Tumgik
#speranza contro sopportazione
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Tra speranza e sofferenza.
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theactingone · 1 year
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« Non siamo più andati a Venezia. »
Il tono di voce di mia madre era carico di amarezza e rammarico, sembrava uno strappo fatto a se stessa piuttosto che un rimprovero al mio indirizzo. Le parole avevano fatto fatica a venir fuori, sebbene le avessi già trovate nei suoi occhi che sfuggivano ai miei e correvano a rifugiarsi oltre i vetri di quella finestra spalancata su un piccolo angolo d'asfalto rischiarato dal sole tiepido d'aprile. Quella stanza, dalle pareti bianche come le nuvole che macchiavano di tanto in tanto l'azzurro del cielo, aveva accolto mia madre fin dai primi giorni del suo ricovero in ospedale, per un primo ciclo di chemioterapia dopo una diagnosi spaventosa, già sinonimo di condanna. Avevo cercato informazioni, forse per riuscire ad esorcizzare quella paura che non sapevo in che altro modo combattere, che si infilava in ogni parte e scombinava quella che era sempre stata la normalità della vita. Per ogni spiraglio di luce, c'era una fitta zona d'ombra da oltrepassare, era così che funzionava, era quello l'equilibrio che non si poteva rompere, nemmeno per tutta la speranza del mondo. Il senso di colpa aveva già ampiamente accompagnato e segnato l'esistenza di mia madre in quasi ogni giorno della sua vita da quando si era sposata. Avevo creduto che non potesse tornare a colpevolizzarsi dopo tutti i passi avanti che aveva fatto, dopo aver avuto la forza di denunciare e di scoprirsi ancora più attaccata alla vita, dopo aver riconquistato la propria libertà e dignità, dopo aver vinto contro la violenza di un uomo che diceva di amarla e che non si faceva alcuno scrupolo a sminuirne il valore, a metterle le mani addosso fino a ridurla in uno stato pietoso, sia fuori che dentro. Credevo che quello che aveva già passato fosse ampiamente sufficiente per una sola vita, eppure quel senso di colpa era tornato ad abitare quelle iridi ambrate che ora si riflettevano nelle mie, che ricambiavano e rispettavano quel silenzio, come se tutte le parole del mondo non potessero aggiungere nulla ad una realtà fin troppo complessa. Avevo rimosso Venezia dalla mia testa quando mia madre mi aveva rivelato di essere malata, non riuscivo più a pensare a quel viaggio come facevo prima tanto che alla fine avevo preferito chiuderlo a chiave in un cassetto che non avevo mai più aperto, almeno fino a quel momento in cui mia madre aveva deciso di farne all'improvviso una priorità assoluta mentre era bloccata in un letto d'ospedale, mentre era perfettamente consapevole della propria condizione fisica e del parere contrario dei medici che pesava ancora prima che provasse a chiedere il permesso di viaggiare. Avevo più paura io di quanta ne avesse lei di quella maledetta malattia. La prima volta che mia madre le aveva dato un nome mi ero scoperto paralizzato dalla testa ai piedi, disarmato dal suo coraggio e dalla sua ostinazione, come se all'improvviso mi mancasse la terra sotto ai piedi e fossi destinato a sprofondare. A livello emotivo, mi ero sentito svuotato, congelato, incapace di lasciar fluire le emozioni che non sapevo più come chiamare. C'erano momenti in cui mi sentivo ancora così e non potevo farci niente, se non lasciarmi andare a quello che sentivo quando mia madre era impegnata con la chemioterapia, anche se non ero mai stato in grado di nasconderle il dolore che si ostinava a scavare ormai ben oltre la soglia di sopportazione, dando vita a nuove voragini in posti impensabili. Avevo già capito in che direzione mi stesse portando lo sguardo di mia madre e mi affrettai a scuotere la testa prima ancora di affidarmi alla voce, a quel timbro gonfio di spigoli che sembrava ancora più crudo tra quelle pareti immacolate e silenziose.
‹ Non andrò a Venezia senza di te. ›
« Oh sì che ci andrai, invece. Voglio che me lo prometti e che non te lo dimentichi o firmo per uscire oggi stesso e mi avrai sulla coscienza quando me ne sarò andata. »
Sentenziò mia madre con una tale caparbietà da smorzare ogni replica da parte mia. Mi chiesi se fosse impazzita o se non fosse stata più lucida di così, tanto da rischiare e sacrificarsi ancora una volta per tenere accesa la speranza nella mia vita, per insegnarmi a non arrendermi anche quando tutto sembrava perduto, per la promessa di un viaggio che non si poteva più rimandare, anche se lei non ci sarebbe stata.
« Penso che tu abbia capito questa volta o ti saresti già arrabbiato. »
‹ Mi dispiace per quei diciassette anni, ti prometto che andrò a Venezia, mamma. ›
La sua mano sfiorò il dorso della mia in una lenta carezza, i lineamenti del viso si vestirono d'un sorriso abbagliante al pari dei raggi del sole che filtravano dalla finestra, le iridi color rame avevano raccolto quella promessa, a cui l'anima si era aggrappata per andare lontano, oltre l'indebolimento del corpo divorato dalla malattia.
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mariaceciliacamozzi · 4 years
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Indignazione
Oggi INDIGNARSI va a braccetto con l' oscurità. Una volta era sinonimo di disapprovazione, di risentimento, ci si indignava per esprimere una rabbia "sana", costruttiva, che auspicava a un cambiamento... Ora invece è usata per farti cadere nella frustrazione, nella desolazione, nella rabbia... quella inutile però, che ti mostra come un intero pianeta possa essere totalmente controllato, e portato al limite della sopportazione, della tolleranza, dell' incoerenza, appunto della dignità degli esseri... ed è qui che  l' indignazione entra in scena, trovando il suo miglior appetibile sciocco sostenitore in chi ancora è mosso da speranza, o da tenera visione utopistica di un mondo migliore. Ormai, ogni giorno, "pane e indignazione" si siede a tavola con noi e ci racconta sempre le stesse favole, terribili e angoscianti... una natura morente, un cielo grigio avvelenato, una terra contaminata, catastrofi ambientali giornaliere, animali torturati a milioni... e poi bimbi abusati, povertà, ingiustizia e violenza, e non per ultimo una solitudine dilagante, una vera piaga sociale... Ogni tanto viene offerto uno zuccherino, giusto per mantenere il livello di indignazione sufficientemente alto affinché faccia il suo lavoro di sfornare rabbia inutile e distruttiva e che muova quel tanto di malessere  emozionale per mantenere tutti in uno stato di sospensione mista a torpore, come un povero ubriaco che sbraita contro i suoi nemici immaginari fendendo l' aria di fronte a sé. L'indignazione è la nuova arma mediatica insieme alla paura che mette tutti al proprio posto come soldatini ammaestrati. Quasi tutti. Del resto, come non indignarsi vedendo tutto questo scatafascio mondiale... dove andremo a finire, si domandano tante persone. E così il mondo, apparentemente va avanti a testa bassa, mosso da fili invisibili che si muovono  follemente sopra di lui, che decidono e pianificano in una danza brutale e ipnotizzante, dove ogni passo viene ripetuto esattamente uguale in una infinità di palcoscenici, in una infinità di cicli, giorno per giorno, anno per anno. Sinceramente è già da tempo che non mangio più indignazione, ho fatto un passo indietro e sono scesa dalla giostra di questo circo patetico e delirante. Osservo questo spettacolo penoso seduta in un posto privilegiato, abbastanza vicina per registrare ogni cosa ma sufficientemente lontana per non esserne più travolta. Apparentemente immersa nelle cose del mondo. La crepa nel muro continua il suo percorso silenzioso e destabilizzante, e in questo suo cammino tortuoso ma solido, nel suo solco di VERITÀ, porta con sé tutte quelle Coscienze che hanno cominciato a ricordare che l' unico gioco vincente su questo pianeta è NON giocare. Non ti indignare, non esporre il fianco, rimani in quel potere magico in cui la mente non ha accesso, non può entrare. Permettile di guardare ma niente di più. Continua a girare in questo pazzo luna park ma non salire su nessuna giostra. Sviluppa la divina indifferenza. Tu che puoi.. dimentica abbastanza per andare OLTRE e ricorda abbastanza perché non succeda più! La liberazione è vicina. E per gli altri..tranquilli..e' settembre...e fra tre mesi è Natale!!
Iside Suberati
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arreton · 4 years
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Vorremmo poter dire che la quarantena da coronavirus ci lascerà traumatizzati perché siamo delle dramaqueen e ci piacciono le tragedie ed in fondo aspiriamo a fare tenerezza in giro con la speranza di essere accuditi come piccoli cuccioli indifesi abbandonati in strada sporchi e chiagnulenti, ma sappiamo che non è così. Sappiamo che finita la quarantena, se non ci impazziamo del tutto nel mentre – ma chissà che avvenga pure il miracolo di qualche trastullata senza problemi con l’esponente dell’altro sesso a cui abbiamo permesso di avvicinarci – una volta finita saremo semplicemente... più forti. Sì, proprio come un eroe americano. Non siamo poi così fragili psicologicamente, purtroppo – se avessimo avuto dei crolli, avremmo avuto la nostra sognata e aspirata attenzione – quindi probabilmente ci sarà un respiro di sollievo perché ci sarà permesso di ritornare a casa nostra, dalle nostre cose (di tanto in tanto chiediamo come stanno, cosa dicono, se c’è qualcosa fuori posto; oggi abbiamo pure controllato tramite videochiamata che effettivamente pare che tutto stia bene, volevamo anche farci aprire l’armadio ché ci manca pure vedere i vestiti belli appesi e sistemati, ma la connessione era balleria e quindi...) ma niente traumi, niente sensibilità acuita, niente di niente. A volte ci chiediamo se siamo fatti di gomma, però poi ci ricordiamo di tutti i reflussi gastrici, di tutti i capelli che perdiamo e quindi forse proprio proprio di gomma non siamo. Però non siamo così fragili e la cosa un po’ ci turba. Ci turba perché la resistenza ti fa diventare, allo stesso tempo menefreghista: sopporti talmente tanto che alla fine smette pure di interessarti; un po’ come quando eviti di prendere degli antidolorifici e man mano ti si alza la soglia della sopportazione del dolore e allora non riesci più a capire se una cosa ti fa male o no e soprattutto se il dolore che senti è preoccupante oppure no e allora smette di interessarti. Così impari a reggere situazioni, ad adattarti in qualche modo, a plasmarti al tuo ambiente, ti senti impoverito in qualche modo ma psicologicamente stai bene e se gli altri vedono che stai bene continuano a fare quello che sempre hanno fatto e quindi nulla cambia e allora si ritorna al punto di partenza: tu che ti adatti e alla fine smette pure di interessarti. Cerchiamo di afferrarci e aggrapparci con i denti e gli artigli, a più non posso, a quel poco di identità che pensiamo di avere, ci mettiamo l’orgoglio davanti per irrobustirla, il disprezzo, l’odio, ma è una lotta persa in partenza: non siamo niente di autentico, siamo l’ambiente che viviamo e quindi ci adattiamo. È una lotta intestina, tutta interna a noi, che cerchiamo di vincere: neghiamo l’evidenza ma così soffriamo solo di più. Ci lasciamo sopraffare dall’evidenza, ma così ci sentiamo del tutto smarriti, impoveriti, come se avessimo perso tutto quello che un tempo eravamo e che non era male, che andava aggiustato, ma non era per niente male. Ora dobbiamo ricrearci una nuova “identità” che comunque ci porteremo anche quando sarà possibile riacquisire parte di quello che eravamo. Se fossimo fluidi ci adatteremmo al terreno sul quale scivoliamo, ma siamo legnosi e allora ci impuntiamo. Ma il bastone si sta spezzando e la cosa, se da un lato la auspichiamo, dall’altro lato ci rattrista: non vogliamo cambiare, non vogliamo ricostruirci da zero, ma vogliamo arricchirci. Il punto è che per arricchirsi, cioè per aggiungere un qualcosa a qualcosa che già si aveva, si deve aggiungere un qualcosa di completamente diverso, e per fare ciò è necessario che si parta da zero. Odiamo questa sensazione di vuoto, di perdita, di sconfitta, di arretramento, di ritorno ad uno stato “primitivo”, ma è inevitabile. Non siamo più noi, ci siamo persi, non abbiamo più il controllo di noi stessi, in maniera totale e assoluta, abbiamo ammesso il diverso, abbiamo ammesso il cazzo e mo’ tutto è cambiato. È una lotta intestina, dicevamo, tutta interna: siamo noi, contro il cambiamento e ciò è inevitabile. È la violenza del cambiamento, la costrizione che impone il cambiamento, l’essere passiva  – come sempre  – è necessario, non c’è molto da fare, è come una puttana che non ha scelta se non prostituirsi: apre le cosce o la bocca e si fa scopare. Il cambiamento, sulla nostra psiche, ha lo stesso impatto. Quindi saremo foglioline fragili, dopo questa quarantena? Non crediamo, sappiamo reggere i colpi pure se a furia di problemi di stomaco. Ne andiamo fieri? Un po’ sì, un po’ no. Siamo solo stufi degli altri, dell’incapacità degli altri di essere altro al di fuori di loro stessi; ma ehi, in fondo non siamo anche noi così?
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berna282 · 5 years
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Psychedelic Space Trip with Deep Ambient Music       
MA CHI AVRA’ PERSEVERATO SINO ALLA FINE SARA’ SALVATO . (MATTEO 24:13) DARA’ VITA ETERNA A QUELLI CHE PERSEVERANDO NEL FARE IL BENE, CERCANO GLORIA,ONORE E INCORRUTTIBILITÀ’; (ROMANI 2:7) 
AVETE BISOGNO DI PERSEVERANZA ,AFFINCHÉ’,DOPO AVER FATTO LA VOLONTÀ’ DI DIO , RICEVIATE CIO’ CHE VI E’ STATO PROMESSO. ( EBREI 10:36) 
E’ QUI CHE CI VUOLE PERSEVERANZA DA PARTE DEI SANTI, QUELLI CHE OSSERVANO I COMANDAMENTI DI DIO E SI ATTENGONO ALLA FEDE DI GESU’’. ( RIVELAZIONE 14:12) 
MA CHI AVRA’ PERSEVERATO SINO ALLA FINE SARA’ SALVATO. (MATTEO 24:13)
CONN LA VOSTRA PERSEVERANZA SALVERETE LA VOSTRA VITA. ( LUCA 21:19) 
IN NESSUN MODO NOI DIAMO MOTIVO DI TURBAMENTO, AFFINCHÉ’ IL NOSTRO MINISTERO NON VENGA CRITICATO. ANZI,CI RACCOMANDIAMO COME MINISTRI DI DIO IN OGNI MODO: CON MOLTA PERSEVERANZA ,NELLE SOFFERENZE,NEI MOMENTI DI BISOGNO,NELLE DIFFICOLTA’ ,SOTTO LE PERCOSSE, NELLE PRIGIONIE,NEI TUMULTI ,NELLE FATICHE ,NELLE NOTTI INSONNI ,NEI DIGIUNI ; CON LA PUREZZA ,CON LA CONOSCENZA ,CON LA PAZIENZA, CON LA BENIGNITÀ’ ,CON LO SPIRITO SANTO, CON L’AMORE SINCERO,CON PAROLE VERITIERE, CON LA POTENZA DI DIO, CON LE ARMI DELLA GIUSTIZIA NELLA DESTRA E NELLA SINISTRA; NELLA GLORIA E NEL DISONORE,NELLA CATTIVA E NELLA BUONA FAMA.SIAMO CONSIDERATI IMPOSTORI EPPURE SIAMO VERITIERI , SCONOSCIUTI EPPURE SIAMO BEN NOTI, MORIBONDI EPPURE ,ECCO VIVIAMO ; PUNITI MA NON MESSI A MORTE, AFFLITTI MA SEMPRE GIOIOSI ,POVERI EPPURE ARRICCHIAMO   MOLTI, NULLATENENTI EPPURE POSSEDIAMO TUTTO. ( 2 CORINTI 6:3-10) 
IN MEZZO A VOI I SEGNI DI UN APOSTOLO SONO STATI COMPIUTI CON GRANDE PERSEVERANZA ,E CON SEGNI, PRODIGI E OPERE POTENTI. 
( 2 CORINTI 12:12)
TU INVECE HAI SEGUITO ATTENTAMENTE IL MIO INSEGNAMENTO , LA MIA CONDOTTA,I MIEI OBIETTIVI , LA MIA FEDE,LA MIA PAZIENZA,IL MIO AMORE,LA MIA PERSEVERANZA ,LE MIE PERSECUZIONI E LE MIE SOFFERENZE ,COME QUELLE CHE HO AFFRONTATO AD ANTIOCHIA, A ICO’NIO E A LISTRA. HO SOPPORTATO QUESTE PERSECUZIONI ,E DA TUTTE  QUANTE IL SIGNORE MI HA LIBERATO . INFATTI TUTTI QUELLI CHE DESIDERANO VIVERE CON DEVOZIONE A DIO UNITI A CRISTO GESU’ SARANNO PERSEGUITATI . ( 2 TIMOTEO 3:10-12)
FRATELLI ,PRENDETE A MODELLO DI SOPPORTAZIONE DEL MALE E DI PAZIENZA I PROFETI ,CHE PARLARONO NEL NOME DI GEOVA.ECCO,NOI CONSIDERIAMO FELICI QUELLI CHE HANNO PERSEVERATO .VOI AVETE SENTITO PARLARE DELLA PERSEVERANZA DI GIOBBE E AVETE VISTO QUELLO CHE GEOVA ALLA FINEN GLI RISERVO’, DATO CHE GEOVA E’ MOLTO TENERO E MISERICORDIOSO ( GIACOMO 5:10,11) 
TENENDO LO SGUARDO FISSO SUL PRINCIPALE CONDOTTIERO E PERFEZIONATORE DELLA NOSTRA FEDE, GESU’. PER LA GIOIA CHE GLI ERA STATA MESSA DAVANTI HA SOPPORTATO IL PALO DI TORTURA SENZA CURARSI DEL DISONORE,E SI E’ SEDUTO ALLA DESTRA DEL TRONO DI DI DIO. CONSIDERATE ATTENTAMENTE COLUI CHE HA SOPPORTATO TANTE PAROLE OSTILI CHE I PECCATORI GLI RIVOLGEVANO CONTRO I LORO STESSI INTERESSI,COSI’ CHE NON VI STANCHIATE E NON VI ARRENDIATE.  EBREI 12:2,3) 
SE  QUALCUNO ,A MOTIVO DELLA PROPRIA COSCIENZA DAVANTI A DIO, SOPPORTA DELLE DIFFICOLTA’ E SOFFRE INGIUSTAMENTE , QUESTA E’ UNA COSA GRADITA. INFATTI, QUALE MERITO AVETE SE VENITE PICCHIATI PER VOSTRE COLPE E SOPPORTATE? MA SE SOPPORTATE LE SOFFERENZE DOVUTE AL BENE CHE FATE , QUESTA E’ UNA COSA GRADITA A DIO. A QUESTO INFATTI SIETE STATI CHIAMATI ,PERCHE’ CRISTO STESSO SOFFRI’ PER VOI ,LASCIANDOVI UN MODELLO, AFFINCHÉ’ SEGUITATE ATTENTAMENTE LE SUE ORME. LUI NON COMMISE ALCUN PECCATO,NE’ FU TROVATO INGANNO NELLA SUA BOCCA. QUANDO VENIVA INSULTATO ,NON RISPONDEVA INSULTANDO. QUANDO SOFFRIVA , NON MINACCIAVA ,MA SI AFFIDAVA A COLUI CHE GIUDICA CON GIUSTIZIA . LUI STESSO PORTO’ I NOSTRI PECCATI NEL PROPRIO CORPO SUL PALO, PERCHE’ MORISSIMO RIGUARDO AI PECCATI E VIVESSIMO PER LA GIUSTIZIA .E ‘’PER MEZZO DELLE SUE FERITE SIETE STATI GUARITI’’. ( 1 PIETRO 2:19-24) 
LA PERSEVERANZA ,A SUA VOLTA, UNA CONDIZIONE APPROVATA ; LA CONDIZIONE APPROVATA,A SUA VOLTA, SPERANZA ; E  LA SPERANZA NON PORTA ALLA DELUSIONE ,PERCHE’ L’ AMORE DI DIO E’ STATO RIVERSATO NEL NOSTRO CUORE MEDIANTE LO SPIRITO SANTO CHE CI E’ STATO DATO. 
PERCHE’ RICORDIAMO CONTINUAMENTE DAVANTI AL NOSTRO DIO E PADRE L’OPERA CHE SVOLGE MOSSI DALLA FEDE,GLI SFORZI CHE FATE SPINTI  DALL’ AMORE E LA PERSEVERANZA CHE MOSTRATE GRAZIE ALLA VOSTRA SPERANZA NEL NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO. ( 1 TESSALONICESI 1:3) 
NON AVER PAURA DELLE COSE CHE STAI PER SUBIRE .ECCO,IL DIAVOLO CONTINUERÀ’ A GETTARE ALCUNI DI VOI IN PRIGIONE COSI’ CHE SIATE PIENAMENTE MESSI ALLA PROVA,E AVRETE TRIBOLAZIONE PER 10 GIORNI. SII FEDELE FINO ALLA MORTE E TI DARO’ LA CORONA DELLA VITA. ( RIVELAZIONE 2:10) 
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untitled42566 · 4 years
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La Via Crucis in attesa della resurrezione di ciascuno di noi
PESARO – Quella che qui siamo felici di presentare è la Via Crucis di Martin Engelbrecht, documento storico e religioso del 1720 circa. Si tratte di 14 incisioni che rappresentano la testimonianza della Passione di Gesù Cristo, simbolo della cristiana sopportazione umana delle sofferenze di questa vita terrena. Ringraziamo il professor Tenedini che ha messo a nostra disposizione la sua collezione di incisioni.
Nella maggior parte delle chiese sono visibili ai lati le 14 tavole della Via Crucis . I fedeli si fermano davanti ogni stazione e pregano. Molte volte queste stazioni sono strette , una dietro l’altra e a poca distanza dalle panche. Non sempre è stato così. La nascita della Via Crucis nella vita religiosa dei cristiani risale al Medioevo, quando si riproducono in Occidente i luoghi del martirio di Gesù. Con le Crociate e i pellegrinaggi in Palestina vengono cercati ed individuati i luoghi della Passione dando vita ad una grossa diffusione della Via Crucis nel mondo cristiano . Inizialmente il percorso veniva intrapreso solamente con una croce, poi successivamente nasce la iconografia delle stazioni. Merito dei Francescani quello di avere introdotto questa devozione nel mondo cristiano.
Dal Concilio Vaticano Secondo, pur non mettendo in discussione questa pratica popolare viene privilegiata la lettura della Parola, aggiungendo la stazione delle Resurrezione per percorrere sì il cammino doloroso del Cristo ma guardando alla Resurrezione della Pasqua.
Questo nostro lavoro vuole essere un contributo,in occasione della santa Pasqua, in questi tempi difficili per il nostro Paese e per il Mondo intero, inteso a dare un segno di fiducia e speranza nel futuro e per onorare e ricordare le persone decedute e che stanno ancora morendo in questa terribile pandemia . Un grazie gigantesco a chi si sta prodigando per salvare le vite e che spesso si ammala e muore . Anche la nostra vita è cambiata e siamo diventati più grandi e coscienti. Noi cercheremo di fare la nostra parte.
Hanno realizzato questa iniziativa le classi 3H e la 5D dell’Istituto Alberghiero Santa Marta di Pesaro, Aurora Boccali della 2F, il professor Aldo Tenedini e la professoressa Silvana Giacchè. Ringraziamo per l’incoraggiamento il Dirigente scolastico Roberto Franca.
Un contributo-riflessione inedito ci arriva dalla scrittrice Ada Birri Alunno, docente dell’Istituto Santa Marta. Il video è realizzato da Alberto Tenedini
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Sere di primavera. Anno dopo anno, sempre uguale. Fiaccole colorate. Cera che cola sulle mani. Bambini che ridono piano ma non abbastanza. Anziani assorti in preghiera. Il sacerdote con l’altoparlante. Mamma sono stanco di camminare. Fai silenzio. Mani strette più forte. Persone alle finestre. Le stazioni.
Quand’è che cade Gesù? L’arrivo dentro le chiese. L’odore di gelsomino, fuori e, dentro, di incenso.
Attende lì volto chino di Cristo. Crocifisso, i bambini non sanno bene perché, ma lo guardano, ferito. Non s’immaginano che le croci sono affari comuni. Che ognuno porta qualcosa di pesante che non si vede.
Cresciamo. Smettiamo di fare domande, di aspettarci risposte. Impareremo a confidare nei segni, negli odori, nelle parvenze vaghe degli spiriti.
Manterremo però, vivo e così saldo, il bisogno atavico di essere accolti. Di essere ancora prima, decisi. Come si decide la fede in un matrimonio, la fedeltà a se stessi negli adulteri.
Cominciamo il cammino a neanche un metro di altezza, protesi in avanti ad orizzonti delineati con garbo a volte sommario di chi ci precede. Chi eredita la percezione di Dio ha un privilegio, una ricchezza inestimabile. Dio offre senso alle crepe dei muri, alla sofferenza degli singoli, traduce gli eventi, benedice naufraghi e relitti. Permette il lieto fine nella narrazione delle sventure.
Facilita, Dio, questo cammino, oggi, nei giri a vuoto dentro le stanze. Nella consapevolezza d’esser così sorprendentemente legati allo straniero in qualunque sua forma. Abbiamo bisogno di mani altrui per essere felici. E di sole e di sapere che ci sono buone probabilità di salvezza. Come quando la terra ha tremato forte e ci siamo trovati appesi come biancheria dimenticata alle intemperie. Abbiamo bisogno di sapere che potremo cadere più volte, che potremo peccare, che Dio esiste e che ha l’odore di tutte le madri, quello che resta sui cuscini, cellule morte, sacra sindone famigliare, conforto per i figli che ci dormono senza sentirsi mai soli. Quell’odore soltanto ha il potere taumaturgico di allontanare i sogni avversi, gli incubi, la serie di mostri che collezioniamo e che trasciniamo ovunque come bambole di pezza, bestie morbide, inseparabili.
Abbiamo bisogno del tempo che occorre per poter lasciar detto di noi, un’impronta, un messaggio che ci sia appartenuto che ci identifichi in qualcosa che è trascorso ma che sia incapace di morte. Abbiamo bisogno di trovare una qualche conferma al nostro perverso auspicio di rivelarci esseri non dimenticabili.
Abbiamo bisogno che ci siano perdonate le cadute. Di migrare per le stazioni e avere la certezza di trovare sempre qualcuno ad aspettarci al binario.
Oggi più di quanto non sia avvenuto mai prima, abbiamo la necessità di andare, di poter camminare fosse anche verso un’esecuzione. Di non restare fermi. Di non restare soli.
Portare una croce renderla nota, attendere assoluzione o condanna. Passi onesti. Non abbiamo bisogno di poeti che cantino la necessità del fermarsi, l’ira della terra madre che si ribella e proclama il suo esistere al di sopra di noi.
Abbiamo invece bisogno di poeti che cantino il sacrificio di non poter toccare e di non toccarsi. La bontà di un Dio che prenda la forma e l’immagine che ognuno vuol dargli, ma un Dio che salvi, sopra ogni cosa. Che sollevi i morti dalle proprie bare, i vinti dalla loro sconfitta, i soli dalla loro nostalgia. I rancorosi dal loro male. I peccatori dalla loro umana discordanza alla consuetudine.
Abbiamo bisogno di un Gesù Cristo che tenga, con i più fortunati, il conto dei giorni trascorsi in questo limbo informe, di un Dio che tenga a mente i nomi dei morti, strappata com’è la possibilità di tenere la mano a chi ci lascia. Che li ripeta come lezione a tutti e a se stesso. Un dio che faccia compagnia, che racconti storie dai finali aperti, fino a che gli occhi non si fanno chiusi. Un Dio che indichi segni ai vivi, che sprigioni profumi, sottolinei dettagli, porti il conforto tangibile che manca all’evanescenza delle preghiere. Abbiamo bisogno di sperimentare la nostalgia per sentirci fallibili, incompiuti e magnifici.
Percorriamo una via buia della quale non sappiamo abbastanza, che pare così lunga e impervia. Si sovrappongono le croci. Santi si fanno gli schermi, finestre spazio temporali che offrono sollievo alla battaglia quotidiana contro la distanza, possibilità dell’ultima parola.
È via crucis straziante, ognuno a suo modo. E attendiamo la crocifissione, il supplizio, attendiamo che si oscuri il cielo, che si spenga il sole. Aspettiamo di essere inchiodati, di scoprire che ci sia qualcuno a struggersi per lo spazio vuoto che lasceremo. Abbiamo bisogno di essere amati fino alla fine. E sopra ogni cosa, di saperlo, senza censure.
Ma di quelle sere di primavera, è rimasta una vaga speranza. Il dolore piacevole della cera sulle mani. La consapevolezza di un arrivo. Suono di campane, calore del sole. Sappiamo che passerà, perché anche senza Dio, la vita è più pesante di qualunque croce.
E quando tutto questo sarà finito, sarà ancora gelsomino, incenso e senza eccezione alcuna, resurrezione di ognuno.
QUI SOTTO un video:
https://www.altrogiornalemarche.it/wp-content/uploads/2020/04/PESARO-via-crucis2020-04-06-1.mp4
  La Via Crucis in attesa della resurrezione di ciascuno di noi La Via Crucis in attesa della resurrezione di ciascuno di noi PESARO - Quella che qui siamo felici di presentare è la Via Crucis di Martin Engelbrecht, documento storico e religioso del 1720 circa.
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tmnotizie · 4 years
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di Antonella Baiocchi
SAN BENEDETTO – Il Coronavirus mette a nudo le nostre fragilità in tante maniere. Una di queste riguarda l’assunzione di responsabilità: ci obbliga a dover ammettere che “Se mi contamino  è colpa mia che non ho seguito le regole”.
Ognuno deve ssumersi la propria parte di responsabilità: una capacità a cui siamo poco avvezzi, in quanto “puntare il dito sugli altri” è una delle specialità degli Esseri Umani non sufficientemente alfabetizzati dal punto di vista psicologico (purtroppo la gran parte): la si utilizza per evitare di scoprirsi fallaci, per evitare di fare i conti con la propria coscienza e per continaure ad illudersi di essere onnipotenti ed infallibili.
Per qualche motivo, questa osservanza mette in crisi gli italiani: si fa fatica a stare a casa e soprattutto, a seguire le regole più dettagliate.
In particolare ha generato un certo sconcerto l’ultimo Vademecum anti contaminazione che gira nei social (“Protocollo per l’ingresso in casa. Azioni contro il COVID-19”) : tre pagine di regole comunque di un disarmante Buon Senso. Sui social imperversa la domanda: “la fonte è ufficiale? “ che lascia intuire la speranza di trovare “nella non ufficialità” un alibi per eluderle.
Come mai questa refrattarietà? Come mai davanti alle Regole a molti di noi si attiva la vocina interiore :”Non ce la posso fare è troppo pesante”?
Di seguito alcune indicazioni per contrastare questa vocina e diventare più ligi, perché oggi non si scherza: l’osservanza delle regole può salvare la vita.
4 INDICAZIONI PER SEGUIRE LE REGOLE IN MODO RAGIONEVOLE MA DETERMINATO
Convincersi che il pericolo è serio.
E’ necessario prendere consapevolezza senza Se e senza Ma, che non bisogna essere superficiali: il pericolo di essere contaminati esiste è assolutamente concreto.
Convincersi che “la responsabilità è anche mia”
E’ necessario prendere consapevolezza senza Se e senza Ma che abbiamo un importante ruolo nell’obiettivo di evitare la contaminazione: contrastare l’epidemia ed evitare di contaminarsi dipende molto da noi stessi e dalla nostra capacità di seguire le regole.
E’ indispensabile imporsi un determinato comportamento.
Convincersi di essere in grado di tollerare il sacrificio e l’incertezza.
E’ necessario contrastare il tossico dialogo interiore che ci ripete: “Non ce la posso fare , sono un incapace, non tollero pesi e restrizioni …”.
Quella “normalità” che  il Coronavirus ci ha improvvisamente interrotto, conteneva un benessere  di abitudini e comodità, che ci ha anche danneggiato ed indebolito: ci ha indotto a dimenticare la nostra capacità di saper vivere anche nella sopportazione, nel dolore, nella scomodità e nell’attesa speranzosa che “dietro le nuvole il cielo è sempre azzurro”.
E necessario quindi riprendere consapevolezza delle nostre positività e potenzialità.
Ci può aiutare in questo obiettivo:
ricordare le situazioni del passato in cui abbiamo tollerato e superato qualcosa che inizialmente ci sembrava insormontabile: quando subimmo un’operazione? quando ci costringemmo a studiare per superare l’esame? Quando ci sacrificammo per imparare a guidare il camion? Quando ci abituammo alle regole strette dell’ambiente lavorativo? Quella volta in cui abbiamo  sudato sette camice per riuscire a pagarci quella vacanza?
Se ci pensiamo bene ci verrà in mente quella volta in cui all’inizio credevamo di non potercela fare e poi invece abbiamo superato l’ostacolo.
Ebbene in quell’ambito abbiamo usato delle abilità che da qualche parte sono ancora dentro di noi. Dobbiamo aver fiducia che ci aiuteranno anche in questo nuovo difficoltà.
Può essere molto utile anche recuperare l’Orgoglio di Essere Italiani.
E’ necessario mettere fine ai pregiudizi che in molti (soprattutto gli stessi italiani) hanno nei confronti del popolo italiano tacciato di essere fannullone, superficiale e trasgressore di regole. Sono gratuite generalizzazioni!
Essere  italiani significa ben altro! Significa essere creativi, determinati, coraggiosi, meticolosi, passionali, generosi, impavidi! Sono le qualità che ci hanno resi grandi nel mondo. Se qualcuno ha bisogno di esempi, senza scomodare le meraviglie che abbiamo intessuto nella storia (l’Impero Romano, le meraviglie artistiche, le guerre che abbiamo combattuto, le invenzioni e scoperte in ambito scientifico, medico astronomico, le vittorie nell’ambito sportivo, le acrobazie delle Frecce Tricolori etc.) è sufficiente osservare oggi, come gli italiani stanno affrontando il Coronavirus: per tutti nomino il personale medico e paramedico che ogni giorno rischia la vita nel contrasto di questa nuova guerra. Siamo un esempio per il mondo intero! Ricordiamocelo perché questo aiuta a sentirzi forti.
Convincersi che l’Essere Umano non può ambire alla perfezione: accettare la propria limitatezza.
Spesso le persone non riescono ad applicarsi in un impegno perché hanno un ideale di performance troppo alto: dilaga la convinzione tossica  chi vale non sbaglia, chi vale fa qualcosa di TOP,  chi vale Vince. Questo tossico modo di pensare comporta una grande intolleranza agli errori (propri e degli altri) per cui, le persone, sconfortate dall’aver capito di non essere in grado di piazzarsi quantomeno sul podio, non provano neanche più ad applicarsi.
Può derivare anche questo aspetto il tossico dialogo interiore che ci inchioda a non applicarci negli impegni.
Ebbene per contrastare questo dialogo controproducente, bisogna liberarsi delle convinzioni tossiche ed assumerne di più realistiche, come ad esempio: convincersi che Essere Umano e Perfezione non sono compatibili (è una delle cose che si  apprendono in psicoterapia).
Il valore di una persona è quello di aver cercato di fare la propria parte nel proprio piccolo,   nel modo migliore che gli è stato possibile in quel certo momento.
Per mettersi in gioco è  necessario perdonarsi la propria limitatezza ed imparare a tollerare l’angoscia dell’incertezza (anche questa è una abilità che si conquista in psiciterapia).
Vivere nell’incertezza è doloroso, ma è un dolore con il quale dobbiamo imparare a convivere.
Chi ha Fede, ha una carta in più per proteggersi dall’angoscia di ciò che non controlla: può raccomandarsi al suo Dio e sentirsi più protetto.
Chi non ha Fede può cercare di tranquillizzarsi, in merito al Coronavirus,  con un pensiero più terreno: di Coronavirus non si muore al 100%, infatti molti non lo prendono e in molti pur avendolo contratto, guariscono.
Pensare solo e necessariamente all’eventualità della morte, oltre ad essere un pensiero irragionevole e non realistico (l’eventualità più alta infatti è quella di salvarsi)  alimenta il pensiero pessimistico  ed impedisce alla persona la RESILIENZA, di avere cioè gli ammortizzatori mentali necessari per non spezzarsi davanti alle difficoltà della vita.
In conclusione: alziamo gli occhi dal nostro ristretto circuito ed ampliamo la visuale:  siamo una grande famiglia dove ognuno è chiamato a fare la propria parte. Non è importante quanto piccola sia: ricordiamo che per far funzionare un motore è fondamentale anche il singolo bullone!
Ognuno, per sconfiggere la pandemia,  deve fare la propria parte, senza Se e senza Ma: stiamo a Casa e seguiamo le regole.
Siamo Italiani e ce la faremo!
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paoloxl · 7 years
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Che il sistema d’accoglienza istituzionale in Italia non sia affatto limpido non è sicuramente una novità; ma i fatti che sono successi al CAS di Isnello, in provincia di Palermo, permettono di comprendere più chiaramente cosa significhi nella pratica “accoglienza” in questo paese. I centri di accoglienza straordinaria (CAS), sono stati immaginati per sopperire alle mancanze del sistema ordinario. In teoria, svolgono funzioni temporanee ed il migrante non dovrebbe sostare lì per molto; ma ad oggi sono usati come strutture di ordinaria “accoglienza”. È dunque facile immaginare come tali strutture siano spesso inadeguate. Lamin, Kawsu, ed altri cinque Gambiani di età compresa fra i 18 a i 28 anni, una mattina di dicembre, sono stati tutti cacciati in malo modo dal CAS Piano Torre Park Hotel di Isnello. Ci incontriamo al circolo Arci Porco Rosso di Palermo. Qui esiste uno sportello di supporto legale ai migranti, il progetto Sans-papier del omonimo circolo Arci, che già da qualche mese monitorava la situazione del CAS Piano Torre, visto che erano arrivate delle segnalazioni sulle pessime condizioni della struttura. « I poliziotti sono arrivati una mattina, ci hanno chiamato per nome e ci hanno obbligato a firmare un foglio. Noi però non capiamo l’Italiano, per cui non sapevamo nemmeno cosa stessimo firmando, anche se avevamo capito che ci stavano buttando fuori» racconta Lamin mentre siamo sul bus che ci porta nei locali di Via Decollati della Missione Speranza e Carità di Biagio Conte, l’unico posto che gli avrebbe offerto un tetto sotto cui dormire. Ma perché questi ragazzi sono stati cacciati fuori, gettati in mezzo la strada senza un soldo ed un posto dove stare? E qui la storia diviene tanto interessante, quanto drammatica: questi ragazzi protestavano per i loro diritti e per le condizioni pessime in cui vivevano. «La notte staccavano l’elettricità, rimanevamo senza luce, riscaldamenti ed acqua calda. Ma il centro sta a più di 1200 metri, e faceva freddo, non potevamo continuare a vivere in questo modo. Poi non ci facevano fare le lezioni d’Italiano, cosa che, grazie ai ragazzi del Porco Rosso, sapevamo essere un nostro diritto. Allora siamo andati da “Mama Sara”- il gestore del centro- dicendole che avrebbero dovuto fare qualche cosa per risolvere i numerosi problemi» racconta Lamin con enfasi. Dopo varie settimane la situazione non cambia, i ragazzi decidono di scendere in piazza, bloccare la provinciale, per chiedere con forza il ripristino di condizioni umane. «Era una dimostrazione pacifica, giusto per far sapere alla gente che noi vivevamo qui, e che le condizioni in cui vivevamo non erano buone» continua Lamin «Quelli del centro hanno chiamato la polizia. È iniziato un dialogo con le autorità e abbiamo lasciato la strada. Quel giorno ci hanno preso i nomi, promettendoci però che sarebbero venuti al centro e che la situazione sarebbe stata discussa. Non sono mai venuti». rt5 La situazione non cambia, ed in più la cooperativa “Scarabeo”, quella che gestisce il CAS Piano Torre, aveva iniziato a pagare il cosiddetto ‘pocket money’ ai residenti con gravi ritardi (la cifra che viene data ai migranti per le piccole spese settimanali). Allora scendono nuovamente in strada, con le stesse dinamiche pacifiche. Questa volta la polizia gli intima che se lo avessero fatto un’altra volta sarebbero stati cacciati fuori dal centro. Kawsu racconta che i suoi fratelli hanno iniziato ad avere paura, vivevano con questa costante apprensione di essere cacciati via, e la frustrazione di dover subire quelle condizioni disumane senza poter protestare. «Poi i ragazzi del Porco Rosso sono iniziati a venire a trovarci, e loro ci dicevano che quelli erano i nostri diritti. Così ci siamo detti- È vero, questi sono i nostri diritti, non possiamo stare zitti, dobbiamo farci valere; ci devono dare luce, acqua calda e il pagamento del pocket money deve essere fatto in tempo» racconta con dignità e coscienza sempre Lamin. «Poi l’inverno arriva deciso, ed inizia a fare molto freddo. Per questo abbiamo iniziato a comprare delle piccole stufe con i nostri soldi. Loro ci hanno detto che consumavano troppo, e così ci staccavano la corrente per molte ore». Dopo questo fatto, i ragazzi raggiungono il limite della sopportazione. Tutti e 94 i residenti si riuniscono in un’assemblea, finita la quale, alcuni emissari, si recano da Mama Sara. Lei si rifiuta di parlare con loro senza dare spiegazione. Dopo una settimana da questo episodio, la polizia si presenta al campo con un decreto di espulsione nei confronti di 8 ragazzi gambiani, tra cui Lamin e Kawsu. «Io non ne sapevo nulla della dimostrazione. Anche perché non ero ancora arrivato ad Isnello. Ma sono stato comunque buttato fuori, pur non avendo fatto niente. Mi hanno detto che dovevo firmare questo foglio. Ma io gli ho detto che non lo avrei mai firmato, e che non sapevo nulla di quella roba» afferma Kawsu con convinzione «Mi hanno forzato a firmarlo. Ma io gli ho detto che mi avrebbero dovuto ammazzare e che non lo avrei mai firmato. Loro continuavano, ma io ero sicuro e non l’ho firmato. Ci hanno fatto una cosa gravissima, contro la nostra razza, fa molto male. Siamo senza un tetto» Nell’ordinanza di espulsione ci sta scritto che hanno danneggiato le strutture del centro e minacciato gli operatori della cooperativa «Questa è una bugia, noi non abbiamo fatto male a nessuno, abbiamo protestato pacificamente. Si sono inventati delle scuse per mandarci via. Questo è il vero razzismo fratello» dicono sia Lamin che Kawsu. Raggiunto al telefono l’Avv. Gabriele Lipani, legale dei ragazzi gambiani, ci dice come ha intenzione di gestire il caso «Nel decreto di allontanamento dal Cas ci sono alcuni vizi di irregolarità, ma non di nullità, come il fatto che non glielo hanno tradotto, che riporteremo al giudice. Tuttavia, noi baseremo la difesa e il ricorso, sul fatto che ci sta una sentenza del Tar che ammette l’allontanamento dopo le proteste dei residenti solo se sono stati compiuti dei danneggiamenti alle strutture d’accoglienza, altrimenti non è legittimo. I ragazzi non hanno danneggiato nulla, dunque confidiamo nella giustizia». A marzo probabilmente il giudice si pronuncerà, e forse i ragazzi possono essere reinseriti nel sistema di accoglienza. Nel frattempo, pernottano nel dormitorio comunale: entrano la sera alle 22, e devono lasciare la struttura la mattina alle 8. Questa triste vicenda mostra un altro episodio di razzismo istituzionale dello Stato. Uno Stato che tratta i migranti, in questo caso africani, come se non fossero persone di piena dignità e coscienza. Uno stato che fabbrica bugie per cacciare “i rivoltosi”, gente che protestava per il semplice ripristino di condizione degne di vita, di cui hanno diritto a prescindere dalla loro condizione di rifugiati. Giovani ragazzi gettati in strada senza un soldo ed sempre lo stesso Stato che si lava le mani, ma che continuano a puzzare di colpevole razzismo. Scipione, per Infoaut
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myvanillabean · 7 years
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Pt.5
Ho sognato la tua pelle e sapeva dirmi tantissime cose senza neanche una parola. Il silenzio della mia stanza, io e te come due stelle attaccate al cielo. Non ricordo neanche quando sei andato via, o meglio lo ricordo tutte le volte che mi appare il bloccoschermo del cellulare, per non dimenticarti mai mi dico. Per usare il cellulare devo inserire quei dannati numeri, ti sento andare via ogni pomeriggio ultimamente. Sei in ogni alba e vai via ad ogni tramonto, sempre alla stessa ora perchè comunque sarebbe impossibile dimenticare quel quarto d'ora dove ho capito che non era una lite qualunque, mi stavi lasciando per non tornare mai più. Certe volte che mi chiedo se quello sia stato il tuo modo per lasciarmi del tutto. Le liti in fondo erano una certezza nel nostro rapporto, spesso o poco spesso. La maggior parte delle volte decidevi di andartene, e in tutte queste volte ero io a venirti a cercare. Mi chiedo spesso, se non fossi venuta io da te dopo le liti, se non ti avessi supplicato di non mandare tutto all'aria, se non fossi stata io a rincorrerti per risolvere quelle maledette discussioni, tu lo avresti fatto? O mi avresti messo da parte, come una semplicissima ex di cui non ricordi neanche il nome dopo qualche anno? Me lo chiedo molto spesso, mi chiedo se il tuo lasciarmi così sia stato solo un modo per assicurarti che non sarei più tornata a cercarti per far pace. Mi piacerebbe chidertelo, e se la tua risposta fosse stata ti avrei risposto che non ha funzionato perchè sarei tornata a cercarti in ogni caso. Non c'è altra persona che vorrei cercare se non te. Probabilmente con quell'espressione che mi hai insegnato tu, quella spavalda, ti avrei detto che non ti sei impegnato abbastanza, perchè resto l'innamorata di sempre, della stessa persona di sempre, con i pensieri di sempre. E' difficile non pensarti, e alle volte fai ancora più male di quando eri qui, io credo che prima dei cambiamenti bisognerebbe avere un periodo di prova, solo per vedere come si vive dopo di te, se mi avessero detto quanto sarebbe stata tremenda questa vita dove tu non ci sei, probabilmente avrei aspettato, se necessario tutti quei tramonti malvagi. Ogni tramonto era più difficile, più stressante, più pesante,e tu perchè? Tu ci hai mai pensato a quante volte ho finto di non vederti per non discutere, a quante volte sono rimasta zitta, per non sputarti addosso quel veleno che mi bruciava dentro. Rimpiango di non avertelo detto, di non averti detto quanto stessi sopportando, ricordo quelle notti silenziose dove anche l'aria diventava pesante, aprivamo la finestra, ma non era il caldo, era tutto quello che non riuscivamo più a dirci. Mi ero promessa di sentirti sempre, averti sempre, viverti sempre, poi non l'ho più fatto, poi sono diventata la ragazza sempre di corsa, quella con gli orari insopportabili, nessuna pausa era la regola. Volevo dividermi e non era umanamente possibile, e cercavo di meritare quel posto di lavoro con tutte le forze che avevo. Non ti avrei messo al secondo posto, mai. Eri la mia certezza, trovarti all'uscita, addormentarmi tra le tue braccia, c'eri anche per quel tempo brevissimo, e mi sarei accontentata perchè sapevo che avrei superato quegli orari devastanti, che le dieci ore sarebbero diventate sei, poi quattro, poi solo il weekend, poi ti avrei portato in vacanza solo per vederti sorridere e mi sarei sentita soddisfatta di ogni sforzo. Ma purtroppo le cose non vanno così, mi volevi più presente e non potevo esserci. Alle volte riuscivo a liberarmi presto, e capirai, non era mai piacevole. Dopo dieci ore di clienti settentrionali, l'ultima cosa che desideravo era conoscere i tuoi amici, i classici figli di papà provenienti dal nord, con quel'accento insopportabile, le firme sui vestiti e i loro discorsi su quanto sia bello avere tutto pagato dalla mamma dentista e il padre avvocato. Io passavo giornate a farmi sanguinare le dita, uscivo dal lavoro con la maglia perennemente sporca di sugo e puzzavo di patatine fritte, non curavo i capelli da una vita e la mia acconciatura era sempre il classico chignon da cameriera. Ero sempre fuori posto e non ti accorgevi mai del mio disagio. Mi portavi dai tuoi amici sempre ben vestiti, lo smalto sulle dita, i capelli profumati, il trucco impeccabile. Loro erano in vacanza, io lavoravo per loro. Nonostante tu non lo capissi, loro sapevano benissimo quale posto occupassi. Mi guardavo dall'alto in basso, sempre. Erano i tuoi amici e i miei aguzzini, tanti di loro venivano al locale per il puro piacere di farmi impazzire, per portarmi alla risposta scortese, non sono mai riuscita a dirtelo. Non ho mai odiato gente a sproposito, o come dici tu, per gelosia. Tu eri a tuo agio e mi faceva piacere, ti sentivi meglio dopo un brutto periodo e nonostante mi sentissi nel posto sbagliato, al momento sbagliato, con la gente sbagliata, facevi sembrare tutto giusto. Ma dopo cosa è successo? Sono mesi che cerco di rimettere a posto pezzi di puzzle che sembrano scomparsi. Dormivamo insieme, dormivamo solo insieme, era il mio piccolo modo per sapere che c'eri, che mi aspettavi, che mi amavi ancora, che anche se non ero presente nelle tue giornate, le tue giornate sarebbero comunque iniziate e finite con me accanto. Era la mia piccola luce di speranza in quelle serate illuminate soltanto da te che passeggiavi al chiaro di luna, con tutte, tranne che con me. Non era una tua colpa se non potevo esserci, ma non era neanche necessario sostituirmi con la biondina di turno. Mi pesava ma continuavo a fidarmi di te, giravo per la sala e guardavo ovunque tranne che giù in strada, volevo vederti, ma con qualche amico, a parlare di interessi comuni, invece più il tempo passava, più ti allontanavi da me per avvicinarti a qualche scema che voleva aggiungerti alla liste delle avventure estive. Alle volte durante il servizio camminavo fissando il pavimento, abbozzavo sorrisi ai clienti e non vedevo l'ora di tornare in cucina a friggere patatite o sciogliermi le dita lavando montagne di piatti. Preferivo non saperti. 'Lui è lì ad aspettarmi, devo muovermi così vado via', pensavo, con la coscienza che non stessi affatto aspettando me, volevi goderti l'estate e senza di me tra i piedi forse ci stavi anche riuscendo. Poi c'è stata quella volta in cui l'hai fatta grossa.  Pomeriggio andavi al mare, prima aspettavi me, venivi a prendermi al locale e andavamo insieme, poi hai cominciato a dirmi di raggiungerti e forse è da lì che dovevo capire. Lo facevo, lo avrei fatto per te, d'altronde non era poi così importante che mi aspettassi a fine turno, potevo raggiungerti, non sono mai stata attaccata alle piccolezze. Ti ricorderai quel pomeriggio, mi avevi accompagnato a lavoro per il secondo turno e poi eri tornato in spiaggia. Non so se ci hai mai fatto caso, ma dalla terrazza riesco a vedere gran parte del porto, spiaggia compresa, come ho visto te abbracciare quella tipa in costume. L'ho trovato inaccetabile, avevamo avuto una discussione due ore prima sulla stessa ragazza e poi ci sei andato a mare insieme. Come se non avessi detto nulla, mi sono sentita trasparente. Ho avuto un'arrabbiatura che mi è rimasta fino a sera, fino alla fine del turno. La tua pelle mi apparteneva, come potevi permettere che una qualsiasi ragazzina ci mettesse le mani sopra? Non sono riuscita a trattenermi, non appena fuori dal locale te ne ho parlato e credo che ricorderò quei venti minuti come i più lunghi nella mia miserabile vita. Seriamente, cosa ti è preso? Se ma ti parlerò ancora me lo dovrai spiegare. Mi hai portato davanti a tutti i tuoi amici urlandomi contro, ero io contro tutti, contro tutta quella gente che mi faceva orrore, persino contro di te che eri il mio unico appiglio in mezzo a quegli squali, mi hai detto che ti avevo rovinato la vita. Mi si è gelato il sangue. Non ho parlato fino alla mattina seguente. A quella scenata non ho mai trovato una spiegazione, l'ho preso come un test di sopportazione, ma il test lo avevo superato, perchè non hai smesso? Mi ricordo tutti quegli occhi addosso e la puzza di frittura che avevo sui capelli, dovevo sembrare una povera disperata. Trattenevo le lacrime, e forse un'anima pia deve averlo capito dicendoti 'Non trattarla così, ora fate pace', è stata la frase che mi ha salvata, sono tornata in me ed ho accettato la vostra versione dei fatti, nonostante sia tutt'ora convinta che quel ragazzo fossi tu.
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pangeanews · 4 years
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“Povero Crane, un poeta autentico schiavo della dissipazione…”. Su Hart Crane, l’inafferrabile (una manciata di lettere e l’amicizia con Lovecraft)
Harold Bloom non amava le classifiche: pensava, nettamente, che la letteratura fosse una lotta tra titani. Nella lotta, va da sé, se ne salva qualcuno – a volte soltanto uno. Tra Thomas S. Eliot – che non amava – e Hart Crane, preferiva quest’ultimo. A suo dire, la poesia americana moderna dipende interamente da Crane e dal suo miracoloso poema, Il ponte. “Dopo una vita passata a criticare la visione letteraria e culturale di Eliot, mi sono arreso a The Waste Land. L’ho fatto perché Hart Crane, per comporre il suo poema, ha combattuto contro The Waste Land. La gloria de Il ponte, in effetti, risiede nella guerra ambivalente a The Waste Land, e in questa guerra è la ragione del suo miracolo”. Da una parte il deserto, il Tamigi, il Gange, dall’altre il ponte di Brooklyn, Capo Hatteras, Atlantide – i libri si compenetrano e compensano, in entrambi qualcosa va varcato, quasi tutto si perde. Ma se Eliot puntella con florilegio di citazioni ciò che resta dell’Occidente, Hart Crane invoca il volo, crede nel canto e nella trasformazione del clangore in falco. T.S. Eliot dopo la terra desolata trova un buon impiego in Faber; Hart Crane, invece, accetta la seduzione oceanica e il vagabondaggio. Nel triangolo gnostico di Bloom, Hart Crane è il lato che congiunge quelli occupati da Walt Whitman e William Blake.
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Hart Crane nasce in Ohio nel 1899, il padre ha inventato le caramelle “col buco”, non gli mancano i soldi. Gli manca tutto il resto – compresa una famiglia: i suoi divorziano presto. La vita, perciò, ricamata tra assenze, è dedita alla poesia: una poesia imbizzarrita, indomabile, che parte da Whitman e prevede Philip K. Dick, biblica e cosmica, crocefissa al prodigio. Il primo libro, White Buildings, è edito nel 1926, sotto gli auspici di Eugene O’Neill – “la poesia di Hart Crane è profonda e frutto di una ricerca vertiginosa; rivela un potere nuovo, diverso, una mistica della bellezza” – e di Allen Tate. Il suo libro più grande, The Bridge, esce nel 1930, per Black Sun Press, l’editrice di Wilde e di D.H. Lawrence, di Joyce, di Hemingway, di Faulkner. Nello stesso anno, insieme a Crane, escono Imaginary Letters di Pound, Marcel Proust (47 Lettres inedites a Walter Berry), Lewis Carroll. Il poema di Crane è in 283 copie numerate, adornata di tre fotografie di Walker Evans, il fotografo che lavorerà con James Agee. “The Bridge è finito nel 1929. Un’opera, con tutti i suoi squilibri, fra le più rappresentative della poesia americana del Novecento. Ma Crane pensa di aver fallito lo scopo. Quello che si trova tra le mani è un risultato diverso da quello progettato, non lo sa giudicare. Con la coscienza che, comunque, tutto debba essere tentato, e ancora legato all’idea di un’America senza confini, terra e mare, storia e leggenda, onnipresente, feconda e distruttrice, cerca altre radici, più lontane. Parte per il Messico, e ancora è sopraffatto – morbosamente – dall’ampiezza del disegno. Riprende la via del ritorno. Il 26 aprile 1932, dalla tolda della nave Orizaba, si getta in pieno Golfo del Messico. Il suo corpo scompare per sempre” (Roberto Sanesi).
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In effetti, il poeta non ha mai coscienza precisa di ciò che fa, non può – egli non scrive, getta e si getta, dopo una ingenerosa disciplina. Insoddisfatto, il poeta tenta il Messico di una innocenza sempre più arcana – fino a farsi corrodere, concorde all’ombra.
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Dalle lettere di Crane, ne ho scelte due, scritte dal Messico, la tappa definitiva. La prima è indirizzata a Katherine Anne Porter, scrittrice di talento – Pulitzer nel 1966 e tre candidature al Nobel – da tempo in Messico (e su questa febbre messicana, da Crane a Malcolm Lowry, da Artaud a Cormac McCarthy e Lawrence, bisognerà scrivere, vi passa un meridiano della letteratura del secolo). Crane denuncia a Katherine lo stato livido, la rabbia, il rimbambimento alcolico. L’altra è l’ultima lettera di Crane, alla matrigna, cinque giorni prima di morire. Crane ricama il desiderio di andare da alcuni amici, a New York; come sempre, è in bolletta. Nel groviglio dei futili problemi quotidiani sguazza il poeta, vertiginoso nell’ascesa: c’è come un’ansia alchemica nel leccare la vita negli angoli oscuri, a quattro zampe.
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Pubblicato qualche anno fa dalle Edizioni Grenelle (White Buildings, 2016; Key West e altre poesie, 2017) e da Mauro Pagliai (Il ponte. La torre spezzata, 2013), Hart Crane merita degno riconoscimento, proprio perché imbraccia una poesia sciamanica e d’acciaio, al di là dei furbi e forbiti giochi di parole, della poesia come grigio sorbetto civico. A novant’anni dalla prima edizione di The Bridge, spero che qualcuno recuperi la traduzione di Sanesi: pubblicata da Guanda nel 1967 poi da Garzanti nel 1984, con un primo studio come introduzione. Nella Library of America, con Complete Poems & Selected Letters, Crane occupa il numero 168, e 850 pagine di lirica celestiale, di lotta angelica. “Nessun poeta americano ha trasformato il corso della poesia in modo tanto deciso e rapace come Hart Crane. Nella sua vita breve e dolente, Crane ha modellato un linguaggio moderno che fonde la retorica elisabettiana agli enigmi estatici di Rimbaud alle espressioni profetica e la visione cosmica di Whitman”. Lo presentano così.
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Un brano da Atlantide, ottava – e ultima – lassa de Il ponte:
Fra i cavi di ferro allacciati s’inarca verso l’alto il passo svariante di luci, la fuga delle funi – rigide miglia di chiardiluna che appare e scompare sincopano la corsa bisbigliata, telepatia di fili. E fino al limitare della notte granito e acciaio – e maglie trasparenti – piloni limpidi risplendenti – tremano voci sibilline, ondulando trascorrono come se fosse un dio la prole delle funi…
E nella trama delle corde, con il suo richiamo, si sdipana un’arcata sinottica di tutte le maree – le labirintiche bocche della storia versano una risposta, come se tutte le navi si dolessero al largo in un respiro, vibrante, che diventa grido – “Rendi sicuro il tuo amore – per il cui canto noi continuiamo a tessere!” – E dalla costa nera, scandagli immoti in saluto, così sette oceani dal loro sogno rispondono.
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Non credo sia un caso l’amicizia dispari tra Hart Crane e H.P. Lovecraft: entrambi, in fondo, sotterranei rivoluzionari della letteratura americana. Il punto d’unione tra i due è Samuel E. Loveman (1887-1976), intimo amico di Crane – su cui scriverà diverse memorie – e di Lovecraft – faceva parte del ‘Kalem Club’, si scrivevano dal 1917; a lui H.P. dedica un poema. Certamente Crane incontra Lovecraft nel 1924 (in una lettera di giugno, parlando del “mio classico, puritano, pudico amico Sam Loveman, che ha tradotto in modo così affascinante Baudelaire”, cita “la signora Sonia Green e suo marito, Howard Lovecraft, dalla voce acuta” che insieme a Sam “si sono trascinati per gli slums fino al molo, fino alle quattro di mattina, a cercare esempi di architettura coloniale”). D’altronde, in una lettera di Lovecraft alla zia, Lillian, si fa cenno a Crane in questo tono: “Povero Crane! Un poeta autentico & un uomo di buon gusto, discendente da una antica famiglia del Connecticut & vero gentiluomo, ma schiavo della dissipazione e dell’alcolismo che rovineranno rapidamente la sua salute”. Così accade: “partito per il Latinoamerica certo di scrivere lì il suo capolavoro”, Crane non combinerà nulla, preda di allucinazioni alcoliche ed esperimenti sessuali – fino alla morte, cercata, accidentale, chissà. Ma è proprio lì, nell’incompiutezza, nel tentativo di una parola che superi tutte quelle finora espresse, alla soglia del silenzio, nella capriola, il capolavoro del poeta autentico. (d.b.)
***
A Katherine Anne Porter, Mixcoac, 22 giugno 1931
Cara Katherine Anne, le mie scuse stanno diventando davvero meccaniche tanto che, a forza di ripetermi, riesco ad assaporarne la minima finzione. Quindi devo lasciare la maggior parte di tutto questo a tua discrezione riguardo la potenza e la cattiva sorte di una dose eccessiva di tequila. Chiedi a Theodora se ho qualche possibilità di parlare e di poter spiegare, altrimenti capirò che non vuole essere importunata nemmeno fino al limite della sopportazione.
Come probabilmente Theodora ti ha già detto, ho passato la notte in prigione. A modo suo, era una punizione sufficiente, oltre ad avermi reso ridicolo in città. . . Tuttavia sono stato arrestato per niente, se non per aver affrontato il tassista a causa di una tariffa eccessiva. Ma se non fosse stato per l’attesa ­– ora dopo ora a cercare di mantenere il cibo caldo, la crema deliziosa e la mia indole dannata – non credo che ti avrei urlato contro in un modo così orrendo!
Non ti chiedo di perdonarmi, perché so quasi certamente di non avere più speranza. Ma dal momento che Peggy [Baird] sarà qui tra qualche giorno, preferirei, per il suo bene e per il mio, che non si sia cacciata in una scena tipica da Greenwich Village…
**
A Bessie M. Crane [la matrigna], Mixcoac, 22 aprile 1932
Cara Bess, scusatemi per aver collegato Byron [Madden] ai soldi, ma mi sono venute subito in mente così tante difficoltà e, debole per la febbre alta e la dissenteria, ho dovuto usare ogni modo per impressionarlo riguardo all’urgenza dei miei bisogni immediati. E immagino che potreste essere stata davvero preoccupata per rendervi conto, anche solo in parte, della situazione che c’è qui.
Nel complesso, ultimamente ho trascorso un periodo terribile. Non posso iniziare a scrivere i dettagli ora che ho quasi finito di fare le valigie. Domani sera parto per Vera Cruz e domenica mattina vado a Orizaba per poi tornare a New York. Avevo intenzione di tornare in Ohio anche prima che arrivassero le notizie scioccanti sulla questione di W.; e con tutto quello che è accaduto, non avrei mai pensato di restare qui un altro minuto. Potrei esservi di aiuto durante la prossima estate, impegnandomi soprattutto perché sarete bloccata (nel cottage) senza l’aiuto di Dorothy.
Non potete immaginare quanto sia difficile per gli stranieri rimanere qui e stare bene con i messicani. Adoro il paese e il popolo (indiani) ma per un certo periodo ho avuto numerose difficoltà con il passaporto, problemi con i servitori e altre complicazioni. Non sono stato solo malato, ma ero quasi spaventato dal mio ingegno perché mi è capitato, ingenuamente, di mettere il problema del rinnovo del passaporto nelle mani di un avvocato-truffatore. Non preoccupatevi, ho i documenti per la dogana; ma questo mi ha costretto a molte spese, consultazioni con innumerevoli persone e preoccupazioni infinite. Poi, all’ultimo momento, il mio domestico si è ubriacato, se ne è andato, è tornato, ha scosso il cancello urlando minacce contro la mia vita, terrorizzandoci per giorni, finché non fummo costretti a chiamare l’Ambasciata Americana per un servizio speciale di polizia, et cetera. Vi chiederete se sono stato ansioso di partire il prima possibile. Grazie a Dio, il contratto di locazione è già scaduto e non possono esserci ulteriori complicanze, che io sappia.
Ultimamente, mi è seccato attingere ai vostri soldi in modo così sostenuto, ma dopotutto non avevo modo di sapere come sarebbero andate le cose con la tenuta; e le spese per tornare a casa ora sembrano certamente giustificate in vista della possibilità di economizzare in seguito. Ci sono molte cose davvero importanti da discutere insieme, e inoltre non vedo l’ora di rivedere voi e il resto dei nostri amici e parenti. Vi porterò molte cose interessanti, alcune davvero belle che vi piaceranno, ne sono certo.
Una cassa di libri è stata inviata (a carico di Wells Fargo) ed è da ritirare direttamente in fabbrica. Vi prego di stare all’erta per questo. Le altre cose sono tutte in una grande cesta che porterò con me in nave e che verrà successivamente inviata in fabbrica da New York. Resterò a New York alcuni giorni perché devo vedere dei vecchi amici dopo così tanto tempo. Vi telefonerò la notte del mio arrivo verso le dieci quando le tariffe saranno ridotte.
Per favore, consegnate il mio amore alla piccola Dorothy. Ultimamente non ho avuto un attimo per scrivere, forse avrei dovuto scriverle molto tempo fa. Ieri ho passato tutto il giorno in giro a cercare di riscuotere denaro per vaglia telegrafico. Non è stata colpa vostra, e nemmeno mia. Peggy quasi è impazzita con il suo denaro inviatole dal precedente marito. L’ufficio del telegrafo ci ha ripagato con seicento dollari e alcuni strani “Tostons” (su come ottenere tutto in centesimi) e né l’ufficio della Ward Line né l’ufficiale Banco de Mexico li avrebbero accettati… Sembra che ci sia una legge contro il pagamento di una tale valuta oltre un certo importo. Ma come avremmo potuto saperlo? E poi, cosa vuol dire che, attraverso un ente governativo come il telegrafo qui presente e che pago in contanti, lo stesso governo, tramite la propria banca ufficiale, muti politica e lo rifiuti? Alla fine abbiamo dovuto organizzare un colloquio con il presidente della banca. Ero pronto a lamentarmi addirittura con l’ambasciata. Quindi vedete come le cose si muovono lentamente qui e quali ostacoli incessanti si devono combattere per il tipo di transazioni più semplici. Certamente mi sono innervosito, ma mi riposerò durante il viaggio in nave.
Hart Crane
*Il testo è tratto da “The Letters of Hart Crane (1916-1932)”; la traduzione è di Caterina Rosa
L'articolo “Povero Crane, un poeta autentico schiavo della dissipazione…”. Su Hart Crane, l’inafferrabile (una manciata di lettere e l’amicizia con Lovecraft) proviene da Pangea.
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