre, come a Luang Prabang, furono storicamente uno strumento di rafforzamento del potere simbolico della monarchia.
Tra i lavori del progetto si possono leggere poi reinterpretazioni del passato coloniale francese che mostrano il lato accogliente della Colonia. Sottolineano le migliorie architettoniche apportate alla città e i diversi restauri proposti alla cittadinanza. Raccontano di quanto povero fosse il Laos e quanto costoso e non economico fosse il mantenimento dell’apparato amministrativo locale. Dirigono quindi l’attenzione verso una dominazione “illuminista” e non opprimente, selvaggia o razzista. Si omettono purtroppo molte altre storie come la prima guerra di Indocina e le tante testimonianze di diserzione che riguardarono i soldati della legione straniera. Cercano quindi di stabilire un ponte verso la trasformazione "positiva” di vecchie e nuove relazioni emozionali quanto commerciali, in funzione di un rinnovato incontro fra nazionalità e soprattutto fra le reti francesi e di rifugiati francofoni di ritorno in Laos e tutti gli altri. In questo lavoro di reinterpretazione della memoria, Luang Prabang emerge quindi nella sua potenzialità utopica di spazio di ricostruzione e convivenza della diversità. Tuttavia l’immagine prodotta sembra non riuscire pienamente a sostenere il peso del rimosso che contestualmente impone. Si apre necessariamente un “Fuori”, oltre le frontiere urbane, altrettanto vasto che partecipa dell’incoscienza della città. Qui sono confinati simbolicamente e silenziosamente i fantasmi del passato; quelli di una guerra civile protratta, troppo superficialmente analizzata dentro i parametri della guerra fredda, lungo le divisioni imposte dal comunismo e dall’anticomunismo.
Negli anni la costruzione del discorso sulla “fortuna e sulla bellezza di Luang Prabang” o sulla sua specialità nel panorama regionale si è inserita sul tagliio tra l’Isola UNESCO, dove risiede il patrimonio storico ed artistico da tutelare e rivalutare attraverso il turismo, ed il suo Fuori, fatto invece di povertà e di marginalità da assistere e prodotto delle inadepienze del “Capo Espiatorio”, il governo comunista. La jeep dei marine rimessa a nuovo aspira a posizionarsi quindi su di un rinnovato spazio di indefinizione tra questi poli. La sua presenza simbolica cerca nuovi significati attraverso i dispositivi dell’alterità messi a disposizione dal capitalismo globale. L’idea che la sostiene è sostanzialmente che anche il rimosso possa trovare una sua funzione commerciale ed essere trasformato da ricordo doloroso a materializzazione proficua e pacificante. Immagina quindi di poter liberare il soggetto dal trauma originario che è l’irragiungibilità dell’Oggetto ripulendo la Jeep del suo ricordo bellico attraverso una compensazione economica che ha le sembianze del mercato. Entrambe le operazioni che produce, quella psichica e quella materiale, avvengono attraverso una conversione monetaria che si interpone e media il passaggio da trauma rimosso a presa di coscienza addolcita (un pò come fanno le società petrolifere che compensano monetariamente per le devastazioni ambientali che producono alcune aree ma non altre). L’unico problema è che questa “liberazione di mercato” impone risorse finanziarie idonee. Chi non può accedere ai meccanismi della compensazione, deve allora trovare un lavoro salariato o capire come arricchirsi per non vivere più in un passato ormai ricordo sbiadito e troppo imperfetto, in cui la vittoria si è tramutata in sconfitta, e dove la città che perse ma si salvò, oggi è la vetrina della laotianità nel mondo.
I raid Pirata
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C’è però un’altra via in cui l’incoscienza del passato trova uno sviluppo dentro un’esperienza materialmente innovativa del tempo e di un divenire femminile  rivoluzionario che non riscopre la “Madre” per prendersi cura del Capitale durante le cicliche crisi economiche, ma sostiene relazioni produttive fondamentalmente egualitarie perchè così si sviluppano nella contingente comprensione e necessità dell’altro. Riguardano relazioni economiche che si fondano sulla condivisione di mansioni, rendite e spese in base alle disponibilità giornaliere, dentro luoghi e spazi disponibili per periodi di “prova” (se non propriamente occupati) che durano di solito un anno o poco più o poco meno. Non fanno ricorso o non hanno accesso ai sussidi della cooperazione allo svilluppo, di imprese metallargiche e di autotrasporti o minerarie e non contano sui salari delle catene di alberghi e ristoranti. Orbitano autonomamente intorno all’Isola UNESCO e solo marginalmente ne sfruttano le potenzialità economiche. Per questa ragione, durante l’attuale chiusura delle frontiere hanno continuato a produrre socialità e sostentamento per un numero probabilmemte maggioritario di persone rispetto a quelle sussidiate dai “programmi di aiuto” ufficiali. Durante la mia permanenza ho osservato molteplici realtà di questo tipo e frequentate diretttamente solo alcune. Riguardano una vasta gamma di attività economiche che aprono e chiudono in forma improvvisa per poi spostarsi e riaprire e richiudere ancora. Si tratta di attività economiche di vario tipo, da negozi per la vendita di frutte e verdure che provengono da mercati non regolamentati, a cucine economiche che aprono sfruttando reti di quartiere che evitano la loro proliferazione “di mercato” in modo da garantire sia prezzi bassi sia piccoli margini di guadagno. Mi riferisco anche ad alcuni negozi che prestano servizi come il tagliio di capelli o le manicure e ad alcuni centri per giocare a videogiochi online.
Un caso che ho seguito per circa 3 anni è quello di una famiglia di fruttivendoli ambulanti che dopo aver lavorato per lungo tempo in una zona della città a ridosso dell’Isola sono stati mandati via in seguito alle opere di riqualificazione dell’area. A trovare spazio nei nuovi negozi con affitti abbastanza costosi è stata invece una cooperativa di produzioni organiche di alcune realtà produttive locali sussidiate dalla cooperazione internazionale e un altro fruttivendolo che era già proprietario dello spazio. Nonostante moglie, marito, figli e famiglia allargata non avessero alcuna intenzione di andare via, sono stati costretti a lasciare la zona per alcuni mesi. La "Madre” tuttavia non ha abbandonato lo spazio ed ogni mattina ha iniziato a vendere non più frutta ma fiori decorativi per i monasteri. Dopo qualche tempo di continua presenza giornaliera in cui insieme a lei sulla strada si alternavano il marito, la cugina e la figlia maggiore, tutti insieme hanno poi rioccupato l’area adiacente che non era stata ammodernata e che rappresentava un fastidioso non-finito estetico nella bellezza della città. A distanza di un anno sono ancora fieramente lì a vendere frutta.
Potrei fare esempi analoghi, sia di occupazioni di terre per uso abitativo e commerciale sia di casi di sfratti forzati ma non necessariamente violenti spesso culminati con ricollocazioni accettabili per le parti in causa. Questa accettazione riguarda proprio un’attitudine a considerare l’occupazione temporanea in modo da sfruttare le potenzialità degli spazi finchè possibile. Se da un lato questo processo facilita la gentrificazione di alcune aree della città, dall’altra costituisce una specifica esperienza urbana che non può essere semplicemente intepretata dentro i parametri della sopravvivenza se non proprio dell’indigenza. Si tratta di vite urbane nomadiche che vivono l’aperto cogliendo opportunità e riducendo, grazie a dinamiche di solideriatà che si mettono in moto in forma quasi sponatena, le difficoltà delle ricollocazioni.
Certamente ci sono anche altre storie non di successo ma altrettanto degne e che riguardano, ad esempio, alcuni nuovi disoccuppati. Alcuni di loro hanno inziato a muovere i primi passi cucinando e preparando i pasti oppure tenendo i figli mentre la moglie lavora. C’è anche chi si dedica alle pulizie di casa. In un caso che conosco da vicino, quello di una sartoria, la nascita di un bambino ha impegnato solidalmente tutti gli impiegati a prendersene cura in modo da dare alla madre la possibilità di continuare a lavorare seppur a ritmi ridotti. Questo le ha permesso di ricevere lo stesso salario e di non avere preoccupazioni. Il posto di lavoro si è così trasformato in un piacevole spazio di convivenza e convivialità in cui il bambino ha imparato fin da subito a vivere tra la gente e ad ascoltare lingue diverse senza dover ricorrere ai costosi asili dell’elite cittadina e senza dover chiedere aiuto ai familiari che vivono in villaggi lontani. Questo tipo di pratiche sono decisamente più comuni e diffuse di quanto non si creda parlando della “povertà laotiana”. Soprattutto mi pare che costruiscano pratiche di socialismo reale in cui esigenze produttive e riproduttive si posizionano fuori dalle dinamiche di mercato dominanti e permettono di vivere oltre le differenze di genere, il piacere del “godi” che libera dalle dominazioni quotidiane. Sono pratiche femministe spontanee che non hanno il bisogno di un’agenzia per la cooperazione che educhi a relazioni paritarie in casa.
Tutte queste storie potrebbero essere inserite in un’appendice ideale di un libro recentemente pubblicato anche in italiano, L’Utopia Pirata di Libertalia. In questo testo, David Graeber desacrive come nel XVIII secolo, nel mezzo di traffici economici segnati dalla violenza e dal “colore dei soldi” siano sorte delle comunità spontaneamente egalitarie, durate forse poche generazioni, ma che misero insieme nuovi arrivati, come alcune navi pirata provenienti dai carabi in cerca di rifugio, e alcune popolazioni malagasce. Non vi sono archivi storici che ne confermino in maniera inconfutabile l’esistenza. Tuttavia l’elemento interessente riguarda il fatto che il racconto su di loro venne tramandato e raccolto dentro un genere letterario all’epoca molto in voga che trattava di pirati e pirateria non come predatori senza pietà ma come avventurieri capaci di vivere oltre i confini imposti dalle società retrograde da cui provenivano. In alcuni casi, dopo essere approdati ed essere stati accolti, pare addirittura che l’incontro con “gli indigeni e le indigene” abbia dato il via ad esperienze di democrazia diretta che non avevano precedenti sia nelle aree di arrivo, sia in quelle da cui erano partiti. L’esperienza di questi villaggi malagasci superò così i confini dell’isola fino a far ritenere che i salotti buoni della corte di Re Luigi XIV ne parlassero interessati. In qualche modo quindi parteciparono alla creazione dell’utopia socialista che avrebbe poi segnato il panorama culturale della rivoluzione francese prima e della comune di Parigi più tardi.
Nel caso di Luang Prabang però i racconti della resistenza non entrano nei report ufficiali di organizzazioni governative e non. Certamente non sono proposti come segno distitivo dell’esperienza di viaggio in città da parte delle agenzie turistiche. Al contrario sono spesso strumentalmente utilizzati per segnalare l’indecenza del “Capo Espiatorio”, il governo comunista, senza però cogliere che queste realtà sono tutte intorno alle isole produttive del nuovo capitalismo laotiano di cui fa parte chi critica il “Capo”. Mentre si guerreggia per il consumo più oculato o per  il SUV più nuovo, ci si dimentica che tra quelle genti più d’una ha ben chiara la cruda ironia di quella jeep. Non credo però siano in molte quelle tra loro che invochino il ritorno del “buon colonialista”.
Concludendo Un Tour Du Laos
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Foto: inniettandosi vaccini cinesi, serie “Prima gli Stranieri”
Sono così arrivato alla fine di questo viaggio di due mesi e mezzo circa a bordo di una bicicletta durante il quale mi sono sentito un eroe romantico che riscopriva il potere curativo della Natura e dei suoi spazi selvaggi. L'incontro con il suo corpo oscuro, maledetto, senza alcuna pietà e compassione è stato solo sporadico. In fin dei conti, ho navigato in un mondo di confine ma urbanizzato, aperto ma già recintato e reso accessibile. Ho così goduto appieno della ricerca del sublime perché ho viaggiato nell'ignoto "in sicurezza". Come scrive Bodei "quando scalo ripide e alte montagne, quando affronto la navigazione o i viaggi di scoperta in mari e territori sconosciuti [...] io misuro la mia capacità di resistere all'avvilimento e alle intimidazioni. Il sublime è quello sforzo titanico di rovesciare i rapporti di depressione [...]". In fin dei conti, il mio personale confronto con la Natura è terminato vittoriosamente. L’ho squarciata da nord a sud e poi circumnavigata attraverso i suoi passi più alti da est ad ovest a bordo di una bicicletta lungo un percorso di oltre 2500km. Recuperate le forze fisiche, i mini post su telegram, i video di Relive e tutto il resto mi sembrano ora tracce di una fuga che ha avuto successo ma che devo ancora imparare a riconoscere. Un lungo viaggio è per definizione una lenta presa di coscienza del proprio sé nel mondo. Che si tratti di una migrazione o di un’esplorazione, credo non faccia molta differenza dal punto di vista della coscienza. Tuttavia ora, nel ritorno alla scrivania, al tempo delle letture e del pensiero, delle pulizie di casa e del giardino e di tutto il resto che offre riparo dall'illimitato, quel sé mostra un altro aspetto, forse più malinconico ma non per questo da rifiutare. Fa tutto parte di quel “godi” di cui scrive Godani. Certo mi trovassi a condividere un magazzino con altre 30 persone che sono riuscite chissà come a passare la frontiera, la malinconia non avrebbe tempo di manifestarsi nella lentezza di queste giornate e probabilmente assumerebbe altre forme. Ma il mio viaggio è stato un ritorno che aspirava a una ripartenza, non era solo un andare. Attraverso il semplice movimento, la biciclettata aveva modellato la malinconia, una pedalata alla volta, dentro la ricerca quotidiana del sublime. Ora mi dedicherò ad altro per darle un’altra forma. Grazie per l’ascolto.
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pangeanews · 4 years
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“Una ‘cultura’ necessita di comunità, di eventi mirabili. Le Fondazioni non possono sostituirsi allo Stato occupandosi di welfare e sanità”. Dialogo con Andrea Mascetti
Credo che la crisi, che prova la tenuta delle intelligenze, la tensione dei legami, sia salutare. Immediatamente, quando si perde qualcosa, il necessario abbaglia. La crisi, però, chiede concretezza, pazienza, l’intrepido di inoltrarsi nelle stimmate come in un bosco. Piuttosto, la prima, affrettata risposta alla crisi è credere che la cultura – ma cosa intendiamo per cultura? – sia aleatoria, un gioiello per i giorni di festa, un ornamento. Il libro – che, rimarca l’Aie, vive il disastro e che, sussurro io, deve compiere una radiosa trasmutazione – non è catalogato tra i ‘beni essenziali’, ad esempio. Meglio! La sua necessità è al di là dei ‘beni’. Una visione superficiale, frettolosa, ritiene di dover garantire agli italiani soldi e cibo, pancia piena e testa vuota. Ieri, leggendo su “Affari & Finanza” de la Repubblica alcune speculazioni sul nuovo ruolo che avrebbero le Fondazioni bancarie nell’era del virus, non ho arginato la rabbia. Il titolo dell’articolo firmato da Andrea Greco è esemplare. Cambio di rotta delle Fondazioni: meno cultura, più welfare e sanità. Esattamente ciò che supponevo: la ‘cultura’, termine tanto vago da smarrire nella nebbia delle intenzioni ogni identità, è intesa come orpello, decorazione, accessorio. Ma come puoi varcare una crisi se ti manca l’unica cosa in grado di vincerla? Da qui nasce il dialogo con Andrea Mascetti, avvocato, lettore intrepido – a lui devo la scoperta, ad esempio, di Piero Scanziani – che come coordinatore della Commissione arte e cultura di Fondazione Cariplo ha ingaggiato di recente una fiera battaglia per la salvaguardia delle librerie indipendenti, degli editori di genio, della lettura di qualità. In particolare, proprio Fondazione Cariplo ha condotto in questi mesi una consultazione, interrogando esperti nel settore, per capire quali siano i motivi della lettura sporadica, superficiale, poco consapevole che caratterizza il nostro Paese. (d.b.)   
  Andrea Mascetti, avvocato, coordinatore della Commissione arte e cultura di Fondazione Cariplo
Intanto, per capirci: a suo avviso qual è il valore profondo di una Fondazione bancaria, la sua missione, il suo ‘senso’?
Oggi è molto più difficile dirlo rispetto ai tempi in cui le Fondazioni sono nate. Gli spazi mutanti che stiamo attraversando aprono infinite possibilità di azione, molte delle quali ancora inesplorate. Anche qui i temi della finanza non saranno secondari perché le possibilità, concrete, di intervento dipendono dai flussi di cassa che influenzano le nostre capacità di erogazione. Ma se vogliamo fare un ragionamento di principio non credo che le Fondazioni debbano sostituirsi allo Stato o alle Regioni in materia di Sanità o di assistenza alle persone. Dovranno anzi immergersi nelle loro mission più profonde: la cultura, la ricerca scientifica, i grandi temi ambientali (penso soprattutto all’agricoltura e alle aree rurali e alpine da ripopolare), un localismo consapevole e certamente anche una assistenza comunitaria che non pretenda però di sostituirsi ai grandi moduli che rispondono alla politica.
L’emergenza, come accade spesso, tende ad appiattire il dibattito economico sull’immediato, sull’immediatamente ‘utile’, soffocando una visione completa del tema e del ‘sistema’. Così, leggo su “Affari&Finanza” de la Repubblica, riguardo al prossimo ruolo delle Fondazioni, “è facile prevedere che la torta degli interventi per settore muterà la dimensione delle fette future: più risorse ancora per welfare e ricerca sanitaria, meno per il resto (arte e cultura tra le indiziate di tagli)”. Mi pare una scelta cieca, perfino deleteria: cosa ne pensa?
Come accennavo, non credo che sarà quella la strada, a meno che le Fondazioni non vogliano mutare completamente la propria fisionomia. Non spetta a noi controllare le grandi maree del mondo e, se lo pensassimo, compiremmo un grave peccato di presunzione. Alle Fondazioni credo spetti invece il compito di indicatori, di facilitatori, di alchimisti (e non di apprendisti stregoni) che sappiano porre i giusti ingredienti nelle fucine del misterioso mondo che vedremo avanzare nei tempi prossimi. Ma soprattutto abbiamo il ruolo, come nel caso della cultura, di dare esempi di come le cose possono essere fatte, sì che altri rirendano quegli esempi e li diffondano sui tanti e diversi territori che ognuno di noi vive e abita nel quotidiano. Ma anche lo Stato non può sottrarsi, soprattutto in questo momento, facendosi carico della cultura e dei tanti che lavorano e operano con encomiabile impegno. L’idea di un fondo salva cultura, come molti stanno chiedendo, non è sbagliata; aggiungerei il tema della defiscalizzazione, che se agito ancora più ampiamente di come è stato fatto sino ad ora, e cioè con defiscalizzazioni sugli investimenti in cultura pari al 100%, sarebbe un potente motore per far ripartire il comparto e la filiera che, voglio ricordare, quota all’incirca il 6% del Pil e il 6% dell’occupazione. Il tema delle tasse e dell’Iva andrebbe poi rivisto ampiamente, anche e soprattutto in relazione alle Fondazioni. 
Piuttosto, ancora, vince una idea della ‘cultura’, dell’arte come accessorio, come orpello in fondo inutile rispetto al sistema assistenziale – welfare – e sanitario. Come se l’arte non avesse affinità con il bene, il benessere, la salute. Perché? E cos’è a suo avviso la famigerata ‘cultura’?
Cultura è parola giustamente misteriosa. Noi ci limitiamo a dare servizi culturali.
La cultura la fa la storia, le grandi individualità, forse anche i tempi adeguati. È una illusione ottica che tutti i tempi creino cultura. Il nostro, ad esempio, mi pare che rimpieghi grossolanamente frammenti di culture precedenti, ma non si caratterizzi per una sua cultura; forse, più modestamente, per una sua sociologia… e anche l’etologia ha un ruolo nel moderno, ma il riflesso è quello dell’entomologo.
A causa della tecnica ognuno di noi è diventato uno ‘spazio culturale autogestito’ come si sarebbe detto una volta; una ‘cultura’ necessita invece di condivisione, di comunità, di eventi mirabili. Ecco, forse i tempi della tecnica e della iper comunicazione impediscono che si formi una ‘Kultur’: sono potenze in contrasto tra loro?
Per altro, il sistema editoriale è in una crisi lacerante, si spera salutare. Come Fondazione Cariplo avete inaugurato una ricerca analitica sulla crisi della lettura, del lettore. Può dirci quali sono i risultati più interessanti scaturiti dallo studio?
Il lavoro che stiamo portando avanti è ancora in corso, ma alcune linee di fondo appaiono all’orizzonte.
Parrebbe emergere la necessità di una rinascita della lettura al di fuori dei circuiti normalmente dedicati, tipo quello scolastico, perché non sembra che questi ultimi abbiano dato risultati appaganti negli ultimi anni. Forse anche qui, la burocrazia allontana dalla lettura, e solo in un certo spontaneismo possiamo trovare stimoli per una renaissance. E allora l’idea è di ripartire da strutture nuove e autonome di lavoro. Mi permetto di citare una esperienza straordinaria come quella di Pangea, un modello emblematico di nascita dal basso (o dall’alto?), priva di legami con le strutture e le consorterie ma densa di una libertà espressiva vissuta nella linfa del certosino lavoro quotidiano.
D’altronde il vero tema non è quanto si legge, ma cosa. E qui il problema diventa materia per i mistici.
Librerie aperte sì o librerie aperte no: qual è la sua opinione in merito? Ricordo, per altro, che lei sta compiendo una battaglia per valorizzare le librerie ‘indipendenti’, come luogo civico di scambio, di riparo dall’ovvio. Non crede che uno degli esiti dell’epidemia sia quella di radere al suolo i piccoli presidi della buona editoria, le piccole librerie? 
Certamente sì. Anche se credo, e questo forse in parziale contraddizione con quanto affermato più sopra, che una attività di stimolazione da parte degli artigiani della materia potrebbe aiutare. Faccio un esempio personale: ho letto di una scrittrice azera che ebbe a che fare con il milieu parigino di Jünger. Grazie alle note reti di vendita on line sono riuscito a trovare alcune prime edizioni in francese che mi hanno aperto mondi impensabili e avventurosi. Ecco, oggi un bravo libraio dovrebbe stimolare percorsi e letture, anche ricercate, novello Virgilio. Certo rimane il problema annoso del ‘magazzino’ che se Amazon può permettersi, il piccolo non può certo mantenerselo; ma qui deve intervenire l’ingegno commerciale. Se ci fosse una libreria di Pangea credo che non avrebbe problemi a stimolare curiosità, vendite di libri e appassionati dibattiti anche di questi tempi. Lancio io a voi il guanto di sfida.
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purpleavenuecupcake · 5 years
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Russiagate: "Copasir, Conte, 007 e i punti oscuri non chiariti coperti dal segreto"
Ieri  il giorno dell'audizione del premier al Copasir. Al termine dell’incontro con il Comitato, Conte ha attaccato subito i media, accusandoli di aver ricostruito nei giorni scorsi, intrecci fantasiosi sulla vicenda Russiagate e le presunte implicazioni italiane. Si è trattato di un'audizione ordinaria, legata alla relazione semestrale, ma durante la quale, scandisce il premier, "non mi sono sottratto" a parlare del caso Russiagate.  Durante la mini conferenza stampa Conte recapita a quello che chiama ormai da giorni "avversario" è netto: laddove il premier ha chiarito "perchè Salvini non sente la responsabilità di chiarire, Salvini e' stato ministro dell'Interno, si candida ad essere premier chiedendo pieni poteri ma manca di sensibilità istituzionale".  Ma la stoccata di Conte non si ferma, entra nel merito del caso fondi russi: "qui siamo al di là di un'opinione. Forse Salvini dovrebbe chiarire che ci faceva con Savoini con le massime autorità russe, il ministro dell'Interno, il responsabile dell'intelligence russa. Dovrebbe chiarirlo a noi e agli elettori leghisti".  Altro nodo a cui il premier potrebbe essere chiamato è quello di fare un punto sulla riorganizzazione dei servizi. Perche' nella conferenza stampa di Conte sul Russiagate c'e' un "non detto" che serpeggia nella testa del premier: qualcuno, nell'intelligence italiana, ha agevolato la fuga di notizie che ha innescato la tempesta. Ed e' difficile che quel qualcuno sia Gennaro Vecchione, scelto a capo del Dis proprio dal premier. E' partendo da questo punto che Conte potrebbe intervenire avendo, sottolineano fonti qualificate, già un'idea di dove concentrare la sua azione Tuttavia ci sono ancora alcuni punti oscuri rispetto ai rapporti tra i servizi segreti italiani e il ministro della giustizia statunitense William Barr. Ombre che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte non è riuscito a dissipare durante le dichiarazioni pubbliche, ma neppure nel corso della sua audizione di fronte al Copasir. E tutte riportano all'interrogativo chiave rimasto senza risposta: perché il capo del governo ha autorizzato quei contatti diretti anziché gestirli personalmente? Barr è un politico dell'amministrazione Trump. E dunque Conte avrebbe potuto e dovuto partecipare agli incontri invece di «mettere a disposizione» di un altro Paese, anche se «alleato», i vertici degli apparati di intelligence.  Ora dovranno essere proprio il direttore del Dis Gennaro Vecchione, quello dell'Aise Luciano Carta e dell'Aisi Mario Parente a dover rispondere alle domande dei parlamentari del Comitato di controllo. Anche perché è stato lo stesso Conte ad ammettere che «dopo la richiesta arrivata a giugno per via diplomatica» sono state «effettuate ricerche in archivio, reperiti documenti, svolti accertamenti».  L'obiettivo degli Stati Uniti, come ha confermato Conte, era scoprire che fine avesse fatto Joseph Mifsud, il professore della Link University di Roma che nel Russiagate ha un ruolo chiave. Nel 2016 è proprio lui a rivelare allo staff di Trump che i russi hanno numerose mail compromettenti contro la candidata dei democratici Hillary Clinton. Incontra più volte l'emissario George Papadopoulos ma un anno dopo sparisce all'improvviso. E Trump si convince che in realtà Midsuf sia un agente provocatore di alcuni servizi segreti occidentali (Inghilterra, Italia e Australia) con un obiettivo preciso: dimostrare che il presidente americano aveva cercato di incastrare la Clinton.  Conte, in riferimento alla lettera di Barr afferma che parla genericamente dell'attività degli agenti americani che si trovano in Italia. Lui però decide di concedere subito il via libera alla collaborazione. E ne parla con Vecchione. Vengono attivati i controlli, ma il premier non chiarisce che tipo di accertamenti siano stati effettuati. Nel 2016 il governo non era guidato da Conte e c'erano altri capi dei servizi segreti. Le verifiche svolte quest'estate hanno dunque riguardato l'attività dei predecessori?, scrive il Corriere della Sera. E una delle domande alle quali dovrà adesso rispondere il Copasir attraverso le audizioni dei capi dei servizi che saranno convocati nelle prossime settimane. Ma non è l'unica. Tra le altre questioni aperte ci sono le informazioni consegnate a Barr. Ufficialmente Conte ha ribadito che non è stata trovata alcuna notizia utile e dunque nulla è stato rivelato al ministro della Giustizia americano. Ma allora perché sono stati organizzati due incontri? Se a Ferragosto era già chiaro che l'Italia non aveva dati utili, perché un mese e mezzo dopo è stata convocata una riunione allargata ai direttori delle due Agenzie?  Trump fra circa 15 giorni renderà noto il «rapporto Barr» che contiene tutte le informazioni raccolte dal politico durante il suo giro in Europa.  I dettagli che emergeranno  potrebbero mettere in imbarazzo sia il presidente del Consiglio, sia le strutture dell'intelligence perché, come è stato sottolineato al Copasir, sono state assecondate istanze in maniera riservata, mentre si sarebbe dovuta seguire una procedura trasparente che passasse attraverso Palazzo Chigi e il ministero della Giustizia. Conte ha anche specificato che «si trattava di un'indagine preliminare, altrimenti avremmo dovuto procedere per rogatoria».  Al netto delle dichiarazioni e delle ricostruzioni "fantasiose" dei media, nessuno mai conoscerà la verità dal momento che le tre ore di colloquio tra il presidente del Consiglio e il Copasir sono, per legge, secretate. https://www.facebook.com/GiuseppeConte64/videos/969897530028889/ Read the full article
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tuttotesti-it-blog · 5 years
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Dea in crisi|N°2
CAPITOLO 1
L'accademia non è come me la immaginavo,per vederla devo attraversare un varco,una protezione invisibile.
Appena entro si apre totalmente un nuovo mondo, all'estero una foresta rude ,all'interno un paradiso terrestre.
Alla mia sinistra c'è l'armeria,alla destra c'è una bottega con all'interno spade,scudi ,elmi e delle corazze in ferro.
È tutto così...medievale.
Procedendo vedo una mensa con alimenti di casa.
Davanti a me però c'è una struttura enorme in legno,alta 3 piani e con un tetto in mattoni.
C'è un'insegna:"Dormitori".
Spero solo di non dormire nella merda,sai,da strutture in oro a strutture in legno è un'attimo.
Attraverso la struttura,ma sembra molto grande ai lati,vado nel retro della struttura e vedo un'altra insegna:"Classi" con affianco un tabellone con le lezioni settimanali.
Avevo pensato per tutto il tempo alla struttura che non mi sono accorta che alle mie spalle c'era un...mare.
Non ne ho idea se sia un mare,so solo che se è un lago è veramente molto grande.
Impegnata ad osservare l'acqua non mi accorgo che c'è qualcuno alle mie spalle.
Mi tocca il braccio e dallo spavento sobbalzo.
Mi giro e vedo un ragazzo basso,con occhiali e un maglione.
Il classico nerd.
Mi porge la mano,gliela stringo e si presenta:"Ciao sono Tali,sono un'amministratore,mi occupo di accogliere le persone nuove e a mostrargli le strutture"dice molto contento.
"Ciao Tali,sono-" non finisco la frase che dice.
"Oh Eva,ovvio che so chi sei."
"Bhe si,ma-"
"Ora ti porterò dal preside McCall per le carte"
Mi rassegno a parlare e lo seguo.
Mi porta in una struttura molto piccola,sempre in legno e con delle finestre...senza vetri?
Entriamo io e Tali e il signor McCall si alza e con le braccia aperte si dirige verso di me.
"Eva è un'onore averti qua,ora ti farò compilare delle carte per l'accettazione"
"Va bene signor McCall"dico sorridente.
Finita la compilazione Tali mi porta nei dormitori.
La mia stanza sembra più grande e bella delle altre e questa cosa non mi piace ma non voglio già essere una seccatura.
Il numero della mia stanza è 68,ha finestre enormi ,un letto matrimoniale con delle tendine in seta per coprire i lati.
C'è una scrivania ,una libreria ,un armadio,uno specchio e un bagno privato.
I colori della stanza sono come quelli dell'Olimpo e questo mi mette malinconia,ma se voglio cominciare da capo non devo rimanere nel passato.
Tali mi aiuta a disfare le valige e mi dice:"Oggi è venerdì, ci sono feste il sabato sera,ti consiglio di fare amicizia per poi andare in discoteca."
Mentre se ne va dice ancora:"Ah,domani ci sono le prime lezioni del semestre,non si farà nulla quindi potresti fare amicizia con alcuni"
Annuisco e chiude la porta.
So già che sarà difficile.
Come faccio a fare amicizia se sono timida e tutti mi odiano?
⚠️Non ho nulla contro gli LGBT⚠️
⚠️I nomi e i fatti sono puramente casuali⚠️
⚠️🔞⚠️
⚠️É una mia storia,quindi se la volete condividere dovete taggarmi⚠️
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Il risultato è immensamente importante prendere un certo tipo di rischio usando i tuoi soldi, è dovuto al fatto che ti incoraggia ad ottenere una visita più importante. Ad esempio, un conto di risparmio online pagherebbe l'interesse dell'1%. Trovato all'1%, il prodotto adotterà 72 anni per raddoppiare le tue ricchezze. Non è una buona procedura per raccogliere denaro Scarpe Golden Goose Superstar Uomo uando è necessario andare in pensione! Ricorda, però, che le caratteristiche del mercato dell'offerta sono tornate del 10% su un valore moderato su ogni periodo di lungo termine, solo quale sarà la tua valuta negli ultimi 7 anni! Ciò creerà Scarpe Golden Goose isultati - il risparmio finanziario non lo farà e il tuo business sarà in grado di avere il loro piano di pensionamento confortevole. Questo spiega perché dovresti spendere in investimenti! Con un IPC correlato all'alimentazione, avrai un incredibile utilizzo della situazione del reddito netto. Questo programma è la migliore opportunità di guadagno on-line, e il tuo non può dover raccomandare o mettere in vendita per trottarlo! È anche un business di provenienza Internet che gli esperti potrebbero forse generare tende di migliaia ciascuno e quindi ogni periodo piuttosto buono ora. Probabilmente sarei un po 'più assoluto sulla stessa timeline, ma non poteva fare a meno di pensare che il dispositivo fosse più di 2 numerosi in difficoltà e offline, facendo un paio di capitale qui e un altro. Ogni risparmio si stava riducendo e inoltre francamente era considerato un po 'di ogni tipo di momento spaventoso in cui un numero di noi riteneva di vomitare. Dopo quel giorno, il mio socio in affari mi comunica che è collegato a questo marito che ha tratto una ricchezza online. Mia moglie e io ci dirigiamo in realtà nel suo ufficio, probabilmente è stato questo sogno imbevuto di tecnologia pesante per mezzo di una stanza per i camerieri e, di conseguenza, della fibra ottica. Questo oggetto è stato eccezionale. QUESTO è dove riguardo voleva essere d'aiuto. Gli elementi non erano praticamente gli stessi, dopo i quali gli esperti annunciavano il primo incontro. Non ci potrebbe essere alcun trucco per questo approccio, altro dalla sua stessa organizzazione. La mamma distribuisce cataloghi su a. Ogni invitato alle feste delle ragazze, sia strutturate che non, è messo a disposizione la sua carta commerciale che ha il servizio della tua cara azienda e anche il suo numero professionale su di esso. Jane sta Golden Goose Superstar Donna Outlet uadagnando soldi per la notte e durante il giorno quando i clienti della persona amata si recano sul sito Web principale, inseriscono il suo numero e gli appartamenti vengono ordinati. Sono io per dire le donne, che puoi eseguirlo! Quindi puoi affrontare il tuo spavento di reclami o inghiottire. Gli investimenti tendono a richiedere molto tempo per gestire il minuto in cui hai acquistato l'attesa di questo particolare. Soffio meno di un blocco di 60 minuti a settimana per gli investimenti privati. Gran parte del mio tempo viene solitamente speso a rivedere le opportunità di investimento e alla ricerca di maggiori opportunità rispetto al semplice tweaking dei nostri investimenti. Perché le mie scuole hanno bisogno di diventare affari popolari. Osserva i tuoi soldi! Si rifiutano di ospitare studenti un po 'troppo responsabili altrimenti troppi si arrabbiano o si arrabbiano e vanno a scuola collegata. Questa prospettiva specifica sarebbe terrificante, anche se non fondamentalmente perché si sono preoccupati e l'abilità dello studente attuale di tornare a funzionare in modo produttivo nelle loro comunità - si tratta di soldi giorno per giorno. Le autorità pagano per ogni scuola la percentuale effettiva di denaro specificata, per ogni studente per ogni singolo giorno arrivato a. Per quanto riguarda? Ogni mattina, quando la tua compagnia mostra questo per spin chiama la scatola del reddito scolastico di una persona con un altro denaro. Finisci per essere le loro sneakers ggdb. Senza una persona non sono in grado di supportare il suo ingombrante sistema caricato. Ecco perché ti richiedono lì ogni ventiquattr'ore. Preferirebbero i fondi. # # # # # L'imperturbabile hotel scolastico ha quasi ma annullato insegnandole alcune delle abilità fondamentali per funzionare come terze parti e membri di successo con la società qui a favore dell'indottrinamento socio-politico. Parole di eccitazione, punti spiaccicanti ma anche morsi di suono in cui promulgare l'esperienza ideologica a mani aperte sostituì il curriculum tradizionale.
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massimo15691 · 6 years
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la navi ong e i loro finanziatori
fonte iltenpo Medici Senza Frontiere Partiamo dalle associazioni più grandi. In cima alla lista va messa ovviamente Medici Senza Frontiere, che nel 2016 poteva contare su tre navi: la Dignity I, la Bourbon Argos e Aquarius. Oggi è rimasta attiva solo la Aquarius, a cui però è stato affiancato il nuovo acquisto "Prudence", un'imbarcazione commerciale da 75 metri e 1000 posti a bordo. Un gigante del salvataggio. Niente da ridire sulle attività che Msf porta avanti nel mondo. Anzi. Fa però sorridere il fatto che tra i suoi fondatori compaia Bernard Kouchner, medico francese che ha visto più palazzi della politica che sale operatorie. Dal 2007 al 2010 infatti è stato ministro degli Affari Esteri da Nicolas Sarkozy, ovvero di quel governo che nel 2011 ha bombardato Muhammad Gheddafi e trasformato la Libia nel porto senza regole da cui oggi partono i barconi carichi di immigrati. PUBBLICITÀ inRead invented by Teads E così, in qualche modo, persone collegate a Msf erano di casa in istituzioni che sono state la causa della crisi migratoria. Oggi l'associazione per salvare stranieri dalle bagnarole sostiene spese ingenti, ma i fondi non sembrano essere un problema. Nel 2016 ha raccolto 38 milioni di euro grazie al contributo di 319.496 donatori, 9,7 milioni di euro dal 5x1000 (di cui 1,5 andati per la nave Bourbon Argos) e 3,3 milioni da aziende e fondazioni. Tra queste chi appare? La Open Society Foundation di George Soros, il magnate ungherese col vizio del buonismo e delle frontiere aperte. Peraltro, la Open Society e Msf sono soliti scambiarsi collaboratori come se facessero le cose in famiglia. Un esempio? Marine Buissonnière, per 12 anni dipendente Msf, poi direttrice del programma per la Sanità pubblica di Soros e ora di nuovo consulente per le migrazioni della Ong. Save The Children Guarda caso, Soros ha finanziato (anche se per altre iniziative) pure un’altra organizzazione attivissima nel recupero clandestini: Save The Children. La nota associazione internazionale ha nel suo parco navi la Vos Hestia, un’imbarcazione da 62metri, che batte bandiera italiana e si avvale di due gommoni di salvataggio. I soldi? No problem: nel 2015 a bilancio sono segnati 80,4 milioni di euro di incassi. Proactiva Open Arms Un anno fa a gestire il famoso peschereccio Golfo Azzurro, “beccato” dai radar a raccogliere stranieri vicino alle coste libiche, ci pensava l’olandese Life Boat Refugee Foundation. Da inizio 2017 la fondazione non organizza più salvataggi in mare, ma la Golfo Azzurro continua la sua opera al servizio della Ong spagnola Proactiva Open Arms, che una volta usava il vascello di lusso Astral donato dal milionario italiano Livio Lo Monaco. Per le loro navi gli spagnoli spendono 1,4 milioni di euro, di cui il 95% usati per le azioni di salvataggio (700mila euro al largo della Libia e 700mila euro a Lesbo) e il restante 5% in strutture, comunicazione e via dicendo. L’incasso però è più alto, con una raccolta fondi che supera i 2,1 milioni di euro. Secondo il direttore Oscar Camps, la Golfo Azzurro può ospitare 400 persone a bordo e un giorno di navigazione costa "solo" 5mila euro. SOS Mediterranée Spende invece almeno il doppio la Ong italo-franco-tedesca Sos Mediterranée, fondata dall’ex ammiraglio Klaus Vogel. Per sostenere 24 ore di mare, alla Acquarius servono circa 11mila euro. E se desiderate fare una donazione sappiate che con 30 euro si riesce a mettere in mare per un’oretta solo la lancia di salvataggio. Tra i soci fondatori compare il Cospe, una Onlus italiana dedita all'immigrazione e che (oltre a fondi pubblici) ha ricevuto 46mila euro dalla solita Open Society di Soros. Sea Watch Foundation Il mistero dei costi si infittisce osservando le attività della Sea Watch Foundation. Nel 2014 Harald Höppner investe con un socio 60.000€ nell’acquisto di un vecchio peschereccio olandese. Oggi vanta attrezzature di tutto rispetto: oltre alle due unità navali (una battente bandiera olandese e l’altra neozelandese), a breve dovrebbe essere operativo il “Sea Watch Air”, un aereo col compito di pattugliare dall'alto il Mediterraneo. Da dove vengono i soldi? Non è dato sapere. Life Boat Sia Sea Watch che la sorella Life Boat condividono una curiosità interessante. Tra i loro partner spicca la Fc St. Pauli, una società sportiva di Amburgo più famosa per sposare cause buoniste che per meriti calcistici. Per dirne una, è stata la prima squadra a vietare l’ingresso allo stadio ai tifosi di destra. Altro che accoglienza. La base operativa sarebbe a Malta, ma l’equipaggio della Minden sembra preferire i porti italiani per “scaricare” i migranti. Solitamente effettuano missioni da 10 giorni per 24 ore di navigazione e il costo giornaliero del carburante ruota attorno ai 25 euro. Sulla piattaforma betterplace.org sono riusciti a raccogliere 6mila euro per radar e comunicazioni satellitari, 7.500 euro per comprare un gommone di salvataggio e 12 mila euro per il combustibile. Troppi pochi per gestire così tante missioni. Gli altri da dove arrivano? Lecito chiederselo, visto che a breve dovrà comprare una barca tutta sua e per ora i generosi sostenitori hanno versato solo 1.800 euro. Sea-Eye e Jugend Rettet All’appello delle cinque Ong tedesche mancano la Sea-Eye e la Jugend Rettet. La prima è stata fondata nel 2015 da Michael Buschheuer, conta circa 200 volontari e sul sito è scritto che gli bastano 1.000 euro per pagare un’intera giornata alla ricerca di clandestini. Si avvale dei pescherecci Sea-Eye e Sea Fox. La seconda invece è formata da un gruppo di ragazzi che per 100mila euro ha comprato il peschereccio Iuventa. Ogni missione in mare costa circa 40 mila euro al mese e viene finanziata con donazioni private. La loro raccolta fondi funziona molto bene, visto che da ottobre 2016 ad oggi hanno racimolato 166.232 euro. Moas Il caso più curioso è però quello della Migrant Offshore Aid Station, associazione maltese con due imbarcazioni (Phoenix e Topaz responder), diversi gommoni Rhib e alcuni droni. Moas è stata fondata nel 2013 da due imprenditori italo-americani, Christopher e Regina Catambrone, diventati milionari grazie alla Tangiers Group, agenzia assicurativa specializzata in “assistenza nelle emergenze e servizi di intelligence”. Tra i vari (e ricchi) partner, ha ricevuto 500mila euro da Avaaz.org, cioè la società riconducibile a Moveon.org, che a sua volta fa capo all'onnipresente George Soros. Non è tutto. Perché Christopher appare tra i finanziatori (416mila dollari) di Hillary Clinton durante l’ultima deludente campagna elettorale e negli anni si è contornato di personaggi a dir poco particolari. Nel circolo di amici appare tal Robert Young Pelton, proprietario di un’azienda (Dpx) che produce coltelli da guerra. Esatto: armi bianche già testate in zone di conflitto come Afghanistam Somalia, Iraq e Birmania. Non basta? Fino a giugno 2016 il direttore era Martin Xuereb, in passato Capo della Difesa dell'Esercito maltese. Infine, una seggiola del Consiglio di Moas è riservata a Ian Ruggier, ex ufficiale maltese famoso per aver represso con la violenza le proteste dei migranti ospitati sull’isola. Strano, no? Professano accoglienza e poi usano il pugno duro. Oltre ad avere alcuni lati oscuri, pare che lo Ong pecchino anche di coerenza.
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colospaola · 7 years
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Jesolo, in provincia di Venezia, sulle rive del Mar Adriatico, è una delle più amate località balneari del Veneto, invasa in estate da una marea di turisti amanti del mare e di qualche giornata lontano dal frastuono delle grandi città.
Ora, un gruppo di archeologi dell’Università Ca’ Foscari di Venezia ha scoperto, su un antico isolotto (oggi scomparso) nei pressi dell’antico estuario della Pieve Vecchia, nell’odierna località Le Mure, quello che può essere considerato il primo albergo di Jesolo, risalente al IV – V secolo d. C.
L’edificio era un posto di stazionamento, soggiorno e ristoro, in latino mansio,  forse usato anche da  dei funzionari imperiali, che si trovava lungo una rotta lagunare, alternativa a quello terrestre. Un percorso che fino ad oggi era stato solo ipotizzato, ma di cui ora c’è una chiara prova archeologica.
Della mansio è stata per adesso analizzata gran parte dell’edificio che serviva per l’ospitalità, caratterizzato da una serie di ambienti affiancati l’un l’altro, divisi in stanze che dovevano accogliere giacigli e cucine, ognuno dei quali era provvisto di un focolare in mattoni.
A questa struttura alberghiera era affiancata una serie di edifici con officine per le attività artigianali e probabilmente una piccola cappella per le funzioni religiose, ma il complesso doveva essere più ampio.
Non molto lontano dai luoghi di posta presenti lungo la viabilità principale, la via Annia, il nucleo insediativo tardoantico e altomedievale sull’insula Equilus era un luogo che dava ospitalità a chi si spostava via acqua, nella rete dei canali lagunari, e lungo la strada lagunare che collegava Ravenna, Altino e Aquileia.
Gli archeologi di Ca’ Foscari e l’amministrazione comunale di Jesolo, che ha sostenuto fin dagli inizi in questa ricerca, sono ottimisti sui risultati delle ricerche future, che dovrebbero fare in modo di approfondire la storia di una delle strutture ricettive dell’antica Roma meglio conservate nella penisola.
Abbiamo rivolto a Sauro Gelichi, direttore del progetto archeologico di Ca’ Foscari nell’area e professore ordinario di Archeologia medievale presso il Dipartimento di Studi Umanistici, qualche domanda sulla Jesolo romana e su questo scavo archeologico.
Certo Jesolo è sinonimo di vacanza, davvero interessante che questa veste abbia origini così lontane, come mai?
E’ solo una curiosa coincidenza, dal momento che l’’albergo a quattro stelle’ (come l’abbiamo scherzosamente battezzato) venne distrutto nel corso del V secolo d. C. e non più ricostruito. La storia dell’insediamento continua, ma con altre funzioni. Probabilmente nel VI secolo l’area passò nelle disponibilità della Chiesa. Venne poi costruito un edificio di culto con pavimenti a mosaico, intorno al quale si sviluppò la necropoli di quella comunità che si era formata sul sito di Equilo. Successivamente (verso il X-XI secolo) la necropoli venne dismessa e sull’area cimiteriale vennero impiantati edifici per la trasformazione e lo stoccaggio di derrate alimentari (un granaio, un silos), probabili eccedenze provenienti dalle proprietà del vescovo di Equilo (Equilo era sede episcopale almeno dal IX secolo se non prima). E’ questo, peraltro, il periodo (prima metà del XII secolo) in cui venne costruita la grande chiesa cattedrale di cui ancora oggi si possono ammirare i resti che svettano, per quanto mutili, nella campagna circostante. Una chiesa, lo ricordo, che era quasi un calco della San Marco di Venezia. Dunque, se a questo aggiungiamo il fatto che, prima della mansio, sono state trovate le tracce di raccolta di conchiglie murex per ricavarne porpora, capiamo come la storia di questo luogo non inizi né finisca con la mansio, per quanto questo episodio rivesta un ruolo speciale.
Quando sono iniziati gli scavi nell’area di Jesolo?
Le nostre ricerche sono iniziate nel 2011, anche se nel passato erano già stati condotti scavi, in particolare all’interno dei ruderi della Cattedrale di Santa Maria. Le nostre ricerche sono iniziate con attività diagnostiche non distruttive (lettura ed interpretazione delle foto aree, ricognizioni di superficie, carotaggi), che avevano lo scopo di individuare e nel caso circoscrivere meglio le aree indizialmente più promettenti, su cui intervenire successivamente attraverso lo scavo stratigrafico. Tutto dunque non è nato per caso, e anche se non ci aspettavamo di scoprire i resti materiali di una mansio, questa ‘scoperta’ nasce all’interno di un progetto scientifico ben preciso e programmato.
Crede che la scoperta di questo mansio possa essere d’importanza fondamentale per una storia del Veneto romano?
Penso proprio di sì. Ma dirò di più, penso che costituisca un ritrovamento molto importante per l’archeologia in generale. Non perché non conosciamo l’esistenza di complessi del genere (le fonti scritte ne parlano diffusamente), ma perché sono pochi quelli indagati archeologicamente o indagati in maniera così estesa (come nel nostro caso) da consentirci di avere un quadro planimetricamente ampio ed articolato delle strutture.
Ha collaborato con altri archeologi, italiani o stranieri, durante gli scavi?
Nello specifico di questo scavo, oltre alla partecipazione di studenti provenienti da varie Università italiane e straniere, posso citare la collaborazione con l’Università Padova, nella persona del Prof. Paolo Mozzi, che si sta occupando della parte geo-ambientale e con l’Università di Siena, in particolare con il prof. Stefano Campana, che sta curando la parte relativa alla geo-resistività. Inoltre vorrei ricordare che lo scavo è diretto, sul campo, da due mie allieve, la dott.ssa Silvia Cadamuro e la dott.ssa Alessandra Cianciosi, che si avvalgono dell’apporto del prof. Claudio Negrelli e della prof.ssa Francesca Bertoldi, che insegnano sempre nella mia Università.
La collaborazione dell’amministrazione comunale di Jesolo è stata fondamentale per gli scavi?
E’ stata, ed è, fondamentale, direi indispensabile. Non solo perché supporta economicamente e logisticamente lo scavo – devo aggiungere anche con il concorso del mio Ateneo – ma soprattutto perché dà un senso al nostro lavoro. Chi fa il nostro mestiere ha l’obbligo di rapportarsi con le comunità locali e di negoziare con loro le proprie ricerche. Devo dire che ho trovato, nella comunità di Jesolo, degli interlocutori sensibili ed attenti al nostro lavoro, convinti della bontà di quello che facevamo e sempre disponibili a studiare con noi le forme e i modi per diffondere al meglio i risultati delle nostre ricerche. Lo testimonia, ad esempio, il successo che annualmente riscuotono le visite guidate allo scavo.
E’ in programma una conferenza o un evento sul ritrovamento del mansio di Jesolo? Se si, quando è previsto?
Come le dicevo, durante lo scavo prevediamo almeno un paio di visite guidate la settimana aperte al pubblico e, posso assicurarle, vedere uno scavo ‘in diretta’ e con l’ausilio degli addetti ai lavori è molto più entusiasmante e, posso aggiungere, istruttivo, che non assistere ad una conferenza, per quanto di eccellente livello. Ma gli scavi hanno una durata limitata e l’area, per motivi diversi, viene ricoperta. Per questo motivo abbiamo sempre affiancato alle visite guidate anche delle conferenze, che si tengono durante l’anno, in modo da presentare e illustrare i risultati, anche delle attività post-scavo (i materiali rinvenuti, ad esempio, vengono restaurati e studiati successivamente e dunque è possibile parlarne solo dopo queste attività). Lo abbiamo fatto in passato e lo faremo anche quest’anno, anche se al momento non c’è ancora un calendario preciso. Posso solo aggiungere che, molto probabilmente, allestiremo a Jesolo (e poi in Ateneo a Venezia) anche una esposizione temporanea di pannelli e pubblicheremo un primo volume sui risultati delle nostre ricerche.
Quando riprenderanno gli scavi?
La ripresa degli scavi è prevista, come ogni anno, in autunno. Il periodo viene scelto sia per le migliori condizioni del terreno sia perché scaviamo in campi di proprietà privata, che vengono coltivati. Rassicuro però il lettore che tali coltivazioni non danneggiano l’integrità dei resti che abbiamo rinvenuti che vengono ri-sepolti e adeguatamente protetti.
Sarà possibile in futuro visitare gli scavi? Potranno avere una fruizione turistica?
Qui la risposta è più complessa, perché dipende non solo dalle volontà del nostro Ateneo ma anche, e soprattutto, da quelle dell’Amministrazione Comunale. Inoltre c’è un problema concreto che riguarda la conservazione dei resti. Chi ha visitato lo scavo si rende conto come l’importanza di quanto ritroviamo non trovi un corrispettivo nella monumentalità e consistenza strutturale di quanto riportiamo alla luce (in genere modesti muretti in pezzame laterizio). Questo non significa che non si possa aspirare a creare, in Jesolo, un luogo della ‘memoria’ dove, quanto scoperto possa essere riproposto e visualizzato, apprezzato e goduto sia dai cittadini del posto che dai turisti. Questo luogo, senza inutili e costose spettacolarizzazioni oggi tanto di moda, potrebbe davvero costituire uno spazio nel quale la comunità di Jesolo saprebbe riconoscersi e specchiarsi, ed offrire anche una storia di sé. Inoltre non bisogna dimenticare che, per quanto mutili a causa delle ingiurie del tempo, esistono ancora i resti della imponente Cattedrale di Santa Maria, che valgono da soli una visita. Di recente l’area è stata acquisita dall’Amministrazione Comunale. Quando sarà restaurata, e messa in sicurezza, potrebbe rientrare in un percorso di visita da inserire, assieme al Museo di cui indirettamente parlavamo prima, tra le escursioni (intelligenti ma anche entusiasmanti) da fare dopo una lunga giornata trascorsa in spiaggia.
Jesolo romana e medievale: domande al Prof. Sauro Gelichi Jesolo, in provincia di Venezia, sulle rive del Mar Adriatico, è una delle più amate località balneari del…
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paoloxl · 8 years
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Serve modificare il codice penale sulle misure di sicurezza provvisorie e le infermità sopravvenute Con il trasferimento gli ultimi pazienti dell’ex Opg di Barcellona Pozzo di Gotto è stato raggiunto l’obiettivo dall’entrata in vigore della legge di due anni fa che prevedeva il superamento definitivo degli ospedali giudiziari. Le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza ( Rems) che dovrebbero sostituire quella che è stata chiamata una delle vergogne del nostro sistema giudiziario e sanitario sono state attivate in quasi tutte le Regioni ( rimangono ancora da aprire quelle di Caltagirone e di Empoli) e hanno visto transitare più di 900 persone e uscirne circa 400, a dimostrazione che il sistema è in via di funzionamento e che le Rems non sono un carcere a vita. «Un segnale positivo – ricorda il commissario unico per il superamento degli Opg Franco Corleone – che porta a pensare che queste residenze siano delle strutture tendenzialmente aperte e, contrariamente agli Opg, non prevedono una presenza senza fine, con quella tragica pratica che era definita come ergastolo bianco». Ma le criticità non mancano. In un recente convegno “Dopo il superamento degli Opg. Quali criticità e quali prospettive” organizzato dalla Commissione igiene e Sanità a Palazzo Madama è emerso che per evitare un ritorno al passato, secondo le indicazioni emerse, bisogna rafforzare il territorio dando impulso ai Dipartimenti di salute mentale e creare una cabina di regia regionale forte che dialoghi con gli enti locali. Soprattutto occorre una modifica al codice penale sulle misure di sicurezza provvisorie e le infermità sopravvenute ( questo per evitare che vengano ospitati nelle Rems persone con “misure di sicurezza provvisoria” dell’autorità giudiziaria e non con uno “stato di infermità” accertato in via definitiva). Una revisione della legge che operi anche un rinnovamento “lessicale”, perché le parole “Opg” e “internati” sono rimaste nero su bianco, nelle pagine del nostro codice penale. Il rischio che si ripresenti la logicità manicomiale anche nelle Tems non è remoto. Anche lo stesso commissario Corleone ha puntato i riflettori su questa criticità spiegando che «serve una modifica del codice penale per quanto riguarda le misure di sicurezza provvisorie e le infermità sopravvenute. Deve anche cambiate l’atteggiamento dei magistrati di cognizione che ancora prevedono il ricovero in Rems anche quando non né necessario andando contro la stessa legge. C’è poi un problema con perizie spesso “stravaganti e sciatte”: il proscioglimento per incapacità di intendere e di volere va dato con rigore. Per questo credo che i magistrati debbano sempre chiedere un doppio parere. Ci sono poi grandi criticità per le donne che sono poche e rischiano di vivere in situazioni di promiscuità e di non ricevere le cure adeguate». INIZIA UNA NUOVA FASE Proprio sul discorso del superamento della logica manicomiale intervengono i Radicali Italiani per voce del tesoriere Michele Capano: «È del tutto fuori luogo il trionfalismo con cui il ministro Lorenzin, annunciando l’avvenuta chiusura degli Opg, parla di “grande traguardo” sul fronte dei diritti umani e della salute mentale. Da un lato le neonate Rems replicano lo stesso schema di segregazione proprio degli Opg, dall’altro deve essere chiaro che solo l’abolizione delle misure di sicurezza ( dalle Rems alla libertà vigilata), e dell’inafferrabile concetto di “pericolosità sociale” che le sorregge, segnerebbe una svolta: una svolta utile a fare rivivere la stagione riformatrice degli anni 70, approdando finalmente a quella cultura della “convivenza delle differenze” che rappresentò il nucleo dell’esperienza psichiatrica e civile di Franco Basaglia». La possibilità che le Rems rischino di diventare dei mini Opg è una delle più forti preoccupazioni del Comitato Stop Opg che in questi anni ha svolto un ruolo fondamentale e che non per nulla in questi mesi ha fatto un “viaggio attraverso le Rems” che intende continuare. Stefano Cecconi, Giovanna Del Giudice, Denise Amerini e Patrizio Gonnella di Antigone, ringraziando per il loro ruolo decisivo il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo ( ora all’Istruzione), che ha presieduto l’organismo di coordinamento per il superamento degli Opg e il Commissario Franco Corleone, oggi scrivono che «con la chiusura definitiva degli Opg possiamo aprire una nuova fase, assegnando alle Rems un ruolo utile ma residuale, e puntando decisamente al potenziamento dei servizi di salute mentale e del welfare locale, costruendo così concrete alternative alla logica manicomiale, per affermare il diritto alla salute mentale e alla piena e responsabile cittadinanza per tutte le persone, senza distinzione, come vuole la nostra Costituzione». I componenti di Stop Opg ritengono positiva la decisione del governo di mantenere attivo un organismo istituzionale di monitoraggio sul superamento degli Opg, che chiedono sia aperto al contributo della società civile e nel quale si rendono da subito pronti a partecipare. IL PROBLEMA DELLE PERSONE PSICHIATRICHE RECLUSE Il superamento degli Opg e la loro sostituzione con le Rems potrebbe però creare la percezione che la salute mentale in carcere non sia più un problema. Invece esiste. Sparsi nelle patrie galere ci sono centinaia di detenuti con problemi psichiatrici. Solamente nella regione Calabria risultano ristrette 600 persone con problemi psichiatrici, senza un trattamento adeguato alle loro condizioni. E a farne le spese – oltre ai detenuti stessi che non vengono seguiti dai medici e operatori sanitari sono i poliziotti penitenziari che fanno servizio nei reparti detentivi. È emblematico il caso che negli ultimi due ex Opg appena chiusi, quello di Montelupo e Barcellona Pozzi di Gotto, da tempo trasformati in carcere, sono ospitati comunque dei detenuti con problemi psichiatrici. L’emergenza psichiatrica nelle carceri potrebbe esplodere da un momento all’altro se non si predispongono misure adeguate. Nelle carceri ‘ normali’ permangono molti detenuti con patologie mentali per i quali non sarà prevista alcuna struttura alternativa. Non solo. La legge per la chiusura degli Opg contiene una norma che prevede che alcuni ristretti finiscano la pena detentiva in carcere. Quindi ne sono stati aggiunti altri a partire dell’entrata in vigore della legge approvata l’anno scorso. Tramite uno studio recente condotto dall’agenzia regionale di Sanità della Toscana, si è scoperto un dato che desta preoccupazione: sui circa 16 mila reclusi delle carceri di Toscana Veneto, Lazio, Liguria, Umbria, ben oltre il 40% è risultato affetto da almeno una patologia psichiatrica. Questi detenuti costituiscono una miscela esplosiva in un contesto di detenzione degradante. Esiste un forte disagio perché si realizza una tortura ambientale: il carcere continua ad essere la frontiera ultima della disperazione e dei drammi umani. Proprio per questo – come già ricordato da Il Dubbio – la senatrice Maria Mussini, vicepresidente del Gruppo Misto e membro della commissione giustizia del Senato, aveva presentato due emendamenti importanti per risolvere il problema delle sezioni psichiatriche delle carceri che non sono in grado di garantire i trattamenti terapeutici necessari. Damiano Aliprandi da il dubbio
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pangeanews · 6 years
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Quando i poeti (e i filosofi) uccidono: quattro “casi” estremi, da Alessandro Giribaldi che accoltellò un materassaio a Althusser che strangolò la moglie
La voce del verbo uccidere è generalmente adoperata, da quella categoria di onanisti derubricata sotto il nome di poeti, più nella forma riflessiva che in quella transitiva. Decine di suicidi, o mancati tali (cfr. Leopardi e il fontanile della casa paterna, o il volo a discendere di Gasparo Gozzi attutito dal provvido fogliame), attestano una melanconia di fondo, un corteggiare, o meglio ancora, un tampinare madama morte a ogni passo, con quella morbosità degna delle autentiche perversioni.
A volte però come avviene nella migliore psicanalisi, capita che la compulsione autolesiva venga proiettata verso un soggetto diverso, secondo il noto principio dello spostamento: da qui nasce per l’appunto l’omicidio, autentico scandalo se imputato a un’anima dall’indole creativa.
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A tutt’oggi sono riuscito a racimolare solamente quattro casi che ricadono sotto questo segno, uno dei quali, essendo perpetrato non da mano poetica ma filosofica, deliberatamente forzato.
Il primo riguarda Alessandro Giribaldi, appartenente alla linea simbolista ligure di marca primonovecentesca, poeta di cui ebbi l’ardire e la fortuna di leggere I canti del prigioniero, introvabili in libreria, ma facilmente reperibili in rete, così come accade per il 99,9% dei titoli poetici, oggi clamorosamente bistrattati, in quanto, a detta dei librai, inalienabili. Dal suo riscontro de visu, l’uomo in questione, mingherlino e occhialuto com’è pare la tipica inferia di un bullismo ante litteram (questo pezzo, per l’appunto, vorrebbe anche essere di monito ai bulli e a quanti fanno della prevaricazione la longa manus della loro spropositata autostima). Le poche pseudo-agiogafiche righe, ad opera del filosofo ed antico condiscepolo Adelchi Baratono, che fanno da preambolo al postumo volume dei Canti del prigioniero, descrivono doviziosamente il battibecco prima, accesosi per non ben specificate motivazioni, sedatosi per breve ora e rinfocolatosi in seguito, poi la colluttazione avvenuta nella Galleria di una tentacolare Genova notturna, fra Giribaldi ed un materassaio. Si parla fra l’altro di botte da orbi e di occhiali (ovviamente quelli del poeta) in frantumi, si parla di un coltello (sempre di proprietà del poeta) cavato fuori in un accesso di furia e brandito alla cieca, che nel parapiglia è andato a conficcarsi giusto nel cardio del materassaio il quale nonostante avesse picchiato sodo come avviene sempre negli scontri fra eruditi e popolani, fu forza che si accasciasse esanime. I suddetti bagordi costarono al Giribaldi quasi un mese di carcere e – stavolta dovuto, credo, ai rimorsi che lo cuocevano – un totale distacco per il resto dei suoi giorni da una vita letteraria attiva.
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Il letteratissimo e tubercolotico Gozzano, in uno dei suoi scritti meno noti dal titolo Intossicazione, raddoppiò la mia conoscenza di questi casi in cui lo stilo si tramuta inopinatamente in stiletto. Intossicazione sta per avvelenamento da letteratura, un morbo che per Gozzano non aveva rimedio, più accanito e mortifero della sua stessa etisia, da cui a più riprese egli stesso tentò di districarsi, con esito nullo. Il fatto narrato non costituisce invenzione ma pura cronaca del tempo. Pare che un certo Stefano Ala corteggiasse la sua prediletta con un mezzo già da allora anacronistico: cioè inviandole le sue mediocri elucubrazioni liriche. L’amata certo fiutando fra i sonetti e i madrigali che pervenivano al suo indirizzo odore di miseria, manifestò alla fine la sua preferenza per un giovinotto senz’altro più rude e meno poetico, ma in compenso ben piantato al suolo, così che la perenne diatriba fra Apollo e Mammona, vide vincitore ancora una volta Mammona. Ciò fu causa di immenso, sanguigno furore per il poeta, che ferito nel centro del suo velleitario amor proprio, condito di belle e brutte lettere, accoppò in una volta, durante un ballo, cavaliere e dama, troppo terreni per i suoi gusti, e resi colpevoli di aver recato oltraggio alla sua anima sublime. Il misfatto, come dice Gozzano, è da attribuirsi a “Monna Letteratura. Stefano Ala è stato vittima dei suoi imparaticci poetici. Poeta egli stesso, ma candido e ignaro, la sua anima non si sarebbe guasta, riarsa, illividita fino al delitto atroce, se non fosse stata esaltata dai troppi libri… letture varie e disparate, perniciosissime tutte per una psiche ingenua, candida, primitiva”.
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Il terzo e il quarto caso ci riconducono a tempi più recenti: tempi assai sospetti, quando vi si vuole intrufolare mezz’etto di poesia non receduta a testo musicale. Qui però il registro deve svestire il Kartoffelgeist che l’ha contraddistinto finora, perché gli uxoricidi e i parricidi sono montanti inferti sotto mascelle aperte, creano bruxismi, comprimono allo stomaco, e l’alito più sublime si smaga dentro lo squallore della cronaca. è notevole come il velo della lontananza secolare riduca quasi a oggetto di scherno le disgrazie “in costume” di allora, mentre quelle contemporanee, sebbene dello stesso tragico tenore, assumano una ben diversa calibratura, uno spessore disturbante e doloroso che interferisce con ogni tentativo di liricizzazione o fabulazione dell’argomento. Pare che la mole di dolore trascorso si offra come già masticata e digerita: quello del distacco è divenuto il suo emblema.
Chiusa poesia della chiusa porta, volume postumo antologizzante soltanto una minima parte dell’opera poetica del veronese Giuseppe Piccoli, è l’extrema acqua viva di un’esistenza compromessa dal disagio e dalla schizofrenia. I suoi versi, borderline nell’accezione psicosociale, e al limite fra conato artistico e patologia, fondano nella cellula sillabica e in una propulsione musicale quasi automatica (ciò è attestato dalla mole dei suoi inediti paragonabile a quella del nostro Lorenzo Calogero) la loro ragione epistemologica: “Osserva la foglia muta / figlia della luna nascosta, / converti la foglia figlia / dell’albero che parla / in strumento / di un’antica rettorica / conosciuta sul sillabario / di una desueta / e ancora consueta infanzia: / sii simile a lei: / che si raccoglie presso il tuo nome / freddo e dorato / nel sepolcro che trasforma / la tua veste in spoglia.”
Nel 1981 l’omicidio del padre dovuto a un suo tracollo psichico, lo introdusse in una via crucis di carceri e strutture psichiatriche che si concluse sette anni dopo col suo suicidio.
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Dalla nebbia della malattia alla lucidità filosofica (?), l’ultimo caso chiude il quadrilatero sul filosofo strutturalista Louis Althusser, noto in ambito accademico per il suo clamoroso e contestato ribaltamento dell’interpretazione della teoria marxista, che riuscì ad astrarre dal suo materialismo di fondo; più noto forse per lo strangolamento di sua moglie, da lui stesso narrato con chirurgico distacco nella sua autobiografia: L’avvenire dura a lungo. Da tempo in cura presso vari istituti d’igiene mentale, scivolò sul processo per “non luogo a procedere”. Pare che le sue vessazioni paranoiche l’avessero indotto con calcolo e deliberazione a compiere il bieco delitto. Pertanto, più che di momentanea incapacità d’intendere e di volere, trattasi più ragionevolmente di un elaborato di lucida follia. Alcuni sacrosanti dubbi hanno condotto in seguito a rivedere gli atti di quel processo. Ma il filosofo intanto è defunto dal 1990.
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Sebbene passibili d’inflazione, anche questi pochi casi mostrano come sia facile che una medaglia mostri d’un tratto il suo rovescio, e come la boite a surprise dell’inconscio possa covare in sé degli ordigni pericolosi o dei volti malefici. Sarebbe bene pertanto che queste segrete forze che si agitano in noi venissero vigilate notte e giorno come il sacro fuoco delle Vestali.
Certo è che nelle anime vistose le barbe del santo e del carnefice sono assai suscettibili di scambio reciproco, se Giribaldi e gli altri della cricca sono giunti per diversi tramiti a contravvenire al quinto comandamento, mentre talaltri, come ad esempio Giulio Salvadori, fecero in tempo a lasciare il cenacolo D’Annunziano per riparare sotto l’ala di Dio e canonizzarsi.
Antonello Cristiano
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purpleavenuecupcake · 6 years
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NSA e AT&T controllano reti in tutto il mondo, Italia compresa
The Intercept ha rivelato che l’agenzia per la sicurezza Usa NSA avrebbe un accordo con AT&T per monitorare il traffico Internet, anche di operatori europei e italiani, che passa nelle sue strutture. “La più importante storia sulla sorveglianza che vedrete per anni”, l’ha chiamata Edward Snowden, la fonte delle rivelazioni sui programmi di monitoraggio delle comunicazioni online note come Nsagate. La storia cui si riferisce il più noto dei whistleblower è fondamentalmente una mappa con degli indirizzi, e le foto di anonimi edifici dall’aria impenetrabile. Dentro i quali, però, ancora oggi si svolgono le operazioni di intercettazione del traffico Internet globale da parte americana. Con l’aiuto di un gigante delle telecomunicazioni statunitensi. La Nsa, l’agenzia di sicurezza nazionale statunitense, già ampiamente implicata nello scandalo della sorveglianza rivelato anni fa da Snowden, usa infatti 8 edifici dell’operatore telefonico AT&T per continuare a intercettare vaste quantità di email, traffico internet e telefonico nazionale e internazionale che passano su suolo americano. A rivelarlo la testata The Intercept, che ha incrociato i documenti dell’archivio Snowden, di cui è depositaria, con ricerche su fonti aperte e interviste con ex dipendenti AT&T. Di alcuni di questi edifici si era già parlato in passato, ma ora sono stati individuati gli indirizzi e la loro funzione. Otto palazzi fra New York, Atlanta, Chicago, Dallas, Los Angeles, San Francisco, Seattle e Washington, DC che farebbero parte di un programma di sorveglianza della Nsa noto come Fairview, iniziato già nel 1985, e in cui AT&T sarebbe l’unico operatore coinvolto. Il programma consiste nella “intercettazione di cavi per il trasporto di traffico internazionale, router e switch”, dispositivi usati per l’instradamento del traffico e l’interconnessione di reti. In questo modo la Nsa riuscirebbe a monitorare non solo i dati di AT&T e dei suoi clienti, ma anche tutti i dati che sono scambiati tra il suo network e altri operatori, e che poi passano per le strutture della telco americana. L’intercettazione del traffico di operatori europei Gli otto edifici identificati “servono a una funzione specifica – scrive The Intercept – esaminare i dati dei clienti AT&T e anche portare ampie quantità di dati di altri fornitori di servizi internet”. Sono edifici per il peering (lo scambio di traffico fra operatori). Un’attività in cui AT&T negli Usa riveste un ruolo centrale disponendo di una rete ampia su cui si appoggiano altri fornitori. Tra le aziende che si scambiano traffico con AT&T ci sarebbero le americane Sprint, Cogent, Level 3, e la svedese Telia, l’indiana Tata Communications, la tedesca Deutsche Telekom, nonché l’italiana Telecom Italia. “Lo scambio di dati inizialmente avviene al di fuori del controllo di AT&T – scrive The Intercept – in data center di altri, operatori e controllati da aziende come Equinix. Ma i dati sono poi instradati – interamente o in parte – attraverso gli otto edifici di AT&T, dove la Nsa li monitora”. Del resto, una buona parte del traffico Internet intercontinentale passa attraverso gli Stati Uniti, grazie alla loro posizione geografica e alla preminenza di compagnie americane. Insomma, secondo questa ricostruzione AT&T sarebbe usata dalla Nsa per spiare anche sul traffico di operatori stranieri. Per Snowden, questa storia mostrerebbe come AT&T sia diventata “il più grande nemico di Internet, che collabora segretamente contro i suoi clienti e partner per distruggere la vostra privacy”. Non è la prima volta che emerge la stretta relazione fra AT&T e la Nsa. Già nel 2006 Mark Klein, un tecnico della compagnia telefonica, aveva rivelato l’esistenza di una stanza nell’edificio AT&T di San Francisco dedicata alla Nsa. La questione era poi tornata in primo piano nel 2013, con le rivelazioni di Snowden su programmi e sistemi di sorveglianza e intercettazione di massa della Nsa noti come Prism e Upstream. Programmi che dovevano scadere a inizio 2018, ma che sono stati rinnovati dall’amministrazione Trump. Read the full article
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