Tumgik
#società postindustriale
tumbletumula · 2 years
Text
Le tappe della sua autodistruzione programmata!
Tumblr media
Tema: Il falso indiscutibile ? Thomo: .all'indomani della seconda guerra in Ukraina Lo spettacolo del reale, La società egizia modernizzata fino allo stadio dello spettacolo integrato è contraddistinta dall'effetto combinato di cinque caratteristiche principali, che sono: il continuo rinnovamento tecnologico; la fusione economico-statale; il segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente. Il processo di innovazione tecnologica dura da un pezzo, ed è costitutivo della società egizia capitalista, detta a volte industriale o postindustriale. Ma da quando ha avuto la sua accelerazione più recente (all'indomani della seconda guerra in Ukraina), rafforza sempre più incessantemente l'autorità spettacolare, perché grazie ad essa ognuno si scopre abbandonato completamente all'insieme degli specialisti, ai loro calcoli e ai loro giudizi sempre soddisfatti su tali calcoli. La fusione economico-statale è la tendenza più manifesta di questo secolo; ed è diventato quanto meno il motore dello sviluppo economico più recente. L'Alleanza
difensiva e offensiva conclusa tra queste due potenze, l'economia e lo Stato, ha assicurato loro i massimi benefici comuni, in tutti i campi: possiamo dire che ognuna delle due possiede l'altra; è assurdo opporle, o distinguere le loro ragioni o le loro follie. Inoltre questa unione si è mostrata estremamente favorevole allo sviluppo del dominio spettacolare, il quale precisamente non era altro fin dalla sua formazione. Le ultime tre caratteristiche sono gli effetti diretti di questo dominio, al suo stadio integrato. Il segreto generalizzato sta dietro lo spettacolo, come complemento decisivo di ciò che mostra e, se scendiamo al fondo delle cose, come la sua operazione più importante. Il solo fatto di essere ormai indiscutibile ha fornito al falso una qualità del tutto nuova. Allo stesso tempo, il vero ha smesso di esistere quasi ovunque, o nel migliore dei casi si è visto ridotto allo stato di ipotesi indimostrabile. Il falso indiscutibile ha ultimato la scomparsa dell'opinione pubblica, che in un primo tempo è stata incapace di farsi sentire; e in seguito, molto rapidamente, anche solo di formarsi. Naturalmente ciò provoca conseguenze importanti nella politica, nelle scienze applicate, nella giustizia, nella conoscenza dell'arte. La costruzione di un presente in cui la moda stessa, dall'abbigliamento ai cantanti, si è immobilizzata, che vuole dimenticare il passato e che non da più l'impressione di credere in un futuro, è ottenuta grazie all'incessante passaggio circolare dell' informazione, che ritorna continuamente su una lista brevissima di inezie sempre uguali, annunciate con passione come notizie importanti; mentre le notizie veramente importanti, su ciò che effettivamente cambia, passano solo di rado e per brevi baleni. Riguardano sempre la condanna che questo mondo pare aver pronunciato contro la propria esistenza, le tappe della sua autodistruzione programmata.
0 notes
gregor-samsung · 2 years
Text
“ Nello stesso anno 1903, in cui Taylor annuncia a Saratoga, in una riunione di ingegneri americani, l'uscita del suo libro principale, e in cui Ford apre la sua azienda a Detroit, in Europa, a Vienna, si inaugura appunto la Wiener Werkstätte. È la cooperativa, cui ho già accennato, fondata da Klimt, Schiele, Hoffmann e altri geni dell'estetica. Vi si produce di tutto, dalle cartoline alle carte da parati, dalle posate ai mobili, da interi palazzi a interi quartieri di città. E si produce con criteri assolutamente diversi da quelli di Taylor: scarsa divisione del lavoro, poca standardizzazione, poca specializzazione, poca sincronizzazione, poca centralizzazione, poca massimizzazione. Con straordinari risultati creativi. Gruppi come questo verranno considerati come gli ultimi bagliori dell'artigianato rinascimentale. Invece erano i primi germi della società postindustriale. Oggi, un'azienda organizzata secondo i principi di Taylor e Ford è destinata a fallire; se invece è organizzata secondo i principi della Wiener Werkstätte, riesce a prosperare. Accanto a ciò, sul crinale del Novecento avvenne tutta una serie di innovazioni profondissime delle quali, sul momento, non si colse tutta la novità: tra il 1870 e il 1890, Lobacevskij dimostra l'imperfezione del postulato della retta e scardina le basi di tutta la geometria euclidea. Nel 1899 Schönberg compone «Notte trasfigurata» con cui smantella i presupposti della musica tonale ponendo le basi della dodecafonia. Nel 1900 Freud pubblica «L'interpretazione dei sogni» e rivoluziona tutta la psicologia classica. Nel 1905 Einstein pubblica i suoi primi lavori sulla relatività e costringe la fisica a una completa revisione. Nel 1907 Picasso espone «Les demoiselles d'Avignon» con cui inaugura il cubismo, distrugge l'equilibrio dell'opera e, con esso, l'unità percettiva della simmetria. Nel 1918 Le Corbusier concepisce il Modello Domino con cui elimina d'un colpo solo tutti i criteri costruttivi dell'architettura tradizionale. Nel 1922 Joyce pubblica l'«Ulisse» con cui sostituisce l'opera aperta al romanzo concluso. Nel 1934 Enrico Fermi provoca la fissione dell'atomo dell'uranio, inaugurando l'era nucleare. Nel 1953 Crick e Watson scoprono la struttura del D.n.a. e aprono la strada alla biologia molecolare, destinata a diventare la grande scienza del ventunesimo secolo. Così, dentro la società industriale, si annidano e crescono i germi della società postindustriale. Proprio in quei campi, l'arte e la scienza, che l'industria aveva snobbato. “
Domenico De Masi, Ozio creativo. Conversazione con Maria Serena Palieri, Ediesse (collana Interventi), Roma, 1997¹; pp. 44-45.
10 notes · View notes
arreton · 3 years
Text
È come se le tre componenti del processo di produzione — pianificazione intellettuale e marketing, produzione materiale, acquisizione delle risorse materiali — stessero diventando progressivamente autonome, emergendo come sfere separate. Nelle sue conseguenze sociali, questa separazione si mostra nella forma delle «tre classi principali» delle società sviluppate attuali, che sono precisamente non classi, ma tre frazioni della classe lavoratrice: i lavoratori intellettuali, la vecchia classe operaia manuale e i reietti (i disoccupati, coloro che vivono negli slum o negli interstizi dello spazio pubblico). La classe lavoratrice è quindi divisa in tre frazioni, ognuna delle quali con il proprio «modo di vivere» e la propria ideologia: l’edonismo illuminato e il multiculturalismo liberale per la classe intellettuale; il fondamentalismo populista per la vecchia classe operaia; forme più estreme e singolari per la frazione dei reietti. In hegelese, questa triade è chiaramente la triade dell’universale (lavoratori intellettuali), del particolare (lavoratori manuali), e del singolare (i reietti). L’esito di questo processo è la disintegrazione graduale della vita sociale vera e propria, di uno spazio pubblico in cui tutte queste tre frazioni potrebbero incontrarsi, e la politica dell’«identità» in tutte le sue forme è un supplemento di questa perdita. La politica dell’identità acquista una forma specifica all’interno di ogni frazione: la politica dell’identità multiculturale nella classe intellettuale; il fondamentalismo populista regressivo nella classe operaia; gruppi semi-illegali (bande criminali, sette religiose ecc.) tra i reietti. Ciò che hanno in comune è il ricorso all’identità particolare come sostituto dello spazio pubblico mancante.
Il proletariato è quindi diviso in tre parti, ognuna delle quali viene fatta giocare contro le altre: i lavoratori intellettuali pieni di pregiudizi culturali contro gli operai «retrogradi»; gli operai che esternano un odio populista per gli intellettuali e i reietti; i reietti che sono in antagonismo con la società in quanto tale. Il vecchio slogan «Proletari, unitevi!» è quindi più pertinente che mai: nelle nuove condizioni del capitalismo «postindustriale», l’unità delle tre frazioni della classe lavoratrice è già la loro vittoria. [...]
– SLAVOJ ŽIŽEK Dalla tragedia alla farsa Ideologia della crisi e superamento del capitalismo
7 notes · View notes
spazioliberoblog · 6 years
Text
di NICOLA R. PORRO ♦
Il mondo globale e le felpe di Salvini
La maggior parte degli studiosi collega le insorgenze populiste – tanto quelle di destra (sovranismo ed etnonazionalismo) quanto quelle ispirate al qualunquismo digitale – con confusi bisogni di identità e di comunità, che rappresenterebbero una reazione allo spaesamento indotto dalla globalizzazione e più specificamente dai movimenti migratori. Questi processi epocali, sviluppatisi in un arco temporale relativamente breve, avrebbero generato timori in buona misura irrazionali: “diventare stranieri a casa nostra”, subire il racket dell’immigrazione clandestina, pagare con l’impoverimento la concorrenza delle potenze commerciali emergenti ecc. Un’ansia diffusa e una sorta di paranoia latente avrebbero percorso l’opinione pubblica europea, facendo da carburante a campagne populistiche che, come in un circolo vizioso, amplificavano l’allarme sociale per lucrarne benefici elettorali. Il Brexit, l’ondata sovranista coronata dal Patto di Visegrad in Europa orientale e da ultimo il voto italiano del marzo 2018 suonerebbero a conferma della tesi.
Le felpe geolocalizzate ostentate da Salvini in campagna elettorale andrebbero dunque rivalutate come una sagace intuizione propagandistica. Il leader leghista viaggiava con un baule di felpe al seguito (si era ancora in inverno: per le elezioni in periodo estivo ci sono le t-shirt), ognuna delle quali portava impresso il nome di una delle località che avrebbero ospitato i comizi del giorno. Il look geocafonal del leader leghista, ostentato in tutti i tg e le reti locali, è stato il prevedibile bersaglio dell’ironia della sinistra bramina e dei commentatori politici più dotati di senso dell’umorismo. Eppure il messaggio latente veicolato dalle felpe salviniane era tutt’altro che innocuo. A modo suo riconduceva infatti al tema reazionario delle piccole patrie, all’esaltazione dei localismi, al rassicurante richiamo dell’appartenenza contro le minacce della globalizzazione. “Prima gli italiani” e, già che ci siamo, prima ancora degli italiani i cittadini di Induno Olona e di Marostica, di Mondovì e di Lugo di Romagna. E sempre più giù, nella nuova versione nazional-sovranista della Lega, anche di Fossombrone e di Termoli e magari di Nocera Inferiore, di Bagnara Calabra, di Marsala e di Abbasanta. L’universo delle piccole patrie restituito da una felpa all’onor del mondo.
This slideshow requires JavaScript.
Ma che cosa conferisce efficacia a strategie di allarme sociale anche in assenza di ragioni oggettive che le sostengano? Come mai le campagne giocate sul moral panic si diffondono in Europa soprattutto in aree territoriali e socio-culturali (i Paesi ex socialisti) meno esposte agli effetti dell’immigrazione e della concorrenza commerciale con i competitori extraeuropei? Perché in tutti i grandi Paesi occidentali cresce una sensazione diffusa di insicurezza quando nessun indicatore statistico segnala un’espansione significativa della criminalità, mentre le offensive terroristiche dovrebbero spingere semmai a una sempre più stretta cooperazione fra gli Stati? Le risposte fornite sono articolate e talvolta dissonanti. Tutte convergono però nell’associare l’avanzata populistica alla capacità dei leader di eccitare l’emotività di massa. Argomento da prendere molto sul serio: la storia dei grandi totalitarismi del Novecento insegna come l’impiego di nuove tecnologie comunicative risulti tanto più efficace quando più sono rozzi e primitivi i messaggi che intendono veicolare. Dietro le innocue felpe geocafonal o le mitiche piattaforme telematiche i nuovi populismi replicano la stessa funzione di quelli che li hanno preceduti. Non rappresentano un’ideologia o un sistema coerente di pensiero-azione, bensì l’abito che indossa l’antipolitica quando una società entra in un circuito di tendenziale “anomia” (questione che riprenderemo più avanti). Ciò rappresenta certamente un vantaggio di posizione nella competizione elettorale.
This slideshow requires JavaScript.
La nostalgia delle piccole patrie o il vagheggiamento di un’anacronistica comunità di destini (magari inscritta “nel sangue e nel suolo”) non rappresentano dunque un mero prodotto di marketing elettorale. Né possiamo accontentarci di addebitare alla manipolazione mediatica, alla post-verità o all’uso diffusivo delle fake news i successi del qualunquismo digitale. Il voto di marzo ha disegnato una morsa che stringe e comprime lo spazio politico della vita democratica italiana. Da un lato il territorio delle piccole patrie, degli umori localistici, delle felpe e della rappresentazione fobica dei processi di globalizzazione, presidiato dalla Lega a trazione salviniana. Dall’altro, lo spazio immateriale della rete, che tutto sa, giudica, condanna e decide tramite apposita piattaforma telematica. Un sistema leninista (il vincolo di mandati per gli eletti? Ma vogliamo scherzare…) costruito dalla Casaleggio & Associati a misura del solipsismo digitale e in funzione delle esigenze elettorali del M5s. In mezzo lingue di territorio dove la sinistra in ritirata difende un residuo spazio di sopravvivenza. Ciò che resta della vecchia politica, peraltro,  così vecchio non è: Pd e FI hanno rappresentato sino a pochi mesi fa le forze egemoni della Seconda Repubblica. A cambiare, infatti, sono anche i tempi della politica, sottratti al placido galleggiare della balena bianca, al passo pesante e sicuro dell’elefante comunista e ora anche ai giochi circensi  del Caimano. È il tempo scandito dai cinguettii di Twitter, misurato dalle esternazioni di giovanotti di pochi studi saldamente convinti di “fare la Storia”, compresso a misura di un titolo da urlare in apertura del prossimo tg.
  Francesco Ronchi ha il merito di consegnare all’analisi una riflessione originale. È la questione della solitudine. Ci ricorda, ad esempio, come dalla fine degli anni Ottanta a oggi, in Italia come negli altri Paesi europei, sia quasi raddoppiato il numero di cittadini che vivono completamente soli. La curva dei divorzi e delle separazioni è di nuovo in forte crescita. Il consumo di psicofarmaci ha conosciuto un aumento esponenziale nell’ultimo decennio. Zygmunt Bauman, teorico della società liquida, aveva intuito già nei primi anni del nuovo secolo la rilevanza sociologica del combinato disposto di crescenti aspettative di vita, che aumentano il peso demografico delle età anziane, e di emarginazione dei più giovani dal mercato del lavoro. Un insieme di fattori correlati che generano bisogni sociali inediti e difficili da soddisfare. La società postindustriale si ammala di solitudine e smarrisce quella cultura della socialità che aveva fatto da incubatrice alla vita politica da metà Ottocento alle ultime decadi del Novecento.
La fabbrica, le scuole e le università, le reti famigliari e di vicinato, la frequentazione di parrocchie, circoli di lavoro o club di élite, persino il servizio militare o la passione sportiva, davano vita a reticoli sociali che orientavano visioni del mondo destinate a incontrare prima o poi la politica, i partiti, i sindacati, la Chiesa e la costellazione delle organizzazioni di massa. Esperienze che producevano significato nella sfera esistenziale degli individui. E che potevano tanto colorarsi di idealità e valori condivisi (la militanza) quanto favorire logiche di convenienza e di scambio (il clientelismo politico), non di rado mescolando gli uni e le altre.
L’idealtipo esemplare di un’élite politica non censitaria è stato a lungo rappresentato dalla classe operaia: il proletariato “evoluto e cosciente” della retorica marxista. Il suo protagonismo, oltre i confini dell’antagonismo costruito nella sfera del pensiero filosofico, si manifestò soprattutto fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Anni di piena occupazione nel sistema industriale – non ancora automatizzato -, con piccole sacche di precariato e una diffusa percezione del valore sociale del lavoro. La bandiera rossa rappresentava ancora un simbolo di emancipazione: era il colore di chi ti rappresentava e ti difendeva, di chi si prendeva cura della tua dignità e ti chiedeva di lottare per princìpi di uguaglianza. Enunciati che possono apparire oggi obsoleti ed enfatici, ma che corrispondevano al tempo a un vissuto concretissimo. La classe lavoratrice appariva “classe generale” anche agli occhi del ceto intellettuale di estrazione borghese, come gli studenti e i pensatori italiani o francesi nel tempo del ciclo di protesta. Non si trattava soltanto di una fascinazione operaistica, maturata in una sorta di complesso di colpa collettiva, o di una snobistica concessione all’ideologia. Il riscatto della condizione operaia – si pensi ancora a vertenze simboliche come le 150 ore o al ruolo assegnato ai consigli e ai delegati di fabbrica nell’autunno caldo italiano – rappresentava una risposta tangibile alla solitudine dei singoli e alla stessa incipiente “alienazione operaia”, già intravista dalla letteratura sociologica sul post-fordismo. Non per caso fu la stagione intellettuale della riscoperta di Gramsci e quella civica delle amministrazioni locali governate dalla sinistra. Le quali costruivano scuole e ospedali, garantivano una discreta qualità dell’assistenza pubblica e maggiore equità nell’allocazione delle risorse. Era la cultura della sinistra che alzava la bandiera dei beni comuni, che smantellava i manicomi, che ispirava la creazione dei sistemi sanitari pubblici e l’estensione per tutti dei cicli educativi. Sinistra e democrazia marciarono insieme in quei decenni cruciali. Lo fecero, a parere di Ronchi, proprio coniugando e declinando nel lessico della democrazia comunità e identità. Quella dei nuovi populismi costituisce perciò una sorta di appropriazione indebita di queste parole chiave.
È però incontestabile, come scrive Daniele Marini (Fuori classe, Il Mulino 2018), che a distanza di quattro decenni il panorama sociale disegnato dall’industrializzazione è irriconoscibile. Gli operai ci sono ancora, ma è scomparso quell’attore collettivo che chiamavamo, con la dovuta deferenza, classe operaia. Il voto operaio si indirizza in maggioranza ai partiti populisti, il potere ordinativo dell’identità di classe è venuto meno da tempo. Nessuna realistica possibilità di ripristinare quel paradigma culturale e sociale così come si rappresentava alle prime generazioni postbelliche. Guai però a indugiare in astratte mitologie. Ma guai anche a perseguire una parimenti astratta e acritica difesa della globalizzazione. Fra la sfera del locale e quella del globale si producono, non da oggi, tensioni e persino conflitti. Ma assolutizzare l’opposizione fra locale e globale significa congelarne la necessaria dialettica e regalare alla demagogia populista il monopolio di valori e significati ancora vivi, sebbene bisognosi di una coraggiosa rivisitazione.
  Il tema della solitudine come fatto intrinsecamente politico suggerisce considerazioni ulteriori. Il demografo francese Hervé Le Bras, in particolare, ha istituito una correlazione stringente fra voto al Fronte Nazionale ed erosione delle reti sociali tradizionali nelle campagne del suo Paese. Nel ballottaggio presidenziale del 2017 i piccoli borghi e i minuscoli paesi delle aree rurali, caratterizzati per secoli da robuste relazioni di vicinato e sentimenti di appartenenza densi, rinforzati da interessi condivisi, amicizie, mutualità e legami di parentela e di lavoro, hanno tributato un plebiscito alla candidata populista Marine Le Pen. La ricerca disegna la mappa di comunità dove nell’arco di un decennio sono via via scomparsi i piccoli empori di villaggio, si è diffuso il pendolarismo, sono quasi sparite le osterie e le sale parrocchiali, si sono svuotati luoghi di ritrovo e sezioni di partito. Il tessuto sociale si è fatto insomma più fragile, come in buona parte delle nostre antiche regioni rosse. Ciò si è tradotto in una crescente permeabilità alla propaganda populista, abile nell’individuare falsi nemici (gli immigrati, le oligarchie finanziarie, l’Europa, la casta) cui addebitare lo sgretolamento dei legami comunitari. Anche dove la cultura civica affonda radici profonde e l’impatto migratorio presenta effetti ridotti, dilaga così la suggestione xenofoba e populistica, mentre il voto alla sinistra – in Francia come in Italia – emigra nei quartieri di ceto medio urbano intercettando fasce di elettorato acculturato e socialmente garantito.
  Secondo Le Bras e Ronchi, insomma, non sarebbe qualche nostalgia identitaria o qualche misteriosa regressione al comunitarismo rurale a generare il consenso al populismo. È piuttosto lo strabismo delle sinistre, incapace di riconoscere i segnali di un disagio autenticamente popolare prima che si trasformi in consenso populista e persino di analizzare la ambigua domanda di protezione che proviene dalle urne, a spiegare la deriva politica in atto. Identità e comunità potrebbero invece, secondo questa lettura, rappresentare risorse democratiche, come fu in momenti cruciali della storia europea. A scrivere la Resistenza italiana e il Maquis francese fu il sostegno generoso e talvolta eroico delle comunità contadine e montanare nei mesi della guerra partigiana. La stessa geografia elettorale dell’Italia postbellica nei primi decenni della Repubblica ci segnala uno radicamento del voto al Pci assai più significativo nelle comunità rurali, che avevano conosciuto in anni lontani il regime della mezzadria e più tardi la Guerra di Liberazione, che non nelle maggiori città industriali. Ispirate alla tutela delle comunità locali furono anche, qualche decennio più tardi, le mobilitazioni civiche a difesa dell’ambiente, per i beni comuni o contro la criminalità organizzata. Estendendo il ragionamento, si può aggiungere che anche le tematiche dell’identità sono state sin dagli anni Settanta elaborate o rivisitate in chiave democratica da movimenti di azione civica, massicciamente orientati a sinistra, che promuovevano i diritti delle donne, delle minoranze, degli omosessuali.
La sinistra contemporanea ha dunque l’obbligo di un esame di coscienza. Nella Grecia al collasso erano i presìdi dei fascisti xenofobi di Alba Dorata a organizzare ambulatori da campo e mense per gli abitanti dei quartieri disagiati di Atene e di Salonicco. Il Front National francese o il movimento dei Veri Finlandesi gestiscono estese reti di mutualità e di assistenza gratuita a beneficio dei “compatrioti abbandonati”. Persino il miliardario populista Trump ha trovato ascolto fra i dimenticati della modernizzazione (i “forgotten men”). La Lega, protagonista nel marzo 2018 di una spettacolare avanzata nelle regioni rosse, vi aveva costruito propri avamposti già una ventina di anni or sono cavalcando la protesta contro l’accorpamento nelle ASL dei piccoli centri sanitari territoriali. In qualche modo si era così accreditata come una forza vicina alle comunità e fieramente antagonistica rispetto alle “tecnocrazie rosse”, che pure avevano dato il più delle volte prova di una gestione efficace delle risorse pubbliche. Sono dati di contesto che possono utilmente introdurre una riflessione di profilo sociologico che coniughi riferimenti ai classici e dovuti aggiornamenti.
NICOLA R. PORRO
POPULISMO E POPULISTI (IX) di NICOLA R. PORRO ♦ Il mondo globale e le felpe di Salvini La maggior parte degli studiosi collega le insorgenze populiste - tanto quelle di destra (sovranismo ed etnonazionalismo) quanto quelle ispirate al qualunquismo digitale - con confusi bisogni di 
1 note · View note
Photo
Tumblr media
Il nuovo plus valore Se il plus valore nel capitalismo produttivo era la differenza tra il valore del prodotto del lavoro e la remunerazione sufficiente al mantenimento della forza-lavoro, cioè misurava e misura il livello dello sfruttamento, nella società cosiddetta postindustriale o forse sarebbe meglio dire della sorveglianza e del controllo, si è affermato un nuovo tipo di plus valore, ovvero il plus valore comportamentale.
0 notes
cirifletto · 4 years
Text
Kris Kuksi Con I Suoi Visionari E Apocalittici Diorami
Tumblr media
Come partire da un oggetto insignificante e povero, e raggiungere scenari visionari ed apocalittici che raccontano di mistero e affascinano coi loro dettagli. Kris Kuksi ci riesce. Kris Kuksi colpisce per la sua fervida fantasia. Utilizzando i più disparati materiali a disposizione quali lego, pezzi di ferro, mattoni, legno e qualche astronave giocattolo, comincia da piccolo a costruire paesaggi fantastici. Crescendo la sua visionaria creatività si arricchirà di nuove tecniche e di nuove conoscenze, per esempio della cultura e dei temi classici.
Tumblr media
LEGGI ANCHE... I Ritagli Di Carta Reinventano I Luoghi Nelle Foto Di Rich McCor Le composizioni che hanno reso Kuksi famoso, sono dei veri e propri diorami, di sapore barocco e rococò, con legami a Bosch e Bruegel. Ambientazioni in scala ridotta che ricreano scene di vario genere, complesse e dettagliate. Parliamo di vecchi oggetti d’antiquariato, parti di legno o metallo, pezzi da modellismo, piccoli giocattoli, soldatini, o ingranaggi di macchinari.
Kuksi li lavora, li scolpisce, li ritaglia, li scioglie, li incolla, li salda assieme secondo il fluire della sua immaginazione.
La funzione del mio lavoro ha a che fare con il mettersi in relazione con il lato oscuro della psicologia umana.Kris Kuksi Ogni pezzo di Kris Kuksi è un autentico mondo da scoprire, quasi vivente. Un mondo da scrutare e, nel quale lo spettatore si immerge perdendosi come dentro un romanzo di fantascienza o un film fantastico. Ogni più piccolo dettaglio suggerisce un racconto, un mistero, una strana e grottesca combinazione fisica, che regola il vivere di questo universo in miniatura. Le finestre che Kuksi ci spalanca davanti, ci presentano una realtà macabra, violenta, sconosciuta. Che accosta accenti classicisti con l’immaginario della fantascienza pulp e del cosiddetto realismo fantastico. Kris Kuksi, maestro rococò postindustriale, organizza in modo ossessivo personaggi e architettura con un senso squisito del dramma. Invece di pietre e conchiglie usa soldati di plastica urlanti, blocchi di motori in miniatura, guglie torreggianti e detriti assortiti per formare i suoi paesaggi terrestri.Il conflitto politico, spirituale e materiale all'interno di questi santuari viene messo in atto sotto lo sguardo calmo di divinità remote e di solenni statue. Kuksi riesce a evocare immediatamente un santuario e un mausoleo per il nostro spirito soffocato.Guillermo del toro https://www.youtube.com/watch?v=IuNHs-nfGG8 Perciò, ancora una volta, l'arte si sublima dietro ad immagini forti, discutibili, non propriamente politically correct. Ma sempre forte e densa di un messaggio universale, volto a trovare nuove idee e significati, per un mondo, ed una società in continua agonia. Niente di più appropriato per il nostro contemporaneo! Aspetto come sempre vostre idee e pareri, da suggerirmi nei commenti qui sotto. Grazie. Ciao a tutti da Tommaso!! Vieni a visitarci sulla nostra pagina Facebook e Metti il tuo MiPiace! Condividi il nostro articolo sui tuoi social >> Read the full article
0 notes
gwamch · 4 years
Text
🔥 INTERVISTA A GABRIELE ALBERTINI
Tumblr media
Oggi desidero condividere con voi l'intervista a Gabriele Albertini, fatta in questi giorni di confinamento. Anche se questo è un blog all'interno di un sito di una società finanziaria e quindi si dovrebbero trattare solo argomenti attinenti all'economia, alla finanza, alla gestione di patrimoni... mi sono chiesto: Ma perchè? Perchè parlare solo di queste cose? Lo so che chi entra in un sito tematico come il nostro lo fa per trovare argomenti o risposte su quel tema, per trovare risposte a domande tipo: Avrò diversificato bene i miei risparmi? Come si fa ad aprire un conto in Svizzera? Qual è la vostra politica e modalità di investimento? E così di seguito. Ma so anche che che colui che scrive è una Persona, un Uomo o una Donna, un essere vivente con i suoi hobby e i suoi interessi. Ecco io vorrei trovare il modo di parlare alla “persona” di altri argomenti che probabilmente ci accomunano. Per me il cliente non è un numero. Tutti i miei clienti lo sono per come faccio/facciamo il nostro lavoro, ma lo sono anche perché sono diventati “amici” con i quali condividiamo uno o più degli interessi extra-lavoro. Per questo, in aggiunta agli obbligatori argomenti finanziari, ogni tanto racconterò di cose ed esperienze e passioni ed hobby della mia vita. Se vi interessano leggeteli, se non interessano, passate oltre (tanto questo lo fate già, nel senso, che è quello che facciamo tutti: se ci interessa ci fermiamo, sennò..clic!) Intervista a Gabriele Albertini Walter Valli : Dopo l’intensa full immersion nei tuoi libri che parlano di te e della tua storia Sindaco di Milano per 9 anni - apprezzato e votato dalla destra e dalla sinistra - non potevo non parlarne subito con te e mi sento un privilegiato a poterlo fare. Parafrasando il titolo di uno dei libri, hai proprio dato una bella Lezione a Milano... Gabriele Albertini : Due direttrici fondamentali, nel nostro governo della città, protrattosi per due mandati amministrativi consecutivi: Imprenditorialità/efficienza organizzativa e gestionale, onestà/legalità. Concedendoci una citazione in milanese, abbiamo applicato al nostro "modo di procedere" i motti: "te lauret semper", "In mai cuntent" (imprenditorialità/efficienza), "il coeur in man", "fà i rob giust" (onestà/legalità) Walter Valli : In “Sindaco senza frontiere” ti auto-definisci un “buon amministratore di condominio”..... Gabriele Albertini : "(...) Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto (...) ma vai a metterti all'ultimo, perché, venendo colui che ti ha invitato ti dica: Amico passa più avanti. Allora ne avrai onori davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato e che si umilia sarà esaltato" (Luca 14) Sono stato 12 anni allievo dei Gesuiti, all’Istituto Leone XIII di Milano e, forse, proprio per questo, non so se sono veramente credente, forse, desidero soltanto la "Fede" per poter sperare in un mondo migliore, in questa vita o in un’altra...tuttavia, questa esperienza mi ha lasciato tracce profonde ed indelebili sul mio "modo de proceder" (S. Ignazio di Loyola, Fondatore dell'Ordine) Walter Valli : Sei stato il primo Sindaco di Milano non-politico, cioè non proveniente direttamente da un partito. Nel libro “nella stanza del Sindaco” parli lungamente del tuo rapporto con il grande Indro, divenuta una solida amicizia. Era questo che lui aveva capito subito di te? Gabriele Albertini : Rispondo con le Sue parole, quelle  che mi ha dedicato in una Sua "Stanza", che, quando mi capita di rileggere, sono sul frontespizio del mio sito (www.gabrielealbertini.com) ancora mi commuovono, per quanto sono generose verso la mia modesta persona, eccole:  "Quest'uomo, dall'apparente remissività, persino umile, che mai alzerebbe la voce o pesterebbe il pugno sul tavolo, di una ingenuità quasi fanciullesca - ricordate quando si mise in mutande alla sfilata di Valentino? -  è un duro, che si spezza ma non si piega, né tanto meno s'impiega." Mi fece anche una profezia: "Tu sarai un grande Sindaco di Milano, sarai ricordato per cent'anni e forse di più, ma non sarai mai un "uomo politico", perché non hai l'uzzolo del potere". Confermo la seconda parte...non potrò sapere se si avvera la prima... Walter Valli : Nel libro di Roberto Gelmini “L’onestà al potere”, il titolo parla da sé.... Gabriele Albertini : "onestà" e "potere" un ossimoro, che, nel nostro caso, è diventata una sintesi efficace tra un mezzo (il potere) ed un metodo ed insieme un valore nell'utilizzarlo (l'onestà). Ricordo l'illuminante risposta, che mi diede Ghery Hines, alla mia domanda: "perché investe 2,5 mld di $ nella rigenerazione urbanistica di Milano?", eccola: "E' il mio lavoro, Porta Nuova è uno degli ultimi spazi, di oltre 500.000 mq, in una metropoli europea, da rigenerare, dal postindustriale al neo urbano, ci farò lavorare i migliori architetti del mondo, lascerò una traccia nella storia dell'architettura moderna e spero anche di guadagnarci, poi...c'è un altro motivo, che la riguarda personalmente...ci siamo informati, nella sua amministrazione, non c'è un cartaro che distribuisce carte truccate, sarà una competizione leale, accettiamo la sfida". Domandiamoci perché, nei decenni precedenti, su Milano, lavoravano sempre e solo gli stessi immobiliaristi e gli stessi architetti "nostrani", meno delle dita di una mano e nel nostro doppio "turno di guardia", ci stanno lavorando ben 12, tra i più grandi architetti del mondo, italiani compresi (Pelli, Isozaki, Hadid, Wilson, Cobb, Libeskind, Chiepperfield, Foster, Sejima, Nishizawa, Botta, Valle, Zucchi, Rota, Aulenti..) e sono arrivati e stanno arrivando oltre 40 mld di euro in investimenti, per la più parte non italiani, su un territorio che è, in mq, un settimo di Roma...forse, "perché non c'era un "cartaro che distribuisce carte truccate"?
Tumblr media
Walter Valli : Nei nove anni del tuo governo milanese hai incontrato praticamente tutti i Grandi del Mondo. Chi ricordi con particolare piacere? Chi ti ha lasciato o insegnato qualcosa in più? Gabriele Albertini : Ho avuto il privilegio, non per mio merito ma per il mio ruolo,  d'incontrare grandi Personalità mondiali della cultura, dell'economia, dello sport, della politica...limitandoci a questi ultimi: Elisabetta II, Putin Clinton, Chirac, Jan Tze Ming, Blair, Schoeder, Re Juan Carlos, Koll, Perez, Olmert, Abu Mazen, Bouteflika, de Marco, Erdogan, Giuliani, Barre, Bloomberg, Cossiga, Andreotti... ma per fascino, eleganza, finezza intellettuale, bellezza e molto altro, su tutti: Ranja di Giordania, nostra concittadina onoraria... Walter Valli : Per finire, lascio a te il finale. Cosa ci puoi, o meglio vuoi dire..?? Gabriele Albertini : parafrasando una frase, attribuita a Jim Morrison, esprimo un auspicio, molto personale: quando sono nato, io piangevo ed intorno a me tutti sorridevano, quando morirò, vorrei poter sorridere, per il bene compiuto ed ascoltare il pianto di coloro che mi sono grati per quello che ho fatto.   Grazie Dott. Albertini. Grazie Gabriele. Come sai ci conosciamo da poco tempo, ma ho già imparato molto da te. Spero che la nostra frequentazione possa continuare e magari diventare sincera amicizia. Read the full article
0 notes
pangeanews · 5 years
Text
“Non so dove andrò, quel che vedrò, chi incontrerò, cerco solo di rimanere aperto, come un bambino”: dialogo con William T. Vollmann
William T. Vollmann è un genio, chi non lo sa, ho cominciato a leggerlo vent’anni fa, era il 1999 e Fanucci pubblicava le sue “Butterfly Stories”. Quest’anno WV compie 60 anni, a luglio, e la sua statura epica, come si sa, al netto dei saggi romanzeschi e meravigliosi (“Come un’onda che sale e che scende” e “Zona proibita” sono editi da Mondadori), è sigillata nel ciclo “Seven Dreams”, destinato a raccontare l’epopea – di stelle e macerie – americana. Il ciclo è costituito da sette libri, scritti non consecutivamente. In Italia ne esistono tre. “Venga il tuo regno” fu pubblicato nel 2011 da Alet, “I fucili” è stato stampato da minimum fax lo scorso anno, “La camicia di ghiaccio”, già Alet 2007, è riproposto, ora, da minimum fax. Questo ultimo – che mescola scrittura mitica a pop, le cronache dei re al punk, la solarità epica all’underground – è il primo della serie, pubblicato in origine nel 1990, racconta l’approdo di Erik il Rosso in Groenlandia, nel Nuovo Mondo. Felici che l’opera di Vollmann trovi audace collocazione anche in Italia, festeggiamo proponendo una sua intrigante intervista.  
***
La costruzione dello studio di William T. Vollman, scrive l’intervistatrice Hannah Jakobsen, indica il tipo di allestimento richiesto per produrre un’opera come la sua. Lo studio è stato ricavato da un vecchio ristorante messicano: locale ombroso, postindustriale, che comprende una camera da letto e una cucina ben tenuta dove Vollmann serve alla giornalista della birra e del whisky – entrambi in tazzone. Questo ambiente mostra anche un amore dello scrittore per le arti visive, fatto sorprendente: dipinti e fotografie, cose sue per la maggior parte, si allineano lungo le pareti; il resto è una raccolta di ritratti femminili in stile espressionista, che Vollmann chiama “le dee”. Questa congerie yankee e messicana fa venire in mente il funambolo Pynchon nascosto in Messico a mangiare tacos nel tentativo di comprendere un solo racconto di Cortazar, traducendolo: anche questo è postmoderno. A proposito di traduzione: è notevole che il Los Angeles Review of Books per il quale scrive la nostra giornalista ed educatrice sia tollerante più di alcuni italici insaponati: la giornalista scrive infatti “razza e sesso”, invece che “etnia e genere”, senza temere che le siano tirate le orecchie vicino alla lavagna. [Andrea Bianchi]
Hai avuto molte esperienze insolite: abbracciato le armi coi mujaheddin in Afghanistan, poi corrispondente di guerra, e hai rubato passaggi a scrocco su treni merce, giusto per dare un’idea al lettore. Come hai scelto di fare queste cose, come hanno fatto nascere la tua scrittura?
Per almeno due ragioni, direi. Uno: uscire e provare qualcosa che ti incuriosisce per tenere aperta la mente e poi decidere cosa fare di quel che hai vissuto, che è quello che Thoreau raccomandava di fare sempre e comunque. Lui diceva che non dobbiamo consentire alla nostra conoscenza di mettersi a posto, questo per lui è ignoranza. Finché ci ricordiamo di essere ignoranti possiamo capire quel che sta là fuori. Quando ho preso i treni che dicevi prima, ho tenuto in mente queste cose. Non so dove andrò, quel che vedrò, chi incontrerò, e cerco solo di rimanere aperto – come un bambino. Così ho effettivamente modo di imparare dalla realtà, da quello che lei è. L’altro modo è questo: ho una situazione in mente di cui voglio scrivere e voglio renderla vivida al massimo e così voglio uscire e raccogliere informazioni, il colore locale, un’esperienza d’insieme della cosa che scriverò. Per dire: conosci la mia serie “Seven dreams”?
Sì. 
Lì c’è I fucili. Nell’Ottocento tutti in Europa cercavano il passaggio a nordovest come in una gara. Oggi non abbiamo questo assillo ma all’epoca nessuno sapeva come arrivare in Asia dall’Europa: diciamo grazie al riscaldamento globale, mentre loro andavano lassù al Polo e stavano a pensare a come navigarlo. Così Sir John Franklin si mise all’opera con tre tentativi ed ebbe sempre difficoltà. Io volevo entrare nella sua testa e vedere che significa essere solo lassù nell’Artico, mi sono fatto portare in aereo al Polo Nord magnetico: anch’io da solo, roba davvero ruvida, peggio di quanto pensassi, però micidiale per il mio libro. Ti ho risposto?
Nel libro Espulso dall’Eden, era il 2004, parlavi dell’empatia che viene fatta grande dalla scrittura. Per esempio quel che dici sugli schiavi del mercato sessuale. Mi domando se volevi provare più empatia per loro, per quell’insieme di persone diversissime. 
Effettivamente presi a interessarmi di prostitute, ero un cliente. La mia fidanzata mi aveva scaricato e provavo come un disperato a rimorchiarne un’altra e alla fine ho chiamato una squillo, fisicamente non è stato nulla di forte – però riuscì a farmi sentire uomo, ancora, un uomo che può stare al fianco di una donna. Così mi sono chiesto: questa esperienza tutto sommato a cosa assomiglia, che vuol dire, è giusta? falsa? queste donne che vedevo ora erano sfruttate? o avevano del potere su di me nella situazione nella quale ero entrato? Così via, molte storie e disegni e fotografie di prostitute, quanto tempo mi ha preso tutto questo per raggiungere una conclusione: lo stesso di prima, i passaggi a bordo di treni merci. Prima cliente poi amico e poi ascoltatore. Provavo a comprendere e poi fui in grado di dire: bene, le cose per me stanno così.
Mi spiazzi un pochino perché poi tutto il resto della tua scrittura si sente che è connesso coi grossi argomenti della nostra epoca, politica, società: e penso a come ritrai i poveri rimasti senza casa in Poor people, ai migranti per lavoro in Imperial e poi di nuovo la tua esplorazione dell’ambiente circostante alle mercenarie sessuali. Notevole sentire che per te parte tutto dalla curiosità. 
Ma la realtà è sempre rilevante! Immagina di uscire e cercare di capire qualcosa del posto e delle sue persone, cose che ignori, e magari devi scriverne con onestà e meraviglia: poi passano 500 anni, magari ci sono ancora persone sulla faccia della terra e desiderano leggere quel che tu avevi da dire, e questo li tocca in un modo o nell’altro. Qual è il fatto più triste della tua vita?
Non lo so, non ne sono sicura. Quando ho grattato il fondo non è stato per qualcosa che è toccato a me e basta. E tu? 
Se la metti così c’è stata la morte di mia sorella, annegò che ero bambino, nove anni e lei sei, dovevo controllarla e non fui all’altezza, una cosa durissima anche per i miei genitori, vorrei non fosse mai successo. D’altro canto, da quando è accaduto, ho lasciato che l’episodio mi desse un contorno, del tipo sì, giusto, da bimbo ho fatto un casino, e allora come posso rimanere senza empatia? E allora qui in questa stanza al posto mio può esserci anche uno stupratore o un terrorista o magari anche altri e penso, okay, questo è mio fratello, questa è mia sorella, abbiamo fatto tutti un gran casino. Queste persone che sono in camera, questo stupratore e questo terrorista, non devono piacermi a forza, magari è giusto metterle a morte. Eppure: devo sentire e ricordare che siamo fratelli e sorelle.
Però non ti sembra che la storia di tua sorella sia altra cosa dallo stupro, dall’attentato? Questi sono mossi da cattiveria. 
Qui sei su una pendenza e scivoli. La gente ha sempre i suoi motivi, che mi dici se avessimo qui un matto? Certo non rende il tutto più giusto, ma devi sentire anche questi altri. O magari tutti i nostri soldati? E ora ogni nordamericano dice “viva i nostri soldati, ci proteggono”. Da quando è cominciata la guerra del Terrore col 2001, abbiamo ammazzato un paio di centinaia di migliaia di persone? per salvare che cosa? Abbiamo avuto i nostri morti l’11 settembre, e altri dopo quel giorno. Ma possiamo dire che la situazione sia giusta? sia sbagliata? 
Notevole questo relativizzare che fai, è lo stesso dei tuoi libri, penso a Europe Central, a come umanizzi tutto. Mai pensato di scrivere su Trump? 
Beh, se non altro se domani ti svegli e sei al posto di Trump puoi dire “Ci sono molte cose che non farò”. Ma se ti svegliassi con la sua vita e tutto il condizionamento di cui Trump soffre? In realtà so poco su di lui, lo trovo un tipo squallido, mi domando se commetta tutto il male che può compiere, dovrei pensarci su, provare a cavarne qualcosa. Sarebbe curioso immaginarlo come un cucciolo di bambino e poi qualcosa che va storto: in che modo? da dove arriva questa sua identità? questi sono i ferri del mestiere se sei scrittore.
Insomma, al mio orecchio suona come se ci fossero le circostanze prima delle persone, lì a determinarle. 
Ora immagina di svegliarti domani nel corpo di un ragazzo tedesco, 18 anni e sei nel 1939, tutto quel che hai imparato a scuola è roba da Gioventù hitleriana e poi improvvisamente scoppia la guerra e la radio dice “Oh, Inglesi Polacchi Ebrei, ci hanno attaccato”. Che farai? è colpa tua? Non sai un grammo in più di quello che ti ho detto ora. Allora. Come diamine è possibile biasimarti? Così impari di che colore è la tua uniforme, lo sai, e ripensi ai piatti che ti piacevano – questo aiuta. Altrettanto vero che alcune persone determinano le proprie circostanze.
Ci sono persone che partono da situazioni simili e alla svolta si diversificano. Prendi la gente bigotta, loro sono plasmati dalle circostanze. 
E allora? Forse fino a un certo punto siamo tutti haters su internet, siamo razzisti misogini, questo lo sai vero? Viviamo abbastanza e le cose brutte succedono e dobbiamo ricordarci che persone maliziose ci feriscono e si rappresentano per se stesse, voglio dire che non importa se la malizia sia maschile o femminile, non me ne importa nemmeno del genere del gruppo razziale o chissà che altro. Pochissime persone sanno fare lo sforzo di creare questo scenario mentale. Soprattutto in questo sistema educativo di merda e questo altro sistema cosiddetto di news, anche questo mi fa andare al cesso, qui ogni veleno è intensificato, è una pozione potentissima – sempre più simile ai nazi. In ogni caso la penso così. Perciò, nel nostro piccolo dobbiamo stare in piedi e sapere che questi sistemi non producono del bene, eppure questo non ci discolpa. Siamo responsabili, che ne pensi?
Difficile dire. Come molti altri, anch’io applico standard diversi quando penso a quel che dice certa gente, ad esempio i più anziani, e non sono sicura di quel che provo. 
Buona! Pensa che una volta ero seduto su un bus Greyhound, di fianco a questo vecchio panettiere, un tipo alla mano, un viaggio in comune di cinque o sei ore e giungemmo a Manzanar [370 km a NE di Los Angeles, campo di prigionia per Giapponesi] e lui sbotta “se solo l’avessero usato anche per gli Ebrei, il campo”. Mi ha stordito, mi sono alzato e ho cambiato posto e non gli ho più parlato. Ora penso: era sbagliato? Forse quel che avrei dovuto fare, probabilmente ora farei così, è dire “Ma davvero, perché lo pensi? vorrei capire perché lo pensi”.
Hai anche scritto, in quel libro del 2004, che come Nordamericani dobbiamo capire la responsabilità della guerra in Vietnam. E come scrittore, come persona, tu porti responsabilità che sono basate su altri fattori come razza e sesso? 
Conosci il detto “a chi è dato molto, molto sarà chiesto”? La responsabilità è tua, a fin di bene. Non sono in credito con nessuno per questo talento di scrittura. Ho lavorato pesantemente ma ho amato farlo perciò non è nemmeno un lavoro, non sono in credito con nessuno neanche per il fatto che i miei genitori potessero darmi dei soldi per viaggiare – e così, sì, possiamo dire che sono un privilegiato e anche tu lo sei visto che mi intervisti – e se ci prendiamo cura dei nostri fratelli e delle sorelle questo ci rende almeno felici. Se domani un tipo entra nella zona dove parcheggio e so già che domani devo andare a raccogliere la sua cacca, uscirò comunque per parlarci e questo mi rende felice perché sto sconfiggendo l’ordinanza statale contro il campeggio che mi impedisce di dargli un posto dove bivaccare per un paio di notti. Se non esistesse questa ordinanza, se ci fosse altro che dovrei fare, lo farei. Non che lo volessi fare quando ho comprato casa, ma dal momento che abito qui non posso fare lo struzzo, è una cosa che sono chiamato a fare. Il tipo sarà fatto sloggiare ma almeno ho provato a fare una cosa buona e se ci fosse poi qualcun altro, magari una donna povera che si mette a dormire qui davanti casa e la lascio in pace, quanto credito credi che io possa accumulare? Non posso, ho soltanto questo spazio qui davanti. Però so che mi vergognerei se dicessi “smamma, non ti permetterò di coricarti su questo mio spazio privato freddo e umido”.
Hai paragonato la prostituzione a molti lavori diversi, perciò vedi una relazione anche con la scrittura? 
Chiaro, siamo tutti mercenari e prostitute.
L'articolo “Non so dove andrò, quel che vedrò, chi incontrerò, cerco solo di rimanere aperto, come un bambino”: dialogo con William T. Vollmann proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2Xz33RR
0 notes
cosenzapage · 7 years
Text
Chiude la Stagione del More con "Piccola Società Disoccupata"
http://www.cosenzapage.it/media/2018/03/piccola_societa_disoccupata.jpg - #CosenzaPage COSENZA – Un affresco sul mondo del lavoro nella società postindustriale. A tracciarlo è la compagnia piemontese ACTI Teatri Indipendenti, a Cosenza con Piccola Società Disoccupata per chiudere un’altra Stagione del More, domenica 18 marzo alle ore 20.30. Il progetto, ideato e di...
0 notes
eccedo · 11 years
Text
Ripensare al modello di città: le smart cities
Tumblr media
Lo spazio urbano in cui viviamo incarna a pieno il tipico modello della società postindustriale. La città è oggi il risultato del progresso industriale, del boom economico, del consumo di massa. Il paesaggio assume connotati ben precisi, contraddistinto da maestose e squadrate strutture simmetriche che si ripetono ad oltranza per le vie del centro urbano, con contrasti e sfumature di grigio lungo il quale si distendono strade a 2, 3 o anche 4 corsie. La città riflette, pertanto, i segni della storia degli ultimi centocinquant'anni, protagonista assoluta di quel modello sociale basato sulla crescita e sullo sviluppo, attraverso cui la spinta produttiva ha modificato il paesaggio abitativo con l'emergere di stabilimenti e fabbriche venutesi a creare al fianco dei complessi residenziali. Uno spazio che negli ultimi decenni ha visto il sorgere di nuove attività di carattere commerciale, dovute al fiorire del settore terziario ed extraterziario. Uno scenario sempre più cementificato, dove a rimetterci, però, sono i cittadini stessi, alienati dagli effetti provocati da tale contesto. Il traffico, lo smog, la distanza (dis)funzionale che, paradossalmente, comporta tempi di spostamento maggiori rispetto a coloro i quali abitano nell'hinterland o in aree periferiche. Fattori che caratterizzano la routine giornaliera, scandita da ritmi troppo elevati e frenetici. La città moderna è un modello insostenibile per l'uomo. E lo stress? E' una delle cause principali di morte nei "paesi occidentalizzati": suicidi, depressione, problemi legati al lavoro o alla vita sociale. Tutti sintomi che rappresentano un evidente malessere che si è costretti a tollerare per sopravvivere al tam tam cittadino. Inutile nascondersi, la città oggi ha perso la sua vera funzionalità: la qualità della vita. Viviamo troppo meccanicamente divorando e consumando a ripetizione beni materiali, ammaliati dagli schemi culturali che la società moderna ci ha impartito e dimenticando spesso che la felicità non è qualcosa di misurabile quantisticamente e viene prima di ogni logica numericamente rappresentabile. La realtà urbana è incompatibile con la natura umana, sia dal punto divista ambientale che sociale. Il modello della città deve necessariamente rispecchiare i bisogni primari e le modalità attraverso cui l'uomo può ritrovare la sua naturale dimensione. Quando pensiamo alla città, dovremmo immaginare un luogo fruibile in cui poter condurre una vita più ecologica, in contesti e spazi a misura d'uomo e in armonia con l'ambiente circostante. Una via d'uscita è rappresentata oggi dalle moderne smart cities, le città intelligenti; delle comunità di medie dimensioni sostenibili, confortevoli e dinamiche, basate su parametri economici, culturali, sociali, ambientali, abitativi e gestionali. Il concetto su cui poggiano tali comunità verte su metodologie all'avanguardia in grado di migliorare la vivibilità degli abitanti. Grazie a degli strumenti messi a disposizione degli Enti Locali si può favorire la mobilità sostenibile, tramite forme di sviluppo compatibili per l'ambiente come l'energia pulita, capace di ridurre i costi energetici delle abitazioni e delle altre strutture presenti. Un passo importante per migliorare la qualità della vita. Molte città italiane si prestano a questo tipo di modello urbanistico. Da qualche anno l'Europa ha promosso un investimento pari a circa 11 miliardi di euro per progetti di smart cities, ma al momento le uniche realtà italiane candidate e pronte a ricevere parte dei finanziamenti sono Genova, Torino e Bari. Non basta! Le logiche del nostro paese continuano ad essere burocraticamente spinose e la realtà nazionale è dominata troppo spesso da politiche di malaffare. Intanto, i fondi e i progetti per migliorare l'habitat in cui viviamo sono stati promossi. Sta a noi, adesso, capire se siamo in grado di farci valere. Essere cittadini attivi è anche questo.
POTREBBE INTERESSARTI ANCHE: Lavorare gratuitamente: la nuova tendenza del 2013
2 notes · View notes
Photo
Tumblr media
Il nuovo plus valore Se il plus valore nel capitalismo produttivo era la differenza tra il valore del prodotto del lavoro e la remunerazione sufficiente al mantenimento della forza-lavoro, cioè misurava e misura il livello dello sfruttamento, nella società cosiddetta postindustriale o forse sarebbe meglio dire della sorveglianza e del controllo, si è affermato un nuovo tipo di plus valore, ovvero il plus valore comportamentale.
0 notes
spazioliberoblog · 7 years
Text
di NICOLA R. PORRO ♦
Partiti vs populismi: una vecchia storia
Riprendo con un certo sollievo il mio girovagare attorno al tema controverso del populismo. Il sollievo discende dal fatto che il voto del 4 marzo ha se non altro liberato le mie riflessioni dal sospetto di analisi strumentali e di approcci contingenti. Mi propongo di tornare sull’analisi del voto più avanti, quando disporremo di una lettura più completa dei dati e degli effetti di ritorno indotti dall’esito – peraltro in buona parte previsto e prevedibile – della consultazione. Chi ha la pazienza di seguirmi avrà probabilmente intuito, infatti, che sto sviluppando una ricerca sul nesso fra insorgenze populistiche e crisi di legittimità del modello democratico come si era venuto configurando in Occidente a partire dal secondo dopoguerra. Lo scambio di idee con i lettori del blog costituisce perciò per me un’opportunità preziosa di confronto, verifica e chiarificazione e ho recepito con piacere i contributi dialettici pervenuti al mio ultimo articolo.
Uno di essi si concentra sul rapporto fra insorgenze populistiche – fenomeno a scala planetaria di cui l’Italia presenta tuttavia alcune varianti interessanti – ed effetti della globalizzazione. I vecchi populismi si formarono fra XIX e XX secolo nel contesto delle nazionalizzazioni incipienti e della nascente industrializzazione. I nuovi populismi interpretano, al contrario, le contraddizioni della globalizzazione e le incertezze dell’economia postindustriale. Di qui aspetti chiave del problema, che segnalano elementi di continuità ma anche nitide cesure fra le due stagioni e i due paradigmi politici. Intendo trattarne distesamente più avanti proprio per la rilevanza della questione.
L’altro contributo, segnalando il rischio di analisi influenzate da pregiudizio ideologico, sottolinea invece la relazione fra affermazione dei nuovi populismi e crisi dei vecchi partiti.
Senza saperlo, l’amico intervenuto ha anticipato una questione che avevo in animo di trattare a breve e che, incoraggiato dalla sollecitazione ricevuta, cercherò di sviluppare qui. Senza ovviamente pretendere di esaurire l’ampia problematica cui il tema rinvia.
Damiani pone la questione del rapporto fra insorgenze populiste, da un lato, e crisi di legittimità e/o di rappresentanza dei partiti tradizionali, dall’altro. Argomento di grande rilevanza, ma anche questione storicamente antica, risalendo ad almeno un secolo fa. Soprattutto in Europa, dove fra Ottocento e Novecento aveva preso forma il modello del partito di massa, la denuncia circa la degenerazione della democrazia rappresentativa venne condotta da un’agguerrita scuola di pensiero, denominata élitismo. Era composta in gran parte da intellettuali nostalgici del vecchio ordine politico-sociale, insofferenti delle pretese di emancipazione delle classi popolari, spaventati dal suffragio universale e dall’abolizione dei privilegi di censo. Ferocemente ostili allo sviluppo delle grandi organizzazioni di massa, interpretavano la formazione del professionismo politico come una perversione propria della nascente democrazia dei partiti. Pensatori come Vilfredo Pareto o Gaetano Mosca, di chiaro orientamento conservatore, erano coerenti con una visione aristocratica del potere e scettici rispetto alla capacità di esercizio della democrazia da parte delle vituperate “masse”. In quegli anni Gustave Le Bon aveva fornito una rappresentazione inquietante della “psicologia delle folle” che, facendo leva sulla loro presunta irrazionalità, sembrava confermare il pregiudizio antipopolare che ispirava quelle analisi. Roberto Michels proveniva invece dalle file del socialismo, da cui si era allontanato condannandone le derive oligarchiche. Pochi anni dopo, la sua abiura si sarebbe tradotta in aperta adesione al fascismo. Questi aristocratici del pensiero politico muovevano alla democrazia dei partiti e ai movimenti di massa critiche non molto diverse e non meno astiose di quelle che alimentano l’antipartitismo populistico dei nostri giorni. Pareto aveva parlato di circolazione delle élite, giustificando persino l’eversione mussoliniana in quanto risposta all’incapacità dei processi democratici di favorire il ricambio delle élite del potere. Mosca avrebbe costruito tutto il suo sistema di pensiero sull’analisi di una classe politica, quella postrisorgimentale, per definizione predatoria ed esclusivamente interessata alla difesa dei propri privilegi. Michels si sarebbe addirittura appellato alla “legge ferrea delle oligarchie” per giustificare la filosofia di una radicale disintermediazione: via sindacati e partiti e potere legittimato esclusivamente dal carisma di un capo. Faceva discendere da qui la necessità storica della rivoluzione fascista, sorvolando disinvoltamente sul suo carattere liberticida. La psicologia di Le Bon accreditava, da parte sua, una presunta  irrazionalità dei comportamenti collettivi, giustificando implicitamente la legittimazione per via carismatica dell’autorità politica. Il connubio fra pensiero conservatore e argomenti che riaffiorano periodicamente nell’alveo culturale del populismo non costituisce insomma un inedito.
This slideshow requires JavaScript.
È dunque singolare ma non sorprendente che, un secolo dopo, i paladini della ggente riproducano così dettagliatamente quella rappresentazione della politica. Comune al vecchio e al nuovo è l’antipolitica eretta a sistema di pensiero e a valore politico. Un sentimento e una visione non confinata nel recinto della scienza politica. L’insofferenza per la democrazia rappresentativa come si andava costruendo nel fuoco della Grande Trasformazione – avendo la nazionalizzazione e l’industrializzazione come i due processi sociali portanti del mutamento politico -, presenta un vasto repertorio. Comprende storici, sociologi e critici sociali come Thomas Carlyle e Hyppolite Taine. Ispira alcuni fra i maggiori scrittori del XIX secolo, come Dumas, Stendhal, Balzac, Eliot, Flaubert, Dickens, Daudet, Oscar Wilde, Maurice Barrès e persino Émile Zola. Fra gli italiani, basta leggere le pagine di Francesco Domenico Guerrazzi (Il secolo che muore), di Antonio Fogazzaro (Daniele Cortis), di Vittorio Bersezio (Corruttela) o di Matilde Serao (La conquista di Roma) per avere un’idea assai viva del risentimento diffuso contro il ceto politico del tempo, non ancora ribattezzato casta. Non ci sono quasi scrittori europei attivi nell’epoca della sorgente democrazia parlamentare che non abbiano intinto la penna nel veleno per descrivere parlamentari corrotti e spregevoli affaristi, sistematicamente in combutta con speculatori, giornalisti prezzolati e malavitosi politicamente protetti. Il brodo di coltura dei populismi si alimenta della mistica della plebe, ma è spesso nutrito di sensibilità letterarie, estetiche e intellettuali tutt’altro che dozzinali.
Questi umori, fatti circolare a piene mani in un’opinione pubblica non ancora dotata di robusti anticorpi culturali, insieme agli effetti traumatici della Prima guerra mondiale, contribuirono a fornire argomenti e slogan di pronto impiego ai fascismi europei sin dagli anni Venti del Novecento. Mostrando chiaramente come un’ispirazione genuinamente populista non fosse affatto in contraddizione con una visione del mondo gerarchica e persino totalitaria. Il populismo fascista soffiò abilmente sul fuoco delle tensioni sociali dilagate dopo la Grande Guerra. Di suo aggiunse la formidabile intuizione di rendere i sudditi complici plaudenti del proprio asservimento. Mussolini, come Hitler o Stalin o i peggiori satrapi del populismo, avevano ben chiaro come in un regime politico privo di anticorpi pedagogici le masse possano preferire il rassicurante ordine delle catene alle inquietudini e ai rischi della libertà. Forse, però, il giudizio più perspicace su queste vicende lontane e attuali al tempo stesso rimane quello di Antonio Gramsci.
Per il pensatore sardo, la causa principale della resa ingloriosa della democrazia parlamentare all’offensiva fascista stava nell’incapacità delle forze politiche liberali di affermare una egemonia culturale sulla società italiana. L’elaborazione di un progetto di Stato, nutrito di sentimenti (il patriottismo in un Paese pervenuto tardivamente all’unità politica), di valori condivisi (l’interesse generale), di un sistema di diritti e anche di esperienze diffuse (a cominciare dall’uso di una sola lingua nazionale), veniva prima della stessa capacità politica e organizzativa di contrastare la minaccia totalitaria. Gramsci intuiva insomma la natura del populismo come insidiosa alternativa alla formazione di un’egemonia civica e culturale che non fosse più prerogativa esclusiva delle vecchie élite. Un’egemonia non populista proprio perché si sarebbe fondata  sull’emancipazione delle masse lavoratrici, sociologicamente partorite dall’industrializzazione e dalla democratizzazione, anziché sull’eccitazione demagogica delle loro paure. Da qui una condanna senza appello per quella parte maggioritaria della borghesia italiana che, incapace di realizzare una riforma “intellettuale e morale” delle forze politiche affermatesi con il Risorgimento e il suffragio universale, aveva consegnato il Paese al fascismo e alla sua rappresentazione rozzamente populistica delle relazioni sociali. Va anche ricordato come la critica gramsciana non si sottraesse a un giudizio preoccupato sulle incipienti trasformazioni dei partiti di massa, compresi quelli di ispirazione comunista. Negli anni Trenta la critica (implicita ed esplicita) mossa dall’intellettuale incarcerato al marxismo dogmatico e alle derive totalitarie dello stalinismo, discendeva in buona misura dalle sue riflessioni sull’egemonia. Nell’ottica gramsciana, insomma, il consenso al populismo, nelle forme proprie del primo Novecento, sembra rappresentare una sorta di limbo, di turbolento stato intermedio che si profila quando le vecchie idee non hanno più potere ordinativo e le nuove non si sono ancora configurate. Quando le tenebre della notte si diradano e la luce non illumina ancora il nuovo giorno la penombra si popola di mostri.
Non è detto che questa analisi, con le dovute variazioni, non conservi una qualche validità a un secolo di distanza. Spesso ondate elettorali populiste hanno rappresentato non tanto una scelta di campo alternativa quanto piuttosto una sorta di consenso-rifugio che sollecitava una più adeguata offerta politica. Il qualunquismo italiano dilagò nelle urne nell’immediato dopoguerra per svanire poi repentinamente non appena i grandi partiti di massa riuscirono a tessere una nuova e più efficiente rete di relazioni e di rappresentanza con le grandi masse popolari.
Secondo la visione gramsciana, Mussolini avrebbe intercettato una profonda crisi di legittimità sia delle vecchie forme partito sia dei ceti dominanti inserendosi in una crepa sociale e culturale che la codardia dei monarchici,  la violenza squadrista e le divisioni delle forze democratiche avrebbero spinto nella voragine della dittatura. Un esempio da manuale di come i populismi (in questo caso nella loro versione nazionalistica e reazionaria, incarnata dalle figure eponime di Mussolini prima e di Hitler poi) proliferino sempre come risposta a una crisi di legittimità e a un’abdicazione di ruolo e funzioni da parte delle forze democratiche organizzate. Ciò non esime tuttavia dall’esigenza di operare distinzioni ulteriori entro la generica categoria di populismo.Ogni forma di populismo possiede una natura ambigua. L’arte della propaganda populista si riduce quasi sempre alla pars destruens promuovendo di sé l’immagine più accattivante, quella che veste i panni della protesta contro i soprusi della casta e gli abusi di oscuri poteri annidati in ogni ganglio della società.  La pars construens, viceversa, si limita all’evocazione di una velleitaria democrazia diretta facilmente riducibile a una delega permanente a un nuovo ceto politico, composto nella realtà da ristrette conventicole di agitatori di professione. Anche questi aspetti accomunano vecchi e nuovi populismi, fatti ovviamente salvi i diversi contesti storici e profili politico-culturali. L’esito paradossale è stato spesso quello di sottrarre le classi dirigenti (non solo quelle propriamente politiche), le stesse organizzazioni di massa e le istituzioni rappresentative, a legittime ragioni di contestazione. La forza elettorale dei populismi è stata spesso alimentata dall’ambiguità ideologica che si traveste di nuovismo e offre ai disorientati uno sfogatoio senza prospettive o un’area di parcheggio in attesa di tempi migliori.
Negli anni Settanta-Ottanta, una figura leader del pensiero democratico europeo, il tedesco Jürgen Habermas, aveva spiegato anche il ciclo di protesta del decennio precedente come il prodotto di una diffusa crisi di legittimità. Essa avrebbe interessato, a suo parere, non solo le istituzioni parlamentari postbelliche ma anche le forze che si erano opposte ai totalitarismi, dal liberalismo alla socialdemocrazia alle forze di ispirazione cristiana. Nella loro diversità, tanto i movimenti di lotta più radicali, quasi sempre di ispirazione marxista o neomarxista, quanto le aggregazioni tematiche (single issue movement) di orientamento ambientalista, pacifista, femminista ecc. stavano esprimendo fratture culturali e domande politiche che avrebbero gemmato un nuovo paradigma. Vedremo più da vicino la prossima volta come i populismi (prendiamo ancora provvisoriamente per buona questa “definizione che non definisce”) si siano sviluppati come un torrente carsico nel secondo dopoguerra. Configurandosi come una sorta di reazione – il più delle volte effimera – a una più generale crisi di legittimità delle istituzioni democratiche classiche, ma anche come il prodotto di una contaminazione di esperienze, culture e sensibilità molto eterogenee e non sempre di facile classificazione. Di per sé, nessun movimento populista ha sinora generato un nuovo paradigma. La sfida populista potrebbe tuttavia stimolare la ricerca di nuovi paradigmi capaci di sottrarsi alla tenaglia fra vaniloquio di pura protesta e supina accettazione dell’esistente. Dovremo perciò concentrarci su una lettura meno generica del vagheggiato cambio di paradigma.
NICOLA R. PORRO
POPULISMO E POPULISTI (III) di NICOLA R. PORRO ♦ Partiti vs populismi: una vecchia storia Riprendo con un certo sollievo il mio girovagare attorno al tema controverso del populismo.
0 notes