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#questa nostra storia d’amore
susieporta · 5 months
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PERCHE' NON SENTO AMORE?
Ogni essere umano nasce con un corpo fisico e un’essenza, quello che è nel profondo.
L’ essenza è amore, coscienza, intelligenza, felicità e gioia.
Nella parte profonda, c’è l’anima, quel continuum energetico che passa di corpo in corpo e si chiama essenza o coscienza profonda.
Alla nascita, nel cervello in cui troviamo la personalità, non c’è scritto ancora quasi nulla.
Ci sono solo alcune informazioni in base a ciò che il bambino ha registrato nel liquido amniotico, quando era ancora nella pancia della mamma.
Noi siamo come dei semi che devono crescere, evolvere, cambiare. Abbiamo bisogno di svilupparci, insomma.
E come si permette a queste caratteristiche e qualità di essere sviluppate?
Con l’educazione della famiglia.
Ecco i problemi dell’uomo.
Ogni anima ha già una vocazione, una sua direzione che verrà compiuta grazie alle varie esperienze. E spesso le qualità che ci portiamo dietro ne fanno parte.
Per avere un’immagine più vivida del concetto di semi e crescita osserva che i bambini, crescendo, mostrano già delle tendenze.
Ad esempio, se nella vita precedente era un musicista si porterà dietro, in questo corpo, l’amore per la musica, la capacità di apprendere facilmente le note, l’attrazione per alcuni strumenti musicali.
Questi sono semi ed è necessario un buon terreno per farli crescere.
È chiaro che se nascerà da una famiglia di musicisti o da una famiglia che pur non essendo nella musica, non interferirà in questa tendenza del figlio, lui potrà sviluppare questo seme.
Il problema è che a volte i genitori interferiscono eccome…
E certi semi rimangono infossati. Non crescono.
Cosa vuol dire educare secondo te?
Educare vuol dire aiutare a tirar fuori le caratteristiche, far uscire ciò che è già all’interno.
Illuminare la propria strada.
Capisci anche tu che plasmare qualcuno in ciò che non è non è educare.
Con un’educazione sana, è difficile che il bambino si porti dietro dei buchi.
Svilupperà le sue capacità di comprendere e di sentire con naturalezza; imparerà a esprimersi a modo suo, ad amare a modo suo.
Nel secondo caso, quei semini infossati scatteranno.
Come?
Creando un buco.
I buchi rivelano un vuoto.
Sono parti di noi sviluppate poco o non sviluppate affatto.
Zone che non siamo in grado di scorgere, perché non ci arriva luce, cioè la nostra consapevolezza.
I buchi più profondi sono quelli dove la caratteristica non solo non si è sviluppata, ma è stata addirittura considerata sbagliata, da nascondere, qualcosa di cui vergognarsi.
È chiaro che quel semino si è nascosto molto sotto. È stato represso.
E lì, sotto il buco, si cela una ferita sanguinante.
Quei semini agiscono dall’inconscio.
Quel “Sento che mi manca qualcosa”, altro non è che il semino che attende il suo momento per emergere.
Noi non sentiamo il semino, non identifichiamo la ferita, percepiamo solo un bisogno che non trova mai sollievo.
E più profondo è il buco, più forte il bisogno ci torturerà.
Sono vuoti esistenziali.
Il che comporta che possiamo sbarazzarcene solo colmandoli dall’interno.
Solo portandoci consapevolezza ed entrando in contatto con quelle qualità essenziali.
Ovviamente non ne siamo a conoscenza ed è per questo che cerchiamo di buttarci dentro roba sperando di trovare il tappo giusto.
Ma tutto quello che finisce nel buco, come l’amore delle persone, viene risucchiato dentro e non lascia niente.
Sei come una voragine che vuole risucchiare tutto ciò che di bello trova attorno a sé.
Il vero guaio è che noi basiamo tutta la nostra vita su questi buchi neri.
E tutto ciò che attiriamo, spesso, serve solo a renderli sempre più affamati.
Mi chiederai cosa c’entra l’amore con tutto questo.
E io ti rispondo che l’amore fa parte delle qualità e delle potenzialità che abbiamo tutti come esseri umani e che quindi vanno sviluppate.
Se il seme dell’amore non germoglia, lascia spazio a uno dei buchi neri più famosi della storia: il buco d’amore.
I buchi d’Amore
Quando si formano i buchi d’amore?
Quando il genitore non è capace di creare il terreno giusto per il semino dell’amore.
E come può crearlo?
Cosa serve a un seme per crescere? Terra e acqua.
Quindi nel caso del bambino:
• La terra è il clima familiare amorevole.
• L’acqua è l’attenzione amorevole.
Non il controllo, ma i giusti spazi per sperimentare.
Perché il controllo, il far sentire in colpa il bambino per aver fatto preoccupare mamma, le regole e le imposizioni scambiate per protezione, per il volere il meglio per i figli, non sono attenzioni amorevoli… Non è acqua, ma veleno.
E riguardo il clima amorevole?
Qui arriva il bello.
Perché questo è impossibile da produrre se il genitore stesso ha bisogno d’amore.
Quante volte capita che il genitore cerchi un figlio con la speranza che almeno lui l’amerà? Troppo spesso si fanno figli per ricevere amore…
Ma un genitore sconnesso dall’amore, non guiderà il figlio ad aprire il cuore, perché il bambino lo imiterà.
Il suo esempio sarà chiusura, disarmonia e disconnessione.
I genitori con un buco d’amore insegneranno ai figli ad averne altrettanti.
Se non sono connesso con l’amore, cosa posso realmente condividere?
L’abbiamo visto prima: Emozioni.
Il genitore riconosce solo il pendolo delle emozioni, non l’amore.
E crescendo in un clima di pendoli, il bambino plasmerà una personalità staccata dall’anima e dai suoi veri bisogni.
Le cose si complicano, quando i genitori hanno valori differenti riguardo l’educazione.
Per accontentare entrambi, il bambino indosserà allora due maschere.
Questo è il problema:
ai bambini viene chiesto di cambiare per far felici i propri genitori.
Ma ovviamente non potrebbe mai accadere di riuscire a rendere felice chi non è felice. Quindi il danno è doppio.
Promettere amore, riconoscimento e rispetto se assecondi le loro aspettative è solo un trucco.
Molti genitori posticipano l’amore a quando il figlio sarà diventato tutto ciò che si aspettavano da lui…
La verità è ben altra:
non essendo stati amati pure loro, i genitori non sanno come amarti, non sanno come accettarti e come rispettarti senza porre delle condizioni.
Non hanno la minima idea di come aiutare un bambino a crescere rimanendo se stesso e non una specie fotocopia di mamma e papà.
È per questo che brami dagli altri tutta l'approvazione che non hai mai ricevuto.
C’è un aspetto sorprendente rispetto a quanto si crede però.
Il bambino non ha bisogno d’amore.
Ha solo bisogno che venga riconosciuto il suo essere amore, il suo essere unico. Questo lo vedremo meglio più in là.
I genitori, invece, lo imbottiscono di concetti e preconcetti, non accettano le sue qualità totalmente e, anzi, sono loro a pretendere il suo amore.
Pretendono l’amore, pretendono il rispetto e queste pretese non sono affatto il terreno ideale.
Perché, come abbiamo visto, la pretesa è mancanza d’amore.
Capiamo bene questo:
se da adulti non apriamo il cuore e diventiamo coscienti, non potremo insegnarlo ai nostri figli. Fine della storia.
Al contrario, gli si insegna a negare le sue vere caratteristiche per far contenti i genitori.
Questa è la differenza tra educare e condizionare.
Senza una corretta educazione, tutti perdiamo il contatto con il nostro essere, proprio perché ci viene chiesto di diventare ciò che non siamo.
L’amore non deve essere uno strumento di ricatto per il bambino.
Altrimenti passerà tutta la vita a chiedersi: “A che condizione devo stare per ricevere amore?”
Così il cuore si chiude e si crea un falso cuore, una falsa personalità.
Attenzione a questo passaggio.
Ognuno di noi, da bambino, spinto dalla pressione e dalle aspettative della famiglia, scuola e ambiente è stato costretto a reprimere la sua vera natura, la sua energia vitale e unicità per conformarsi a quello che gli altri hanno deciso che dovevamo essere, che dovevamo fare e diventare.
Ti torna questo?
Questo ci ha fatto sentire feriti, abusati, traditi e non amati...
Da qui l'esperienza dell'amore condizionato, ovvero: "Ti amo, ti accetto e ti approvo solo se tu fai, tu diventi, mi dimostri che..."
Avendolo subito da bambini, avendo provato paura e vergogna per non esserci sentiti voluti così come eravamo, da adulti continuiamo a servire lo stesso identico amore che pone condizioni al partner, agli amici e ai figli.
Lo stesso falso amore che ha farcito il nostro subconscio di rabbia e di un profondo senso di inadeguatezza e frustrazione.
Da giovani abbiamo imparato a generare uno scudo protettivo egoico:
1. Per non sentire il dolore sottostante.
2. Per difenderci dalle persone che, ferite pure loro, potevano infliggerci altre sofferenze.
Ci troviamo ora, nella fase adulta, circondati da uno spesso STRATO DIFENSIVO PSICHICO che ci impedisce di connetterci al nostro Essere interiore, il nostro Sé reale, e, allo stesso tempo, succede che le nostre difese ci mantengono (energeticamente) isolati dagli altri, pur stando in relazione.
Infatti…
I conflitti che abbiamo con gli altri s'innescano proprio quando DUE STRATI PROTETTIVI si scontrano dando il via a una lotta a suon di ricatti emotivi, giochi di potere e vari tipi di strategie psico-emotive.
Sei stato condizionato a sentirti sbagliato, immeritevole e senza valore.
Sei stato condizionato a reagire attraverso il premio, la punizione, la ripetizione e i sensi di colpa.
Ed è difficile credere di meritare amore e rispetto in questo modo.
Soprattutto se questa assenza di amore è viva nel tuo corpo, mente ed emozioni.
Se fin dalla prima infanzia, tutti hanno sempre cercato di cambiarti facendoti credere di essere sbagliato, è ovvio che ora ti riesce difficile accettarti così come sei.
Nessuno può crescere se gli viene imposto di essere altro da se stesso, perché il messaggio che gli arriva fin dai primi anni di vita, è questo: “Tu così come sei, sei sbagliato”.
L'amore reale sorge e si espande, naturalmente e spontaneamente, dal NUCLEO PROFONDO ESSENZIALE, non dagli stati protettivi.
È lì che dobbiamo arrivare e non abbiamo più tempo per usare quello che ci è successo da bambini come scusa per non crescere.
E ci tengo a specificare che non è così importante sapere cosa è successo con i genitori, perché la società, in base al periodo storico, non permette comunque lo sviluppo totale, c’è sempre una qualche repressione.
Siamo sempre sviluppati male, a meno che non vogliamo crescere e iniziare a svilupparci correttamente.
ROBERTO POTOCNIAK
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dottssapatrizia · 2 years
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Il no-contact e le storie d'amore malsane
Il no contact è l’arma finale per uscire da una storia d’amore malsana. Queste sono le parole di una mia paziente: “La mia relazione è terribile. Mi fa stare male e non vedo via d’uscita. La trascino da talmente tanto tempo che credo non riuscirò mai e poi mai scrivere la parola FINE. Una volta ci era quasi riuscita. Non l’ho visto per tre mesi. È difficile troncare con chi è stato così importante. Poi, un giorno, ci siamo rivisti. C’è stato un bacio e poi, non saprei nemmeno dire come sia successo, dopo un mese ero tornata con lui…” Questa storia è più comune di quanto sarebbe lecito aspettarsi. Infatti quando qualcuno ci manca, il suo ricordo diventa dolce. La mente è in grado di distillare tutto il marcio che c’era nella nostra relazione e lasciare solo le cose belle. Quando decidiamo che la storia è finita perché reputiamo fosse malata, dobbiamo avere il coraggio di andare fino in fondo. Andare a sbirciare cosa fa sui social, qualche messaggino, informarsi con gli amici su come sta, cosa fa o chi frequenta sono comportamenti da evitare. Ci sono circostanze in cui il no contact totale non è possibile per questioni logistiche. In questo caso la soluzione surrogato è no sentimenti. Si deve guardare a quella porzione del vostro passato come a un estraneo. Siate forti! Interrompete ogni tentativo di quella persona di parlarvi di quello che è stato. Limitatevi alle interazioni superficiali.
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lisia81 · 1 year
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The Forbidden flower
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In più siti me lo hanno spacciato come il miglior cdrama 2023.
Penso che sia uno dei più “brutti” che ho finito quest’anno.
Devil in law è stato grottesco, ma dopo la recensione di @dilebe06 non avevo grosse aspettative. Solo sano divertimento.
Quando invece ti aspetti un mezzo capolavoro, trovi le criticità come i finferli in questo periodo in Molise.
Il drama si articola in 24 puntate da 30 minuti circa. Drama corto per i canoni cinesi, che anche in 52 puntate, a volte, riescono a tranciare parti fondamentali. Ma non è un pregiudizio. Ho visto quest’anno Destined to Meet you in 7 puntate e, ok, un 60 minuti in più sarebbero serviti a sviluppare alcuni aspetti, ma tutto sommato il prodotto era completo, carino e gradevole.
Qui invece ci sono dei buchi enormi. Capisco che gli autori abbiamo puntato tutto sull’impatto e la fisicità dei personaggi contornata da musiche accattivanti, ma manca tanto. Sopratutto a livello di interazione emotiva e psicologica. Sia chiaro: la lacrimuccia può scappare trascinati dall’’emotività del momento, ma a mente lucida capisci che spm ha più impatto sul mio umore del dramma.
Le prime 10 puntate ci presentano He Ran, la nostra protagonista, una ragazza di 20 anni, ricca, tenuta dalla madre nella scatola di cristallo in seguito alla guarigione di una grave malattia. La leucemia. Ama dipingere, come il padre, morto suicida.
Non ha amici ne amiche se non il vicino di casa, figlio di amici della madre, fidanzato designato, buono come il pane ma non brillante in acume, che naturalmente l’adora. E che lei tratta tipo zerbino.
Un giorno decide di andarsi a fare lavare i capelli e li, si innamora a prima vista dello shampista. Che shampista non è se se non a tempo perso. Un uomo di 45 anni che fa l’orticoltore e che si veste come Mirko dei Bee Hive.
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Da lì inizia uno stolkeraggio, che Tong Nian, di Go Go squid, al confronto è una pivella.
Dall’altro lato abbiamo il nostro lead, Xiao Han, interpretato da Jerry Yan, famoso per aver fatto parte degli F4, che nello stesso numero di puntate avrà pronunciato 30 battute, mostrato il suo sguardo ad occhi bassi e i muscoli sudaticci almeno 400 volte.
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La cosa che più ti rimane in mente è il gatto rosso che vive con lui e le sue timberland indossate anche in spiaggia a 40 gradi (non pensiamo all’afrore dei piedi).
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In queste 10 puntate il nostro protagonista non da alcun segno di avere una qualche simpatia particolare per la nostra protagonista. Sembra tollerarla; è cortese come si sarebbe con la vicina di casa che si è appena trasferita e sai che non conosce nessuno. Ma se non interferisce con la tua vita solitaria tanto meglio.
Alla 11 puntata lui invece cede a questa corte spietata e alla 12 puntata ci vengono mostrati 50 secondi di flash back in cui si vedono i fatti dal punto di vista del lead. In cui lui prima è incuriosito, poi interessato e poi che cerca di allontanarla per paura che lei soffra.
Mi da tanto l’idea che in fase di montaggio si siano accorti che qualcosa non tornava.
È così inizia questa storia d’amore estiva tra due asociali a cui tutti, non si sa perché vogliono bene.
Arriva settembre..He Ran è ammessa all’università e magari potrebbe ammalarsi ( ma gli esami andavano bene). Quindi decide di mollare dall’oggi al domani in nostro Xiao Han, che non fa una piega, se non allestirle il giardino con Gerbere/Crisantemi.
Qui faccio la prima annotazione. Per metà drama sono Gerbere. Poi le chiamano Crisantemi. I fiori inquadrati sono Gerbere. In uno dei loro discorsi importanti Xiao Ran dice a He Ran che le gerbere fioriscono tardi, quando gli altri fiori sfioriscono. Ora. Le gerbere fioriscono in primavera e continuano per tutta l’estate. I crisantemi fioriscono in autunno quando gli altri fiori appassiscono. Quindi avete sbagliato pianta?
Arriviamo a noi. La nostra ragazza va all’università, cambia numero, non socializza con nessuno, non vuole entrare nel club di arte, anche se la pittura è la sua unica passione. Le persone le danno fastidio, tanto che va a vivere lontano dal dormitorio. Tutte le cose giuste per una ragazza 20 enne che ha passato gli ultimi 10 anni chiusa in casa. Passano 6 mesi. Arriva l’ultimo dell’anno e He Ran accende il telefono. Trova gli auguri di Xiao Han. La nostra eroina illuminata dalle parole di un mezzo sconosciuto capisce che lui ci tiene a lei (ma non lo hai mollato per paura soffrisse?????) e prende un aereo su due piedi e lo raggiunge dalle parti del Tibet.
Fanno pace. Lui dice alla madre che è la donna che sposerà. 😳Vivono un altro periodo felice, in simbiosi come due gattini. Poi a lei viene la febbre, c’è un risveglio della malattia e la nostra He Ran senza dirgli nulla di quello che sta accadendo, lo rimolla. Perché se se la malattia ricomparisse del tutto lui non la lascerebbe mai. Gesto onorevole, ma stai con un uomo di 45 anni. Credo che potrebbe anche sopportare e supportarti in questa fase, visto che è il tuo grande amore e senza di lui non puoi vivere.
Alla fine lei, in cura, ritorna all’università. Va a vivere al dormitorio ( luogo sanissimo per una che ha sintomi di recidiva da leucemia). Lui fa armi e bagagli e di nascosto la segue.
Si incontrano nuovamente, litigano, fanno pace, lei non gli dice che è malata, lui lo scopre lo stesso. Si sposano. Lui, in cima ad una montagna innevata -a -20 le dice che sarà la sua ultima donna è l’aspetterà per sempre.
Lei parte con mamma per l’America per curarsi.
È passato un anno. Il dramma finisce con lui che ha due pesci Betta, di cui uno malato di tumore, ma che è guarito. Va a coltivare fiori e in lontananza sente la voce di lei. Non sorride e non fa nulla se non la solita espressione ad occhi bassi. He Ran potrebbe essere vera come un allucinazione.. finale aperto. Per buona pace dello spettatore.
Sollevo subito l’obiezione che due Betta in una boccia non si possono mettere. Nel giro di 30 minuti uno dei due sarebbe secco. Non per nulla sono conosciuti come pesci combattenti.
Per non parlare di come viene trattato il tema della malattia. Mia madre ha convissuto 20 anni con una malattia del sangue passando 3 recidive e relative cure. Nessuno ti dice di segregarti, ma di stare attenti alle infezioni, a non prendere freddo ed evitare luoghi affollati e chiusi. Grandissima quindi la scelta di girare su una montagna, spedire la protagonista in un dormitorio a 4 ecc. I capelli che cadono a ciocche così a caso ( la protagonista non sta facendo chemio) poi che senso hanno? Poteva essere l’occasione per capire i sentimenti che si prova dopo una ricaduta, le ansie, le paure, le angosce attraverso l’introspettiva di questa ragazza. Niente! Liquidato tutto con alcuni sogni in cui la nostra lead ha paura di perdere Xiao Han. Perché il senso di possessivita’ di questa ragazza è quello di una bimba verso il suo giocattolo preferito.
Ma torniamo al nostro lead. Che è un uomo maturo e posato come direbbe lo zio Han. Tua moglie va in America per curarsi e tu stai lì ad aspettare e curare i pesciolini? Dopo che vi siete giurati in salute e in malattia? Non pensi abbia bisogno del tuo supporto anche se lei ti dice di no? Avete un rapporto molto fisico. Di intellettuale c’è ben poco. Forse un abbraccio, in tenersi per mano l’avrebbe aiutata? Meglio starsene a casetta propria con lo sguardo perso nel vuoto? È questo il prendersi cura di lei che hai promesso a sua madre?
La parte che salvo di questo dramma è la storia della madre di He Ran. Una donna forte, che ha subito l’abbandono del marito durante la malattia della figlia nel modo peggiore, che si è costruita una carriera e cerca di barcamenarsi nella vita. Capisco le sue fragilità nel rimettersi in gioco con Yuan Qi, il suo desiderio di essere felice ma il sapere bene i pesi che ha sulle spalle. Anche Yuan Qi mi è piaciuto come personaggio. Nonostante i suoi 26 anni riesce a capire la donna che ama e sa farsi da parte nei momenti giusti, pur correndo subito quando lei ne ha bisogno. Non le fa pesare i suoi dubbi, le sue priorità ma le offre sostegno e evasione. Il loro finale è quello giusto ❤️
Piccola parentesi: il quadro con le ninfee dipinto dal padre di He Ran. Perché lei lo scambia? Il critico d’arte alla fine a che serve? A fargli sapere l’immenso valore che ha? Che al nostro lead non interessa il denaro? (quello si era capito da un pezzo).
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nonhovogliadiniente · 9 months
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Volevo dirti che non devi chiuderti al mondo, che ogni tempesta si placa e il sole arriva. Ti stai costruendo un muro attorno e non lasci entrare nessuno, nemmeno me. Non so più in che modo parlarti, non so cosa fare o cosa dire, mi sento sempre come se stessi camminando sulle mine in un campo da guerra. E attenzione, non me ne faccio un problema o un peso perché per te affronterei qualsiasi guerra, ma mi rende molto triste perche sento che anche se facessi di più non basterebbe.
Tu sei il mio posto sicuro e vorrei fosse lo stesso per te. Voglio che quando non hai voglia di vedere o sentire nessuno non includa me. Voglio che quando hai bisogno di un abbraccio cerchi le mie braccia. Voglio che quando hai bisogno di piangere fino allo sfinimento lo fai tra le mie braccia. Voglio che quando sei triste chiami me. Voglio che quando sei felice , lo sei con me. E lo so, è egoistico volere tutto ciò, ma sono così egoisticamente innamorata di te.
Io so che stai soffrendo, so che non ti senti viva e so come stai e vorrei fare qualcosa per aiutarti ma non lo permetti. Vorrei farti sentire viva nello stesso modo in cui ti ha fatto sentire viva lui. Un giorno mi hai detto “è la versione maschile di te” ed in quel momento non ho potuto fare a meno di credere che io e te in un altra vita saremmo state perfette insieme. Avrei potuto darti tutto il mio amore anche in questa vita ma non si può e quindi piano piano sto cercando di lasciar andare via tutto questo amore , inizia a starmi stretto e a consumarmi.
Tutto questo per dirti che ritornerai a stare bene e troverai la persona giusta per te, che non finisce il mondo se una storia non può esistere. Ci cambia come persona, ci rende forti, ci lascia un segno profondo ma ci rende ciò che siamo e saremo. Troverai qualcuno che ti farà sentire viva allo stesso modo.
E mi dirai che ci stai provando ma tu non ci stai provando stai solo soffocando il dolore. Dolore che è dovuto a tanti motivi, dolore che ti sta chiudendo e consumando. Non lasciare che il dolore chiuda tutte le porte , non lasciare che ti cambi e ti rende ciò che non sei. Sei più di tutto questo.
Permettimi di aiutarti, e non lo so in che modo ma voglio provarci , voglio abbattere tutti i muri . Proviamoci insieme , prendimi la mano e non mollarla perche insieme possiamo attraversare questa tempesta di emozioni che stai provando.
Sarò paziente, presente e ti ascolterò sempre.
Prometto di tirarti su il morale sempre o almeno di provarci. Prometto che non faremo mai a meno delle serate passate in macchina a camminare senza una meta e cantando le nostre canzoni. Prometto di abbracciarti sempre perché li e’ dove mi sento più a casa, tra le tue braccia. Prometto di non fare mai a meno dei nostri discorsi sciocchi. Prometto di portarti sempre al mare a vedere le onde quando ne hai bisogno.
Prometto che un giorno faremo quel viaggio insieme. Prometto che riuscirò a portarti su una moto con me. Prometto che un giorno prenderò casa e ti porterò via con me. Prometto di creare una casa nostra, dove tu possa essere sempre te stessa. Prometto che prenderemo un cane. Prometto che cucineremo crêpes almeno due volte a settimana. Prometto di non rovinare più la carbonara a meno che tu mi prometta che mi cucinerai sempre quella buonissima pasta che fai tu. Prometto di creare un ambiente pieno d’amore, tranquillità e serenità.
Tu sei la persona più importante per me e farei qualsiasi cosa per te quindi aggrappati a me, lasciami essere il tuo salvagente.
E ricorda,amore mio,che dietro le nuvole il cielo è sempre azzurro!
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ho pensato che ci sarebbero stati eventi gioiosi, ho creduto che me li sarei meritati dato l’anno che ho vissuto. Una sorta di speranza sull’esistenza di un ciclo di vita in cui alle cose belle seguono quelle brutte e viceversa. Purtroppo è una mera consolazione, è come un “vissero per sempre felici e contenti”: non è reale. 
Non vivrò una storia d’amore mozzafiato perché sono stata così male per te e non me lo merito, non funziona così la vita.
Che ti sento ridere ad un passo da me ma non sei più mio, che non riesco a smettere di piangere, che non riesco a dimenticare di noi, che non riesco ad andare avanti, non andrà meglio perché ho provato questo. Magari non andrai via mai. Il dolore si allevia, ma tu non andrai via mai. Non immagino neanche una vita senza di te, la mia mente si rifiuta solo di immaginarla una vita senza di te, allora come può accadere che io ci riesca?
E tra tutte le persone di cui potevi innamorarti, ti sei innamorato di quella più vicina a me, e mi tocca sentirti ridere, sentirti chiaccherare, sentirti e risentirti. 
E per quanto la mia gioia nel sentirti stare bene sia grande, per quanto grande questa sia, c’è ancora troppa tristezza. 
Avevamo in mente tante cose, tanti progetti, e come tu sia riuscito a impacchettarli e metterli da parte e sostituirli così velocemente rimane per me un mistero.
C’è un pezzo di puzzle che manca. Nel quadro della nostra storia, c’è l’ultimo pezzo che non riesco a trovare da nessuna parte, quello che mi spiega come il tuo entusiasmo, la tua passione, la tua curiosità, il tuo affetto, la tua presenza siano spariti così in fretta. Quello che forse mi darebbe la pace. Quello che mi farebbe dire “doveva andare così”
e invece no
Non doveva andare così.
e mi ripeto di continuo che non doveva andare così, fantasticando su un finale che forse mai avrò, 
toccando le mie ferite ancora aperte che così non potranno cicatrizzarsi. 
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stregamorganablog · 2 years
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Guarda "MUSE - EUPHORIA (Official Performance Video)" su YouTube
youtube
Spegnimento
Stiamo diventando senza spirito
Se a nessuno importa, allora chi ci salverà?
Dacci euforia
Consumati
Tutto andrà in pezzi
Quindi fai brillare una luce e riscalda questo cuore pesante
E dacci euforia
Meditabondo
Ho bisogno di rinnovamento
Voglio soddisfazione
Una reazione istintiva
Dacci euforia
Dacci euforia
È stato tutto lavoro e niente gioco
Dacci euforia
Dacci euforia
Ho bisogno di intorpidire tutto il dolore
Svegliati
Stiamo diventando irrequieti
La nostra ultima speranza e solo tu puoi salvarci
E dacci euforia
Sigillato
Stiamo finendo l’aria
Quindi accendi un fuoco e ravviva questa storia d’amore
Dacci euforia
Meditabondo
Ho bisogno di rinnovamento
Ho bisogno di soddisfazione
Una reazione istintiva
Dacci euforia
Dacci euforia
È stato tutto lavoro e niente gioco
Dacci euforia
Dacci euforia
Ho bisogno di intorpidire tutto il dolore
Euforia
Dacci euforia
È stato tutto lavoro e niente gioco
Dammi l’euforia
Ho bisogno di euforia
Ho bisogno di intorpidire tutto il dolore..
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Crescere
settembre 2022,
è passato del tempo, e ora sono una persona totalmente diversa dalla me di 18 anni... mai mi sarei aspettata un cambiamento simile, anche nella filosofia di vita. Nel 2019 mi sono messa con un ragazzo che mi ha cambiata del tutto; è stata la storia d’amore più travagliata e burrascosa di sempre, ma quella che mi ha fatto crescere di più, mi ha fatto imparare cos’è giusto o sbagliato, mi ha fatto rendere conto effettivamente di cos’è la vita al di fuori di una bolla di vetro, perché sì, ero in una bolla di vetro. Ha tentato di farmi uscire da lì con tutte le sue forze e una volta uscita però non è andata come previsto. Mi sono trasferita a Parma, una città distante 400km dal mio paese natale, in cui poi tra l’altro viveva anche lui; i primi mesi sono stati impossibili, non riuscivo a vivermi la situazione, a vivermi l’ambiente al di fuori di quella bolla di vetro, dove lui voleva paradossalmente rimettermici. Sicuramente si è sentito spaesato, impaurito, minacciato, l’ho giustificato ma sono arrivata al punto in cui ho capito che io non ero disposta a scendere a compromessi in una relazione degenerata come la nostra; ho preso una delle decisioni più difficili della mia vita, ci ho davvero riflettuto molto prima di troncare definitivamente con lui. Il dolore è stato immenso, perché infondo amavo quella persona, non mi aveva poi così tanto fatto soffrire, non mi aveva fatto torti gravi... non per forza deve esserci un motivo per lasciare una persona, se l’amore si spegne è meglio così piuttosto che prendere per il culo; semplicemente ho capito che io nella mia vita meritavo di più e lo dico con tutto l’ego, l’orgoglio e l’egoismo che esista, perché per vivere bene l’egoismo è necessario delle volte. Meritavo tutt’altro uomo accanto, l’ho capito dopo 3 anni che Riccardo non era il compagno di vita adatto a me, alla mia persona, al mio stile di pensiero, al mio percorso. So di avergli fatto molto male, ma so anche che questa cosa è stata un ultimatum per fargli capire che deve lavorare su se stesso; non si riesce ad amare una compagna se fai a pugni con il tuo io interiore, è impossibile. In un certo modo l’ho aiutato a migliorarsi, in un altro modo l’ho distrutto. Ora però è come se mi fossi liberata di un “peso”, non ho più attacchi di panico, sono felice e serena, ho la serenità che ho sempre cercato, ho i miei spazi e la mia indipendenza. Sto con un uomo che sento che mi completa, ormai fa parte di me, siamo come due pezzi di puzzle. Non ho detto che è migliore, semplicemente mi calza più a pennello; mi sfogo con questo testo per dire che il detto “segui il cuore o il cervello” è sbagliato a volte è meglio far tacere il cuore e aprire il cervello, per poi far lavorare entrambi contemporaneamente. 
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rideretremando · 2 years
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"UN CUORE CHE NON DORME. SU DUE POESIE D’AMORE DEL NOVECENTO ITALIANO (2018)
Chi volesse allestire un’antologia di belle poesie d’amore del nostro Novecento, magari per disporre di un bacino di citazioni a uso anche privato, non avrebbe la strada facile. Non, almeno, se pretendesse di trovarsi tra le mani un canzoniere che celebra l’eros nella sua pienezza – l’eros al tempo stesso eccezionale e quotidiano, inconfondibile e universale. Chi dispiega apertamente il suo canto amoroso, se si escludono l’ossessivo riduzionismo efebico di Sandro Penna e la meteoropatia emotiva della penniana Patrizia Cavalli? Ci sono, è vero, lirici suggestivamente terrestri e sensuali, perfino in senso linguistico, come Gatto, Betocchi e certo Caproni, non a caso cresciuti anche loro, accanto a Penna, sul rovescio del tessuto ermetico: ma finiscono quasi sempre per diventare o troppo domestici o troppo sfuggenti, ripiegando su una freschezza insieme patetica e pudica e partendo per la tangente del manierismo. Ci sono, ancora, poeti erotico-famigliari alla Sanguineti o alla Giudici, che non esitano a palpare i corpi e a immergerli nella vita di tutti i giorni: ma lo fanno esibendo preventivamente il falsetto, il passaporto di una vezzosa diplomazia crepuscolare; così come il primo Pagliarani e Massimo Ferretti schiacciano altri corpi sotto la loro musica avida e guascona. Quanto a Sereni, i suoi rossori di innamorato vengono subito puniti da una reticenza brusca che li lascia a galleggiare nel vuoto. La nostra lirica novecentesca, osservava Garboli mezzo secolo fa, è “altamente ‘omosessuale’ ”, nel senso di una estrema introversione del tema amoroso: in genere “s’ispira a presupposti assoluti, di a tu per tu con Dio, sdegnando le sparpagliate occasioni del ‘sentimento’, i suoi trasalimenti, i suoi brividi, le sue piccole e struggenti ferite. La poesia moderna è tutta ‘intellettuale’ (…) Respinge le situazioni da fumetto, il ‘lui e lei’. Il poeta contemporaneo” non si può immaginare “innamorato degli aspetti femminili della vita quali la gioia, la giovinezza, lo splendore della pelle, una bella mattinata piena di sole, le ore della felicità che è sempre rubata, sempre momentanea, sempre sul punto di essere uccisa”.
Del resto questa lirica non è che l’ultimo, stravolto capitolo di una storia poetica occidentale che può leggersi in chiave rougemontiana. È la storia che mantiene al centro l’“amore dell’amore”, Narciso e Tristano: quella tenuta a battesimo dai versi provenzali, stilnovisti e petrarcheschi in cui si sublima l’oggetto del desiderio fino a farlo sparire, secondo una metafisica che torna vestita di panni moderni nell’opera di un Montale. L’amore innalzato all’empireo, si sa, si specchia poi in basso nelle sue caricature popolari, nelle deformazioni carnevalesche che non fanno che sancirne la supremazia; così come le demoniache donne romantiche e baudelairiane, dietro il loro teschio di streghe, di bestie e di carogne, lasciano intravedere il volto etereo dell’angelo caduto.
Ciò che questo Occidente rimuove all’origine è la nudità dei classici: il loro tranquillo intreccio di cerimoniosità rituale e affetto scanzonato, l’umiltà con cui si volgono al desiderio e all’osceno (a ciò che c’è nell’eros di irrevocabile e tremendo, ossia di sacro) proprio mentre ne abbozzano con tratti lievi gli episodi più prosaici. I moderni hanno eletto questa nudità a mito irraggiungibile; e se a volte hanno creduto di vederla riapparire a lampi in qualche loro contemporaneo sfuggito alla morsa della Storia – e magari, per via omosessuale, sfuggito pure al “lui e lei” - l’hanno celebrata come fosse un miracolo. Perché la norma, al contrario, è appunto l’atteggiamento di chi ruota sempre intorno alle aporie dell’amore genialmente descritto da De Rougemont - di chi ne assalta, scalfisce o spernacchia l’idolo per poi tributargli un inevitabile omaggio, o addirittura per rendere ancora più impalpabile e onnipresente il suo fantasma. Questo fantasma, è vero, a un certo punto s’incarna anche al di fuori del mero rovesciamento burlesco: ma l’incarnazione viene allora appaltata al romanzo ‘medio’, o a quel cinema a cui subito, con pochi ritocchi, un tale romanzo si propone come sceneggiatura. Lì, nello specchio narrativo di una società ormai laicizzata, l’afflato idealizzante e romantico rivela il suo spirito volgarmente calcolatore, scende a patti con la routine trascinandosi tra letti precari, scene mélo e struggimenti dozzinali. La poesia invece, già arroccata in sé stessa per sfuggire alla lingua della tribù, ha sommato a questo arrocco formale la vaghezza difensiva con cui l’uomo moderno allude a una realtà che nonostante tutto continua a porglisi pavesianamente davanti come il banco di prova della vita: il “grande amore”, che per definizione “non si trova”. Così l’antico “né con te né senza di te” diventa una ipnosi da eterni adolescenti, un inseguimento della propria ombra, una leggenda che nutre sottotraccia ogni parola ipotecandola senza dichiararsi, e che carica ogni oggetto dell’aura amorosa dopo averla resa irriconoscibile.
Si dànno, ovviamente, le eccezioni. Una è vistosa proprio perché melodrammatica: nei “Nuovi versi alla Lina”, il verdiano e heiniano Saba del 1912 dialoga con la moglie che l’ha tradito, e nella sua temeraria impudicizia ci fa udire tutti del suo cuor gli affanni. Soffre, si lamenta, interroga, accusa, perdona, torna sui fatti senza capacitarsi dell’accaduto e del suo effetto emotivo. Siamo di fronte a un raro caso di poesia imperniata sulla passione coniugale - poesia insieme traumatica e casalinga, canzonettistica e dolorosa. Con sovrana semplicità, il poeta vi dichiara il suo stupore per ciò che può fare l’ossessione, la ferita narcissica inferta dalla gelosia: il mondo caldo e vivido delle sue passeggiate si svuota, e lo sguardo è obbligato a concentrarsi su un punto solo, una femmina qualunque, una cosa così comune e piccola che “una casa nello spazio, / un piroscafo è tanto più di lei”.
Ma se dovessi compilare quell’antologia, io la aprirei in un altro modo. La aprirei con due testi nei quali le domande su Amore e Morte che alonano la più tipica poesia d’Occidente dal Medioevo al Novecento riecheggiano nel nido buio della coppia; e lì, in una situazione d’intimità reale, non vagheggiata ma vissuta, vengono affrontate e approfondite, conservate e superate, o piuttosto scontate, tra tenerezze tremanti e pene solitarie. Parlo di due testi dove l’amore è assolutamente vero e al tempo stesso ‘impossibile’: “Vecchio e giovane” di Umberto Saba e “Canzonette mortali” di Giovanni Raboni. In entrambi i casi un uomo anziano, con gli occhi sbarrati nell’ombra, veglia su un corpo giovane disteso accanto a sé nel letto, e cerca di accettare l'incommensurabilità dei rispettivi destini biologici.
Ecco la poesia di Saba: “Un vecchio amava un ragazzo. Egli, bimbo / - gatto in vista selvatico - temeva / castighi a occulti pensieri. Ora due / cose nel cuore lasciano un'impronta / dolce: la donna che regola il passo / leggero al tuo la prima volta, e il bimbo / che, al fine tu lo salvi, fiducioso / mette la sua manina nella tua. // Giovinetto tiranno, occhi di cielo, / aperti sopra un abisso, pregava / lunga all'amico suo la ninna nanna. / La ninna nanna era una storia, quale / una rara commossa esperienza / filtrava alla sua ingorda adolescenza: / altro bene, altro male. ‘Adesso basta – / diceva a un tratto; - spegniamo, dormiamo.’ / E si voltava contro il muro. ‘T'amo – / dopo un silenzio aggiungeva - tu buono / sempre con me, col tuo bambino.’ E subito / sprofondava in un sonno inquieto. Il vecchio, / con gli occhi aperti, non dormiva più. // Oblioso, insensibile, parvenza / d'angelo ancora. Nella tua impazienza, / cuore, non accusarlo. Pensa: È solo; / ha un compito difficile; ha la vita / non dietro, ma dinanzi a sé. Tu affretta, / se puoi, tua morte. O non pensarci più”.
Ed ecco la poesia di Raboni: “Io che ho sempre adorato le spoglie del futuro / e solo del futuro, di nient’altro / ho qualche volta nostalgia / ricordo adesso con spavento / quando alle mie carezze smetterai di bagnarti, / quando dal mio piacere / sarai divisa e forse per bellezza / d’essere tanto amata o per dolcezza / d’avermi amato / farai finta lo stesso di godere. // Le volte che è con furia / che nel tuo ventre cerco la mia gioia / è perché, amore, so che più di tanto / non avrà tempo il tempo / di scorrere equamente per noi due / e che solo in un sogno o dalla corsa / del tempo buttandomi giù prima / posso fare che un giorno tu non voglia / da un altro amore credere l’amore. // Un giorno o l’altro ti lascio, un giorno / dopo l’altro ti lascio, anima mia. / Per gelosia di vecchio, per paura / di perderti – o perché / avrò smesso di vivere, soltanto. / Però sto fermo, intanto, / come sta fermo un ramo / su cui sta fermo un passero, m’incanto… // Non questa volta, non ancora. / Quando ci scivoliamo dalle braccia / è solo per cercare un altro abbraccio, / quello del sonno, della calma – e c’è / come fosse per sempre / da pensare al riposo della spalla, / da aver riguardo per i tuoi capelli. // Meglio che tu non sappia / con che preghiere m’addormento, quali / parole borbottando / nel quarto muto della gola / per non farmi squartare un’altra volta / dall’avido sonno indovino. // Il cuore che non dorme / dice al cuore che dorme: Abbi paura. / Ma io non sono il mio cuore, non ascolto / né do la sorte, so bene che mancarti, / non perderti, era l’ultima sventura. // Ti muovi nel sonno. Non girarti, / non vedermi vicino e senza luce! / Occhio per occhio, parola per parola, / sto ripassando la parte della vita. // Penso se avrò il coraggio / di tacere, sorridere, guardarti / che mi guardi morire. // Solo questo domando: esserti sempre, / per quanto tu mi sei cara, leggero. // Ti giri nel sonno, in un sogno, a poca luce // 1982-1983”.
Il ragazzo ritratto da Saba torna nel secondo dopoguerra in diverse sue pagine - telemachie in forma di epigramma, scorciatoie, poesie carezzevoli e terribili – e viene di solito identificato con il figlio del libraio antiquario milanese presso cui il poeta abitò tra il ’45 e il ’48, quel Federico Almansi che pochi anni più tardi sarebbe sprofondato nella schizofrenia. “Vecchio e giovane” fu inserita nel fascicolo di liriche intitolato “Epigrafe” (1947-1948) e destinato a una pubblicazione postuma. È composta da tre strofe di otto, tredici e sei versi, in sostanza endecasillabi camuffati dalle saldature e dalle pause di un racconto che ora si avvolge a spirale e ora si rapprende in laconiche ellissi. Fin dall’incipit, l’ambiguità del contesto è come ignorata (e sottolineata) da un’affermazione perentoria: “Un vecchio amava un ragazzo”. Il poeta finge parodicamente la fiaba, recita una saggezza lineare e una limpidezza che invece nelle prime strofe è negata dai connettivi del discorso, dal ritratto del “giovinetto” e dal dialogo con il suo amico. I “castighi a occulti pensieri” e gli occhi “aperti sopra un abisso”, alternati alla esibita calma gnomica del narratore che tiene ai due capi il filo dell’esistenza, fanno davvero pensare a un turbamento psichico, a un esorcismo condotto sul bordo della follia. “Celeste” qui non è l’azzurra pupilla sabiana che tutto può contemplare e ospitare, ma un cielo che schiaccia e un vuoto che inghiotte. Il vecchio filtra una storia, l’adolescente ingordo l’assume come un farmaco e poi vuole addormentarsi in fretta. Così da un lato del letto inizia il “sonno inquieto”, dall’altro un’insonnia senza speranza. Dopo avere evocato le due prospettive che più frequentemente si fronteggiano nella sua opera, il punto di vista filiale e il punto di vista materno, il poeta prova a lenire il dolore di quella mancata empatia immedesimandosi nel compagno: se non sa restituire l’affetto è perché lotta con la propria angoscia di creatura incompiuta, ancora senza centro, e dunque fatalmente sorda ai bisogni di coloro che la accudiscono. Inutile accusarlo: è fisiologico che i ritmi non possano accordarsi. Non resta che smettere di pensarci, o ‘passare oltre’.
In questa poesia le sigle di stile alto lasciate cadere qua e là non dipendono più dal tono impettito, dalle sonorità goffe o rotonde di banda paesana che caratterizzano molte composizioni giovanili - anzi somigliano quasi a una sprezzatura, al gioco agrodolce di chi si concede il lirismo appunto perché i suoi rischi e le sue promesse non fanno più presa. I panneggi levigati e sontuosi, appena suggeriti a qualche svolta, non contraddicono la natura diafana e fantasmatica del testo. Ogni fanfara, bozzettistica o classicista, resta ormai alle spalle. Il risultato è una maestà calma e dolente, una trasparenza in cui non si dà scarto tra detto e cantato o tra sussurro e musica, fusi in un fraseggio di tenerezza straziata ma asciutta e lucidamente arida (la stessa tenerezza alla quale, giungendovi dall’opposta sponda di una depressione sia vitale sia stilistica, Sbarbaro era approdato intorno al ’30 nei “Versi a Dina”).
Anche il Raboni maturo si muove con un passo felpato di questo genere. È un passo che acquista nelle fasi di transizione della sua parabola poetica: prima, appunto, negli anni Ottanta delle “Canzonette”, luogo di sutura tra lo stile manzonian-brechtiano della penitente giovinezza lombarda e il manierismo delle forme chiuse; poi, alla fine, in “Barlumi di storia”, dove dalle forme chiuse ritorna a uscire ‘verso la prosa’ (ma affiora già nel metricista “Quare tristis”, non appena taglia a metà il sonetto come in “Svegliami, ti prego, succede ancora…”). Anche nelle sue strofe “mortali” la diversa biologia dei corpi stesi nell’alcova è il punto di partenza scelto per evocare i topoi di amore e morte, presenza e assenza, realtà e irrealtà; anche qui il rapporto è vissuto come un’iniziazione sempre esposta al fallimento, destinata a essere giocoforza interrotta; e anche qui l’ansia si attenua solo attraverso una resa simile a un cupio dissolvi. Se Luigi Baldacci giudicava “Vecchio e giovane” la poesia più “marmorea e straziata” del Novecento, a proposito di “Canzonette mortali”, dopo avere opportunamente citato i classici e in particolare Catullo, Paolo Maccari ha ripreso un’espressione utilizzata altrove da Raboni, e pure vicina all’ossimoro, parlando di un testo “obiettivamente straziante”.
“Canzonette” è costruita a imbuto, per strofe di lunghezza decrescente - da dieci versi a uno - secondo una formula mutuata a quanto pare dalla sinfonia 45 di Haydn nota come “Sinfonia degli addii”. La prima strofa s’impernia su un motivo tipicamente raboniano: in quelle “spoglie del futuro” il tempo assume l’aspetto di una pellicola già proiettata, da riavvolgere e far scorrere avanti e indietro con agio funerario (si veda, in “Barlumi di storia”, il riepilogo di “Si farà una gran fatica, qualcuno…”). Tutto è già compiuto e ci sta davanti in una spossata, paradossale eternità barocca. I versi descrivono un moto lento di onde che si allungano e si contraggono, qua limpide e là torbide o schiumose. Le abbreviazioni coincidono spesso con smorzature gravi come pesi sul cuore, in cui la voce sembra strozzata o soffocata. A poco a poco il discorso si assesta intorno alla misura di un endecasillabo che fa da chiusa provvisoria, icastica, per poi riaprirsi subito su un’incertezza allarmata; e dopo trasalimenti, nenie, attese a respiro trattenuto e constatazioni lapidarie, la serie non si chiude con un sigillo ma con una sospensione, un ‘piano’ da stretta che si allenta. ‘Vista’ così alla moviola, la consunzione può ancora confondersi con la stasi, con un indefinito protrarsi di quell’equilibrio squilibrato: nessuno sa quanto durerà il misto di angoscia e incanto.
La lentezza cerimoniale, l’iniziazione religiosa all’eros e alla morte del Raboni d’inizio anni Ottanta si gioca qui tra l’‘amen’ di chi sente di poter accettare qualunque cosa perché ha incontrato il proprio destino (“mancarti, / non perderti, era l’ultima sventura”) e l’allarme che ispira ineluttabilmente il possesso, la consapevolezza della futura perdita (“Il cuore che non dorme / dice al cuore che dorme: Abbi paura”). Se in altre liriche coeve il poeta sgrana le immagini di un teatrino pornografico con leggerezza tenera e devota, qui scioglie il “godere” nel tema della consegna a una sorte di dissoluzione fisica; ma l’accettazione di questa sorte è poi incrinata da commoventi, atroci soprassalti vitalistici - dalla fame di futuro di chi, ormai sulla soglia dell’aldilà, tenta di riafferrare un impossibile accordo della giovinezza e può farlo solo “ripassando la parte” tra una pausa e l’altra, perché il suo stato normale di uomo quasi vecchio è un torpore che se assecondato lo porterebbe lontanissimo dal ritmo a cui batte il cuore della compagna.
“Fare l’amore e morire sono una cosa sola”, diceva Truffaut del cinema “decisamente più sessuale che sensuale” di Alfred Hitchcock, così proustianamente amato da Raboni: e lo si potrebbe ripetere davanti a entrambe le poesie. Ma in chiusura vorrei ricordare un altro regista, che ha girato un film dove la quotidianità condivisa dell’amore appare altrettanto fatale e precaria. È il Chaplin di “Luci della ribalta”. Alla sua uscita, nel 1952, se ne occupò tempestivamente proprio Garboli, che al tema era con tutta evidenza sensibilissimo se trent’anni dopo decise di scrivere anche delle “Canzonette”, opera di un autore per il resto molto distante da lui. In un pezzo pubblicato di recente nella “Gioia della partita”, il ventenne studioso di Dante si concede un’incursione nel campo del grande schermo dialogando con il commento che al film ha dedicato Carlo Muscetta, rappresentante di quel marxismo postbellico verso cui Garboli mantiene sempre un affetto aprioristico pur mentre batte per suo conto tutt’altre strade. Nel descrivere la storia di Calvero e Terry, il giovane critico parla dello “stato di provvisorietà in cui viene a trovarsi un amore per altro verso tanto permanente, tanto terribilmente serio e affondato nelle radici della vita che tollera di paragonarsi solo all’aria stessa in cui unicamente è dato di vivere”. “Come torni in dramma, in amore, in strazio sopportato tanta voglia di vita, che non ha sfogo e non può averlo, una volta ricalati i personaggi dalla favola in realtà e nella storia che loro è data, mediocre fuori, grande e ricca e varia dentro, diversa e uguale a tutte, come tante: questo è ‘Limelight’”, afferma nella pagina centrale del suo pezzo. “Ed è questo, precisamente, il solo modo in cui l’umano incontro di due vite diverse, Calvero e Terry, può divenire, farsi storia e una sola storia; pur non avendo, di una storia d’amore, che l’ansia d’essere tale e il saper d’esserlo e il non esserlo invece, di fatto: così che continuamente si mescola alla favola la realtà e si affaccia nella felicità la disperazione, indissolubile l’una dall’altra; perché ciò che è accaduto in mezzo a quelle due vite scova il modo d’essere una medesima cosa fra loro proprio e appunto perché comune a due vite, a due storie diverse. La vitalità, l’istinto divengono l’amore che salda persona a persona ma l’amore onde si vincolano le vite di Calvero e di Terry suscita davvero un patema indicibile, proprio una sorta di chiuso finimondo se per forza di cose tanto più brucia ogni limite quanto più gli fanno tormentosa prigione i naturalistici limiti della giovinezza e della vecchiaia, i quali infine sbiadiscono e si dissolvono come tali ma riaffiorano nuovamente come i confini stessi del tempo, della realtà in cui ciascuno dei due personaggi si cala, della storicità insomma propria di Calvero, di Terry”.
Verso la fine di questo formidabile saggio, stilisticamente ancora ingorgato, troppo abbondante e tortuoso, ma già molto garboliano nell’andatura avvolgente e nel sapore, il critico si sofferma sul punto di vista della ballerina – cioè del ‘corpo giovane’ che Saba e Raboni guardano dall’esterno – in un passo che vale la pena riportare quasi per intero: “Tanto grande è la dimensione del suo amore che sembra davvero possa tutto, anche restituire la virilità a un vecchio e il talento a chi l’ha esaurito (…): ed è un’illusione, poiché più grande diviene l’amore in Terry più acuto si fa in Calvero e in Terry lo strazio che la vita non lo conceda. Così s’alternano la felicità e la disperazione in una voglia d’amare che trova ostacolo in sé, in ciò stesso onde è nata; e chi rifletta al gusto romantico delle passioni sempre un po’ esagitate può comprendere perché in ‘Limelight’ l’amore si raffiguri in modo da non sembrare neppure più tale, un’altra cosa, tanto è vicino all’elemento inqualificabile che spinge una pietra a stare in un modo, a fiorire la rosa in un altro. Come si muova in grazia, in angoscia, in modi consueti alle storie d’amore, solitudini e improvvise felicità, come s’ammanti il desiderio l’uno dell’altra dell’esser clown Calvero, dell’esser ballerina Terry (ché ognuno simbolizza ingenuamente per suo conto), è la levità della favola, in cui la storia pare che sia sempre lì lì per sfumare; e in fondo a quella visiva trasparenza s’asciuga invece uno spasimo atroce; si dispera e invecchia e intristisce la vita di Calvero e si abbarbica l’amore di lui e di Terry tenace, con la protervia della dolcezza e per il fascino che proviene dalla vita di chi si ama, di chi si è; e si dibatte in voglia impotente, scoppia in patetiche ostinazioni, spoglio del superfluo, in un miscuglio nuovo di sofferenza e di gioia e di solitudine e di dedizione assoluta e dentro cui si vive senza aver fede in altro, perché questo solo c’è e resta, l’amore e la vita che fanno una cosa sola: quel fluido impenetrabile che sembra abbia consistenza mentre passa negli occhi di Calvero e di Terry il giorno che si ritrovano, per caso, a un caffè. Tutto si ferma intorno, si fanno grandi i loro visi accostandosi e in quell’intimità si atteggia una consapevolezza estrema, come si concentrasse in quel momento l’arco in cui la vita si compie tutta; essendo interna alla sua bellezza la sua irrimediabilità (…) C’è in ‘Limelight’ una sorta di naturalismo estremo e quell’umanesimo integrale di cui parla Muscetta e sopra tutto un ateismo quasi sfacciato e una disperazione lucida, che annulla e dà, ricrea, e tutto questo espresso in realtà dura, in pura favola, senza esterni soccorsi di consolazione. Si pensa al viso staccato e solitario di Calvero prima e dopo l’ultima pantomima; vi traspare la commozione come la luce in una pietra limpida, fredda; dice che la vita è immensa, varia, magnifica, perché limitata, terribile, breve, chiusa e angustiata da limiti netti, senza nient’altro all’infuori di sé”.
“Una voglia d’amare che trova ostacolo in sé, in ciò stesso onde è nata”: eppure non una voglia romanticamente esagitata e teatralmente esagerata, ma naturale come ciò che “spinge una pietra a stare in un modo, a fiorire la rosa in un altro”; non un ostacolo rougemontianamente ‘fittizio’, ma invalicabile, oggettivo. E ancora: in uno stile prosciugato, trasparente, il resoconto di una felicità, di una fiaba che ha come rovescio la reale assenza di consolazione, la “disperazione lucida” che dà e toglie con un gesto solo la consistenza a quell’amore. Così, anche in Saba e in Raboni, concretezza e impossibilità sono come due lati di un unico foglio, due espansioni della stessa radice: la contraddizione senza vie d’uscita di un rapporto che nasce alla tangenza di due linee vitali destinate a divaricarsi davanti alla morte. Esiste nel Novecento italiano un’altra grande poesia d’amore, che allo squilibrio di una relazione vissuta, non ‘romantica’, dà la forma più biologicamente estrema, pur sospendendola nel limbo della parodia stilnovista: è l’“Ultima preghiera” di Giorgio Caproni – ma non sono ‘preghiere’ anche “Vecchio e giovane” e le “Canzonette”? – dove i punti di vista tipici della lirica sabiana acquistano un significato letterale: la fidanzata coincide con la madre rimasta giovane accanto a un figlio vecchio.
Squilibrio dei destini, si è detto; ma nella nostra ipotetica antologia dovrebbe trovare un posto d’onore anche la più bella lirica dedicata a un genere differente di squilibrio, quello delle forze. Il potere ‘politico’, la dialettica del servo e del padrone, l’oggettivazione sadica dell’altro penetrano infatti fin dentro le stanze più private: e Noventa, nei versi “A un’ebrea” scritti mentre si annunciava all’orizzonte la Shoah, esprime tutto lo strazio di chi sa di non poter redimere la propria sopraffazione, né attingere una giusta parità, ma solo distogliere vergognosamente lo sguardo: “Gh'è nei to grandi - Oci de ebrea / Come una luse - Che me consuma; / No' ti-ssì bèla - Ma nei to oci / Mi me vergogno - De aver vardà. // Par ogni vizio - Mio ti-me doni / Tuta la grazia - Del to bon cuor, / A le me vogie - Tì ti-rispondi, / Come le vogie - Mie fusse amor. // Sistu 'na serva - No' altro o pur / Xé de una santa - 'Sta devozion? / Mi me credevo - Un òmo libero / E sento nascer - In mi el paron”…
Amare senza scoprirsi né padroni né servi: forse a volte sembra possibile solo là dove incombono ‘gli addii’, là dove tutto è vissuto al colmo di una intimità traboccante, trepida, sconvolta, e al tempo stesso tutto è guardato come già morto. L’amore nella sua pienezza non si dà, pare, senza lo sfondo di due solitudini, senza la minaccia, senza rivelarsi “sempre sul punto di essere ucciso”. La differenza è tra una poesia che rimuove questa realtà nei suoi castelli simbolico-allegorici, e una poesia che con la naturalezza perentoria degli ‘artisti da vecchi’ affronta la consumazione dell’amore sotto un cielo d’ansia."
Matteo Marchesini
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La parola al diabete: convegno con lo scrittore Marco Zenone
Non ti voglio di Marco Zenone edito da Effedì è stata un’occasione per affrontare il tema del diabete alla luce dei cambiamenti repentini a cui è sottoposta la nostra società. In occasione del XII Convegno di Fondazione AMD che si è tenuto a Roma dal 16-18 maggio, Fondazione AMD - Associazione Medici Diabetologi Italiana ha invitato l’autore novarese per portare la proprie testimonianza. Nel pomeriggio di venerdì 17, infatti, Marco ha preso parte, come relatore della faculty, a una tavola rotonda sulla patologia diabetica, dal titolo “LA PAROLA AL DIABETE - CONFRONTARSI CON GLI ALTRI: LO SCRITTORE, L’INFLUENCER, LE ASSOCIAZIONI”.  Durante il dibattito si è affrontato il tema della comunicazione legata al diabete declinata in diverse forme: quella degli influencer mediante i canali social, quella delle associazioni e anche quella attraverso le pagine di un testo letterario di narrativa, come è avvenuto nel caso di Marco Zenone, che nel 2020 ha pubblicato il romanzo "Non ti voglio" con la casa editrice Effedì Edizioni. Marco Zenone Non ti voglio di Marco Zenone Si tratta di un romanzo di autofiction che, prendendo spunto da alcuni accadimenti personali, con ironia e leggerezza, affronta il tema del diabete tipo 1, patologia di cui Zenone soffre dall’infanzia. Il libro racconta la bizzarra storia d’amore tra il giovane Enzo, un alter ego dell’autore (anch’esso diabetico dalla tenera età), e Arianna. Per quest’ultima, il diabete tipo 1 è una realtà conosciuta solo attraverso i tanti luoghi comuni che accompagnano ancora questa malattia e che andranno a dilatare la distanza tra i due innamorati.  Non ti voglio di Marco Zenone, che tocca l’aspetto spesso trascurato della discriminazione e dello stigma sociale a cui, in alcune circostanze, è soggetto chi soffre di diabete tipo 1, ha suscitato molto interesse sia nell’ambito medico sia in quello letterario. L'autore in passato ha già avuto modo di collaborare con la Fondazione AMD; ricordiamo, infatti, che un estratto di “Non ti voglio”, intitolato "Maracana 1984", è stato pubblicato sul volume 23, n°4, 2020 di JAMD, periodico di approfondimento scientifico e formazione della Fondazione stessa  (il testo è disponibile e scaricabile dal web per chi fosse interessato). «Ringrazio Fondazione AMD per questa straordinaria opportunità di condivisione e divulgazione; per me è stata una nuova occasione di arricchimento personale che spero si possa ripetere in futuro», queste le parole dell'autore sull'esperienza romana. XII Convegno di Fondazione AMD Il convegno è stato un incontro prezioso che ha permesso il confronto sulle più̀ recenti innovazioni in ambito clinico-terapeutico e di ricerca scientifica grazie alla presenza di relatori di spicco nazionali ed internazionali. Durante la tre giorni di Roma, è stato possibile dialogare con le Istituzioni, gli Specialisti e le persone con diabete su temi quali l’assistenza e la prevenzione.  Ampio spazio è stato dedicato alla gestione del rischio cardiovascolare nel diabete, le emergenze del piede diabetico, il diabete gestazionale, la Nutrizione e il diabete e tanti altri argomenti di grande interesse sociale e clinico. Nell’ambito del convegno, Non ti voglio di Marco Zenone, è stato un ulteriore spunto di confronto su cui riflettere, una testimonianza che affronta il tema del diabete di tipo 1 nell’ambito dei rapporti interpersonali. Read the full article
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princessofmistake · 2 months
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[...] non posso iniziare questa mail senza riportare alcune parole di chi la vita l’ha capita meglio di noi, pur stando reclusa in una stanza, perché l’anima ha bisogno di poche gocce d’amore e d’odio per costruire i suoi paradisi e i suoi inferni. “Quando le luci si spengono / poco per volta ci si abitua al buio / come quando il vicino, sollevando alto il lume / sigilla il suo addio. Dapprima / i passi si muovono incerti nel buio improvviso / poi / lo sguardo si abitua alla notte / e senza incertezza affrontiamo la strada”. Come si fanno netti i colori e le forme delle cose, quando l’amore finisce. Ma l’amore non dovrebbe non morire mai? Io non ti amo. Allora non ti ho mai amato? La nostra storia ora mi appare come qualcosa di lontano, di passato. Forse perché per me era finita molto prima di finire. A volte mi sforzo di pensare che sia davvero la mia storia, e non un intreccio di un libro o un’idea di una canzone. Quanto mi sembro estraneo a tutta la nostra storia quando guardo alla situazione attuale. Se penso a Berlino – non ero io, forse era qualcun altro. Non riesco ad avere una mia storia personale, è il mio unico modo di essere, lasciare che il vento spazzi via i ricordi. Non mi appartengono. Io non riesco a essere altro che ciò che sono, non più ciò che ero. Mi sento così estraneo a me stesso quando mi penso nel passato da non credere quasi di essere la stessa persona in ogni istante della mia vita. Tu adori poter aggiungere nuove immagini nel baule dei ricordi, sembri a volte voler vivere proprio per poterti poi intrattenere con ciò che hai vissuto. Il modo in cui parli ormai della nostra storia – una gemma preziosa in più nelle tue tasche. La tieni stretta in mano, e ne sei in fondo orgoglioso. Io proprio non ci riesco. Devo liberarmi le ali dalle reti della memoria per essere in grado di potermi ancora elevare e gustare l’estasi del volo. Di quel volo che tu sostieni mi spaventi. Il mio sguardo è rivolto lontano nel cielo. Mi sento uno spirito dell’acqua o un’anima dei boschi, i sensi affinati, e privo del senso del tempo. Perché se tutto si perde per strada, è meglio non ricordare. Non perché i ricordi feriscano a fondo, ma perché con un’anima piena e pesante di memorie non si riesce a camminare sull’acqua. E il rumore delle onde insegna molto più delle esperienze. È con un’anima sempre giovane che non si sente lo scorrere dei secoli. “Fa’ attenzione al senso, e i suoni baderanno a se stessi”, dice la Duchessa ad Alice. Forse è questa l’unica morale. L’assurdo. Ed è meglio non farci caso e parlargli come a un amico. Io non ti amo più purtroppo. Ed è stato talmente bello all’inizio, che gusto già da ora il momento in cui avrò dimenticato anche questo. Non si può andare avanti con un simile confronto se non si vuole essere sommersi da echi di rabbia. “Tu sei il mio dio: io ti adoro” mi hai detto più volte – e allora forse veramente lo ero – queste frasi sono scolpite come iscrizioni su una lapide in me. Ora non le pensi più. Ma le pensavi. Le hai dette, e io le ho ascoltate. Comprendimi. Pesa troppo camminare per il grigiore delle strade con i ricordi di un giardino segreto che ora non ci appartiene più.
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ildiariodibeppe · 5 months
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Scoprire un volto Gv 1, 35-42
I nostri primi passi nell’anno nuovo sono caratterizzati da una chiamata: Gesù ci mette in cammino, siamo discepoli di una voce e di uno sguardo. È significativo che il tempo liturgico della nostra vita “ordinaria” prenda il via con un “inizio”, quello di alcuni uomini che si mettono a seguire Gesù e di Samuele, il giovane profeta chiamato all’ascolto della parola del Signore.
Ogni Parola di Dio ci chiede ascolto!. Là dove trova accoglienza, il Signore pianta la sua tenda e la sua vita prende “corpo” nella nostra storia. L’inizio è movimento. Non solo di piedi ma anche e prima di tutto di sguardi, di cuore, di desideri, di domande. Ma non c’è movimento se qualcosa non lo innesca, senza qualcuno che lo genera, senza una forza di attrazione che lo alimenta.
Il Vangelo di oggi si apre con l’immobilità di Giovanni Battista che “stava ancora là”. Stava dove può vedere Gesù venire verso di lui. Il luogo dove stava il Battista è quello dal quale si può scrutare l’orizzonte e vedere Gesù che viene verso di noi. Il Battista fissa lo sguardo su Gesù come fanno le sentinelle che scrutano l’orizzonte. Il Battista vigila alla soglia di un tempo difficile (ma quale tempo non lo è?) per scrutare quanto resta della notte e indicare l’arrivo del “sole che sorge dall’alto”.
La Parola di questa domenica ci chiama a collocarci là dove possiamo continuare a vigilare nell’attesa di Colui che illumina il senso dei nostri difficili giorni, le nostre domande e le nostre paure. Il cristiano ha la vocazione della sentinella che tiene aperti i suoi occhi sull’orizzonte, nella fede sicura che Dio non tarderà. Lo sguardo di Giovanni segue Gesù che passa ed è pronto ad indicarlo a “due dei suoi discepoli”.
Ed ecco che la parola del Battista mette in movimento questi due uomini che iniziano a seguire Gesù. È un movimento di piedi che cercano di calcare le sue orme, di vivere conformando la propria vita alla sua. E il movimento dei piedi è reso possibile da un altro movimento che è quello del desiderio. “Che cosa cercate?” Ed è Gesù stesso che, voltandosi e fissando i due discepoli, li mette in contatto con il desiderio che portano nel cuore.
È la prima parola di Gesù secondo l’evangelista e sarà la prima parola di Gesù risorto a Maria Maddalena che piange davanti alla tomba vuota nel mattino di pasqua: “Chi cerchi?”. Forse l’itinerario del discepolo si dispiega fra questi due interrogativi: si inizia cercando qualcosa per scoprire che stiamo cercando un volto. Un volto da seguire, un volto che orienti i passi e soprattutto che orienti il nostro sguardo per vedere ciò che vede lui, per guardare la storia e la nostra vita come la vede lui.
Seguire Gesù significa entrare nel suo sguardo: “venite e vedrete. Videro dove dimorava e quel giorno rimasero con lui”. I passi di Gesù conducono al luogo dove lui dimora. E ben sappiamo che quel luogo è l’amore del Padre. Gesù chiama i suoi discepoli ad entrare nella sua stessa relazione d’amore con il Padre. Questo è il “luogo” dove vive Gesù.
Anche noi iniziamo a seguirlo nell’amore e dell’amore facciamo il fondamento incrollabile di ogni nostro passo. Allora potremo cadere, inciampare, sentirci paralizzati dagli eventi, non vedere chiaro l’orizzonte della storia, ma se rimarremo là dove Gesù dimora, potremo attraversare ogni deserto sapendo che Dio ci ama.
Ricordiamo papa Francesco. All’intervistatore che allo scoppio della pandemia, era il 2019, gli chiedeva come sarebbe stato il futuro dell’umanità, il papa rispose: “Non so come sarà, ma so che sarà un’umanità amata da Dio.”
Don Paolo Zamengo SDB
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susieporta · 1 year
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[ il vero amore ]
Incontrare il "vero amore" non è una certezza: esistono persone che trascorrono una intera esistenza senza conoscere il significato del sentimento autentico.
La possibilità di imbattersi nell’amore scaturisce sempre dal nostro stato d’animo, dalla predisposizione interna. La nostra disposizione interna, dunque, gode di un potere e di un privilegio enormi: farci incontrare l’amore, riconoscerlo, viverlo o, al contrario, lasciare che quel treno così importante passi senza sostare nella nostra vita.
Apparirà, ora evidente che quando non si è predisposti da un punto di vista emotivo e psicologico, è pressoché impossibile che un incontro si trasformi in amore: rimarrà un semplice e banale contatto, oppure, nella migliore delle ipotesi, darà luogo a una relazione passeggera.
Viceversa, quel che accade quando, essendo ricettivi al sentimento, si incrocia lo sguardo di una persona che riesce a colpirci sin dal primo istante, è un meraviglioso mistero che tutti noi dovremmo sperimentare almeno una volta nella vita.
La vera storia d’amore, in genere, è quella che soddisfa le nostre esigenze più autentiche e più intime e, proprio per questa ragione, non ci è dato di stabilire a priori le caratteristiche fondamentali che la dimensione amorosa dovrebbe possedere.
Anche se è possibile generalizzare dicendo che l’attrazione fisica, l’intesa sul piano sessuale e mentale, la complicità e la stima reciproca, siano caratteristiche fondamentali, la facoltà di riconoscere il vero amore è prerogativa della nostra anima.
Aldo Carotenuto, Il gioco delle passioni
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silviascorcella · 7 months
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PLV Milano: i bijoux con dentro messaggi da custodire
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Basta nominarlo, e ancor prima di indossarlo il cuore si scioglie in gioia. Suona come una ricetta per la felicità, ed in effetti nella sua sostanza più preziosa, ovvero il messaggio che custodisce nel cuore di metallo pregiato, lo è davvero. Invece è un bijoux: quello più iconico tra le collezioni, quello più rappresentativo di questa che è una storia bella di imprenditoria giovane, femminile e italiana, fatta con la giusta combinazione delle dosi di ingredienti complementari per dare concretezza efficace ad un progetto nato da un’illuminazione improvvisa e semplicissima: passione vera, intuito saggio, genuinità costruttiva, competenze lungimiranti, generosità accogliente.
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Ogni dose ben precisa, soprattutto quella che riguarda l’ingrediente dell’amore, il motore dell’abilità di trasformare i sogni in realtà: di amore, nel fare e vivere le cose, ne son necessari almeno 10 grammi al giorno. Gli indizi sparpagliati in quest’introduzione dovrebbero aver già guidato l’intuito verso la soluzione: questa infatti è la storia di PLV Milano, il brand che innanzitutto è le due giovani donne, le cugine Laura e Veronica, che lo hanno fondato e che oggi continuano a condurlo sulla strada del successo conquistato.
E che è la sua creazione più celebrata: i “10 grammi d’amore”, assieme a tutte le persone che dal primo giorno in cui avvenne la folgorazione creativa, continuano ad innamorarsi delle collezioni e a lasciarsi ispirare dalle storie che ci sono allacciate dentro.
Un brand che è l’acronimo di tutto ciò che racchiude: “in realtà è nato per caso, urgeva darci un nome, ci piaceva l’idea che all’interno ci fossero le nostre iniziai, L e V, poi un’amica ci suggerì la parola Pulse intesa come forte passione e ci è piaciuto, per racchiudere la nostra passione per il bello e il mondo della moda e dei bijoux. Milano è per ringraziare la città in cui siamo nate e che ogni giorno ci mette di fronte a sfide ed opportunità nuove”. 
Anche i bijoux nascono in modo inaspettato, come tutte le cose semplici che hanno il guizzo dell’intuizione brillante: “PLV Milano è nato nel 2012 con l’aiuto un ingrediente fondamentale, la fortuna. Laura era in maternità e io lavoravo da poco, ma per quanto mi appassionasse mi sentivo oppressa dall’entrare in ufficio la mattina ed uscirne la sera, sentivo il bisogno di fare qualcosa di manuale e creativo, cosa che mi ha sempre accompagnata. Mi iscrissi ad un corso serale di sartoria alla Naba, dove ho imparato a creare cartamodelli, tagliare tessuti e cucire, tra cui una gonna a ruota per l’esame finale: ricordo che corsi in merceria ad acquistare del gros grain ricamato per il cinturino e lì mi innamorai di alcune “code di topo” (dei cordini in seta) e di una catena di cristalli luminosissima. Feci così il primo bracciale, che ho ancora, base arancio e filo in cotone viola, la sera lo indossai e uscii con delle amiche: spopolò, si sparse la voce fino ad ottenere talmente tanti ordini da chiamare Laura e chiederle se le andava di aiutarmi a far crescere questa piccola idea. Da lì è stato un susseguirsi di casualità bellissime e fortunate, in breve tre negozi ci contattarono per avere i nostri bracciali, aprimmo la partita iva per far diventare più concreto il nostro sogno, e poi la magia vera: Chiara Ferragni ci indossò in vari scatti tra Milano e Barcellona, e da lì fu il boom!”.
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La nascita del pesetto pieno d’amore è altrettanto spontanea: “per dare più concretezza al nostro progetto decisi di fare il corso di oreficeria professionale alla Scuola Orafa Ambrosiana, sempre a Milano. Stava arrivando il periodo natalizio e io dovevo portare dei pezzi in cera a fondere in argento: la forma del pesino della bilancia da orafo mi aveva sempre colpita, lo trovavo molto buffo, e decisi di fonderlo in bronzo. Trovai la frangia di una borsa che si era staccata e la accostai al pesino, mi piacque un sacco. Chiamai Laura per parlargliene dopo averle mandato la foto via messaggio: non fu convintissima dell’accostamento ma le venne la geniale idea di chiamarlo “10 grammi d’amore” e che dovevamo unirci una storia, qualcosa che desse un significato a quella forma. Io le suggerii l’idea del bugiardino e  lei durante la notte ‘partorì’ le frasi -cioè la ricetta con le indicazioni terapeutiche e il dosaggio amorevole- del nostro cartoncino. Fu un successo!”
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E lo è ancora un grande successo, quel pesetto protagonista di collane, bracciali e orecchini, accompagnato da piccole frange soffici che son tocchi di allegria colorata, infilato in una provetta da laboratorio farmaceutico a ricordare la storia vera di Veronica, laureata in farmacia e che negli anni si è occupata di sperimentazione in una grande multinazionale prima di scoprire che il suo destino, insieme a Laura, laureata in economia e con una grande esperienza nel trade marketing di multinazionali, fosse quello di creare bijoux che raccontano storie e diffondono messaggi di positività gentile.
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Et voilà la formula segreta di PLV Milano: ogni creazione è completamente made in Italy, come l’artigianato autentico insegna, ed ogni collezione custodisce storie ed immagini dedicate ad inebriare d’ispirazione chi le sceglie. Come “Io So Volare”, il motto inciso sulla medaglietta che accompagna il ciondolo a forma di aeroplanino di carta e la frangina in cotone thailandese, a decorare collane e bracciali in argento 925 bagnato in oro rosa o bronzo rosa, che raccomanda di non dimenticare mai che “solo chi sogna può volare”; e per suggellare ulteriormente l’appello c’è anche la collezione “Sogno”, dove appesa ad una catena sottile brilla una stella che si appaia ad un ciondolo unico creato con i vetrini di mare sabbiati e una piastrina anch’essa cosparsa di stelline, quelle da impugnare per disegnarci sopra i propri sogni e farli brillare. Grazie PLV Milano della vostra generosità preziosa!
Silvia Scorcella
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lisia81 · 1 year
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Lighter & Princess
"Ho il mio re.
Sono il suo fedele suddito.
Per lui, sono disposto a mantenere la mia posizione, sventolando la mia bandiera e urlando a squarciagola.
Per lui, sono disposto a combattere sul campo di battaglia, combattendo instancabilmente finché la Morte non mi reclamerà".
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7 mesi che è finito questo drama, e ho ancora da trovare qualcosa che ci si avvicini anche lontanamente. Sicuramente è il miglior drama moderno messo sul mercato dalla Cina.
Ho fatto una full immersion, tutti i drama tratti da Hana yori dango, mi sono guardata drami agresti, di complotto, legali, storici, wuxia, d'amore, giapponesi, koreani, cinesi e thailandesi.
Nulla da fare. Per cui provo a liberarmi, scrivendo. Anche se so che sarà difficile e che potrebbe essere lungo come la mia tesi di laurea.
Cosa rende Lighter & Princess unico?
Partiamo dalla storia. La trama ripercorre abbastanza fedelmente due novelle di Twentine.
Si, sono andata a cercarmele e me le sono pure lette con il mio fluentissimo inglese.
Se si considerano meramente i fatti, gli sceneggiatori hanno solo tagliato gli ultimi capitoli e modificato alcune cosucce su personaggi secondari.
La differenza sostanziale è la linea temporale. Le novelle partono dal 2012, ovvero dall’inizio del periodo universitario dei nostri lead. Il drama inizia nel 2019 con Zhu Yun, la nostra protagonista, che è su un volo diretto a Shangai e rivive in sogno attimi confusi con il nostro protagonista Li Xun. Un Li Xun che negli stessi momenti sta uscendo dal carcere. Vite che negli ultimi 3 anni si sono separate e hanno sofferto e sono state ferite e tradite. Vite che per un incontro, tutt’altro che fortuito (vd.Ren Din) si incontrano di nuovo. La situazione non è chiara allo spettatore che si imbatte subito nella forte tensione emotiva e ricca di pathos tra i protagonisti. E nel carattere degli stessi. Si capisce benissimo che Zhu Yun è ancora sotto un treno per Li Xun, si capisce benissimo che Li Xun è ancora sotto un treno per Zhu Yun, si percepiscono a vicenda come uno fosse il settimo senso dell’altro, ma allo stesso tempo si respingono. O meglio Li Xun respinge Zhu Yun al di fuori della sua vita. Ha in mente qualcosa, che però non sappiamo. Dice solo che vuole recuperare la sua dignità.
Ci viene presentato anche Lao Gao, uno dei 3 cattivi della nostra storia. Quello però più complesso, e per assurdo più giustificabile. Con questa situazione, la storia ritorna a 7 anni prima, al primo giorno di università per poi continuare fino alla conclusione, il periodo al pre covid.
Il periodo scolastico occupa buona parte dei 36 puntate e specialmente la prima parte, dopo una partenza roboante, può sembrare lenta. Però far conoscere bene Li Xian, Zu Yun, Lao Gao, Ren Din, Fan Shumiao e gli altri personaggi che fanno parte della storia. Sopratutto ci deve far conoscere e capire il personaggio di Lixian, la sua complessità, come si rapporta con gli altri del suo circolo e come si rapporta con Zhu Yhun. E ci presenta Zhu Yhun stessa che grazie a Li Xun riesce a prendere coscienza di se, del suo carattere e capire di non essere solo una figlia ma una persona e donna pensante. E’ in queste puntate, tra battibecchi, pungolate,scontri, prese in giro che nascono le basi per tutta la storia, l’amore, l’amicizia, i giuramenti e i patti. Alcuni che dureranno per sempre, altri che verranno annientati.
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Perché Lighter & Princess non è solo una storia d’amore. C’è il sogno di riuscire a cambiare in meglio il mondo, c’è la voglia di vivere, emergere e realizzarsi, riscattarsi, nonostante la vita ti presenti ostacoli di ogni natura. Perché a parte Zhu Yun, che non per niente Li Xun soprannomina principessa, Li Xun sa cosa è il male. Ci si è scontrato fin da bambino, ne è sopravvisuto e continuerà a affrontarlo, con metodi più o meno ortodossi.
C’è da dire che rispetto alla novella, hanno dato una bella ripulita al personaggio di Li Xun. D'altronde lui è il nostro re, e un re che fuma, passa da una donna all'altra, volgare e, seppur bello, sembra uscito dalle peggiori periferie di Caracas, non avrebbe funzionato.
Stronzo si ma di classe.
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Li Xun è bello come un modello, algido come un cubetto di ghiaccio, pallido come un vampiro. Ha dei capelli biondo platino che lo distinguono da tutti. Sembrano un ‘eccentricità, un volersene fregare di tutti, in realtà quel biondo come i campi di grano è in memoria della madre. Mangia poco e dorme ancora meno. Ha sempre un notebook in mano su cui continua a digitare. Tratta tutti come se non esistessero e li tiene alla larga. Non gli interessa avere amicizie o confronti con gli altri. E’ un genio della programmazione, sa di esserlo e piega gli altri, forte del suo fascino, a fare ciò che vuole. Indistintamente. Che sia una ragazza, un compagno di classe, un professore, un industriale cadono ai suoi piedi ( ad essere onesti un eccezione alla regola c’è. La madre di Zhu Yun, ma quello è un argomento che toccherò più avanti).
Ma ha un punto debole. Le persone a cui tiene. Ha la sua maschera e la sa indossare bene. E gli unici che lo sanno, sono l’amico di gioventù Fu Yi Zhuo e Ren Din. Non parla mai di se, della famiglia, della sorella a cui è legato teneramente. Zhu Yun è l’unica che riesce a crepare questa facciata, l’unica con cui emerge la vera personalità, anche giocosa di Li Xun.
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Come disse una volta Fan Shumiao: “Li Xun è come un antivirus e noi siamo i worm che sistematicamente vengono eliminati. Ma tu sei il suo bug.” Ma Zhu Yun è anche vittima di come è stata cresciuta e delle sue insicurezze, della sua visione cristallina del mondo. Al momento opportuno il nostro lead la allontana perché spera non soffra e non possano toccarla. E lei lo lascia fare, vivendo per 3 anni nel dolore di aver spezzato un giuramento. Solo raggiunta la maturità riesce a far uscire il suo coraggio completamente ed imporre con fermezza il suo carattere.
Chen Fejiu ha fatto uno splendido lavoro nell’interpretazione di Li Xun. Non credo avrebbero potuto trovare qualcuno che si calasse meglio nel ruolo. Li Xun è lui, ed è lui che regge tutto il dramma. O almeno alla prima visione è quello emerge. Se non fosse stato per lo scandalo che l’ha colpito a metà febbraio, credo avrebbe sbaragliato agli ultimi Weibo Night. Che poi solo in Cina certe cose possono essere considerate scandali che ti costringono a nasconderti.
Invece ad essere premiata come astro nascente è stata Zhang Ji Jing, che ha fatto un ottimo lavoro come Zhu Yun. Come in Fall in Love, il ruolo della ragazza pura, piena di ideali ma determinata a lottare fino alla fine delle sue forze in ciò che crede, le si addice molto. Ma sinceramente, come altri personaggi, l’ho apprezzata alla seconda visione.
La chimica tra i due è unica. Non mi ricordo se in un intervista o in un fuori onda Zhang ji Jing ha chiesto al regista perché deve fissare Fejiu così a lungo. Ragazza mia, spero che quando hai rivisto il dramma lo hai capito. Sono proprio in quelle scene, in cui vi fissate anche per 20-30 secondi che trasmette tutto allo spettatore.
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Come detto in precedenza, la storia è divisa in 2 blocchi temporali. Se si guarda però il rapporto tra i due lead e come è stato costruito lo schema è similare e il tema della conquista, seppur più sottile è presente. I caratteri si sono evoluti, più forte Zhu Yun, ancora più spigoloso Li Xun, ma il tipo di interazione è sempre lo stesso. E per conquista intendo non solo amorosa, ma della fiducia del non affrontare tutto da solo ma contare sull’altro.
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Alla fine Li Xun dirà a Zhu Yun: “Una volta mi piaceva una ragazza, ho fatto in modo che mi corteggiasse, ora sono vecchio e non ho le energie per ripetere tutto ciò. Facciamo pace?”Come a dire, alla fine siamo sempre noi due, gli stessi di prima, che con uno sguardo si capiscono.
I personaggi secondari, hanno poi tutti una loro storia, un perché, e il gioco degli incastri non ha mai un qualcosa che ti lascia dei dubbi.
Menzione particolare tra i personaggi di supporto la merita Lao Gao che può essere considerato il terzo personaggio principale. Un bravo ragazzo, che ha sempre eccelso a scuola e, arrivato all’università, si trova di fronte qualcuno di livello irraggiungibile e che lo vuole vicino. Cerca il suo modo di emergere, pur sapendo a priori che non potrà mai essere una stella, che le sue idee per quanto brillanti non saranno mai le migliori. Ne è cosciente e pur a volte con rabbia, lo accetta. Fino a che si innamora, di una ragazza, che però è anche lei accecata dalla stella che brilla. E cerca di scappare, senza riuscirci. E questo lo trasforma in un villain. Ma la sua cattiveria deriva dalla frustrazione più che dalla malvagità in se. L’errore più grande è di Li Xun: pur considerandolo un amico, lo da per scontato e non capisce le delusioni del ragazzo. La citazione ad inizio dello scritto non è messa li per caso. Mentre Zhu Yun, è pronta ad affrontare tutto per Li Xun (lo stesso vale per Li Xun nei suoi confronti), Lao Gao giustamente vorrebbe un rapporto equo, che non c’è. Anche lui spesso è attaccato dall’antivirus Li Xun. E da qui nasce il senso di rivalsa e il tradimento conseguente.
Malvagità che invece è per incarnazione la mamma di Zhu Yun.
Avete presenta la mamma di Dao ming Si? Villain cattiva all’inverosimile, vuole imporsi ad ogni costo su tutti, li manipola, ma alla fine si redime. La signora Zhu, è a sua incarnazione, solo che va diritta per la sua strada fino alla fine e anche oltre convinta della giustezza delle sue azioni. E parliamo di una persona che ha un ruolo di educatrice. Posso dire: per fortuna Zhu Yun ha un papà.
A proposito di educazione. In questa serie viene messo ben in risalto il rapporto studente docente. Ma mentre ci sono professori di qualità che si impegnano ad aiutare gli studenti, emerge anche quella parte meno piacevole, che tanti laureati e dottorandi subiscono quotidianamente. Il lavoro “gratuito” per il tuo professore. In questa serie vi è pure lo sfruttamento lavorativo, tramite la cooperazione università/impresa. Studenti a cui non è permesso di laurearsi, progetti che vengono rubati, accordi sottobanco, retribuzioni inesistenti. I nostri lead e i loro amici ci finiscono nel mezzo. E come viene risolto il tutto? Con giustizia? No, tramite le conoscenze di Zhu Yun.
Mi ha fatto strano che la censura cinese abbia lasciato passare più volte questo messaggio.
Perché il tema della punizione/redenzione è abbastanza marcato in tutta la serie. La stessa mamma di Zhu Yun più volte lo nomina. Per poi non applicarlo con Li Xun.
Tornando agli intepreti, fra i support come non citare Ren Din. E’ uno dei personaggi positivi. Amica i entrambi i nostri lead in vari modi li aiuta a trovarsi e a riflettere. Sembra che riesca a capire i due meglio di quanto lei riesca a capisca se stessa. Ha il suo sogno, ci lotta, e ce la fa, nonostante le varie difficoltà.
Ren Din, leader di un complesso musicale, mi permette di introdurre il tema OST di Lighter e Princess. Diciamo che la produzione non ha badato a spese. Le canzoni sono 14-15, belle, azzeccate e piazzate come sottofondo sempre al momento giusto.
Poi che vi devo dire..io ho una passione per Chen Xueran. Mi trovo a vedere drama e riconoscere la voce o capire che una canzone l’ha composta lui. Credo di non averne trovato ancora una che non mi piaccia. E considerando la sua eccletticità nella composizione anche al di fuori dei drama, è un fatto che io stessa considero insolito. Ora in Lighter e princess su 14 canzoni 6 sono cantate o scritte da lui, capitemi bene come possano piacermi le OST.
Ci sarebbe da parlare del secondo villain, Fang Zhi jing. Ma quest’immagine penso basti a descriverlo.
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Per quanto riguarda gli altri comprimari, meriterebbero tanti una menzione. Dal pittore Thian,a Fang Shumiao, da Xu Lina, al boss di Li Xun e Zhu Yun. Ma come già detto in precedenza, per quanto ben carattterizzati e con una loro storia precisa, servono solo ad incastrare i pezzi della trama principale.
Sicuramente in futuro mi verrà in mente altro ed aggiornerò il post, anche perché il rewatch è dietro l’angolo. Posso solo aggiungere, a fine serie andate anche a vedervi le scene tagliate, sopratutto del finale. Sono belle e significative. Della serie una puntata 37 ci sarebbe stata tutta.
Ma non sarebbe una produzione cinese, se non fosse qagliato qualcosa di utile!
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lamilanomagazine · 7 months
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“C’è ancora domani” (2023) di Paola Cortellesi - Recensione
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“C’è ancora domani” (2023): questo film è una gioia per gli occhi. Ci sono tanti motivi per cui andare al cinema. Alcune volte è la voglia di vivere una storia d’amore, altre è la ricerca di evasione dai fatti della vita di tutti i giorni, altre ancora il semplice motivo di stare dietro alla serialità dei blockbuster americani. Un ragione per andarci, al cinema, è anche vedere qualcosa di bello, realizzato con cura, e fortemente voluto nei dettagli, quelli che fanno la differenza. Un’ottima occasione per uscire di casa, pagare un biglietto e rimanere al buio per due ore con degli sconosciuti è “C’è ancora domani”, di Paola Cortellesi. C’è ancora domani L’esordio da regista di Cortellesi, comica di lungo corso della televisione italiana, non è una commedia brillante, e non è nemmeno un film comico portato avanti dai personaggi e dai loro tormentoni. Piuttosto si tratta di un film attuale, anche se racconta una storia d'altri tempi, ed è anche, a sorpresa, un successo di botteghino. Il film ha innumerevoli pregi. “C’è ancora domani" mette in scena una storia con intelligenza, usando la vita di Delia - interpretata dalla stessa Cortellesi -, per raccontare una vicenda molto più ampia. Lo spettatore è portato tra le vie della Roma del 1946, con ancora i soldati americani a vigilare gli incroci, nella quotidianità di una borgata, e quando pensa di essere arrivato a destinazione, scopre di essere fuori strada, alla prima tappa di un percorso più lungo ed eminente. Più di tutto, questo è un film di donne. Sono tanti i personaggi femminili che di distinguono dalla sfondo, tra cui la volitiva figlia Marcella e la dolce amica Marisa, portate in scena da Romana Maggiora Vergano e da Emanuela Fanelli. Uomini e donne La protagonista è una donna come tante, come tantissime nel dopoguerra. Delia ha una vita fuori casa, lavora e incontra amiche e conoscenti, va a fare la spesa e sorride. E poi ha un'altra vita dentro casa, dove l'ombra scura del marito la trattiene, dove ci sono segreti, dove le peggiori verità sono taciute e le migliori costrette al silenzio. Cortellesi dimostra talento dietro la macchina da presa, trovando soluzioni nuove per problemi vecchi, come quello di un marito che picchia la moglie.  Girare una scena del genere lo si può fare in molti modi, ma la neo-regista ne trova uno tutto suo. Se la paura di lei e dei figli si può percepire nei silenzi, la violenza portata in scena in una maniera non banale, anche grazie all’aiuto di un altro senso oltre alla vista. Il marito, impersonificato da Valerio Mastrandrea, è un uomo come alcuni del dopoguerra: tetro, spento, segnato dalla vita. Un personaggio difficile, interpretato con grande mestiere, spoglio da manierismi, appare come un automa, e forse lo è. Una gioia per gli occhi Oltre a tutto questo,  “C’è ancora domani” è una gioia per gli occhi. Quando il film inizia, il passaggio dal mondo di fuori, a colori, e quello proiettato sullo schermo, che ne è privo, è tutto tranne che traumatico. Le luci tenue accolgono lo spettatore, che si sente a casa, in un posto familiare. Il film è realizzato in scala di grigi - un omaggio dichiarato al neorealismo italiano - e questa scelta è dettata dalla necessità di raccontare un’Italia in bianco e nero, quella del dopoguerra, così come è stata codificata dai grandi registi della nostra tradizione. Tradizione italiana Per tanti, sia per chi li ha vissuti sia chi li ha visti raccontati, in quegli anni non ci sono colori. I ricordi si sono sbiaditi, desaturati in una memoria storica che si è forgiata tramite le opere di , Antonioni, Rossellini, De Sica, Visconti e Fellini. Anche nella conclusione, dove ancora la regista Cortellesi si dimostra ispirata, c'è una scena tra madre e figlia, che potrebbe essere un omaggio al finale di un grande film, ed è anche un modo di concludere una pellicola di alto livello. La tradizione di un certo cinema italiano ha fatto in modo che la finzione abbia inciso la realtà che, filtrata tramite immagini che sono state viste un mare di volte, sia restituita tramite fiabe in bianco e nero. L'immagine, protagonista del cinema Spesso ci si dimentica della peculiarità del cinema, la sua dimensione specifica, che la distingue dagli altri media: l’immagine. Certo, adesso i film sono quasi raggiunti per qualità visiva dai prodotti da tv o streaming, che però offrono contenuti annacquati, stirati e allungati puntando sul creare un senso di familiarità, quello che alla fine convince lo spettatore a rimanere davanti allo schermo. Ma questi riuscirebbero a portare le persone nelle sale? Non penso. Per realizzare una grande opera di narrazione, la qualità della scrittura è un requisito fondamentale. Vale per un libro, vale per un film. Ciò che rende unico un prodotto audiovisivo, è ciò che può essere visto. E questo bel bianco e nero di “C’è ancora domani”, bisogna proprio dirlo, vale il prezzo del biglietto.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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madonnacelestiale · 9 months
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MADONNA CELESTIALE
Madonna Celestiale è un progetto artistico che nasce nella primavera 2013 da un’idea di Flavio Scutti elaborata in collaborazione con Paola Stasi.
Viene presentato per la prima volta in un articolo pubblicato sul blog PILL TAPES con foto dedicate alla Madonna nel mese di maggio, insieme ad una mixtape incentrata sulla musica spirituale (contaminata da sonorità che abbracciano diversi generi e culture, dal pop all’elettronica). Il tutto è scaturito dall’idea di diffondere un messaggio d’amore e di speranza, nell’intento di sensibilizzare il pubblico verso una maggiore cura e valorizzazione del patrimonio culturale artistico rappresentato dall’iconografia sacra.
Non vuole essere alcuna vetrina d’esaltazione cristiana, ma intende mostrare al pubblico (turista, curioso o appassionato che sia) l’arte di cui è piena la nostra storia e le nostre città, in chiave festosa e d’intrattenimento, con la passione per l’iconografia, l’amore per il sacro e la natura. Abbiamo scelto la Madonna perché rappresenta la figura della maternità che nella sua forma di icona partendo dalla Grande Madre si ritrova in quasi tutte le culture, dalla Dea Iside degli Egizi, alla Leucotea Ellenica, alla Mater Matuta Italica, ecc…
Le Scritture, la liturgia, le preghiere litaniche, le arti figurative e plastiche raccolgono un’enciclopedia di figure relative alla simbologia marianica in grado di oltrepassare il senso comune di religiosità per addentrarci in un orizzonte più stratificato di sedimentazione culturale, fatto di medesime radici – persino etimologiche (culto-cultura) – intrecciate alle peculiarità dell’umano “vivere nel mondo”. Possiamo facilmente tradurre questo insieme di radici intrecciate nel termine “simbolo”.
Il senso letterale di «simbolo» è di «messo insieme» e lo deriva dal greco «sumballein» (gettare insieme). Gli uomini, secondo Platone (Convito 189-93), si amano perché, all’origine, sono stati tagliati in due dalle divinità gelose e, da allora, ognuno va alla ricerca della propria metà smarrita; facilmente sentiamo in noi la necessità di comporre divisioni interne; i primi cristiani hanno sentito il bisogno di raccogliere in un Simbolo, detto degli Apostoli, la somma delle verità da professare e l’esigenza di unire la terra e il cielo.
Questa attività di ricomposizione appare indispensabile. Luca (2,19) si avvale del medesimo termine per significare che «Maria custodiva tutte queste parole collegandole insieme in cuor suo». Non solo indispensabile ma anche assolutamente decisivo appare il termine «Diavolo» (dal greco «diaballein») dice proprio il suo contrario: dividere. Il simbolo ricollega il diviso, il diavolo persegue la divisione dell’unito.
In questo caso il simbolo:
• suscita tensione invece di annullarla
• crea una spinta in avanti, proponendo aperture progettuali
• si protende verso un equilibrio che rimane costantemente al di la di esso
• si fa metapoietico, cioè trasformatore, unificando tutto il mondo in un atto di ri-creazione e di pienezza, nella ricerca di un’inarrestabile e mai raggiunta partecipazione al tutto.
È «fare anima», dice James Hillman, l’unica condizione indispensabile perché una parola richiami altre parole, un’immagine evochi altre immagini, un singolo oggetto si faccia manifestazione del tutto. Chi fa questa esperienza vive la mobile staticità della vita spirituale, il movimento nell’unicità.
Contemplare Maria significa vedere in Lei, sempre eguale a se stessa, le varianti di ogni epiteto che le si attribuisce. Solo chi spazia nell’infinito universo semiotico, può accostarsi alla conoscenza simbolica di Maria (e di qualsiasi altra entità). Maria può non solo contenere simboli, ma essere essa stessa un simbolo. Come tale, escludendole il suo ruolo sovrannaturale, si fa educatrice anche attraverso ciò che essa rappresenta: nel rapporto con la Madonna, l’uomo può integrare in sé il femminile e maturare la sua individuazione, mentre alla donna può accadere di identificarsi nella sua portata materna, generatrice, ma soprattutto nella sua matrice affatto passiva di accettazione dall’Alto di un feto (o compito, o punizione, a seconda delle circostanze) autogeneratosi di cui lei è soltanto la sacca momentanea verso il passaggio alla terra, ma di attrice attiva nella nascita del Bene.
Infatti, a seconda delle radici semitiche alle quali i filologi la fanno risalire - già nel XV-XIV sec. a.C. è documentata su una tavoletta di Ugarit la radice mrym - Maria potrebbe significare «ribelle», l’«amara», la «forte», «colei che si innalza» o che «è innalzata», oppure ancora «profetessa» o «Signora».
Dall’egiziano mrit deriverebbe il significato di «amata» (sembra il più celebrato); dall’ebraico Miryam o marah, quello di «mare amaro», «amarezza», «dolore»; dal siriaco mâr, «signora», «padrona»; dall’egiziano ed ebraico or, «essere luminoso», «stella del mare». Sant’Eusebio professa: “Maria è detta «Stella del mare» perché innumerevoli stelle ha il cielo, il mare una sola e questa è la più luminosa di tutte”.
Dello stesso avviso San Gerolamo, il quale deriva dall’ebraico mar yam («goccia di mare»), il latino Stilla maris, da cui poi il poetico Stella maris, «stella del mare» (stella polare).
Intorno al nome di Maria, è opportuno inoltre citare l’abate Giovanni Caramuele, un Vescovo poliglotta morto a Vigevano nel 1682, nato a Madrid 76 anni prima, autore fra l’altro di un Maria Liber (Praga 1652) in cui viene registrato il «Discorso sul dolcissimo Nome di Maria per anagrammi», in cui riporta le differenti e possibili manipolazioni del nome «Maria». Potrebbe sembrare fanatismo retorico, in realtà è manifestazione di entusiasmo interiore (energia inconscia) che si accontenta di un minimo segno per vedere in esso, tramite assonanze, dissonanze, vicinanze, comunanze l’occasione di liberare tutta la tensione interna centrata sulla cosa o persona amata. Come il fuoco, coinvolge tutto ciò che incontra. Del resto, nell’Antico Testamento, simili procedimenti sono ben documentati.
In conclusione, Madonna Celestiale non è una messa in scena della grandezza e bellezza di Maria, in un ordine puramente spirituale. È piuttosto una specie di operazione archeologica, documentata attraverso foto che ritraggono la Madonna da ogni parte d’Italia e del mondo, tendente a evocare il passaggio simbolico - incarnato in Maria – tra l’anima e la necessità di un suo referente terreno, immobilizzato in un angolo, sulla facciata di un palazzo, in una nicchia, in un’immagine iconica. Questo passaggio trascina con sé il legame umano con la bellezza e all’assoluto, seppure declinato talvolta in termini barocchi, altri austeri o riformatori, altri ancora allegorici, documentando una necessità atavica della specie che va scomparendo in terra, quella della traccia, per essere assimilata in una quinta dimensione, uno spazio dell’immaginario diventato realtà: l’universo digitale.
Laura Migliano
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