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lamilanomagazine · 1 year
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Lecce: a Vittorino Curci 'L'Olio della Poesia 2023', è il primo pugliese premiato.
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Lecce: a Vittorino Curci 'L'Olio della Poesia 2023', è il primo pugliese premiato. Dal 2022, il Polo Biblio museale di Lecce, diretto da Luigi De Luca, ha assunto la direzione artistica dell'Olio della Poesia, storica manifestazione, alla sua XXVII edizione, promossa dall'Amministrazione Comunale di Carpignano Salentino che si svolge a Serrano, piccolo borgo della Grecìa Salentina, nell'ultima domenica di luglio, per leggere poesia, incontrare i poeti e per donare loro, olio, in cambio di versi. Il Polo Biblio museale e gli Osservatori di Poesia: Con un lavoro corale, che coinvolge gli "Osservatori di poesia" delle Biblioteche della Grecìa, il Polo Biblio museale ha maturato una nuova riflessione sul senso del Premio, del "premiare" e sulla necessità che i poeti siano testimonianza di un agire che non si ferma solo alla scrittura e al far versi per crescere un progetto volto ad allargare le interazioni con gli autori e con pubblico. Andare in cerca della poesia popolare, delle sue declinazioni metropolitane in una contemporaneità che sempre con più incisività tenta di rifondare la lingua, di appropriarsene, di giocare sul filo di sincretismi capaci di contenere il passato più remoto e un'idea di futuro volta alla speranza; una "parola mondo" che nel lavoro dei poeti trova il giusto strumento per veicolarsi: questo l'intento della XXVII edizione dell'Olio della Poesia. L'Olio della Poesia a Vittorino Curci: Nell'edizione 2023, nel centenario della nascita di Rocco Scotellaro - si sceglie di fare una forte riflessione sulla poesia a Sud, nel mezzogiorno d'Europa, nel Mediterraneo, premiando, per la prima volta nella storia dell'Olio della Poesia, un poeta pugliese: Vittorino Curci. Scrive di lui Simone Giorgino nel Quaderno che sarà donato al pubblico il 30 luglio, in Piazza Lubelli a Serrano: «La scrittura di Curci ha trovato, nel tempo, il suo stigma e il suo fulcro in versi dal ritmo molto cadenzato ora jazzati, ora salmodianti, sempre personali e riconoscibilissimi, che sembrano aggredire dall'interno, slabbrandole, le maglie della metrica tradizionale. (...) Curci non assume posture sacerdotali ma si presenta come un semplice testimone, un «verbalizzante», intento a fissare su carta lo scempio e lo sfacelo dei tempi nostri. (...) Non sono rari i momenti in cui Curci si sofferma a riflettere sul suo mestiere/destino di poeta, sul senso – o l'insensatezza – che può avere la scrittura in tempi così 'impoetici' come quelli che stiamo attraversando. (...) Nel crepuscolo infuocato della nostra decadenza, c'è ancora un modo, sembra suggerire Curci, per contrastare la deriva, per resistere umanamente, ed è la pratica quotidiana, ostinata, della poesia. La poesia è la sola fiaccola che può squarciare la spessa tenebra incipiente; è la nostra ultima occasione di riscatto, per una nuova palingenesi». Poeta, musicista e artista visivo, Vittorino Curci vive a Noci, in provincia di Bari, dove è nato nel 1952. Collabora alla rivista Nuovi Argomenti e al quotidiano Repubblica Bari dove dal 2019 cura la "Bottega della poesia", un vero osservatorio delle dinamiche e dei protagonisti del fare poesia a Sud. Nel '99 ha vinto il Premio Montale per la sezione "Inediti". È presente in varie antologie di poesia contemporanea pubblicate in Italia e all'estero. Nella veste di organizzatore culturale ha ideato e diretto l'Europa Jazz Festival di Noci e la rassegna Noci-Cinema. Nel 2002, con Pino Minafra, Roberto Ottaviano e Nicola Pisani, ha fondato la Meridiana Multijazz Orchestra. In passato ha anche ricoperto la carica di Sindaco del Comune di Noci e Assessore alla Cultura della Provincia di Bari. I suoi libri più recenti: Liturgie del silenzio (Primo premio della XV Edizione Concorso Nazionale di Poesia Città di Sant'Anastasia 2017) - La Vita Felice, Milano 2017; La ferita e l'obbedienza (nuova edizione ampliata) - Spagine, Lecce 2017; Note sull'arte poetica - Primo Quaderno, Spagine, Lecce 2018; L'ora di chiusura - La Vita Felice, Milano, 2019; La lezione di Hemingway e altri scritti di letteratura, Macabor, Francavilla Marittima (CS); Note sull'arte poetica - Secondo Quaderno, Spagine, Lecce 2020; Poesie (2020-1997) - La Vita Felice, Milano 2021, con prefazione di Milo De Angelis (Premio Giuria Viareggio e finalista al Premio "Viareggio-Rèpaci" 2021); Un giorno, due oppure vent'anni, Lyriks, Cittanova (RC) 2023; Cadenze per la fine del tempo, Musicaos, Neviano (Lecce) 2023. Gli altri riconoscimenti dell'Olio della Poesia: Premio Millennium Il Premio Millennium 2023, a cura dell'Amministrazione comunale di Cursi, è assegnato a "I Quaderni del Bardo Edizioni" di Stefano Donno per la ricerca e la caratura internazionale delle sue edizioni di poesia realizzate in stretta collaborazione con La Casa della Poesia di Como e per aver pubblicato, nel 2023, l'antologia della poesia ucraina "Clarinetti solari" realizzata a cura del poeta Dmytro Tchystiak con Laura Garavaglia e Annarita Tavani. Un'opera che permette ai lettori italiani di entrare in contatto con la realtà viva di una letteratura che ha dato al mondo scrittori tanto diversi come Gogol, Bulgakov o Shevchenko. L'antologia permette la conoscenza delle tendenze contemporanee della poesia ucraina, a partire dal fondatore della nuova letteratura ucraina Taras Shevchenko, passando per il grande rappresentante del modernismo Pavlo Tychyna, che ha avuto un grande impatto sulla generazione dei neo-modernisti degli anni '60, i restauratori delle strutture archetipiche ucraine ("Scuola di Kiev") fino alla generazione degli anni 2010. Premio Salento d'Amare Il Premio Salento d'Amare 2023 va all'Associazione Art&Lab, Lu Mbroia di Corigliano d'Otranto. Aggregato musicale di grande rilievo, punto di riferimento della Canzone d'Autore e della ricerca musicale in atto nel Salento in un confronto costante e continuo con la scena nazionale e internazionale. Luogo di esaltazione dell'autonomia autoriale - nato dall'iniziativa del cantautore Massimo Donno - che dà valore all'iniziativa culturale nello spirito dell'avventura creativa e del fare insieme. La musica, la leva di un lavoro sulla parola poetica, che va all'incontro con il pubblico nel solco di una tradizione capace di declinare l'umano, il suo sentire più intimo, la necessità di dialogare per dare prospettiva ai Vissuti, al Tempo e alla Storia. Un luogo di resistenza Lu Mbroia, che si è dato una funzione importante: rifondare la relazione tra gli artisti e il pubblico sempre pienamente partecipe, nell'ascolto, in una dimensione di intimità, una prossimità, da aia antica, come in una ronda dove l'inquietudine si sana con la condivisione.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Osvaldo Giannì e la poesia popolare salentina
di Paolo Vincenti
Studioso competente quanto umile, seppe interpretare il proprio operare culturale come un servizio, nel senso più alto e nobile del termine. Non cercava le luci della ribalta, era uomo estraneo a certi protagonismi, del tutto immune alle lusinghe che l’ambiente letterario sa dispensare ai suoi protagonisti. Parliamo del professor Osvaldo Giannì, a sette anni dalla sua scomparsa.
Nato nel 1937, si era laureato in Lettere Classiche nel 1963 presso l’Università di Bari. Chiari e ben delineati i suoi interessi di studio fin dall’inizio: la lingua e la poesia dialettale salentina, in particolare tavianese. La figura di Orazio Testarotta accompagna la sua carriera. Ancor di più, quella di Sebastiano Causo, tanto che la sua bibliografia si apre e si chiude con questo nome: ne scrive su “Nuovi Orientamenti” nel 1978 e su “Presenza Taurisanese” nel 2010.  Apprezzato docente, ha insegnato per una vita Lettere, nel Ginnasio del Liceo Classico “Dante Alighieri” di Casarano.
Si coniugano in lui l’amore per la propria terra, il paesello che non abbandonò mai, e la cura filologica dello studioso di rango, che volle salvare dall’oblio il vasto repertorio delle voci popolari del suo paese, quei poeti e prosatori dialettali che dovevano essere ai suoi occhi custodi del mos maiorum. All’acribia dello studioso si univa la semplicità dell’uomo, in un connubio che anche nei periodi più duri della malattia non ebbe a dissolversi. Vecchia scuola, padroneggiava la lingua italiana con una scrittura bella, chiara, lontana da manierismi e astrusità.  È morto nel gennaio del 2012.
Del poeta salentino Orazio Testarotta (1870-1964), alias Oronzo Miggiano, autore dialettale, cieco dalla nascita, originale interprete di una poesia bozzettistico-satirica, che è filone creativo scarsamente coltivato nel corso del Novecento, Giannì è stato il principale promoter. Ha analizzato tutto il corpus delle liriche del poeta tavianese, scrivendone su riviste e anche in volume, in una delle sue pubblicazioni più importanti nel 1997[1].
Nel libro, con Presentazione di Lorenzo Ria e Prefazione di Donato Valli, Sebastiano Causo aveva tradotto le poesie in italiano. Giannì amava l’arguzia, il brio, la sagacia, l’irriverenza della poesia di Testarotta, insomma quell’ italum acetum, di cui parlavano i latini, che intride le più importanti composizioni satiriche della nostra letteratura, connotando versi e prose dei suoi rappresentanti più originali e genuini. Infatti, come scrive Giannì nell’Introduzione del suo libro, “I versi di Orazio Testarotta, pur uniformandosi letterariamente alla Stilistica e Metrica della poesia in lingua (nelle strutture compositive, nel sistema metrico e nelle figure metriche, ecc.) restano sempre satira di costume: non riflettono mai petrarchismi, romanticismi o ermetismi di sorta, anzi, idealmente contrapponendosi a tali “climi” e nozioni, e formule stilistiche, si configurano come ultima prova ed esperienza di versificazione dialettale veracemente popolare, cioè a dire realistico-burlesca. Restando l’isolato rappresentante del bozzettismo e del ‘favolismo’ satirico, 0razio Testarotta costituisce, dal dopoguerra ad oggi, nell’interno della poesia dialettale un contrappunto, ossia una ideale testimonianza di ‘opposizione’, di poesia ‘forte’, oggettiva, plastica, che rimane legata alla grande tradizione realistica, che ammette ancora una fraterna e complice consonanza coi lettori: protagonista, infatti, nell’arte di Testarotta, è il popolo, ravvisato nella multiformità dei suoi atteggiamenti mentali e nelle variegate manifestazioni del suo modus vivendi; protagonista è l’ambiente ‘paesano’ salentino (urbano e giammai paesaggistico) di cui tutta l’opera di Testarotta ci restituisce una mirabile ed esemplare oleografia (l’oleografia di un mondo popolare e piccolo-borghese).”
E quella opposizione forte, oggettiva, Giannì doveva amare, negli echi della poesia del suo concittadino, forse per un piacere intellettuale verso il duttile e variegato sistema espressivo utilizzato dal poeta, forse ancora, per unità di intenti, quella salace ironia, sorniona e sorridente, di cui egli stesso era portatore, fors’anche, se non sicuramente, per un interesse filologico, di studioso, verso quella lingua che riteneva la progenitrice della lingua italiana di cui egli era insegnante. Al Testarotta venne anche intitolato un concorso di poesia dialettale nel suo paese, a cui Giannì dedicò il libro L’incontro – 3° concorso di poesia dialettale salentina – Premio Orazio Testarotta – Testi.[2]
Chi lo ha conosciuto, ha per lui parole di affetto e stima. Lo ricorda come un uomo molto colto ed un gran conversatore, il professor Antonio Lupo, già suo collega presso il Liceo “Dante Alighieri” di Casarano e poi anche Preside dello stesso Liceo. La figlia, Irene Giannì, che col padre condivide la professione di insegnante, mi dice: “Ricordo che ha amato moltissimo la poesia di Testarotta, lo faceva ridere di gusto e pensare, in un commisto di serio e faceto, che un po’ gli assomigliava.  Mio padre amava ridere e scherzare e spesso gli riusciva anche bene. E ricordo che rideva molto ‘con gli occhi’: potevi capire come e quando sarebbe insorto il sorriso semplicemente osservando il modo in cui i suoi occhi si assottigliassero poco prima che esplodesse fragorosa la risata. Certo, non aveva un carattere perfetto, sapeva arrabbiarsi e fare arrabbiare, rimproverare e farsi rimproverare, ma questo rientra nella normale considerazione delle cose. L’immagine o le immagini più autentiche che ci siano mai state di lui, per me, sono le caricature che colleghi, amici, o alunni hanno disegnato di lui: lui era così come appariva in quelle immagini…un tipo ironico e scherzoso”.
Con “A sporta picciulara” – testi dialettali tavianesi in versi e prosa dell’ultimo Novecento,[3] Giannì intendeva sostenere una meritoria operazione di recupero e salvataggio del dialetto tavianese, colto nella parlata viva, nell’interagire quotidiano fra i nativi dialettali del secolo scorso, prima che questo enorme portato culturale, oltre che linguistico, andasse perduto del tutto, a causa della sopravanzante modernità. La sua, dunque, una vera e propria battaglia di valenza civile a difesa di quello che gli studiosi definiscono patrimonio demo-etno-antropologico di un popolo, al declino di un’era, come ultima testimonianza di una tramontante civiltà a cui Giannì evidentemente affidava i propri sentimenti di accorata nostalgia. Questo, sosteneva Giannì, era quanto egli stesso aveva tentato di fare con il volume sul Testarotta, e quanto cercava ancora di fare con questa raccolta di versi e prose in dialetto tavianese del Novecento di autori sconosciuti e fino ad allora mai pubblicati. A sporta picciulara, in dialetto, è un contenitore di gran capienza, come vuole essere appunto il libro, che raccoglie tanti materiali diversi.  Un’ode alla lingua dei nostri avi, insomma, messa a duro repentaglio dallo scorrere inesorabile del tempo e dalle innovazioni tecnologiche che esso porta con sé, primo fra tutte l’odierna comunicazione di massa.
Un’operazione che, al di là dell’intento del curatore di cristallizzare la lingua, rende il dialetto ancora caldo e palpitante di accenti e vibrazioni e moti dell’anima, che le nuove generazioni, inconsapevoli di tanta ricchezza, non riescono a cogliere.  Ma Giannì, con fermezza quasi tranchant, credeva nella necessità di congelare la lingua degli avi – parlava senza mezze misure di “ipostatizzazione linguistica” –il che, secondo me, comportava inevitabilmente anche una adesione sentimentale, sia pure malcelata, a quel mondo primigenio, per chi come lui si faceva laudator temporis acti, difensore del tempo che fu, inevitabilmente diffidente verso le innovazioni. Quello che infatti ci consegna l’opera di Giannì è uno spaccato della parlata popolare dell’ultimo Novecento, prima che questa mutasse in quella sorta di pastiche, ibridazione, quale è oggi la lingua dialettale, anche nella parlata dei più anziani, poiché troppe suggestioni, il linguaggio dei media in primis, ormai la condizionano, la snaturano, la meticciano.
Questa selezione di testi, invece, era per Giannì importante, nella sua immediatezza e genuinità, a maggior ragione in quanto anche i più noti poeti dialettali del Novecento che hanno scritto in dialetto non possono definirsi poeti dialettali, poiché hanno utilizzato un dialetto colto, raffinato, letterario, e ben pochi sono stati i poeti dialettali veri e propri, fra i quali citava il parabitano Rocco Cataldi. E al Cataldi, Giannì era unito proprio dall’amore per Orazio Testarotta. Da piccolo, Cataldi aveva conosciuto il poeta dialettale di Taviano, il quale lo ospitava volentieri nella sua casa, dove viveva solo;  un giorno, Testarotta ascoltò alcune composizioni di Rocco, che aveva trovato il coraggio di leggergliele e, dopo un lungo silenzio(come ricorda lo stesso Cataldi in un aneddoto raccontato sulla rivista “NuovAlba”[4]), il poeta disse: “E bravu lu scettu” e lo incoraggiò a continuare sulla strada intrapresa: quella frase divenne il titolo di una poesia di Cataldi dedicata proprio al Testarotta. In effetti, come spiega Donato Valli, “nell’ambito di quella che Croce chiamava poesia dialettale ‘riflessa’, esistono almeno due livelli: uno è quello della poesia dialettale dotta (è il caso del poeta di Ceglie Messapico, Pietro Gatti e del poeta magliese Nicola De Donno), l’altro è quello dei poeti che rimangono legati, nella lingua e nei contenuti, alla matrice originaria di una popolarità sentimentale ed espressiva (ed è il caso di Cataldi)”[5].
E questo filone popolaresco della poesia e della prosa, è quello riportato alla luce da Giannì, nel senso di una produzione che muove da colori, umori e sapori che sono radicati nel popolo. Come afferma Aldo D’Antico, “scrivere in dialetto non significa soltanto usare la sintassi popolare, ma assumere, quale categoria di ricerca e di espressione, l’anima del popolo, la sua saggezza antica, la sua astuzia proverbiale, la sua inarrestabile dinamica storica, sociale e politica… Il dialetto, frutto di un’elaborazione linguistica secolare e paziente … è uno dei pochi mezzi ‘puri’ rimasti al poeta per esprimere la sua disapprovazione, la sua contestazione, la sua inquietudine… Il linguaggio dialettale ha il potere di scarnificare il contenuto poetico, di renderlo essenziale, di ridurlo a parola; opera cioè una costruzione semantica fondamentale: riconduce il suono a significato culturale, ridando alla parola in sé tutto il suo potenziale espressivo.”[6]
Di Orazio Testarotta, ovvero Oronzo Miggiano, Giannì ha scritto anche su «Note di Storia e Cultura Salentina»[7]. Alla lingua degli avi, egli era talmente legato che spesso ne parlava anche ai suoi allievi, condendo le lezioni di italiano latino e greco con divertenti battute in dialetto.
L’altra figura relativa agli studi di Giannì è quella di Sebastiano Causo, poeta nativo di Taviano ma vissuto a Taranto. Intellettuale molto raffinato, per quanto appartato e schivo, eccellente poeta, aveva pubblicato circa venti libri. Era legato a Giannì (che ne traccia un commosso ricordo sulla rivista “Presenza Taurisanese”[8]) da sentimenti di personale amicizia prima che di collaborazione culturale: aveva spesso tradotto in lingua italiana le poesie dialettali studiate da Giannì.
  Negli ultimi anni, quando ormai la malattia stava prendendo il sopravvento, Giannì ha collaborato con il periodico “La Piazza”, edito nel suo comune di Taviano. “Viveva appartato, in solitudine”, mi dice lo storico Vittorio Zacchino, “specie negli ultimi anni, che sono stati rattristati dai problemi di salute, ma era persona amabile, generosa e molto disponibile nei confronti degli amici e dei colleghi”.  È ancora Irene Giannì a parlare: “la sua eredità morale coincide con la sua professione di docente, che ha svolto con correttezza e passione per quarant’anni: i suoi allievi, dai primi d’inizio carriera agli ultimi, sono i testimoni più autentici, a mio avviso, del suo lavoro, perché ancora lo ricordano e per come lo ricordano. Questa è l’eredità che mio padre ha lasciato anche alle sue nipotine, che amava tanto”. “Uno studioso serio e rigoroso”, dice di lui lo storico dell’arte Mario Cazzato, “ci fornì una preziosa collaborazione quando con Antonio Costantini e Vittorio Zacchino, stavamo lavorando al libro su Taviano”[9].
Se penso alla sua carriera, mi vengono in mente i versi di Virgilio, nelle Georgiche, “Laudato ingentia rura, exiguum colito” (Libro II, vv.412-413), cioè, “loda il campo grande (l’insegnamento dei classici greci e latini, nella sua carriera di insegnante) e coltiva il piccolo (i suoi studi sulla letteratura locale)”. Questo ha fatto Giannì, si parva licet componere magnis, unire alto e basso, in una operazione meritoria, per la quale vale serbargli grato ricordo.
  Bibliografia diacronica degli scritti di Osvaldo Giannì.
  La riforma nella scuola media secondaria di primo grado, in «18° Meridiano – periodico Indipendente», Lecce, marzo 1965, p. 8.
Sebastiano Causo –parte prima, in «Nuovi Orientamenti», a. IX, n. 48, genn-febb. 1978, Lecce, pp. 13-19.
Sebastiano Causo – parte seconda, in «Nuovi Orientamenti», a. IX, n. 49-50, marzo-giug. 1978 , Lecce, pp. 49-57.
Appunti di lettura su “Questa mia sera” – Poesie di Renato Ungaro (Gabrieli editore, Roma 1978) – parte prima, in «Nuovi Orientamenti», a. X, marzo-giug. 1979, n. 55-56, Lecce, pp. 21-33.
Appunti di lettura su “Questa mia sera” – Poesie di Renato Ungaro – parte seconda, in  «Nuovi Orientamenti», a. X, luglio-agos. 1979, n. 57, Lecce, pp. 3-7.
Un’ispirazione tesa a scoprire l’ultima ragione, recensione a Rosario Nichelini, Il fiore del nostro inverno – Poesie, Napoli 1979, in «Nuovi Orientamenti», a. XI, genn-febb. 1980, n. 60, Lecce, pp. 5-7.
Visioni ed echi di esperienza vissuta, recensione a Rosario Nichelini, Diario della memoria felice – Poesia, Napoli 1982, in «Nuovi Orientamenti», a. XIV, genn-febb. 1983, n. 78, Lecce, pp. 23-24.
L’incontro – 3° concorso di poesia dialettale salentina – Premio Orazio Testarotta – Testi,  a cura di Osvaldo Giannì, Taviano, Graphosette Tipografia srl, 1984.
Ironia in forma di versi, in «Quotidiano di Lecce», a. VI, n. 192, 14 aprile 1984, pp. 16-17.
Postfazione  in Giorgio Primiceri, Divagazioni – poesie in dialetto, Matino, Tipografia San Giorgio, 1985.
Alberto Gatti, Felix – poesie, in «Nuovi Orientamenti», a. XX, nov-dic. 1989, n. 117, Lecce, pp. 35-40.
Homo artifex salutis suae (un contributo d’incentivazione), in «Bollettino d’Informazione SNALS», Lecce, 1990 .                                                                                                                                     Le satire di Orazio Testarotta, in «Apulia», Banca Popolare Pugliese, n.1, marzo 1995, Matino, pp.113-123.                                                                                                                                                        Uomo e terra nelle poesie di Sebastiano Causo, in «Presenza Taurisanese», lugl-agos. 1995, Taurisano, pp.8-9.
Orazio Testarotta, poeta dialettale tavianese, in «Note di Storia e Cultura Salentina», Società di Storia Patria per la Puglia, sezione di Maglie-Otranto, vol. VII, 1995, Lecce, Argo editore, pp. 231-246.
Augusto Fonseca-Jugoslavia, Jugoslavia, in «Presenza Taurisanese», agos-settem. 1996, Taurisano, pp. 6-7.                                                                                                                                
Le Opere di Orazio Testarotta – testi editi ed inediti, a cura di Osvaldo Giannì, Galatina, Congedo editore,1996.
Contributi per una bibliografia di studiosi salentini dell’ultima generazione – parte prima, in « Note di Storia e Cultura Salentina», vol. IX, 1997, Lecce, Argo editore, pp. 121-149.
Contributi per una bibliografia di studiosi salentini dell’ultima generazione – parte seconda, in « Note di Storia e Cultura Salentina», voll. X-XI, 1998/1999, Lecce, Argo editore,  pp. 189-205.
L’antologia de «L’Albero» di Comi, recensione a Gino Pisanò, L’Albero, Bompiani, Milano, 1999, in «Presenza Taurisanese», a. XIX, ott.-nov. 1999, Taurisano, pp. 7-8.
Poesie di Sebastiano Causo, in «Presenza Taurisanese», genn-febb. 2000, n. 12, Taurisano, p. 15.
Auguri letterari a Mario Marti, in «Presenza Taurisanese», nov. 2000, Taurisano, p. 5.
Stagioni dell’anno e stagioni dell’anima nella poesia di Sebastiano Causo, in «Presenza Taurisanese», sett-ott. 2001, n. 155, Taurisano, pp. 10-11.
Le poesie di Sebastiano Causo, in «Note di Storia e Cultura Salentina», vol. XIV, 2002, Lecce, Argo editore, pp. 199-232 .
Recensione a Naom Chomsky, in «Quaderni di Nuovo Spartaco», Casa Amata s.r.l., n. 1, stampe, Taviano, 2003, pp. 1-20.
Recensione a James Hillman, Il potere – come usarlo con intelligenza, in «Quaderni di Nuovo Spartaco», Casa Amata s.r.l., n. 2, stampe Taviano, 2004, pp. 1-24.
Un’operazione di salvataggio della parlata popolare di un comune salentino (Taviano) non ancora documentata, nell’archivio storico locale, relativamente all’ultimo Novecento, in «Note di Storia e Cultura Salentina», vol. XVI, 2004, Lecce, Argo editore, pp. 291-307.
A sporta picciulara – testi dialettali tavianesi in versi e prosa dell’ultimo Novecento, a cura di Osvaldo Giannì, Taviano, Grafema Tipografia, 2004.
 Nota introduttiva, in Roberto Leopizzi, Varie, eventuali ed affini – Spilla la parte, Taviano, Grafema Tipografia, 2006, pp. 59-61.
Vero o falso? Improbabile – a proposito di un inedito di Orazio Testarotta (“Me ne strafotto”), in «La Piazza», n. 5, ott. 2006, Taviano, Grafema Tipografia, pp. 18-19.
L’importanza della Poesia oggi – un contributo d’incentivazione, «La Piazza», n. 8, dic. 2007, Grafema Tipografia, Taviano
Nota introduttiva in Giuliano D’Elena, Poesie (Parole di carne), Taviano, Grafema Tipografia, 2007
Appunti di lettura su “La leggenda di domani” di Maria Corti (Manni, Lecce 2007), in «La Piazza», n. 9, febbr. 2008, Taviano, Grafema Tipografia, pp. 12-15.
Se n’è andato per sempre – Sebastiano Causo poeta e scrittore salentino, in «Presenza Taurisanese», a. XXVIII, n. 232, lug-agos. 2010, Taurisano, p. 7.
  Note
[1] Osvaldo Giannì, Le Opere di Orazio Testarotta – testi editi ed inediti, Galatina, Congedo editore, 1997.
[2] Osvaldo Giannì, L’incontro – 3° concorso di poesia dialettale salentina – Premio Orazio Testarotta – Testi,  Taviano, Graphosette Tipografia srl, 1983.
[3] Osvaldo Giannì ,“A sporta picciulara” – testi dialettali tavianesi in versi e prosa dell’ultimo Novecento,  Taviano, Grafema Tipografia,2004.
[4] Rocco Cataldi, Il poeta e la sua terra, in «NuovAlba», numero unico, Parabita, aprile 2001, pp.14-15.
[5] Donato Valli, Sul filo dei ricordi: piccola storia di un’amicizia, in «NuovAlba»,  n.1, Parabita, aprile 2005, pp.8-9.
[6] Aldo D’antico, Prefazione, in Rocco Cataldi, “Lu Ggiudizziu  ‘niversale”, Adovos Parabita, Tipografia Martignano,1975.
[7] Osvaldo Giannì, Orazio Testarotta, poeta dialettale tavianese, in «Note di Storia e Cultura Salentina», Società di Storia Patria per la Puglia, sezione di Maglie, vol. VII, 1995, Lecce, Argo editore, pp. 231-246.
[8] Osvaldo Giannì, Se n’è andato per sempre – Sebastiano Causo poeta e scrittore salentino, in «Presenza Taurisanese», a. XXVIII, n. 232, Taurisano, luglio-agosto 2010, p. 7.
[9] A. Costantini – V. Zacchino – M. Cazzato, Taviano storia arte e territorio, Galatina, Grafiche Panico, 2005, recensito dalla stessa IRENE GIANNÌ, in «Note di Storia e Cultura Salentina», Società di Storia Patria per la Puglia, sezione di Maglie, vol. XVII, 2006, Lecce, Argo editore, pp.343-346.
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pisanello · 2 years
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DONATELLO PISANELLO é poli-strumentista legato alla tradizione orale, da sempre interessato e coinvolto nella musica tradizionale salentina e anche compositore di colonne sonore, grafico e artista visivo. Chitarrista e mandolista é noto soprattutto per il suo contributo alla riscoperta dell’organetto nel Salento e per aver creato uno stile personale basato sulla tradizione popolare nativa autoctona che ha ri-attualizzato con elementi della musica moderna e contemporanea e l’improvvisazione. Grande curioso del Suono che analizza in ogni aspetto non ultimo e meno interessante quello percepito nel vissuto quotidiano e nel paesaggio sonoro. Ha ricevuto numerosi premi e le sue musiche sono state condivise in ogni ambito del mondo artistico: cinema, teatro, documentari, danza, reading di prosa e poesia, vernissage. Donatello Pisanello condivide attualmente la sua esperienza artistica e musicale con Officina ZOE' (di cui è uno dei fondatori), gruppo di punta della tradizione viva salentina e da 30 anni protagonista nei più importanti festival dei cinque continenti. È responsabile artistico di ZittiZitti Sound Club con cui realizza OSIMU, evento salentino dedicato ai linguaggi estemporanei dell’arte, all’attenzione sul suono e alla libertà espressiva musicale. https://www.instagram.com/p/Chfdh8NtBO2/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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Jerusalem, un viaggio verso il sogno attraverso il suono e il corpo
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Un viaggio attraverso il suono ed il corpo ci conduce in una dimensione onirica, dove elementi distinti, dall'Oriente e dall'Occidente, si sciolgono e si fondono insieme creando un linguaggio attraverso l’arte. La Chiesa di Costantinopoli o Chiesa dei diavoli (Tricase- Le), con le sue antiche mura intrise di leggende, è lo scenario perfetto per questo spettacolo che raccoglie il fascino del Mediterraneo, attingendo alla tradizione popolare salentina, fino a quella mediorientale e balcanica. Una lettura in chiave contemporanea delle tradizioni che richiama il sacro e il profano e non sa più scinderli; è il corpo fatto di carne e di sudore , vivo di gioia del vivere il momento presente , crea forme ed esperienze nuove. 12 settembre, mercoledi la performance di Angelo Urso e Victoria Ivanova "Il Diamante". La ricerca artistica di essere umani, la nostra luce ed il buio, la mente e la sua dualita', paure ed il tesoro interno che c'e sempre dentro di noi, basta toccarlo. Il luogo: La Chiesa di Costantinopoli o Chiesa del diavoli (Tricase-Le). Entrata libera. 13 settembre, giovedi ore 18.30-21.30 stage di Danze Gitane (Gypsy Duende) con Victoria Ivanova (La descrizione in basso) 14 settembre, venerdi, ore 18.30-21.30 stage di danza "Rosa dei venti" con Jolina Iavicoli. La danza con la rosa, ispirazione Orientale e Persiana (la descrizione in basso) 15 settembre, sabato, ore 16.00-20.00 stage con Victoria Ivanova e Jolina Iavicoli ZingarOriental. Ispirazione Orientali e Gitane. Prove con le danzatrici con la musica dal vivo di Algelo Urso per lo spettacolo della sera. ore 21.00 Spettacolo "Jerusalem" con Angelo Urso,Ghetonia, Victoria Ivanova, Jolina Iavicoli, partecipanti agli stage e ballerine del luogo (il posto dello spettacolo e' da confermare) Il luogo degli stage: La Chiesa di Costantinopoli o La Chiesa del diavoli (Tricase-Le). I prezzi: 1 giorno dei stage 3 ore: 25 euro 1 giorno dei stage 4 ore: 30 euro 3 giorni dei stage 10 ore: 60 euro Contatti: cell. 3893107818 mail:[email protected] VICTORIA IVANOVA (Russia - Italia) È un'artista siberiana affermata a livello internazionale. Danzatrice, coreografa, insegnante Victoria è nata in Russia e si è trasferita in Andalusia (Spagna) dove ha vissuto per più di 10 anni. Successivamente ha vissuto brevi periodi in Francia, in Argentina e attualmente risiede a Milano (Italia) da dove viaggia per lavorare in tutto il mondo. Lavora e collabora nel progetto internazionale Danza Duende e Gypsy Duende da 12 anni. È membro della compagnia "Salamantras" (Danze Gitane del mondo), in tournée con il famoso mondialmente violinista Roby Lokatos. Victoria è stata invitata a partecipare come artista e modella a numerosi programmi televisivi, annunci, spot pubblicitari; a festival, ambasciate, congressi nazionali e mondiali, ecc. Victoria e' un'artista che porta la sua arte nel mondo, trasmettendo alle persone e agli studenti la felicità e la magia, l'amore per la vita, per la danza e per se stessi. Gypsy Duende (Danze Gitane) e' una scuola delle Arti nomadi e gitane. Si ispira al popolo romani' che sempre ha potuto sopravvivere e celebrare la vita grazie alla musica ed alla danza, trasformando il dolore e la sofferenza in goia ed allegria attraverso un'espressione spontanea, fresca e magnetizzante. La scuola di Gypsy Duende propone lo studio del intensità del movimento preciso, la sincerità e freschezza del gesto, la presenza autentica, espressione ed interpretazione, la postura, il ritmo e la velocita' di esecuzione, lavoro di squadra Le forme e tecniche che vengono utilizzate sono Danze Gitane dei Balcani, Romania, Russia, Ungheria, Turchia, Egitto, e Spagna. JOLINA VITTORIA IAVICOLI Vittoria Iavicoli è assistente educativo, performer di teatrodanza e maestra di danza, danzatrice e coreografa dal 2007. Dal 2010 Insegnante di danze orientali (danza del ventre, folklore arabo, danza persiana), gitane e tradizionali italiane, diplomata anmb , CID Unesco, csen e metodo Z.Hassan. E' Presidente dell' a.s.d. Baladi dance studio e organizzatrice di eventi di danza. E' ballerina e performer nei gruppi musicali : Alexian International group (danze rom) , Li Straccapiazz (danze tradizionali del centro sud) , Collegium Arniense (danze medievali), Collettivo Fattore M (musica e danza estemporanea) , Pejman Tadayon Ensemble (danza persiana e sufi), Dayereh (incontro tra Iran e Italia), Tamburi Del Vesuvio (danze del sud Italia ed etniche). Ha partecipato a importanti trasmissioni televisive e a incontri con le ambasciate. E' invitata come performer e maestra in numerosi festival in Italia e all'estero. La sua è una danza di ricerca che si nutre e trae ispirazione dagli opposti:Terra/Cielo,Tradizione/Sperimentazione,Concretezza/Spiritualità.L'arte come ricchezza e dialogo tra i popoli. Un mare che, invece di dividere le terre, le unisce. STAGE "ROSA DEI VENTI" con Jolina Iavicoli Aria, poesia- Terra, allegrezza. Danzeremo traendo ispirazione dalla relazione con la natura, dalla vita quotidiana e dai sentimenti umani attingendo all’interiorità del danzatore attraverso le gestualità e le movenze delle danze orientali e con l’utilizzo della rosa come mezzo, che racchiude in sé significati tra loro contrastanti: vita e bellezza, ma anche morte e sofferenza (la sua velocità nell’appassire). Navigheremo il nostro mondo interiore con l’immagine della rosa dei venti… “che aria tira?”. Angelo Urso, contrabbassista e compositore, è da anni una presenza originale nel panorama musicale salentino, vantando anche un ricco repertorio di esibizioni a livello nazionale ed internazionale. Lo studio e la sperimentazione di Angelo permettono al suo contrabbasso di diventare uno strumento capace di alternarsi con esiti brillanti tra parti soliste e di accompagnamento. La sua originalità consiste nel creare connessioni tra le suggestioni evocate dai corpi, la materia in movimento e sull’esplorazione delle molteplici possibilità con cui il suono può investire la nostra percezione.
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salentipico-blog · 7 years
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Concerti, mostre, presentazioni di libri, bike tour, incontri, degustazioni: da domenica 10 a sabato 16 settembre a Cutrofiano, in provincia di Lecce, appuntamento con la settima edizione de Li Ucci Festival.
La manifestazione organizzata dall’Associazione Culturale Sud Ethnic e dal Comune di Cutrofiano – con la direzione artistica e organizzativa di Antonio Melegari e con il supporto di partner pubblici e privati – ricorda non solo i cantori de “Li Ucci“, lo storico gruppo salentino (guidato da Uccio Aloisi, Uccio Bandello e Narduccio Vergaro) custode degli “stornelli”, dei canti d’amore e di lavoro ma anche un’intera generazione di cantori capaci di tramandare il patrimonio popolare salentino. Sabato 16 settembre in Piazza Municipio il festival si chiuderà con il concerto-evento finale con Li Ucci Orkestra, che ospita sul palco alcuni dei principali esponenti della musica, del canto e della danza popolare del Salento. «Sette anni di tradizione, sperimentazione e innovazione. Quella che all’inizio era solo una piccola finestra è stata trasformata in una porta spalancata su tante realtà artistiche, dalla musica alla fotografia, dalla pittura alla gastronomia, dalla danza alla poesia», sottolinea il direttore artistico Melegari.
L’articolato programma prenderà il via domenica 10 settembre con una giornata sul tema “Tra territorio, cultura e musica“. Alle 8.30 da Piazza Municipio partirà il consueto BikeTour. Una bicicletta “culturale” nel feudo di Cutrofiano con una sosta alla Biosteria Piccapane dove saranno offerti degli “AssaggiUcci” di prodotti della terra a Km0 biologici. Dalle 20 la serata a Villa Santa Barbara proprorrà la presentazione del libro “Odino nelle Terre del Rimorso. Eugenio Barba e l’Odin Teatret in Salento e Sardegna (1973-1975) di Vincenzo Santoro (Squilibri), il concerto della famiglia di Giovanni Avantaggiato, tra i maggiori depositari della cultura griko-salentina, e con Zimba ca te passa. Con questo spettacolo Edoardo Zimba porta la tradizione ereditata dal padre Pino, la rispetta ma allo stesso tempo la fa sua e la fa ri-vivere mettendola a disposizione delle nuove generazioni insieme ad altri giovani musicisti. Lunedì 11 al via “Li Ucci tra musica e colore”, la sezione di arti visive creata all’interno del Laboratorio Urbano Sottomondo che ospiterà sino al 16 settembre diverse mostre sul tema “I colori della terra” e L’Arte nel Piatto (in collaborazione con l’azienda Fratelli Colì). Martedì 12 dalle 20 sempre nel Laboratorio Urbano Sottomondo, estemporanea di pittura con Agostino Cesari, Donatello Palermo, Giusi de Marzio  Marialucia Musca, Teresa Gravili. Dalle 21 lo spettacolo “Lu Nonnu me cantava”, in collaborazione con Officine Culturali, frutto del “Laboratorio di canto popolare”, riservato ai ragazzi di età tra i 7 e i 14 anni. A seguire ronda spontanea. Mercoledì 13 dalle 21 nell’atrio del Palazzo Ducale appuntamento con ‘Nan Vradi o Janni, serata dedicata al Griko e a Gianni De Santis, grande conoscitore della lingua minoritaria, autore di numerosi testi che hanno saputo tramandare l’anitca lingua. Giovedì 14 dalle 21.30 in Piazza Cavallotti ritorna “La chiazza ca sona e ca vive”, con l’esibizione di Luigi Palumbo & Aquarata, gruppo vincitore del Premio Speciale Nazionale Uccifolkontest. Subito dopo un live acustico del musicista e cantante Antonio Castrignanò, uno spettacolo dedicato alla tradizione salentina tra canti e storie popolari. Venerdì 15 invece la Masseria L’Astore ospiterà dalle 20 la Cultura nella Ruralità (con la possibilità di visitare l’antico frantoio ipogeo) con musica popolare e degustazione di vino e prodotti Km0 in collaborazione con La Terra di Puglia. Alle 22 Nandu Popu, voce storica dei Sud Sound System, proporrà il nuovo spettacolo unplugged, ispirato dal suo libro “Salento Fuoco e Fumo”, accompagnato dalla Smoke’n’Fire Band. Dalle 23.30 spazio alla musica popolare dei Cardisanti.
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Sabato 16 settembre il festival si concluderà con il Concerto-evento alla Rimesa (antico nome della centrale Piazza Municipio) con Li Ucci Orkestra. Un progetto, nato nel 2013, composto da musicisti, uniti dalla voglia di costruire in note e in musica gli insegnamenti e la tradizione lasciata dai cantori salentini. Sul palco anche il menestrello e cantattore salentino P40 (Pasquale Quaranta) che aprirà la serata, i Menamenamò, con un omaggio alla cantante “Pippina Guida”, scomparsa pochi mesi fa, e il gruppo padovano Mi Linda Dama, che ha conquistato il Premio Folk Nuove Generazioni organizzato da Li Ucci Festival, Mei – Meeting etichette indipendenti di Faenza e Scuola di Musica Popolare di Forlimpopoli con il patrocinio di It-Folk, Rete dei Festival e con la collaborazione di BlogFoolk.
Li Ucci Orkestra è formata da Valerio Barone (tromba), Andrea Doremi (trombone), Stefano Bianco (fluato), Antonio Stefanizzi (sax), Antonio Murciano (batteria), Alessandro Chiga (percusioni), Alessio Giannotta, Andrea Stefanizzi, Marco Garrapa, Francesco De Donatis (tambureddhri), Stefano Calò e Agostino Cesari (chitarre), Luigi Marra (violino), Leonardo e Antonio Cordella (organetti), Vittorio Chittano (fisarmonica), Gigi Russo (pianoforte), Alberto De Monte (basso), Giacomo Casciaro (mandola). Le voci sono di Alessandra Caiulo, Uccio Casarano, Cristoforo Micheli, Marco Puccia, Mino Giagnotti, Carla Petrachi, Emanuela Gabrieli, Marina Leuzzi, Antonio Melegari, Francesco De Donatis, Giacomo Casciaro, Luigi Marra, Andrea Stefanizzi, Gigi Marra, Totò Cavalera, Alessandro Botrugno, Mariangela Ingrosso, Gino Nuzzo, Domenico Riso, Lina Bandello, Michela Sicuro, Giuseppe Lisi, Le Sorelle Gaballo e molti altri. La danza è affidata a Claudio Longo, Andrea Caracuta, Romolo Crudo, Sara Albano, Laura Boccadamo, Cristina Frassanito, Veronica Calati.
Info e programma su www.liuccifes
Al via a Cutrofiano “Li Ucci Festival”
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Rocco Cataldi, poeta dialettale parabitano
di Paolo Vincenti
“Parabbita è chiantata su n’artura / e se standicchia janca cu lle vie / te menzu monte finu a lla npianura / tra fiche, ficalindie e tra l’ulie /”. Quando questi versi furono pubblicati, il loro autore, Rocco Cataldi, non era ancora diventato il poeta dialettale parabitano da tutti riconosciuto e apprezzato.
Questi versi, infatti, dedicati alla città di Parabita, facevano parte della prima raccolta di Cataldi, Rrobba Noscia, pubblicata nel 1949 con l’editrice Bruzia di Castrovillari, con Prefazione di Francesco Russo.  A quel tempo, la poesia dialettale era considerata poco più che un passatempo per improvvisati poeti popolari o peggio popolareschi, nonostante la letteratura salentina avesse già espresso nomi importanti della poesia vernacolare, fra fine Ottocento e inizio Novecento.
Dopo questa prima raccolta di poesie, ne sarebbero venute altre, molto importanti, a corollario di una carriera letteraria che seguì di pari passo la vita e di una vita che entrava  con onestà e sincerità nelle poesie. “E quandu  ‘u cielu e l’arria se sculura, / se sente lu rintoccu t’’a campana / te la Matonna Santa t’’a Cutura /e la burrasca prestu se ‘lluntana / E a mmenzu a ccinca tice l’Ave Maria / nci suntu jeu cu la famija mia/”. Rocco Cataldi era nato a Parabita il 9 gennaio 1927.
Maestro elementare a Matino, Lecce, Racale e Parabita, dove era diventato una vera istituzione, nel 1985 era stato insignito dal Presidente della Repubblica dell’onorificenza di “Cavaliere al merito della Repubblica”.  Dopo Robba noscia, pubblicò  Storria t’à Madonna t’à Cutura (Paiano Galatina, 1950), poi ripubblicata dall’Adovos di Parabita, nel 1987, con Prefazione di Padre Giuseppe Perrotta. Nel 1956, diede alle stampe Riflessi opachi (Gastaldi Milano) e, dopo una lunga pausa, Lu Ggiudizziu  ‘niversale (Adovos Parabita, 1975), con Prefazione di Aldo D’Antico. Uno dei temi ricorrenti nella sua poetica era il mondo degli umili, quella civiltà contadina alla quale si sentiva profondamente radicato e dalla quale mai volle staccarsi, rivendicandone orgogliosamente l’appartenenza in tutti i suoi scritti. Una civiltà contadina che era, però, al suo crepuscolo e questo determinava in Cataldi un senso di profonda amarezza. Il filo che lo teneva legato a quel mondo in dissoluzione era quello della memoria, del ricordo del buon tempo antico, un tempo fatto di semplicità di gesti e di parole, un tempo in cui bisognava certo tirare la cinghia per andare avanti, ma in cui vi era una genuinità di sentimenti ed una bontà di intenti che, con l’avanzare dei nuovi tempi,  Cataldi temeva fossero irrimediabilmente compromessi. Di qui, l’amaro sfogo contro le brutture e la tristezza dei tempi.
La scelta del dialetto come mezzo espressivo aveva proprio questa valenza, quasi di una battaglia civile in difesa di quei principi di cui la sua storia è sempre maestra. Dice bene Aldo D’Antico, che difende questa scelta di Cataldi rifiutando l’etichetta, che per un certo tempo gli fu appiccicata addosso, di poeta nostalgico, ripiegato su se stesso;  invece, come afferma nella Prefazione al libro  Lu Ggiudizziu  ‘niversale : “scrivere in dialetto non significa soltanto usare la sintassi popolare, ma assumere, quale categoria di ricerca e di espressione, l’anima del popolo, la sua saggezza antica, la sua astuzia proverbiale, la sua inarrestabile dinamica storica, sociale e politica […] Il dialetto, frutto di un’elaborazione linguistica secolare e paziente. .. è uno dei pochi mezzi ‘puri’ rimasti al poeta per esprimere la sua disapprovazione, la sua contestazione, la sua inquietudine [… ] Il linguaggio dialettale ha il potere di scarnificare il contenuto poetico, di renderlo essenziale, di ridurlo a parola; opera cioè una costruzione semantica fondamentale: riconduce il suono a significato culturale, ridando alla parola in sé tutto il suo potenziale espressivo.
E’ in questa visione che il dialetto diventa strumento di rivoluzione linguistica, perché avvicina il lettore al libro, ritenuto elemento di discriminazione fra la cultura ufficiale, quella degli intellettuali, e la cultura popolare, quella degli altri.” Quella di Cataldi, secondo Antonio Errico, è “poesia costruita sulle macerie di miti e deità che come ogni mito ed ogni deità esistono finchè esiste l’uomo che ci crede” (Introduzione a Arretu ‘lla nuveja nc’è lu sule). Nel 1977, venne pubblicato Pale te ficalindie dalla Editrice Salentina di Galatina, con Prefazione di Donato Valli. Nel 1982, è la volta di  Li sonni te li pòviri (Congedo Editore), con Prefazione di Luciano Graziuso, e nel 1988, venne pubblicato dal “Laboratorio” di Aldo D’antico A rretu ‘lla nuveja nc’è llu sule, con Introduzione di Antonio Errico. A proposito della poesia dialettale di Rocco Cataldi, Donato Valli, nel numero della rivista “NuovAlba”  dell’aprile 2005, tracciando un profilo dell’amico perduto, precisa il posto in cui si colloca Cataldi nel panorama della poesia dialettale in generale. Spiega Valli: “nell’ambito di quella che Croce chiamava poesia dialettale ‘riflessa’, esistono almeno due livelli: uno è quello della poesia dialettale dotta (è il caso del poeta di Ceglie Messapico, Pietro Gatti e del poeta magliese Nicola De Donno), l’altro è quello dei poeti che rimangono legati, nella lingua e nei contenuti, alla matrice originaria di una popolarità sentimentale ed espressiva (ed è il caso di Cataldi)”.
Nel 1989, fu pubblicato A passu t’ommu (Congedo), introdotto e commentato da Gino Pisanò. Nel 1996 poi, uscì Culacchi, con Prefazione di Gino Pisanò, e il ricavato della vendita di questo libro, dedicato “Ai buoni perché si mantengano tali; agli altri perché lo diventino”, stampato in numero limitato di copie, il poeta volle che fosse devoluto a favore dell’erigendo monumento a Padre Pio, a Parabita, realizzato grazie soprattutto alla forte religiosità dello stesso Cataldi. L’ultimo libro, del 2000, è Parole terra terra (Congedo editore), con Prefazione di Donato Valli e note esegetiche di Gino Pisanò. A questo, bisogna aggiungere tutte le poesie scritte su cartoncini, per i suoi allievi, nelle più svariate occasioni dell’anno scolastico, come il Natale, la Pasqua, la festa della mamma, la festa del papà, sempre amorevolmente illustrate da Mario Cala e che ancora oggi si trovano in molte case dei parabitani che sono stati allievi del Maestro Rocco. “Rocco Cataldi- Mario Cala” era diventato, negli anni, quasi un marchio di fabbrica: “la penna e il pennello”, come lo stesso Cala afferma in un commosso ricordo dell’amico sulla rivista “NuovAlba”(aprile 2005). E proprio quel materiale eterogeneo che egli aveva prodotto negli anni del suo insegnamento scolastico andò a comporre l’ultimo libro, pubblicato postumo, cioè  Mirando al cuore (Adovos Parabita, 2005),  con commento di Mario Bracci, Prefazione di Mario Cala e Presentazione di Aldo D’Antico. Questo libro, che può essere considerato il testamento morale di Cataldi, è una raccolta di componimenti d’occasione (45, per l’esattezza), cioè poesie scritte dall’autore in più di quarant’anni. Il poeta aveva deciso di raccogliere insieme tutto questo materiale e pubblicarlo, dedicando l’opera all’amico Raffaele Ravenna che, insieme a lui, aveva collaborato alla realizzazione del monumento a Padre Pio da Pietralcina, in Parabita. Sua intenzione era quella di donare tutti i diritti editoriali all’Associazione dei Donatori di Sangue, della quale faceva parte e alla quale, se negli ultimi anni non aveva più potuto contribuire con la donazione per problemi di salute, non faceva mai mancare la propria adesione convinta, con dimostrazioni di grande affetto e sensibilità, come ricorda, in una breve nota introduttiva del libro, Massimo Crusi, Presidente dell’Adovos Parabita. Quasi tutte le poesie presenti in Mirando al cuore nascono da un felice sodalizio: quello di Cataldi con Mario Bracci, che in questo libro cura il commento alle poesie.
La collaborazione Cataldi -Bracci era cominciata sul giornalino scolastico “Il Pierino”, nato nel 1971 e continuato fino al 1995, come ricorda Mario Cala nella sua nota introduttiva. Il maestro Mario Bracci preparava il giornalino ciclostilato, che usciva una volta l’anno, appunto in occasione del Natale, salvo che vi fossero altre circostanze importanti che meritassero un’altra uscita. Cataldi scriveva le poesie e poi si rivolgeva a Mario Cala per preparare qualche disegnino che corredasse i componimenti poetici. Rocco Cataldi morì nel 2004, dopo una carriera lunga e fortunata all’insegna di quei valori, radicati nella società contadina, a cui, come detto, egli apparteneva. Nel 2010 è stata ripubblicata dal Laboratorio Editore la prima raccolta di Cataldi, Rrobba noscia, nella sua versione originale, con una nuova prefazione di Aldo D’Antico. Possiamo quindi rileggere “ A lli furesi”, “Basta ca è fiuru” “’A furtuna”, “’A verità” “La ‘ngurdizia” “Lu faticante e lu camasciu” “Lu scarparu”, e tanti altri testi suggestivi, costruiti su una sintassi semplice ed emozionale.  A distanza di tanti anni si scopre quanto queste liriche siano attuali e dense di significato. Ciò perché Rocco Cataldi  è ormai diventato un “classico”, ossia un punto di riferimento nella produzione letteraria  salentina del secondo Novecento.
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La poesia popolare del Salento (parte II)
di Cristina Manzo
  Anche quando i Longobardi si stanziarono in Italia e vi furono le alterne vicende della lotta tra Bizantini e Longobardi, la penisola salentina fu una delle pochissime terre che restarono legate a Bisanzio, quindi anche allora i legami marini furono più forti di quelli terrestri. E così fino al secolo XI, in cui finalmente la potenza bizantina venne debellata da quella Normanna, una potenza peraltro venuta dal mare.
La penisola Salentina, che aveva mantenuto una continuità di legami prima con la Grecia e poi con Bisanzio, era stata quindi permeata da quella civiltà, lingua, costumi, cultura e continuerà, anche nelle epoche seguenti, a manifestare quella civiltà greca e bizantina, sia nel periodo normanno che in quello svevo e in quello angioino, fino all’aragonese. Dunque il mare per la penisola salentina è un elemento di unione, non di separazione. Da questa realtà sono derivati non solo la storia della penisola e la sua civiltà, ma i caratteri etnici, etnografici linguistici, folklorici.
È questa la causa dello stupore che suscita il Salento come regione pugliese così diversa dalle altre, sia pur vicinissime, che la sua unità e indipendenza dalle sorti e dalla civiltà del resto della Puglia ne fanno una regione a sé.
L’importanza dunque del mare nella vita della penisola salentina è capitale ed è la chiave di volta per la comprensione della civiltà, della realtà storica di essa.
Tutto il folklore salentino testimonia di tale realtà ed è illuminato da tale prospettiva. Dalla lingua, permeata, oltre che nelle forme, nell’atteggiarsi e nel flettersi, di classicismo greco e romano; alla fantasia e all’immaginativa fortemente estetizzanti; alle tradizioni e ai costumi, nei quali si rivela una continuità dalle antichissime epoche della Magna Grecia; alle leggende, in molta parte derivate dalla tradizione classica greca e romana e riecheggianti le varie vicende della regione, sempre legate all’Oriente; alle tradizioni religiose e profane; alle abitudini di vita dei pescatori e contadini; al loro modo di vivere e di poetare; alle manifestazioni d’arte popolare, in cui una raffinatezza di gusto e di genialità fa pensare alla vena artistica greca immessa d’oltremare in questa regione.
immagine tratta da http://www.expopuglia.it/turismo/visita-la-puglia/brindisi-e-provincia/lecce-e-provincia/gallipoli-e-i-gabbiani-lecce-208
  La poesia popolare del Salento porta i riflessi del mare in tutte le sue forme e spesso tale riflesso segna i canti salentini di note che li rendono indipendenti dai canti delle altre regioni, tanto da poter fare avanzare l’ipotesi dell’origine locale dei canti stessi. Dalle ninne nanne, versetti: “Nare nare nare / A Caddipuli è bellu stare / Te ‘n facci te li fanésce iti l’onde te lu mare” o Scongiuri; proverbi: “Scerocche kiàre e tramendàne scure / Mittete a mare e nun avè pagùre” o filastrocche: “Lu rùsciu te lu mare è tantu forte”, ai canti d’amore, in cui i termini di paragone, le similitudini per la bellezza della donna amata sono attinti all’esperienza di vita.
Così in alcuni canti raccolti in luoghi marini si trovano più numerosi accenni al mare, termini tecnici marinari, immagini e visioni determinate dall’ambiente: “La ripa te lu mare”, “La nave”, “ L’àncuara”, “Lu pìscatore”5 . (trad. nelle note).
La poesia del Salento non è stata studiata in modo organico nelle sue molteplici espressioni ma, non sono mancate raccolte, alcune più ampie, come quella dell’Imbriani e Casetti, altre più ristrette come quella del Gigli e di altri. In tempi recenti un impulso più vivo e concreto alla raccolta e allo studio sistematico della poesia popolare salentina è stato dato dall’Istituto per le Tradizioni Popolari di Roma, sotto la guida illuminata e dinamica dell’illustre Prof. Paolo Toschi, che ha fatto svolgere ai suoi allievi salentini tesi di laurea e saggi su vari argomenti di poesia e di tradizioni popolari di questa regione.
Attingendo anche da questo prezioso lavoro svolto in precedenza, quindi, è poi stato fatto un tentativo molto faticoso e lungo di raccogliere poesie, filastrocche e canti lirici e popolari riguardo ogni tipo di evento (riti religiosi, funerali, lu cunsulu, credenze pagane, la storia dei tarantati, feste dei santi patroni, Natale, la passione di Cristo, leggende e tragedie, promesse e matrimoni), in un’area non molto vasta attorno a Lecce e cioè: Surbo, Castro e Castrignano del Capo, ponendo attenzione alle significative o, a volte impercettibili, varianti del dialetto e del conseguente significato attribuito alle parole6.
Giovani marittimesi negli anni ’70
  Tutte le Strofe o gli Stornelli, anticamente e con frequenza, venivano usati nelle famiglie per comunicare con i bambini, (che li amavano particolarmente quando erano in rima), altresì, venivano narrati o cantati nei campi, per recare sollievo durante le lunghe ore di lavoro; o nascevano come proverbi e “spramenti” (avvertimenti esperienziali, nel senso che solo dopo che se ne è fatta esperienza se ne capisce il significato, a qualsiasi soggetto lo “spramento” sia connesso) riferiti a qualche mestiere faticoso come, per esempio, un canto raccolto a Surbo, che a quanto pare è collegato al lavoro del trappeto (termine salentino che indica il frantoio, dove avviene la spremitura delle olive per produrre l’olio): “Ci vuèi sacci le pene de lu ‘nfièrnu fane ‘nu mese e mìenzu lu trappìtu, la prima notte ‘nde pièrdi lu sennu, l’àutra notte lu sennu e l’appetitu”7. (Trad. nelle note).
A volte nascevano stornelli improvvisati per le strade o nelle piazze; in qualche ritrovo comune come una sala ricreativa, si creava l’occasione di una gara poetica in cui tutti amavano cimentarsi, dai più piccini ai più grandi; inoltre rime e strofe si prestavano molto bene quando si voleva trattare un argomento usando la satira o nelle dichiarazioni amorose. Gli stornelli e le filastrocche popolari, in tutto il Salento erano o narrati o canticchiati, con tonalità, musica e melodia quasi sempre improvvisati, le strofe o il numero dei righi o dei versetti di ogni componimento erano giustificati dall’occasione e dal contesto che li richiedeva.
(continua)
Note
4 Poesia religiosa narrativa, (fa parte dei canti raccolti in Castro), canto recitato da Luigi Schifano detto Lu Tarantinu, nato in Castro, nell’anno 1876, non legge e non scrive. Trad.: La presa che fecero i turchi una di quelle robe caricò. Una caricò più di tutti, portò via un grande tesoro. Capitò in mano a una donna turca che era arrivata ai dodici mesi e non partoriva. Lì si trovava una schiava cristiana, “Questa statua al paese devi rimandare”. La donna che sentiva doglie crudeli dentro un grande vascello avrebbe voluto rimandarla, ma prende una barchetta sconsolata e la butta un mare nell’aria imbrunita. La sera si partì dalla Turchia e in una notte fece tanta strada. Le genti otrantine avvistarono una luce, i marinai si buttano nel mare ma la Madonna indietreggiò. Cambiando capitolo, scese il Bonsignore e la Madonna a terra si tirò. Poi scrisse al Santo Papa per dire che si era trovata una gentile rosa. Il Papa dispensò il Giubileo per perdonare e salvare da ogni peccato, p.389, in La poesia popolare del Salento di I. M. Malecore, 1967.
5 Il mare nel folklore del Salento, di I. M. Malecore, Provincia di Lecce – Mediateca – Progetto EDIESSE (Emeroteca Digitale Salentina)         a cura di IMAGO – Lecce. Traduzione, secondo l’ordine di scrittura dei versetti in vernacolo: “Nuotare, nuotare, nuotare, a Gallipoli è bello stare, ti affacci alla finestra e vedi le onde del mare”. “ Con gli scirocchi chiari e le tramontane scure, mettiti in mare e non avere paure”. “ Il rumore del mare è tanto forte”. “ La riva del mare, la nave, l’ancora, il pescatore”. http://www.culturaservizi.it/vrd/files/ZG1959_mare_folklore_Salento.pdf
6 Irene Maria Malecore, La poesia popolare nel Salento, Leo S. Olschki Editore MCMLXVII, Firenze, 1967. Biblioteca di «Larès», Vol. XXIV.
7 Canto di lavoro,( fa parte dei canti popolari raccolti in Surbo), canto recitato da Caterina Conte detta la Mangorfa, nata in Surbo, nell’anno 1868, contadina, legge e non scrive. Trad.: Se vuoi conoscere le pene dell’inferno fai un mese e mezzo al trappeto, la prima notte ci perdi il sonno, l’altra notte il sonno e l’appetito, p.342 in La poesia popolare nel Salento, di I.M. Malecore, 1967.
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La poesia popolare del Salento (parte I)
C’è l’influenza del mare nei canti e nelle poesie popolari del Salento
di Cristina Manzo
Quandu nascìì ièu foi spenturata,
parse te l’ura la spentura mia,
stese tre giurni lu mare quagghiatu, lu sule scìa te fore e nu’ paria.
Me purtara alla chiesa a battiscìare,
me morse la mammàna pè la via,
se persera le chiài te l’egghiu Santu
e puru quidde te la sacrestia,
catìu la fonte e ‘ccise la cummàre,
rimasi turchicèdda, mara mie.
(Mala sorte, trad. nelle note)1
Il rombante salire delle maree, il flusso delle correnti, il frangersi dei flutti schiumosi, sono le più spettacolari testimonianze del perpetuo movimento delle acque. Una grande orchestra di flauti, arpe, trombe e archetti, diretta dal grande maestro che è la natura, una rappresentazione in cui mai, in nessun caso, le note seguono uno spartito, il mare è passione che si improvvisa colonna sonora della vita. Un’onda è energia propagata attraverso l’acqua. Quando si avvicina alla spiaggia, urta contro il fondale basso e altera la sua forma, increspandosi in un ricciolo spumeggiante, esse arrivano da lontano e galoppano sul mare come cavalli selvaggi con le criniere al vento. Quando si spalmano sulla battigia, sciogliendo le gesta nervose, diventa, talvolta, un incontro di strumenti musicali.
le zone interessate dallo studio e dalla ricerca sui canti popolari salentini
  “Se tutta l’Italia è un paese mediterraneo, il Salento, che è l’estrema punta della Puglia, è un paese più particolarmente marino, proteso com’è, in stretta lingua, tra l’Adriatico e lo Jonio; in più, appare come un ponte avanzato verso l’Oriente. Questa particolare posizione ha determinato la storia e la cultura di questa regione, così come ne ha determinato via via, di era in era, i caratteri etnografici, linguistici, folklorici. Sicché essa appare oggi anche all’occhio del profano viaggiatore un caratteristico paese che si distacca nettamente dal resto della Puglia, con un che di grazia e di gentilezza, di acume e di indolenza, di progredito e di antichissimo sia nella popolazione, sia nell’atmosfera, nella cultura dei campi, nell’architettura, in quell’essenza, insomma, che spira da ciascun paese”2.
Salento o Terra D’Otranto è quella regione che si estende in forma di penisola tra il mare Jonio e l’Adriatico. I confini settentrionali di essa, sino ai primi dell’ottocento, si estendevano da Egnazia, Ostuni, Martina Franca, Mottola, Castellaneta, La Taverna del Viglione, sino alla foce del Bradano, si allargavano fino a racchiudere Matera e terminavano alle foci del Basento. Noi col nome di Salento, designiamo quella regione che, sino ad alcuni decenni fa, costituiva un’unica provincia, cioè la provincia di Lecce e che si è poi scissa nelle province di Lecce, Brindisi e Taranto. Questa regione ha caratteri geografici, storici, etnici, linguistici, e pertanto folkloristici, peculiari ed unitari che ne fanno una regione a sé, entro la Puglia stessa.
Chi ben guardi la popolazione di questa regione e il suo essere e il suo manifestarsi, la trova antichissima e attuale, con una vitalità remota e complessa, con una civiltà progreditissima ed intima, disincantata e sognante, scettica e raffinata, consapevole ed aperta, quale solo un popolo antico, mediterraneo, cioè esposto da millenni agli influssi più vari e profondi che hanno solcato questo mare può essere. Proteso com’è il Salento nel mare, lingua di terra ultima del tallone d’Italia, trampolino di lancio verso l’oriente, ma parimenti partecipe dell’occidente, vicinissimo alle coste dell’Asia e dell’Africa, non può non essere uno dei paesi più mediterranei d’Italia. È mediterranea per la lingua, cultura e civiltà; nell’architettura e nella scultura, nell’arte, nella poesia e pertanto nell’etnografia e nel folklore. Fascino di un popolo le cui origini sono ancora inviolate – giacciono pietre mute e misteriose le iscrizioni messapiche ancora indecifrate: che cosa mai diranno a chi riuscirà a farle parlare? – ; di un popolo che è stato profondamente greco, romano, bizantino, che ha ancora l’isola linguistica, la «Grecìa», dove si parla il greco, e conserva usi, tradizioni, canti che si ricollegano alla Grecia. Un popolo che ha lottato contro i turchi, che ha scritto la pagina immortale degli ottocento martiri di Otranto; un popolo che partecipa dell’occidente e dell’Oriente, che parla una lingua pura e differente da quella delle altre regioni pugliesi3.
Narrano di queste gesta e di questa influenza straniera nelle vicissitudini e nella cultura dei luoghi storie e leggende numerose e diffuse intorno a castelli, fortezze, punte e insenature, scogli e isolotti lungo le coste.
Una storia in particolare, raccolta a Castro, narra di una scorreria dei Turchi, forse della presa di Castro, perchè dice:
“La pìjàta che fìcera li Turchi una de quelle roba caricàu, una caricàu più de tutti ‘nu grande tesoru nde purtàu. A manu ‘na donna turca ricapitàu era ‘rrivata ‘lli dudici mesi e nu’ sgravidàva. Addài se truvàva ‘na scava cristiana: «’Sta pupa allu paese ne devi mannàre». La donna che sintìa dòje crudeli antru ‘nu grande vascellu la ulìa mannàre ma pìja ‘na barchetta sconsolàta la mina ‘n mare cu l’aria brunita. La sira se parte de Turchia, antra ‘na notte fice tanta via. La gente utrantina hannu vista ‘na lumèra se minàra a mare li marinari la Madonna indietru se tiràu. Sona Capitulu e scise Bonsignòre la Madonna ‘nterra se tiràu.Ca mò se scivi a quellu Santu Papa che s’ha truvàta una gentile rosa.Lu Papa lu giupilèu ci ha dispinsàtu cu’ parduna e cu’ sarva ogni peccatu”4.
        Allude quindi ad un avvenimento noto e ben determinato, non ad una qualsiasi presa dei Turchi. In questa presa i Turchi caricarono sulle loro navi molta roba, specialmente una nave caricò “un gran tesoro” — dice la storia — cioè una statua della Madonna. Questa statua capitò nelle mani di una donna turca, la quale, essendo sul punto di dare alla luce un figlio, non riusciva a partorire. Lì si trovava una schiava cristiana (notevole l’elemento schiavitù di cristiani presso i Turchi, fatto evidentemente comune e noto al popolo che appare adusato a questo fatto, se ne parla senza dare spiegazioni). La quale, spiega la recitatrice, ha capito che la turca non avrebbe potuto partorire se non avesse rimandato in patria, cioè in terra cristiana, la statuetta della Madonna, negletta nella casa di infedeli, anzi, precisa la recitatrice, abbandonata come cosa vile sotto il letto. “Dovresti mandare questa pupa al suo paese”, dice la schiava cristiana alla turca. La quale, poiché sentiva doglie così crudeli, senza esitare, prende la statuetta e la mette in mare su di una barca verso l’imbrunire. La barca, senza guida, in una notte, fece tanta strada che dalla Turchia giunse presso le coste italiane. I pescatori che erano sulla spiaggia al mattino, vedono avvicinarsi la barca con la statua della Madonna e si gettano in mare per portare la statua a terra. Ma la statua arretra, mostrando così di voler essere accolta con tutti gli onori. Infatti suona la campana che riunisce il Capitolo e scende il Vescovo: la statuetta allora da sé scende a terra. Perciò la Madonna dispensa un Giubileo per perdonare e assolvere ogni peccato.
Se risaliamo all’epoca del viaggio di Enea, quando Enea stesso ed altri eroi troiani approdarono alle coste salentine e si installarono in vari luoghi, dando origine a città e civiltà nuove; e poi al tempo della Magna Grecia in cui i legami con la civiltà greca d’oltre mare furono più forti che con la civiltà della penisola, terrestre. Nel periodo della decadenza dell’Impero Romano d’Occidente, la penisola salentina rimase strettamente legata all’ Impero d’Oriente cioè a Bisanzio, particolarmente per opera del Monachesimo Orientale che vi era fiorito.
(continua)
Note
1 Mala sorte (fa parte dei canti raccolti in Lecce), canto recitato da Addolorata Potì, detta Pillàlla, nata in Lecce nell’anno 1858, venditrice di uova, già contadina, non scrive e non legge. Trad.: Quando nacqui io, fui sventurata, si vide da subito la sventura mia, rimase per tre giorni il mare immobile, e il sole usciva fuori ma non si vedeva, mi portarono in chiesa per battezzarmi, mi mori la mamma per la strada, si perdettero le chiavi dell’olio Santo e anche quelle della sacrestia, cadde la fonte (battesimale) e uccise la comare (la madrina), rimasi offesa (fisicamente) povera me, p.282 in Irene Maria Malecore, La poesia popolare nel Salento, Leo S. Olschki Editore MCMLXVII, Firenze, 1967. Biblioteca di «Larès» Organo della società di etnografia italiana e dell’Istituto di Storia delle Tradizioni Popolari Dell’università di Roma. Vol. XXIV.
2 Il mare nel folklore del Salento, di I. M. Malecore, Provincia di Lecce – Mediateca – Progetto EDIESSE (Emeroteca Digitale Salentina)         a cura di IMAGO – Lecce. http://www.culturaservizi.it/vrd/files/ZG1959_mare_folklore_Salento.pdf
3 Irene Maria Malecore, La poesia popolare nel Salento, Leo S. Olschki Editore MCMLXVII, Firenze, 1967. Biblioteca di «Larès», Vol. XXIV.
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pisanello · 2 years
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DONATELLO PISANELLO é poli-strumentista legato alla tradizione orale, da sempre interessato e coinvolto nella musica tradizionale salentina e anche compositore di colonne sonore, grafico e artista visivo. Chitarrista e mandolista é noto soprattutto per il suo contributo alla riscoperta dell’organetto nel Salento e per aver creato uno stile personale basato sulla tradizione popolare nativa autoctona che ha ri-attualizzato con elementi della musica moderna e contemporanea e l’improvvisazione. Grande curioso del Suono che analizza in ogni aspetto non ultimo e meno interessante quello percepito nel vissuto quotidiano e nel paesaggio sonoro. Ha ricevuto numerosi premi e le sue musiche sono state condivise in ogni ambito del mondo artistico: cinema, teatro, documentari, danza, reading di prosa e poesia, vernissage. Donatello Pisanello condivide attualmente la sua esperienza artistica e musicale con Officina ZOE' (di cui è uno dei fondatori), gruppo di punta della tradizione viva salentina e da 30 anni protagonista nei più importanti festival dei cinque continenti. È responsabile artistico di ZittiZitti Sound Club con cui realizza OSIMU, evento salentino dedicato ai linguaggi estemporanei dell’arte, all’attenzione sul suono e alla libertà espressiva musicale. https://www.instagram.com/p/ChfU-c4M_p_/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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Quando i concorsi di poesia erano una cosa seria e non un affare
di Armando Polito
  Non bastavano i maghi e gli indovini ad approfittare della credulità popolare ed ecco farsi avanti persuasori più sofisticati a sfruttare il narcisismo di persone che, consapevoli di non potersi collocare nella categoria dei santi e dei navigatori, presumono di essere poeti. In fondo cosa costa mettersi in gioco quando la posta potrebbe essere la celebrità e il costo corrisponde solo alla cifra, non certo astronomica, richiesta per partecipare? E cosa costa comporre una commissione di sedicenti esperti che, bene che vada, sono autori di una sola pubblicazione per la quale si sono dissanguati e che nessuno ha letto e mai leggerà? Ecco, così, da qualche decennio a questa parte imperversare concorsi letterari in un paese in cui gran parte della popolazione non sa esprimersi correttamente e non capisce neppure il significato letterale di ciò che legge, ammesso che sia in grado di compiere correttamente pure tale operazione. Per me è un’attività ai limiti del lecito, come tutte quelle (alle quali non sono estranee banche, compagnie telefoniche, etc. etc.) che giocano sui grandi numeri. Nella fattispecie supponendo, al ribasso, una quota minima di partecipazione pari a 20 euro e 200 partecipanti, s’incassano già 4000 euro, più che sufficienti a coprire tutte le spese di organizzazione. Con la cultura autentica non si mangerà, ma con quella fasulla si sbafa …
Non vorrei apparire come un laudator temporis acti, un nostalgico (aggettivo pericoloso …, comunque da me distante anni luce) del tempo che fu, ma come non trarre le dovute  conclusioni dal documento presentato nell’immagine di testa e tratto da Rassegna pugliese di Scienze, Lettere ed Arti,  Anno XXX, novembre-dicembre 1913, vol. XXVIII, nn. 11-12, p. 479?
Il lettore che voglia approfondire troverà al link https://books.google.it/books?id=B08osAbEIb4C&pg=PA479&dq=non+credo+che+alcuno+dei+componimenti&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwi-5-79mNHqAhWR16YKHb3lAncQ6AEwAHoECAQQAg#v=onepage&q=non%20credo%20che%20alcuno%20dei%20componimenti&f=false i dettagli del concorso, compresi tutti i 21 titoli delle poesie partecipanti, con motivazione per due di esse dell’esclusione e per le rimanenti del giudizio, che nei casi migliori è sempre parzialmente negativo. Ne ricordo di seguito il nome degli estensori, tutti personaggi di spicco, come, fra l’altro, dimostrano le loro pubblicazioni: Pasquale De Lorentiis1, appassionato paleontologo, nonché padre di Decio, fondatore nel 1960 del Museo Paleontologico di Maglie; Arturo Tafuri2, Giuseppe Macario3, Umberto Bozzini4,  Nicola Serena Di Lapigio5.
Il loro giudizi negativi sono confermati da quello conclusivo e decisivo  del presidente della commissione esaminatrice, Armando Perotti6, personalità di certo non da meno delle altre appena nominate, la cui fama dovrebbe andare ben al di là di ciò che possono evocare toponimi come Punta Perotti a Bari con il suo ecomostro rimasto in vita per troppo tempo o, in questo caso senza superfetazioni mostruose, Piazza Perotti a Castro.
______________
1 Commemorazione dei caduti supersanesi nella guerra d’Italia del 1915-1918, Diena, Matino, 1920
Discorso funebre per armando Perotti, in Per Armando Perotti: onoranze rese in Castro il 7 settembre 1924, Raeli, Tricase, 1924
Grotta Romanelli: stazione paleolitica in Terra d’Otranto, Tipografia La modernissima, Lecce, 1933 
2
Parva favilla, La tipografia cooperativa, Lecce, 1899
Sebetia Venus: poema lirico, Treves, Milano, 1900
Poema della folla: lirica nova, Nerbini, Firenze, 1904
Luci ed ombre : poesie, Giannotta, Catania, 1911
Ortiche: 1908-1914,  Editoriale italiana contemporanea, Arezzo, 1928
Stelle cadenti: nuove liriche, Contemporanea, Arezzo, 1930
Ave, Salento,  Quaderni di poesia di Emo Cavalleri, Milano- Como, 1932
l pellegrinaggio di un’anima: poema eroico, Cavalieri, Como, 1935
Odi bizantine : Napoli 1888-1893, Tipografia Sorace e Siracusa, Catania, 1937
Scrasce e paparine te la serra, Editrice salentina, 1968
3
L’amante: romanzo, Pierro e Veraldi, Napoli, 1902
Al lavoro: ode, Pierro e Veraldi, Napoli, 1902
Per la guarigione della mia bambina: ode, Stabilimento tipografico vesuviano, Napoli, 1902
Ode al suicida,  Società editrice Meridionale, Napoli, 1904
L’offerta: versi, Società Editrice Meridionale, Napoli, 1905
4
Fedra: tragedia in quattro atti, Mancino, Lucera, 1910
Manfredi: poema drammatico in un prologo e tre episodi, Mancino, Lucera, 1911
ll cuore di Rosaura: capriccio comico in 3 atti in versi, Lapi, Città di Castello, 1914
Ritmo antico, Cappetta, Lucera, 1922
5
Piccole anime e piccole cose: novelle, Cogliati, Milano, 1909
Le isole Tremiti, Frattarolo, Lucera, 1915
Panorami garganici, s.n., s.l., 1933
Vecchi motivi: racconti, Il solco, Città di Castello, 1933
6
Sul Trasimeno: 15 sonetti, Vecchi, Trani, 1887
Il libro dei canti, Vecchi, Trani, 1890
Castro: terze rime, Tipografia Alighieri, 1904
Giorgio Antonio Paladini : uomo d’arme nel secolo XVII, Stabilimento  tipografico  Giurdignano, Lecce, 1905
Ricerche etimologiche sui nomi diversi in Terra d’Otranto, Stabilimento  tipografico  Giurdignano, Lecce, 1905 (Estratto dalla Rivista Storica Salentina, n. 9 e 10).
Tricase : note e documenti, Stabilimento  tipografico  Giurdignano, Lecce, 1906
Bari ignota : curiosità e documenti di storia locale, Vecchi, Trani, 1907
Da Le Nereidi : nuovi canti del mare (estratto dalla Rassegna Pugliese, v. 23, 1907, n. 5-8).
Bari ignota: curiosità e documenti di storia locale, Vecchi e C., tRANI, 1908
Bari 1813-1913, Laterza, Bari, 1913
Onoranze al barone di Castiglione d. Filippo Bacile in Spongano il 14 settembre 1913: discorso commemorativo, Lecce, Martello, 1913
Il coro della Cattedrale di Bisceglie, in Napoli nobilissima, v. I (1920), pp. 97-100
Bibliografia storica della Terra di Bari per gli anni dal 1915 al 1920, Società tipografica editrice barese, 1921
Storie e storielle di Puglia, Laterza, Bari, 1923
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Libri| Quannu te cunta ‘u core
Sabato 12 gennaio 2019, alle ore 18.00, a Lecce, presso la sede dell’associazione Cecyntè (Piazza Duca d’Atene, 6), si terrà la prima presentazione di “Quannu te cunta ‘u core”, la nuova raccolta poetica di Ada Garofalo, edita da Musicaos Editore.
Interverranno il dott. Ilio Torre, psicologo e esperto di Psicologia Quantistica e l’editore, Luciano Pagano, che dialogheranno con l’autrice. Un inedito connubio inedito di “dialetto e jazz”, nel quale i versi letti dall’autrice e da Franco Manni (attore, autore e regista), si uniranno alla musica del sassofono di Fulvio Palese.
L’evento inaugura gli incontri de “Il Salotto di Cecyntè” dove gli artisti, nello spirito proprio del luogo, avranno modo di incontrarsi, arricchirsi, scambiare e nutrire esperienze. La lingua dialettale è materna, identitaria, ricchezza di suoni che nascono dall’anima, con lo stesso spirito con cui nasce la musica jazz; da qui l’incontro, anzi, gli incontri con il sassofono di Fulvio Palese e con le letture di Franco Manni, scrittore e regista di opere in vernacolo, attore e collaboratore storico di Ada Garofalo, sul palcoscenico. Parte del ricavato sarà destinata al Progetto Shala-tribalosophy in Kenya.
La poesia di Ada Garofalo dipinge con il dialetto salentino ciò che accade nel mondo, in una trasposizione fedele dei paesaggi e dei luoghi del ricordo. La realtà che l’autrice racconta è tangibile, e racchiude un invito a riconoscersi per fare ritorno a sé. Il dettato del cuore, che erompe senza avviso, non può esprimersi senza che prima non si sia creato, in noi, il silenzio. È il silenzio di una notte scura, rischiarato dalla luce della luna, capace di descrivere il momento in cui le forze sembrano mancare, svanito il desiderio stesso di raccontare; un viaggio, quello del lettore, che al suo terrmine lo ritroverà mutato, faccia a faccia con la propria anima, “cu’ l’anima/ ca chiama,/ ca sta tantu vicina/ … e me parìa luntana” (E me parìa luntana). Il punto di partenza e quello di arrivo coincidono, per chi avrà la consapevolezza che tutto è vita, il principio e la fine, lo spazio e il tempo, i ricordi, la tenebra del buio e la luce fioca, gli affetti più cari e i legami che si frantumano. L’autrice ci avrà dimostrato che il silenzio, anche quello più sottile e prezioso, non merita di essere scalfito, a meno che le parole non provengano dall’intimità del proprio cuore.
“Cecyntè” è una Dimensione fatta di accudimento, gentilezza, inclusione, assenza di giudizio, espansione, amore nelle piccole cose (prima che nelle grandi) e che pertanto potrebbe avere sede ‘reale’ nello Spazio del Cuore. “Cecyntè”, attraverso le sue attività, vuole semplicemente diffondere un messaggio ai suoi compagni di viaggio: l’augurio che ognuno di noi possa riscoprire dentro di sé, per poi condividerla con il resto dei mondi, questa Dimensione (Ceci-in-te).
Fulvio Palese è saxofonista, compositore, arrangiatore. Musicista poliedrico, ha studiato saxofono presso il Conservatorio di Lecce ed è dottore di ricerca in filosofia presso l’Università del Salento. Suona indifferentemente tutti i saxofoni dal sopranino al basso ed il clarinetto basso.
Ha approfondito lo studio del jazz fra gli altri con Roberto Ottaviano, Jimmy Owens, George Cables, Cameron Brown, Javier Girotto ed ha seguito masterclass di saxofono classico con Federico Mondelci, Antonio Jimenez Alba, Maurice Moretti, Mario Marzi.
Organizzatore e direttore artistico del festival “Il Jazz Sale” (Torre Suda – LE). Direttore artistico per la parte musicale del Mercatino del Gusto dal 2002 al 2007. Attualmente è ideatore e direttore artistico dell’Hypogeum Jazz Festival. Ha svolto e svolge un’intensa attività orchestrale in veste di sax solista con l’Orchestra Sinfonica di Lecce, l’Orchestra di Terra d’Otranto, l’Orchestra della Magna Grecia (Taranto), l’Orchestra Nazionale dei Conservatori, l’Orchestra Filarmonica “Nino Rota”, l’Orchestra fiati del Conservatorio di Lecce, la Swing Orchestra del Conservatorio di Lecce, la Small Jazz Orchestra del Conservatorio di Lecce. Molte le collaborazioni cinematografiche e teatrali in veste di compositore ed esecutore, fra cui: Cristina Comencini “Liberate i pesci”, Giovanni Veronesi “Manuale d’amore 2”, Andrea Coppola “2×2”, Michele Placido “Salento viaggio di poesia”, Vincenzo Bocciarelli “Mozart cocholate” e “Volo fra musica e parole”, Astragali Teatro, “Le vie dei canti”, Nanni Moretti,”Concerto Moretti”.
Attualmente è docente di saxofono jazz presso il Conservatorio “T. Schipa” di Lecce, docente di saxofono presso il Liceo Musicale “G. Palmieri” di Lecce, docente di saxofono presso l’Accademia DAMUS di Lecce e l’Istituto comprensivo “I. Calvino” di Alliste e docente di Improvvisazione e musica d’insieme jazz presso l’Associazione “Amici della musica” di Presicce. Tiene regolarmente seminari e masterclass di armonia e improvvisazione jazz.
L’autrice.
Ada Garofalo nasce il 18 maggio 1955 a Racale, in provincia di Lecce, dove attualmente vive. Dopo gli studi classici frequenta la Facoltà di Farmacia a Napoli, percorso che nel ’78 interrompe, sposandosi e trasferendosi a Milano, e laureandosi poi in Servizio Sociale presso l’Università degli Studi di Trieste. È madre di tre figli. Dipendente dell’Azienda Sanitaria Locale di Lecce, lavora da sempre nel campo della neuropsichiatria infantile.
Nel privato, fin dai primi anni novanta, si occupa di teatro e si appassiona alla lingua salentina, ricoprendo attualmente, e ormai da tempo, il ruolo di Presidente dell’Associazione Teatrale “Sinonimi e Contrarie” (ex Teatr’Insieme di Racale). È interprete e coautrice, insieme ai suoi storici compagni di viaggio (Maristella Gaetani, Gerardo De Marco, Franco Manni e, fino al 1996, Francesco Causo e Giampaolo Viva) di eccellenti lavori teatrali in vernacolo (a volte inediti, a volte liberissimi riadattamenti di opere già note), lavori rappresentati, con grande successo di pubblico e di critica, nei migliori teatri salentini: ‘A lingua t’‘a gente (1993); A ci tantu… a ci nenzi (1995); Gelosia … cci malatia (1996); Cchiù niuru te cusì… nu’ putia vanire (1998); T’aggiu spusata, sì… ma sapia ca eri murire (2000); Pelo e contropelo… e permanente per signora (2003); Quannu ‘u tiaulu ‘mpizza ‘a cuta (2004); Salvatore e i suoi fratelli. Lecce, Charleroi, Parigi, Toronto e ritorno (2010).
L’Associazione “Teatr’Insieme”, poi “Sinonimi e… contrarie”, dal 1996 fa parte e partecipa alle iniziative organizzate dal “Centro Studi R. Protopapa per la difesa e la promozione del Teatro e della Cultura popolare Salentina”.
Nel 2004, come componente del Centro Studi, Ada Garofalo partecipa insieme a Maristella Gaetani, ai lavori teatrali allestiti e rappresentati dai detenuti nella Casa Circondariale Borgo San Nicola di Lecce (“Pe’ nu piezzu te pane” e “Il figlio dell’Altissimo” di Giacomo Profilo); successivamente è tra gli interpreti, con alcuni detenuti, del lavoro “Secondo Qoèlet, dialogo tra gli uomini e Dio”, di Luciano Violante, per la regia di Giacomo Profilo, rappresentato nel Comune di Campi Salentino e al Teatro Politeama Greco di Lecce.
Nel 2005 partecipa al lavoro teatrale “Quannu foi ca muriu lu Pietru Lau”, liberamente tratto dai “Canti te l’autra vita” di G. De Dominicis, rappresentato al Teatro Politeama Greco di Lecce.
Nel 2014 pubblica, per i tipi di Grauseditore, “Gallinelle e nodi. Sabbia e poesia”, una raccolta di testi in versi e prosa, definita come “un viaggio che si snoda tra le pagine per esplorare la vita” (Valeria Naviglio), o come “un volo pindarico… un viaggio tra i pensieri… particolarmente intenso e profondo… uno stile letterario raro e prezioso” (Paola Bisconti), o ancora “La rivoluzione della semplicità… una raccolta di liriche che trasudano vita… anche quando dall’italiano si passa a quel sanguigno pugliese, ritmato al punto da ricordare i grandi maestri greci” (Sabatino Di Maio), o infine “Una preghiera laica, insonne, sommessa, moderna, di una donna del XXI secolo… un libro che si regge sulla parola… delicato, intimista… intrigante” (Francesco Greco).
Informazioni: Cecyntè, 3381218128 [email protected]
Musicaos Editore [email protected] www.musicaos.org tel. 0836.618232 / 3288258358
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La poesia popolare del Salento (parte III)
di Cristina Manzo
Uno dei canti più tipici del Salento è quello legato alla pizzica, conosciuto anche come il ballo dei tarantati. Secondo la leggenda la tarantola con il suo morso, o con la sua “pizzicata” provocherebbe nella donna, delle crisi isteriche che la indurrebbero all’esagitazione. Secondo la tradizione popolare, pare poi, che alcuni musicanti fossero in grado, con il solo suono di strumenti, in particolare di un tamburello, di placare lo stato d’animo della donna “pizzicata”.
Typus Tarantiacorum saltantium. Dalla Phonurgia nova del P. Kircher (1673)
  Questo, a volte, poteva durare anche per interi giorni, sino a che non si riusciva a trovare quella combinazione di vibrazioni musicali adatte per lo scopo, o addirittura a seconda della gravità della “tarantolata”. La parte corposa del canto poteva anche essere breve ma, avere un versetto assai significativo che ne diventava il ritornello, ripetuto, con enfasi sempre maggiore, infinite volte, come ad evidenziare il fulcro del tema, parafrasato.
Ma il genere di canti in cui più viva e chiara è la comunanza con la poesia greca e che si affonda nelle tradizioni più antiche della Grecia, è il genere dei canti funebri, dette “rèpute” in dialetto salentino, da “reputàre”, che significa piangere a lungo lamentosamente. Nelle nenie tornano i motivi greci della concezione della morte: il motivo di Caronte che è considerato come uno sdoppiamento di Tanatos con tutti gli attributi classici di Novalestro rapitore di vite umane, Dio della morte contro il quale gli uomini ingaggiano invano l’estrema lotta, sia pure per procrastinare di un poco il momento fatale. Il motivo dell’Ade come del luogo nel quale si continua la vita dei mortali:
“Me manda dicendu fìjama I Cu ni mandu” na mutata, Ca quidda ci ni misera I L’ave strutta pe’ la strata. Me manda dicendu fìjarna Cu li mandu na camisa, I Ca quidda ci ni misera L’ha squajàta cornu ‘ na cira8. (Trad. nelle note).
Motivi tutti che ritroviamo nelle nenie funebri greche9. E accanto alla poesia c’è tutto un insieme di usi e di costumanze funebri che richiamano all’antica Grecia: lu “Cùnsulu”, banchetto funebre offerto da parenti ed amici alla famiglia dell’estinto, (la consolazione di abbondante cibo e bevande, per i parenti del defunto, anticamente si protraeva sino ad una settimana, questo per evitare di far cucinare la famiglia, che era troppo afflitta dal dolore), l’abbigliamento da lutto con cappe, e l’usanza per cui gli uomini, nel periodo del lutto, fanno crescere la barba, sono tutte costumanze radicatissime nel Salento e che non tendono a scomparire.
Tarantata a Lizzano (TA) durante il rito di guarigione dal tarantismo, presso la masseria San Vito. (Anni Cinquanta del ‘900 – autore del servizio fotografico fu Ciro de Vincentis di Grottaglie).
  E poi, ancora, l’uso che persisteva presso le popolazioni salentine, abolito nell’anno 1620 da un decreto emanato nel Sinodo Ariano tenuto da Don Diego Lopez, arcivescovo di Otranto, di mettere una moneta in bocca ai morti, nolo da pagare a Caronte, e nelle mani del morto un frutto, generalmente una mela cotogna10.
E del pari antica e legata al mare l’usanza di cui ci dà notizia E. Vernole in “Il Castello di Gallipoli”11, per cui le zitelle convenivano su di uno scoglio detto “Sàbbata” , pare da “Sabbatàre”, cioè il convenire delle streghe, per partecipare ai riti occulti in seguito ai quali esse sarebbero state neutralizzate contro qualsiasi male. Il Vernole ha raccolto il canto scongiuro che le zitelle di Gallipoli recitano ancor oggi a San Giorgio per essere salvaguardate dalla mala gente, residuo dell’antica tradizione. Così per “La sposa rapita”, come per “Le due sorelle”, designata spesso col titolo “Sabella”, canti diffusissimi nel Salento e che si trovano in forma piuttosto compiuta e completa e per i quali, anche se non si può con sicurezza affermare che sono sorti nel Salento, pure si può pensare che abbiano trovato in questa regione l’ambiente favorevolissimo per diffondersi e continuarsi nella tradizione, poiché i lunghi contatti con i Babareschi rendevano attuali e vissute le vicende narrate dai canti.
La variante gallipolina di “Sabella” o “Le due sorelle”, ha abbondanti accenni al mare, termini marinari: Quandu stava alli mari brafùndi e poi E sai quantu nde rape sòruta? Quantu l’unda te lu mare, “Guarda, guarda su ddu scòju I A du mena l’onda e l’onda Guarda, guarda su ddu scòju I A du mena russu e jàncu (trad. nelle note) e, ancora, “Spiripìndulu, spiripìndulu” che, secondo il raccoglitore (E. Vernole), vuol significare un agile pesciolino.
Ricordiamo un canto d’amore in cui, di due belle sorelle, è detto: “Stanno come galere sopra il molo e fanno guerra con il Veneziano, in cui l’ accenno alle galere indica sicuramente che il cantore, abitante di luogo marino, ha potuto vedere le galere veneziane dondolarsi maestose sul molo e ricordarsi di esse nel paragone delle due belle fanciulle. Il mare dunque è protagonista importante nei canti popolari del Sa-lento come elemento di ispirazione, come patrimonio di esperienze cui attinge la fantasia popolare per esprimere i propri sentimenti. Ma anche, come abbiamo detto, elemento di coesione tra civiltà separate da esso, e non di divisione12.
L’acqua è un elemento con una grande capacità di assorbenza che è in grado di mantenere la “vibrazione”, come “informazione”, anche per un tempo molto lungo. Attraverso l’ascolto profondo del suono, il nostro corpo ha la facoltà di ri-intonarsi alla giusta frequenza della natura, la “Frequenza Armonica.” L’acqua e la musica sono molto simili, sono entrambe componenti creative del mondo che si fondono in un movimento unico, le onde sono sonore e sono la parte fluida della materia, simbolo e manifestazione del ciclico procedere del tempo.
Osserviamo l’incedere continuo di segni grafici che si trasformano in onde: la calma del respiro che è il respiro del mare, gli abbellimenti simili alla cresta spumosa dei torrenti, il rumore delle rapide in prossimità delle cascate, quello assordante del loro precipitare in basso, o della piena all’apertura di una diga, o il suono che si produce quando essa spinge le ruote di un mulino, il ticchettio prodotto dal cadere sistemico delle gocce di pioggia e infine il silenzioso scorrere dell’acqua nel letto di un fiume, essi sono note improvvisate di un concerto eseguito dalla natura, che non segue mai uno spartito; e sono, solo alcuni, dei segni della notazione che desumono il nome dall’acqua, si chiamano “liquescenze” e si eseguono proprio a ricordare la liquidità, l’impalpabilità della materia fluida.
La musica del rinascimento e del barocco è piena di rimandi onomatopeici al suono dell’acqua. La via dell’acqua attraversa tutti i successivi secoli, Vivaldi la incontra nelle “quattro stagioni” e la traduce mirabilmente con il secondo e terzo movimento dell’estate nel quale dopo la canicola imperversa una tempesta. I lampi, i tuoni sono evidenziati da figure ritmiche dell’orchestra con semicrome ribattute e serrate, il violino solista esegue volate virtuose e strappi d’arco ad evidenziare la forza della saetta e il turbinio dei venti. Il mare è fonte di suggestioni e nume ispiratore di una quantità di opere artistiche, siano esse pittoriche, poetiche, narrative o musicali13.
Nelle note di un componimento che un musicista fa di sé si nascondono alcune domande: perché e come è possibile una stesura musicologica della propria anima? Delle proprie emozioni, che si comunicano all’esterno da noi, senza dover usare parole o segni? Che cosa ci permette di procedere all’identificazione? Che senso e che legame ha la creazione artistica, nei confronti di quelle che la precedono (e la seguiranno?); attraverso la deviazione musicale, c’è la possibilità della riflessione del soggetto su di sé. La musica ha molte dimensioni, perché molti sono i modi d’essere e i modi di pensare degli uomini. E sono certamente i modi d’essere e i modi di pensare degli uomini che determinano l’orizzonte di motivi, che consente all’immaginazione musicale di avviare il suo corso, mettendo in moto quella dialettica da cui sorgono le sue opere. Nessun pensiero musicale potrebbe sorgere se non ci fossero altri pensieri14.
  Giovani marittimesi negli anni ’70
  Quindi, ne consegue che è sotto l’influenza dei nostri gesti quotidiani che nasce l’arte, la musica o la poesia improvvisata che scaturisce, in qualche modo, direttamente dall’anima e dal cuore, senza bisogno di essere ragionata, ma lasciata alla sua spontaneità culturale. Il concetto di improvvisazione è, a mio avviso, inscindibilmente legato al concetto di morte, di vita, e a quello di amore: l’esperienza del singolo non può essere condivisa e vissuta come un’esperienza collettiva ma, è altresì vero che, mentre non si impara a morire, si può imparare come vivere, amare e improvvisare, e anche come far morire un’improvvisazione nel migliore dei modi, perché la nostra vita è un suono, è una vibrazione impercettibile, inafferrabile come la sabbia o l’acqua che scorrono, veloci e musicali, tra le dita del tempo.
L’importanza delle tradizioni culturali sta proprio nella memoria “circolante” fedele e, libera di essere tale.
Note
8 Mauro Cassoni, Caronte e Tànato nella letteratura greco-otrantina; in “Rinascenza salentina”, A. III, n. V – VI. 1935. Traduzione del canto funebre: Mi manda a dire mia figlia di mandarle un cambio di abiti, perché quelli che le misero li ha distrutti durante il viaggio (nell’al di là), mi manda a dire mia figlia di mandarle una camicia, perché quella che le misero, si è sciolta come cera.
9 Niccolò Tommaseo, Canti popolari greci, Sandron, Milano, Libreria Editrice Milanese, 1913.
10 Irene Maria Malecore, Magie di Japigia, etnografia e folklore Del Salento, a cura di F. Lucrezi, Alfredo Guida Editore, Napoli, 1997.
11 Ettore Vernole, Il castello di Gallipoli, Illustrazione storica architettonica, Roma, 1933.
12 Traduzione del versetto in vernacolo nella nota 11: Quando stavo nei mari profondi, e sai quanto ne sa tua sorella? Quanto l’onda del mare, guarda, guarda su quello scoglio dove batte l’onda e guarda, guarda dove butta rosso e bianco, in Il mare nel folklore del Salento, di I. M. Malecore, Provincia di Lecce – Mediateca – Progetto EDIESSE (Emeroteca Digitale Salentina)      a cura di IMAGO – Lecce. http://www.culturaservizi.it/vrd/files/ZG1959_mare_folklore_Salento.pdf
13 Remo Guerrini, L’acqua in musica, www.museoenergia.it
14 Giovanni Piana, Filosofia della musica, p.295, Angelo Guerini e Associati, Milano, 1991.
  Per la prima parte clicca qui:
La poesia popolare del Salento (parte I)
Per la seconda parte clicca qui:
La poesia popolare del Salento (parte II)
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Libri| Quando Ippocrate corteggia la Musa. A Rocco De Vitis medico umanista
di Paolo Vincenti
Un titolo molto suggestivo, che coniuga in prodigiosa sintesi, i due interessi della vita di Rocco De Vitis: la medicina e la poesia, ovverosia la cura del corpo e la cura della mente. “QUANDO IPPOCRATE CORTEGGIA LA MUSA. A ROCCO DE VITIS MEDICO UMANISTA”, a cura di Francesco De Paola e Maria Antonietta Bondanese, segna il n.31 della collana “Quaderni de L’Idomeneo”, della Società di Storia Patria-Sezione di Lecce, ed è edito da Grifo (2017). Il volume è stato realizzato con il contributo della Banca Popolare Pugliese, ed infatti, dopo la Presentazione di Mario Spedicato, troviamo un bell’intervento di Vito Primiceri, “Semper honor, nomenque tuum, laudesque manebunt” ( versi tratti dall”Eneide”), carico di umanità nei confronti del medico, celebrato nell’opera, nell’affettuoso ricordo del Presidente della BPP. Quando Ippocrate, nume tutelare della medicina, incontra Calliope, la musa della poesia, ecco che riemergono dal passato e si impongono alla nostra attenzione certe figure, vagamente romantiche, come De Vitis, che coniugano la pratica medica con l’amore per i classici, retaggio della loro formazione umanistica. E infatti, scrive il prof. Spedicato: “tutte le numerose testimonianze qui raccolte concordano nell’attestare come questi suoi interessi vitali siano da considerarsi come le due facce della stessa medaglia”. Rocco De Vitis, “Don Rocco”, come lo chiamavano tutti, era nato nel 1911 a Supersano. Aveva frequentato il Liceo Pietro Colonna di Galatina e poi la facoltà di Medicina a Bologna, dove si era laureato, a pieni voti, nel 1937. Esercitò per una vita la professione di medico condotto nella piccola Supersano, sua patria dell’anima prima che luogo di residenza. Pubblicò, in prima battuta, una traduzione in versi liberi dell’ “Eneide” di Virgilio, nel 1982, con l’aiuto di vari collaboratori che curarono il commento ai dodici libri del poema. Successivamente, anche su suggerimento di Mario Marti, che era stato un suo caro amico nella giovinezza, quando frequentavano entrambi il Liceo Colonna di Galatina, pubblicò una seconda edizione dell’opera virgiliana, nel 1987, in endecasillabi puri. Pubblicò poi un nuovo volume contenente altri due capolavori virgiliani: le “Bucoliche” e le “Georgiche”, con testo latino a fronte, tradotte e commentate dallo stesso autore. L’altro suo grande amore era quello per la campagna; amava rimanere ore e ore a coltivare la terra, ad accudire i suoi animali, a meditare sul mondo e sulla vita, nel silenzio e nella pace che offriva la collinetta di Supersano, che egli aveva eletto a proprio rifugio, locus amoenus. Sucessivamente pubblicò “Soste lungo il cammino”, nel 1991, e “Naufragio a Milano”, nel 1994. Morì nel 1997, ad 86 anni. Di lui, prima della presente opera, si sono interessati, solo per citarne alcuni, Enzo Panareo, che ha scritto la Prefazione della traduzione dell’ “Eneide, Antonio Errico, Giorgio Barba, prefatore del romanzo “Naufragio a Milano”, Florio Santini, Paolo Vincenti, Gino De Vitis, Direttore de “Il Nostro Giornale” (rivista culturale supersanese), il quale, insieme a Maria Bondanese, si è speso moltissimo in questi anni per tramandare la memoria del medico umanista.
Il libro che qui si presenta si apre con una citazione che viene dalla letteratura latina: Homo sum, nihil humani mihi alienum puto, tratto da una commedia di Terenzio. Il primo contributo è di Paolo Vincenti, “Il medico dalla scorza dura. Profilo bio bibliografico di Rocco De Vitis”, che riporta appunto la Bibliografia degli scritti del medico umanista. Segue il contributo di Aldo de Bernart, storico e scrittore parabitano ruffanese, scomparso nel 2013, che fu molto amico del dottor De Vitis. Il contributo di de Bernart è tratto da una manifestazione tenutasi a Supersano nel 2007 in occasione del decennale della scomparsa del medico. Lo scritto di Maria Bondanese, “Il dottore: una vita, una storia che parla di noi”, è il più carico di sentimento e non potrebbe essere altrimenti, essendo la Bondanese, non soltanto nuora di De Vitis, ma la più fervente ammiratrice del medico umanista, la più gelosa custode delle sue memorie. In effetti, se in questi anni è stata tenuta viva la memoria del medico umanista, ciò si ascrive principalmente a merito della dinamica Bondanese. Lo scritto di Maria, con un diverso titolo, era già apparso in “Apulia. Rassegna trimestrale della Banca Popolare Pugliese” (Martano editrice), nel dicembre 2007, così come da “Apulia”, stesso numero, proviene l’accorato scritto di Aldo Bello (“Il tarlo dell’umanesimo”), che della rivista matinese era Direttore e la cui prematura scomparsa costituisce un’altra dolorosa perdita per la cultura salentina. Bondanese ricostruisce le drammatiche tappe dell’esperienza fatta al fronte dal dottor De Vitis, rileggendo il suo diario di guerra. Questa testimonianza della Seconda Guerra Mondiale, vissuta in diretta dal protagonista, servì poi da spunto al medico per l’opera “Soste lungo il cammino”. Bondanese si sofferma anche sulle opere maggiori di De Vitis, l’Eneide, le Georgiche e le Bucoliche, e sono riportate belle foto in bianco e nero con gli autografi di De Vitis, gli scenari di guerra che egli toccò nella sua esperienza di soldato, e dei manoscritti della traduzione dell’Eneide. Alla fine del pezzo, troviamo delle foto del Dottore in occasioni pubbliche quali l’inaugurazione della chiesetta di San Giuseppe, nel 1984, sulla Serra supersanese.
Molto significativo, anche per l’alta carica ricoperta dal suo autore, è il testo di Don Gerardo Antonazzo, originario di Supersano e Vescovo di Sora-Cassino-Aquino Pontecorvo: “Nella sapienza del cuore la vera saggezza”. Ma c’è un altro prelato che contribuisce al volume, ed è Don Oronzo Cosi ( con “Una specie in via di estinzione”), non meno caro ai supersanesi, in quanto Parroco del paese. Viene poi ripubblicato un testo di Mario Marti, “Io e Il Nostro Giornale”, indirizzato alla rivista supersanese, appunto “Il Nostro Giornale” (una delle più longeve esperienze editoriali del Salento), nel maggio 1997.
Interessante, il contributo di Carla Addolorata Longo, “Un mirabile lascito di pensiero e di vita”, che si sofferma sulle pubblicazioni di De Vitis trovando spunto nelle tematiche da esse affrontate, per occuparsi anche della nostra attualità più stringente. Matteo Greco, nel suo “Sprofondamenti metropolitani e orizzonti meridionali”, analizza in particolare l’opera “Naufragio a Milano”. “Un’esperienza indimenticabile”, definisce lo scultore Antonio Elia la realizzazione, per conto del Dottor De Vitis, di alcune opere nella Chiesa di San Giuseppe, adornata anche dalle pitture di Ezio Sanapo. Elia illustra le varie fasi di lavorazione, fino alla perfetta conclusione del tutto.
Nella seconda sezione del libro, “L’humus dell’humanitas”, troviamo alcuni contributi che legano l’omaggio a Rocco De Vitis con la conoscenza del territorio, Supersano e il basso Salento. Il primo contributo è “Breve profilo socio-economico del Salento negli anni ’50”, di Gianfranco Esposito; poi “La decorazione nella cripta della Madonna Coelimanna”, di Stefano Cortese, e “Il Santuario della Vergine di Coelimanna in Supersano”, di Stefano Tanisi; seguono “Supersano Torrepaduli Ruffano”, di Vincenzo Vetruccio e “Il dialetto di Supersano”, di Antonio Romano.
I contributi di Cortese, Tanisi e Vetruccio vengono ripresi da una pubblicazione apparsa qualche tempo fa, vertente sul Museo del Bosco, la struttura museale che riproduce le meravigliose caratteristiche del Bosco di Supersano, che viene anche ricordato da Cristina Martinelli nel suo contributo “Tra documento identitario e poesia, Tu Supersano”, in cui analizza una poesia del De Vitis, tratta dal libro “Soste lungo il cammino”. Ben documentato, l’intervento di Giuseppe Caramuscio, “La memoria della Scuola come scuola della memoria: Galatina e il suo Liceo Classico”: una storia del prestigioso Liceo Colonna di Galatina, frequentato da Rocco De Vitis e da Mario Marti, fin dai suoi albori nell’Ottocento, con l’arrivo a Galatina dei Padri Scolopi i quali fondarono nel 1854 la prestigiosa istituzione scolastica a lungo vanto della città.
Il denso e articolato saggio, che si pone a metà via fra storia e pedagogia, è ricco, come tutti gli altri contributi, di un poderoso apparato critico e bibliografico. Parimenti interessante, lo scritto di Alessandro Laporta, “Se è lecito al medico esser poeta (Galateo, Meninni, De Giorgi, De Vitis)”, il quale fa una carrellata di dotti ed eruditi del passato che alla medicina erano legati per interesse o professione, dimostrando magistralmente come l’arte ippocratica e quella poetica, scienza e humanitas, come dicevamo all’inizio, rappresentino un forte connubio, di cui è emblematico l’amore riversato dal De Vitis verso entrambe le discipline. Remigio Morelli si occupa della dolorosa esperienza della Seconda Guerra Mondiale, “Un anno sul fronte greco-albanese”, che vide impegnato Rocco De Vitis, come già ricordato.
Quello di De Vitis va ad unirsi a tanti altri ritratti di salentini illustri che in questi anni la Società di Storia Patria sezione di Lecce ha tracciato nelle sue tre collane. Emerge un amore incondizionato nei confronti della piccola patria da parte di questi suoi figli devoti, non solo studiosi e specialisti delle humanae litterae, ma anche esponenti delle professioni che a vario titolo si sono confrontati con la letteratura, la poesia, il romanzo, i racconti, la memorialistica. Sembra quasi di vederlo, De Vitis, che, spogliatosi dei panni sporchi di ritorno dalla campagna, e indossato l’abito buono, novello Machiavelli de “Le lettere familiari”, penetra “nelle antique corti delli antiqui uomini”, interrogando filosofi, storici e poeti del passato, e “da loro amorevolmente ricevuto”, gli domanda le ragioni delle loro azioni e quelli gli rispondono.
Con la terza sezione del libro, “Vergiliana”, si entra nel vivo dell’opera maggiore di De Vitis, la traduzione dell’Eneide. Questa sezione è una antologia di saggi critici a cura di latinisti che esaminano l’opera devitisiana entrando nel merito di contenuto, stile, traduzione, metodologia. Gli studiosi, che danno a questa sezione del libro un taglio tecnico scientifico, sono: Giovanni Laudizi, con “La traduzione dell’Eneide, delle Bucoliche e delle Georgiche”; Maria Elvira Consoli, con “Dell’Eneide di Rocco De Vitis”; Paola Bray, con “ Quali doni, quali a te mai darò per tale carme?”; Antonio Errico, con “Il traduttore, il suo poema, i segreti del verso”, Maria Francesca Giordano, con “Un segmento di lettura didattica sfogliando le pagine dell’Eneide”; Angela Maria Silvestre, con “La missione di Enea e la traduzione di Rocco De Vitis”; Paolo Agostino Vetrugno, con “Le traduzioni devitisiane di Virgilio tra espressività ed armonia”; Giuseppina Patrizia Morciano, con “L’epicità di Virgilio. Tradizione e traduzione nella lettura di un classico”. La quarta sezione, “Tra storia e letteratura”, riserva spazio a contributi di storia e conoscenza del territorio, in linea con la vocazione della collana editoriale.
Troviamo allora Alessandra Maglie, con “Conflitti e narrazioni nella Terra del Rimorso. Tarantismo ed esperienza mitica secondo Ernesto De Martino”; Maria Antonietta Epifani, con “Maria Manca: la santa di Squinzano”; Sergio Fracasso, con “Il progetto ‘fallito’ dell’Orfanotrofio San Francesco (poi Istituto ‘Margherita di Savoia’) e il problema dell’infanzia abbandonata alle soglie del decennio francese”; Antonio Cataldi, con “ Contributo per una storia dei missionari lazzaristi italiani in Etiopia ed in Eritrea nel periodo coloniale”; Michele Mainardi, con “L’Istituto tecnico di Lecce e l’Orto Agrario”; Arcangelo Salinaro, con “Il letterato Alfredo Mori in Puglia: una caso”; Luigi Scorrano, con “ Con un vescovo di fronte alla guerra e nell’Inferno di Dante”. Dopo l’Indice dei volumi pubblicati, il libro si chiude.
Un’opera imponente, per qualità e mole dei contributi presenti, per la quale dobbiamo essere grati a chi l’ha voluta.
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Libri| Quando Ippocrate corteggia la Musa
di Paolo Vincenti
Il 4 maggio 2017, nella Sala Chirico degli Olivetani dell’Università del Salento, è stato presentato il volume “QUANDO IPPOCRATE CORTEGGIA LA MUSA” dedicato al Dott. Rocco DE VITIS, medico e umanista, per i vent’anni della sua scomparsa. Ha coordinato il Prof. Mario Spedicato, Presidente della sezione di Lecce della Società di Storia Patria; sono intervenuti i proff. Luigi Montonato, Alessandro Laporta, Eugenio Imbriani; ha concluso la prof.ssa Maria Antonietta Bondanese.
  Un titolo molto suggestivo, che coniuga in prodigiosa sintesi, i due interessi della vita di Rocco De Vitis: la medicina e la poesia, ovverosia la cura del corpo e la cura della mente. “QUANDO IPPOCRATE CORTEGGIA LA MUSA. A ROCCO DE VITIS MEDICO UMANISTA”, a cura di Francesco De Paola e Maria Antonietta Bondanese, segna il n.31 della collana “Quaderni de L’Idomeneo”, della Società di Storia Patria-Sezione di Lecce, ed è edito da Grifo (2017).
Il volume è stato realizzato con il contributo della Banca Popolare Pugliese, ed infatti, dopo la Presentazione di Mario Spedicato, troviamo un bel contributo di Vito Primiceri, “Semper honor, nomenque tuum, laudesque manebunt” ( versi tratti dall”Eneide”), carico di umanità nei confronti del medico, celebrato nell’opera, nell’affettuoso ricordo del Presidente della BPP. Quando Ippocrate, nume tutelare della medicina, incontra Calliope, la musa della poesia, ecco che riemergono dal passato e si impongono alla nostra attenzione certe figure, vagamente romantiche, come De Vitis, che coniugano la pratica medica con l’amore per i classici, retaggio della loro formazione umanistica. E infatti, scrive il prof. Spedicato: “tutte le numerose testimonianze qui raccolte concordano nell’attestare come questi suoi interessi vitali siano da considerarsi come le due facce della stessa medaglia”.
Rocco De Vitis, “Don Rocco”, come lo chiamavano tutti, era nato nel 1911 a Supersano. Aveva frequentato il Liceo Pietro Colonna di Galatina e poi la facoltà di Medicina a Bologna, dove si era laureato, a pieni voti, nel 1937. Esercitò per una vita la professione di medico condotto nella piccola Supersano, sua patria dell’anima prima che luogo di residenza. Pubblicò, in prima battuta, una traduzione in versi liberi dell’ “Eneide” di Virgilio, nel 1982, con l’aiuto di vari collaboratori che curarono il commento ai dodici libri del poema. Successivamente, anche su suggerimento di Mario Marti, che era stato un suo caro amico nella giovinezza, quando frequentavano entrambi il Liceo Colonna di Galatina, pubblicò una seconda edizione dell’opera virgiliana, nel 1987, in endecasillabi puri. Pubblicò poi un nuovo volume contenente altri due capolavori virgiliani: le “Bucoliche” e le “Georgiche”, con testo latino a fronte, tradotte e commentate dallo stesso autore. L’altro suo grande amore era quello per la campagna; amava rimanere ore e ore a coltivare la terra, ad accudire i suoi animali, a meditare sul mondo e sulla vita, nel silenzio e nella pace che offriva la collinetta di Supersano, che egli aveva eletto a proprio rifugio, locus amoenus.
Successivamente pubblicò “Soste lungo il cammino”, nel 1991, e “Naufragio a Milano”, nel 1994. Morì nel 1997, ad 86 anni. Di lui, prima della presente opera, si sono interessati, solo per citarne alcuni, Enzo Panareo, che ha scritto la Prefazione della traduzione dell’ “Eneide, Antonio Errico, Giorgio Barba, prefatore del romanzo “Naufragio a Milano”, Florio Santini, Paolo Vincenti, Gino De Vitis, Direttore de “Il Nostro Giornale” (rivista culturale supersanese), il quale, insieme a Maria Bondanese, si è speso moltissimo in questi anni per tramandare la memoria del medico umanista.
Il libro che qui si presenta si apre con una citazione che viene dalla letteratura latina: Homo sum, nihil humani mihi alienum puto, tratto da una commedia di Terenzio. Il primo contributo è di Paolo Vincenti, “Il medico dalla scorza dura. Profilo bio bibliografico di Rocco De Vitis”, che riporta appunto la Bibliografia degli scritti del medico umanista. Segue il contributo di Aldo de Bernart, storico e scrittore parabitano ruffanese, scomparso nel 2013, che fu molto amico del dottor De Vitis. Il contributo di de Bernart è tratto da una manifestazione tenutasi a Supersano nel 2007 in occasione del decennale della scomparsa del medico.
Lo scritto di Maria Bondanese, “Il dottore: una vita, una storia che parla di noi”, è il più carico di sentimento e non potrebbe essere, altrimenti essendo la Bondanese, non soltanto nuora di De Vitis, ma la più fervente ammiratrice del medico umanista, la più gelosa custode delle sue memorie. In effetti, se in questi anni è stata tenuta viva la memoria del medico umanista, ciò si ascrive principalmente a merito della dinamica Bondanese. Lo scritto di Maria, con un diverso titolo, era già apparso in “Apulia. Rassegna trimestrale della Banca Popolare Pugliese” (Martano editrice), nel dicembre 2007, così come da “Apulia”, stesso numero, proviene l’accorato scritto di Aldo Bello (“Il tarlo dell’umanesimo”), che della rivista matinese era Direttore e la cui prematura scomparsa costituisce un’altra dolorosa perdita per la cultura salentina. Bondanese ricostruisce le drammatiche tappe dell’esperienza fatta al fronte dal dottor De Vitis, rileggendo il suo diario di guerra.
Questa testimonianza della Seconda Guerra Mondiale, vissuta in diretta dal protagonista, servì poi da spunto al medico per l’opera “Soste lungo il cammino”. Bondanese si sofferma anche sulle opere maggiori di De Vitis, l’Eneide, le Georgiche e le Bucoliche, e sono riportate belle foto in bianco e nero con gli autografi di De Vitis, gli scenari di guerra che egli toccò nella sua esperienza di soldato, e dei manoscritti della traduzione dell’Eneide. Alla fine del pezzo, troviamo delle foto del Dottore in occasioni pubbliche quali l’ inaugurazione della chiesetta di San Giuseppe, nel 1984, sulla Serra supersanese. Molto significativo, anche per l’alta carica ricoperta dal suo autore, è il testo di Don Gerardo Antonazzo, originario di Supersano e Vescovo di Sora-Cassino-Aquino Pontecorvo: “Nella sapienza del cuore la vera saggezza”. Ma c’è un altro prelato che contribuisce al volume, ed è Don Oronzo Cosi ( con “Una specie in via di estinzione”), non meno caro ai supersanesi, in quanto Parroco del paese. Viene poi ripubblicato un testo di Mario Marti, “Io e Il Nostro Giornale”, indirizzato alla rivista supersanese, appunto “Il Nostro Giornale” (una delle più longeve esperienze editoriali del Salento), datato maggio 1997. Interessante, il contributo di Carla Addolorata Longo, “Un mirabile lascito di pensiero e di vita”, che si sofferma sulle pubblicazioni di De Vitis trovando spunto nelle tematiche da esse affrontate, per occuparsi anche della nostra attualità più stringente.
Matteo Greco, nel suo “Sprofondamenti metropolitani e orizzonti meridionali”, analizza in particolare l’opera “Naufragio a Milano”. “Un’esperienza indimenticabile”, definisce lo scultore Antonio Elia la realizzazione, per conto del Dottor De Vitis, di alcune opere nella Chiesa di San Giuseppe, adornata anche dalle pitture di Ezio Sanapo. Elia illustra le varie fasi di lavorazione, fino alla perfetta conclusione del tutto. Nella seconda sezione del libro, “L’humus dell’humanitas”, troviamo alcuni contributi che legano l’omaggio a Rocco De Vitis con la conoscenza del suo territorio, Supersano e il basso Salento.
Il primo contributo è “Breve profilo socio-economico del Salento negli anni ’50”, di Gianfranco Esposito; poi “La decorazione nella cripta della Madonna Coelimanna”, di Stefano Cortese, e “Il Santuario della Vergine di Coelimanna in Supersano”, di Stefano Tanisi; seguono “Supersano Torrepaduli Ruffano”, di Vincenzo Vetruccio e “Il dialetto di Supersano”, di Antonio Romano. In particolare, i contributi di Cortese, Tanisi e Vetruccio vengono ripresi da una pubblicazione apparsa qualche tempo fa, vertente sul Museo del Bosco, la struttura museale che riproduce le meravigliose caratteristiche del Bosco di Supersano, che viene anche ricordato da Cristina Martinelli nel suo contributo “Tra documento identitario e poesia, Tu Supersano”, in cui analizza una poesia del De Vitis, tratta dal libro “Soste lungo il cammino”. Ben documentato, l’intervento di Giuseppe Caramuscio, “La memoria della Scuola come scuola della memoria: Galatina e il suo Liceo Classico”: una storia del prestigioso Liceo Colonna di Galatina, frequentato da Rocco De Vitis e da Mario Marti, fin dai suoi albori nell’Ottocento, con l’arrivo a Galatina dei Padri Scolopi i quali fondarono nel 1854 la prestigiosa istituzione scolastica a lungo vanto della città. Il denso e articolato saggio, che si pone a metà via fra storia e pedagogia, è ricco, come tutti gli altri contributi, di un poderoso apparato critico e bibliografico. Parimenti interessante, lo scritto di Alessandro Laporta, “Se è lecito al medico esser poeta (Galateo, Meninni, De Giorgi, De Vitis)”, il quale fa una carrellata di dotti ed eruditi del passato che alla medicina erano legati per interesse o professione, dimostrando magistralmente come l’arte ippocratica e quella poetica, scienza e humanitas, come dicevamo all’inizio, rappresentino un forte connubio, di cui è emblematico l’amore riversato dal De Vitis verso entrambe le discipline.
Remigio Morelli si occupa della dolorosa esperienza della Seconda Guerra Mondiale, “Un anno sul fronte greco-albanese”, che vide impegnato Rocco De Vitis, come già ricordato.
Quello di De Vitis va ad unirsi a tanti altri ritratti di salentini illustri che in questi anni la Società di Storia Patria sezione di Lecce ha tracciato nelle sue tre collane. Emerge un amore incondizionato nei confronti della piccola patria da parte di questi suoi figli devoti, non solo studiosi e specialisti delle humanae litterae, ma anche esponenti delle professioni più disparate che a vario titolo si sono confrontati con la letteratura, la poesia, il romanzo, i racconti, la memorialistica. Sembra quasi di vederlo, De Vitis, che, spogliatosi dei panni sporchi di ritorno dalla campagna, e indossato l’abito buono, novello Machiavelli de “Le lettere familiari”, penetra “nelle antique corti delli antiqui uomini”, interrogando filosofi, storici e poeti del passato, e “da loro amorevolmente ricevuto”, gli domanda le ragioni delle loro azioni e quelli gli rispondono.
Con la terza sezione del libro, “Vergiliana”, si entra nel vivo dell’opera maggiore di De Vitis, la traduzione dell’Eneide. Questa sezione è una antologia di saggi critici a cura di latinisti che esaminano l’opera devitisiana entrando nel merito di contenuto, stile, traduzione, metodologia. Gli studiosi, che danno a questa sezione del libro un taglio tecnico scientifico, sono: Giovanni Laudizi, con “La traduzione dell’Eneide, delle Bucoliche e delle Georgiche”; Maria Elvira Consoli, con “Dell’Eneide di Rocco De Vitis”; Paola Bray, con “ Quali doni, quali a te mai darò per tale carme?”; Antonio Errico, con “Il traduttore, il suo poema, i segreti del verso”, Maria Francesca Giordano, con “Un segmento di lettura didattica sfogliando le pagine dell’Eneide”; Angela Maria Silvestre, con “La missione di Enea e la traduzione di Rocco De Vitis”; Paolo Agostino Vetrugno, con “Le traduzioni devitisiane di Virgilio tra espressività ed armonia”; Giuseppina Patrizia Morciano, con “L’epicità di Virgilio.
Tradizione e traduzione nella lettura di un classico”. La quarta sezione, “Tra storia e letteratura”, riserva spazio a contributi di storia e conoscenza del territorio, in linea con la vocazione della collana editoriale. Troviamo allora Alessandra Maglie, con “Conflitti e narrazioni nella Terra del Rimorso. Tarantismo ed esperienza mitica secondo Ernesto De Martino”; Maria Antonietta Epifani, con “Maria Manca: la santa di Squinzano”; Sergio Fracasso, con “Il progetto ‘fallito’ dell’Orfanotrofio San Francesco (poi Istituto ‘Margherita di Savoia’) e il problema dell’infanzia abbandonata alle soglie del decennio francese”; Antonio Cataldi, con “ Contributo per una storia dei missionari lazzaristi italiani in Etiopia ed in Eritrea nel periodo coloniale”; Michele Mainardi, con “L’Istituto tecnico di Lecce e l’Orto Agrario”; Arcangelo Salinaro, con “Il letterato Alfredo Mori in Puglia: una caso”; Luigi Scorrano, con “ Con un vescovo di fronte alla guerra e nell’Inferno di Dante”. Dopo l’Indice dei volumi pubblicati, il libro si chiude. Un’opera imponente, per qualità e mole dei contributi presenti, per la quale dobbiamo essere grati a chi l’ha voluta.
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Sternatia: un indovinello in griko
di Armando Polito
Sull’origine del griko rinvio per brevità a http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/07/la-grecia-salentina-nellatlante-del-pacelli-1803/, dove il lettore troverà pure notizie su Giuseppe Morosi (1844-1891), il grecista milanese che raccolse leggende, canti, proverbi e indovinelli in griko nella prima sezione della sua pubblicazione Studi sui dialetti greci della Terra d’Otranto, Tipografia editrice salentina, Lecce, 18701.
Il nostro indovinello, proveniente da Sternatia, è a p. 80, da cui lo riproduco in formato immagine.
Ho pensato di ricostruire il testo come sarebbe stato se scritto in greco classico. Tutto scorrevolissimo, (tant’è che non c’è stato neppure bisogno di consultare il relativo vocabolario), meno una parola: icaturi. Nessun aiuto mi ha fornito il Vocabolario dei dialetti salentini (Congedo, Galatina, 1976) di Gerard Rohlfs e nemmeno il Vocabolario griko-italiano di Mauro Cassoni (Argo, Lecce, 1999). Dirò di più: la voce è assente pure nel repertorio lessicale che nel volume del Morosi occupa la seconda parte. A quel punto mi è venuto il sospettoche fossero due parole, trascritte come se si trattasse di una parola composta. Icaturi, perciò, andrebbe diviso in i e caturi. La prima parola (i) corrisponderebbe al greco classico attico εἷ, mentre la seconda (caturi) è voce del verbo griko caturò, questo sì registrato dal Morosi a p. 177, dal Cassoni a p. 120 e dal Rholfs a p. 916 del terzo volume).
Ἒχω μίαν μάνδραν πρόβατα· εἷ κατουρεῖ μία, εἷ κατουροῦσιν ὅλα.
(leggi: Echo mian mandran pròbata: ei caturuei mia, ei caturusin ola; traduzione letterale della trascrizione in greco classico: ho una sola mandria; pecore; dove orina una, dove orinano tutte).
Il dubbio sollevato da icaturi pone il problema dell’attendibilità della fonte orale e della fedeltà della registrazione grafica; quest’ultima oggi è superabile dalle moderne tecniche di registrazione, mentre l’attendibilità della fonte dev’essere oggetto di attento studio da parte del ricercatore che, direttamente, o servendosi di informatori all’altezza,  deve anche saper mettere a suo agio il soggetto-fonte perché non risulti incrinata in un modo o nell’altro la sua spontaneità.
Molto probabilmente anche i pochi che a Sternatia ancora parlano il griko non conoscono questo indovinello; tuttavia sarebbe interessantissimo avere un riscontro positivo e negativo. A distanza di due anni dal volume del Morosi Giuseppe Pitrè pubblicava Studi di poesia popolare, Pedone-Lauriel, Palermo2, dove, a p. 343, citando il Morosi e il testo in griko dell’indovinello, ne riportava la variante siciliana.
Risulta aggiunto un particolare determinante per tentare di risolvere l’indovinello: l’inusitato colore rosso delle pecore. Debbo essere onesto: la mia fervida fantasia, che spesso mi porta a creare ardite metafore (ma capire quelle degli altri è più complicato …), probabilmente non sarebbe bastata a risolvere esattamente l’indovinello e probabilmente mi sarei tormentato invano per più giorni, se l’occhio nel leggere il testo non fosse stato obbligato quasi a leggere pure la soluzione, che nell’immagine precedente ho volontariamente tagliato per non togliere pure a voi il gusto. Niente da fare= Allora eccovi l’immagine prexcedente col dettaglio che avevo omesso.
Una forma più arguta e gentile per sottolineare la presunta dabbenaggine della pecora rispetto al proverbio salentino: Ci la prima pecura si mena intra ‘llu puzzu, totte l’addhe la sècutanu (Se la prima pecora si butta nel pozzo, tutte le altre la seguono), usato metaforicamente, per fortuna, per stigmatizzare il spirito di emulazione, purtroppo solo della peggiore umanità …
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1 Integralmente consultabile e scaricabile in https://books.google.it/books?id=J_EGAAAAQAAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false
2 Integralmente consultabile e scaricabile in https://books.google.it/books?id=sDD0ljFaHjoC&pg=PA343&dq=Giuseppe+Morosdi&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwj93JDaocnbAhXFjiwKHYaOCPsQ6AEIPjAE#v=onepage&q=Giuseppe%20Morosdi&f=false
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salentipico-blog · 7 years
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Il fisarmonicista pugliese Vince Abbracciante, il cantate e chitarrista brasiliano Caio Chagas, la cantante e produttrice televisiva Patrizia Bulgari sono alcuni degli ospiti della seconda edizione del “Doctor Jazz Mios Festival” che si terrà venerdì 21 luglio (ore 21 – ingresso libero) in Piazza del Popolo a Muro Leccese. Il Festival, patrocinato dal Comune di Muro Leccese e dal Club Unesco di Galatina, organizzato da Vernaleone&Partners con la direzione artistica della cantante Elisabetta Guido e dello scrittore Romualdo Rossetti, ospiterà una lunga serata – condotta dalla giornalista di Telenorba Chiara Chiriatti – tra inediti e standard, jazz e sonorità latine. L’articolato programma accoglierà anche un un omaggio a Billie Holiday e l’esibizione delle due finaliste (Azzurra Cuonzo e Claudia Cantisani) del concorso per voci nuove promosso dal festival in collaborazione con l’etichetta discografica leccese Dodicilune, diretta da Gabriele Rampino e Maurizio Bizzochetti. Il Festival è realizzato grazie alla collaborazione e al sostegno di Farmacia Culiersi (Muro Leccese), Banca Popolare Pugliese, Azienda TO.MA, Fondo Natura,  Associazione “La Girandola”, Agriturismo “Masseria Lacco”, Caffé “Miron” (Muro Leccese).
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La serata sarà aperta da Valentina Grande, apprezzata cantante jazz salentina, accompagnata alla chitarra da Aldo Natali. Subito dopo spazio al quartetto della cantante, autrice e produttrice televisivaPatrizia Bulgari – celebre al grande pubblico per alcune partecipazioni in gara a Sanremo – con un repertorio di intramontabili classici del jazz. A seguire sul palco  il cantante e chitarrista brasiliano Caio Chagas, che, insieme al produttore italiano Chicco Montisano, ha realizzato recentemente “Comprei um Sofà”, un album pieno di funky, samba, jazz e bossanova. A Muro sarà affiancato dal chitarrista salentinoClaudio Tuma (che vanta varie esperienze con artisti e gruppi nel campo della musica pop, jazz, rock, blues e latino americana) e dal sassofonista Mirko Fait (milanese di origini turche che ha suonato, tra gli altri, con Marco Panascia, contrabbassista di Herbie Hancock, Lee Konitz e Joe Lovano, e con Joel Holmes, pianista di Roy Hargrove, solo per citarne alcuni). Il trio proporrà brani di Chagas e Fait e alcuni classici del repertorio della bossa nova. Non mancherà un omaggio a Billie Holiday con l’esecuzione di “God Bless The Child“ nella rilettura di Elisabetta Guido – poliedrica artista che spazia dal jazz al soul, dal gospel al repertorio lirico, docente e pianista, cantante e direttrice di coro, autrice di musiche e testi e arrangiatrice – accompagnata al pianoforte da Carla Petrachi e con una poesia di Romualdo Rossettidedicata alla Lady Day letta dall’attore Maurizio D’Anna. In chiusura il fisarmonicista pugliese Vince Abbracciante con “Sincretico“, nuovo progetto discografico prodotto dall’etichetta Dodicilune. Sincretico – un concept album di otto composizioni originali per fisarmonica, chitarra e quintetto d’archi – sfugge a un’unica definizione di genere e rappresenta una sintesi delle esperienze musicali in cui Abbracciante si è misurato nel corso della sua attività artistica. Il jazz, la musica popolare brasiliana, la canzone italiana, il tango, la musica classica, le colonne sonore, la musica balcanica e le collaborazioni in orchestra, confluiscono in un magma emozionale che caratterizza l’intero lavoro. Un meltin’ pot di suggestioni e atmosfere “mediterranee”. Spinto, audace, magnetico, materico, che sconfina. Come il virtuosismo di Vince Abbracciante e del suo accordéon, sostenuto dal passo discreto della chitarra di Nando Di  Modugno, dal contrabbasso di Giorgio Vendola e dalla texture vellutata degli archi dell’Alkemia Quartet composto da Marcello De Francesco e Leo Gadaleta (violino), Alfonso Mastrapasqua (viola) e Giovanni Astorino (violoncello). Foto e riprese a cura di Cameralight Media Partner Radio Venere, Radio Peter Pan e inOndaweb
Jazz e sonorità latine al Doctor Jazz Mios Festival Il fisarmonicista pugliese Vince Abbracciante, il cantate e chitarrista brasiliano Caio Chagas, la cantante e produttrice televisiva Patrizia Bulgari sono alcuni degli ospiti della seconda edizione del "Doctor Jazz Mios Festival" che si terrà venerdì 21 luglio (ore 21 - ingresso libero) in Piazza del Popolo a Muro Leccese.
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