TMAGP004 - Prendendo Note
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[Il decrepito computer dell’O.I.A.R. si accende e inizia a registrare]
[Sentiamo il rumore di tastiere, e Sam che canticchia tra sé e sé]
[Qualcuno si avvicina a passi pesanti]
ALICE
(sussurrando) Ma che cavolo, Sam.
SAM
Cosa?
ALICE
Non azzardarti a dirmi ‘Cosa?’. Sono stata io a inventare ‘Cosa?’.
SAM
(A voce più bassa) Ch– Io… in tutta sincerità, non so di che cosa stai parlando!
ALICE
Ho appena ricevuto un avviso di sicurezza.
SAM
Su di me?
ALICE
Qualcuno stava provando ad accedere a dei file riservati. E io scommetto che sei tu.
SAM
Perché mai dovrebbero arrivare a te questi avvisi?
ALICE
Non dovrebbero! Ma dovresti essere strafelice che questo sistema non funziona come dovrebbe. Se Colin lo venisse a sapere avrebbe un attacco isterico!
SAM
Già, beh, grazie, allora?
ALICE
A quanto pare hai fatto una ricerca per i file con i termini…(sposta dei fogli)“Magnus” e “Protocollo”?
SAM
(Sorpreso) È per questo? Cioè, sì, okay, ho trovato un caso che citava l’Istituto Magnus e poi l’ho cercato e ho trovato alcuni file nel sistema che dicevano di applicare, (voce teatralmente severa) “Il Protocollo.” Perché dovrebbe essere riservato?
ALICE
Perché lavoriamo per il governo, e il governo ama i segreti, cretino!
SAM
Va bene! Sì, ho capito…
[Pausa]
ALICE
(meno arrabbiata) Senti, Sam. Non so cosa sia “Il Protocollo”, ma un paio di quelli della vecchia guardia lo ha nominato nel corso degli anni. Da come ne parlavano… è roba seria! Non vuoi nemmeno farti beccare vicino a quel genere di cose, men che meno a cercarla direttamente.
SAM
Beh, cioè, non è come se stessi -
ALICE
Non puoi andare a ficcanasare in questo genere di cose. Non se vuoi tenerti il posto… o la testa.
SAM
(leggermente divertito) Okay, okay! Ho capito. Considerami spaventato a dovere.
ALICE
Sono seria. Non voglio che tu finisca nei guai, chiaro?
SAM
(ha capito) Voglio dire… quanto nei guai?
ALICE
So solo che era coinvolta la Starkwall.
SAM
Starkwall? …Aspetta, Starkwall? Come la Starkwall del “Massacro di Piazza San Pedro!”
ALICE
La milizia privata, sì.
[Passi che si avvicinano in lontananza]
SAM
(urla-sussurrando) Pensavo fosse un “noioso lavoro d’ufficio”!?
ALICE
(urla-sussurrando) Lo era finché tu non ti sei messo a ficcanasare!
[Passi, Gwen si siede vicino a loro]
[Sam si schiarisce la gola]
[Pausa piena d’imbarazzo]
GWEN
Almeno potreste far finta che non stavate parlando di me.
ALICE
Oh, cavolo, ci hai beccati! Stavo solo dicendo a Sam quanto è importante che si concentri sul suo lavoro, altrimenti rimarrà intrappolato qui per sempre come te.
GWEN
Ma certo. Beh, abbassate la voce. Qui c’è gente che sta cercando di lavorare per davvero. Nel nostro posto di lavoro. Che ci paga.
SAM
Sì, ricevuto.
[Gwen fa un doppio clic al suo computer]
NUOVA VOCE DEL COMPUTER
Mio caro nipote -
ALICE
(ad alta voce sopra l’audio) Hey! Augustus! È una vita che non lo sentivo!
VOCE DEL COMPUTER (AUGUSTUS)
Se stai leggendo queste parole allora io me ne sarò già andato, e non potrò offrirti alcuna garanzia sulla -
SAM
(Sopra l’audio) Allora, questa è, tipo, una voce rara?
[Gwen preme spazio, irritata]
[La voce si ferma]
ALICE
Tipo. Di solito sono solo Chester o Norris. Augustus è come un avvenimento speciale.
GWEN
Uno, non hanno dei nomi. Smettila di dargli dei nomi. Due, mi lasciate per favore continuare a lavorare.
SAM
Mi dispiace.
ALICE
A me no.
[Gwen fa un respiro per calmarsi, poi pigia di nuovo spazio]
VOCE DEL COMPUTER (AUGUSTUS)
Mio caro nipote, [ndt: nipote di zio]
Se stai leggendo queste parole allora io me ne sarò già andato, e non potrò offrirti alcuna garanzia sulla loro veridicità. Dovreai semplicemente confidare nella loro autenticità e contenuto.
Tieni per te ciò che leggerai, e mantieni il segreto, per tutta la tua vita.
Devo sperare che la misera eredità che posso offrirti evochi un minimo di quell’affetto familiare che negli anni passati non mi sono curato di mostrare.
[La voce di Augustus si fa immediatamente umana; sembra un raffinato signore di una certa età]
Nipote, a te lascio il mio violino, uno strumento di altissima fattura.
Confesso di aver un tempo contemplato l’idea di distruggerlo, o di gettarlo tra le fiamme, ma certe volte sono stato definito bramoso, e forse tale accusa ha del fondamento, poiché adesso io non riesco a farlo.
Nell’ultimo paio di settimane qui è caduta molta pioggia, che si è rivelata stranamente affine alla mia vena sentimentale, ed ha portato con sé un pizzico di nostalgia per quell’estate uggiosa che hai trascorso da me.
Mi fa piacere pensare che potrei aver lasciato su di te una qualche impronta di me stesso nel periodo passato insieme, e forse in questo modo cerco di continuare a possedere il mio prezioso violino.
Non ho mai raccontato ad anima viva di come sono entrato in possesso di questo violino, ma devo confidarti la verità che cela, poiché questo, e la sua storia, adesso sono tuoi.
Ero un giovanotto, più giovane di te ormai, quando venni convocato a dare prova del mio talento di fronte all’Orchestra Reale di Corte del Palatinato.
Anche se devo confessare che il pensiero di abbandonare le comodità materiali di Alnwick Abbey mi intimoriva, in verità, ebbi poca voce in capitolo, e il privilegio di tale invito mi era ben evidente.
Il mio maestro di violino, un certo (sprezzante) “Oliver Bardwell”, covava la convinzione che tale onore fosse puramente frutto del suo talento di insegnante, piuttosto che il risultato delle mie capacità e dei miei sforzi.
Bardwell, un uomo eccezionalmente seccante, godeva nel ricordarmi che, sebbene mio padre fosse un Lord, il disdicevole contesto della mia nascita faceva sì che io non potessi fare affidamento sul suo titolo per garantirmi un futuro.
Durante quei momenti di crudeltà da parte di Bardwell, confesso che nella mia immaginazione contemplavo con piacere le macabre o grottesche sorti che potevano capitargli durante il viaggio, puramente per caso… oppure per mano mia.
Ciò nonostante, fu sia con apprensione che gioia nel cuore che osservai Alnwick Abbey farsi sempre più piccola. Il mio itinerario era diretto a Mannheim, una destinazione dove sentivo con una certezza tipica della gioventù che il mio talento sarebbe stato finalmente riconosciuto.
Per quel che riguarda il mio intoccabile padre, con la sua incrollabile certezza della sua celestiale importanza, anche lui scomparve all'orizzonte, circondato dai miei inutili fratellastri, che aspettavano con impazienza la loro eredità.
Naturalmente, fu il signor Bardwell a farsi carico del ruolo di accompagnatore per il mio viaggio attraverso il continente, senza dubbio coltivano i suoi sogni di innalzarsi grazie ai miei imminenti successi.
Feci poca attenzione agli sproloqui o alla sua ambizione, trascorrendo quelle settimane di viaggio a raffinare i movimenti delle dita sul collo consumato del mio adorato Rogeri, almeno per quanto la carrozza traballante lo permettesse.
Purtroppo, con il lungo andare del viaggio, le perfette buone maniere e la patina di raffinatezza di Bardwell si erosero poco a poco, e quando la calura estiva lasciò il posto al fresco dell’autunno, i suoi modi si inasprirono non poco, una metamorfosi spronata da ogni sobbalzo e scossone della vecchia carrozza.
Presto, un'inquietudine febbrile si posò su di lui come un velo di tulle, e i suoi occhi, un tempo acuti, si annebbiarono con un luccichio frenetico, quasi maniacale.
Guardavo con crescente preoccupazione mentre le ombre danzavano sulle pareti dei suoi pensieri, la loro forma e natura a me celate salvo per quanto riuscivo a cogliere del suo borbottio a malapena percepibile all’udito. In alcuni momenti sembrava quasi che stessi ascoltando della musica lontana, anche se il mio strumento sedeva silenzioso accanto a me.
Ho accennato alle macabre fantasie che occasionalmente occupavano la mia giovane mente, ma devi credermi, nipote, quando dico che non ho avuto alcun ruolo nella sua morte. Non so che cosa sia stato alla fine a causare l’episodio frenetico che lo colpì quella notte. Aveva dormito poco nella settimana precedente, e l’affaticamento dei suoi nervi era evidente.
Fu quando sbagliai la posizione delle dita di quello che sarebbe dovuto essere un semplice esercizio, un errore che attribuisco agli sballottamenti della carrozza, che balzò in piedi. Dalla sua bocca uscivano fiotti di parole, prive di coerenza, una sinfonia di follia diretta da un invisibile maestro nella sua immaginazione.
Era come se degli spettri si agitassero proprio dietro la sua vista e gli avessero afferrato le mani, muovendole liberamente mentre il signor Bardwell cercava la salvezza, da quei fantasmi che perseguitavano i suoi sogni ad occhi aperti.
Spesso mi chiedo se avessi potuto fare qualcosa per salvargli la vita. Ma ero giovane e terrorizzato, e sono rimasto a guardare in muto sbalordimento.
Mentre la tempesta nella sua mente si avvicinava a un crescendo, Bardwell afferrò la maniglia della porta della carrozza, l’aprì all’improvviso, e, senza esitazione, si gettò di testa nelle tenebre della notte.
Il cocchiere, accortosi immediatamente di quanto era successo, arrestò di colpo la carrozza, e affrontammo il cupo spettacolo che si trovava di fronte a noi.
Una roccia, macchiata con i disgustosi resti della mente disturbata del mio maestro e dei frammenti del suo cranio fratturato, faceva macabramente da lapide, svettando sopra il corpo senza vita dell’odioso signor Bardwell.
Nella mia ingenuità mi girai verso il cocchiere per chiedergli cosa avremmo dovuto fare. Purtroppo, mi accorsi subito di quale sospetto si era impossessato di lui.
Aveva assistito alle numerose e accese discussioni tra me e il signor Bardwell, e quando mi avvicinai, divenne evidente che non vedeva un giovane terrorizzato e smarrito, ma un violento assassino.
Una paura animale si impossessò dell’uomo, e agì d’impulso. Non parlerò di quanto avvenne dopo, ma basti dire che mi ritrovai da solo, a vagare nella notte.
Per quanto tempo camminai in quel bosco, non saprei dirlo. Ero come intorpidito, e l’oscurità avvolgeva ogni cosa.
Non so se definirlo una fortuna o una sventura, quel capriccio del destino che mi salvò, ma dopo un po’ di tempo vidi tra gli alberi il tremolio di un fuoco e una figura, accovacciata lì vicino per scaldarsi.
Un gentiluomo dai modi sorprendente raffinati, a quanto pareva, sedeva lì, creando una distinta sagoma contro la luce del fuoco.
“Spreekt u Engels?” chiesi in un Olandese tentennante, i distaccati insegnamenti del signor Bardwell mi avevano lasciato ancora ignorante del Tedesco.
“Ah, un altro Britannico,” fu la sua calorosa risposta, accompagnata da una risata cordiale.
“Dal tuo aspetto sembri affamato,” continuò, e mi offrì dei rozzi bocconcini di carne allo spiedo, quasi carbonizzati dalle fiamme.
Ormai privo di cautela, e con un'acuta consepevolezza del mio stomaco vuoto, accettai la carne bruciata senza cerimonie.
Seduto accanto al fuoco, mi chiese con tatto come avessi fatto a finire lì, e mi ritrovai a raccontargli, più sinceramente di quanto volessi, la vera storia, senza abbellimenti, di non solo la notte appena trascorsa, ma della mia vita fino a quel momento.
Ascoltò il mio racconto con attenzione, il suo sguardo non vacillò nemmeno una volta e sembrava gentile. Poi sospirò.
“Oh, sembrerebbe che la sorte ti abbia abbandonato,” disse tra sé e sé, la sua espressione imperscrutabile e il suo tono stranamente cospiratorio.
“Davvero, a mio avviso serve proprio un colpo di fortuna.”
Mi dissi d’accordo, e il sorriso che gli attraversò il volto, come se il mio parere avesse sancito un qualche patto tra di noi, fu davvero strano.
Lo sconosciuto portò una mano dietro il ceppo su cui sedeva e prese un sacco dalla forma insolita. Riuscii a vedere, al suo interno, una varietà di oggetti, che andavano da coltelli malconci a porcellane sbeccate a gioielli bellissimi, piccole figure di avorio e anche un assortimento di dadi per il gioco d’azzardo.
“La fortuna può assumere una miriade di forme,” proclamò lui, in un modo caloroso ed invitante, “e oggi assume la forma di un semplice viaggiatore che ti offre la sua merce. Avevi detto che suoni il violino, se non erro?”
[Una breve sequenza di note si intreccia con le parole che seguono]
Affondò la mano nella sua curiosa sacca, e dopo aver cercato per un momento o due, tirò fuori uno strumento la cui altissima qualità era talmente evidente che la fatalità della sua apparizione sembrò quasi ultraterrena.
Posò un archetto sulle corde, e con un unico fluido movimento, eseguì una riecheggiante nota doppia che risuonò con un tono soddisfacente.
Non disse una parola mentre lo esaminavo, non gli attribuì una storia, nessun famoso artigiano o mastro liutaio.
Il collo, un esempio di perfetta simmetria, conduceva l’occhio dalla ricca sfumatura di cremisi della parte superiore della cassa armonica che lasciava spazio al mogano naturale scendendo verso il basso.
“Ah, è questo il volto della fortuna oggi?” chiese lui, osservando mentre le mie dita percorrevano la lunghezza delle corde.
In quel momento un urlo di dolore irruppe dalla mia gola, un urlo che che sorprese anche me, quando mi resi conto che mi ero tagliato il polpastrello sulle corde.
Il mercante si limitò a sorridere, guardandomi come uno potrebbe guardare un bambino che ha toccato una pentola sul fuoco.
“Non ho niente da offrire in cambio,” confessai, non ero abituato a trovarmi senza mezzi, e feci per restituirgli il violino.
“Allora non consideriamolo un acquisto, ma un dono, da un vero amico.” Le sue parole erano piene di calore, eppure avevano una connotazione che sembrava sfuggire alla mia comprensione.
Prima che potessi fare altre domande, quest’uomo, il cui nome non avevo mai pensato di chiedere, fece un gesto verso il sentiero e, iniziando già a gettare della terra sul fuoco, mi rassicurò che la mia destinazione si trovava a poche ore di camminata.
Come stordito allora lasciai il mio compagno, e presto divenne evidente che aveva detto il vero, e che questa sventura era avvenuta a meno di un giorno dalla fine del mio viaggio.
E così in fine giunsi alla Scuola di Manheim, quella culla di virtuosi che avrebbero onorato i palchi più importanti di tutta Europa, attratto dalle sue promesse. I luminari che aveva formato, nomi illustri come Grua, Stamitz, Richter, e Fraänzl, rendevano la possibilità di essere ammesso alla scuola, e ai loro ranghi, ammaliante.
Non si parlò di come ero arrivato, né di quanto mi fosse successo durante il viaggio, e dopo qualche giorno venni condotto in una sala meravigliosa, dove sedeva il gruppo che mi avrebbe valutato. Un tremore di apprensione mi percorse il corpo quando mi ritrovai di fronte alla giuria silenziosa, e fu con una nuova sensazione di insicurezza che impugnai il mio nuovo strumento.
Il suo collo, più sottile di quello del precedente, era strano nella mia presa, e quando iniziai le mie dita tentennano cercando di far presa sulle corde.
Tentai la prima delle esecuzioni che avevo provato e riprovato, ma suonavo in maniera poco elegante e approssimativa, evocando solo qualche sussurro sprezzante, e un borbottio di derisione dal mio pubblico.
Sentii un’ondata di indignazione e paura, causata dalla consapevolezza che io, il peccato di mio padre, che aveva commesso cose orribili per raggiungere quella sala, non sarei mai potuto tornare a casa in disgrazia.
Eseguii una ‘jete,’ una prepotente richiesta musicale della loro attenzione, una dichiarazione che dovevo essere visto e sentito.
Una raffica veloce e perfetta di undici note, dopo la quale non rimase nessun mormorio, nessun sussurro. Avevo la loro più totale attenzione.
In quell’istante di silenzio, un lancinante dolore si propagò dal mio anulare sinistro.
Quando aprii gli occhi, vidi del sangue gocciolare sul collo del violino da dove sarebbe dovuta essere la mia pelle, in quanto lo strato più superficiale del polpastrello ciondolava, strappato e a malapena ancora appeso come pergamena strappata.
Il dolore e il panico esplosero, ma non avevo altre opzioni se non suonare, e suonare le melodie più ambiziose che la mia mente potesse richiamare.
All’inizio lentamente, in quanto sentivo le corde correre lungo la mia carne insanguinata, poi accelerando velocemente, crescendo misti a diminuendo, una danza di ordini e sottomissione eseguita sulle corde.
Doppie note, pizzicato con la mano sinistra, e staccati strazianti si alternarono in una rapida successione, ogni nota evocava qualcosa di profondo e primordiale. Potevo vedere lo sbalordimento sui volti del mio pubblico, e qualcosa non dissimile dal terrore, e quando infine risuonarono le ultime note, si poteva sentire il respiro che la sala aveva trattenuto.
Fui, ovviamente, accettato, e il mio talento venne riconosciuto come singolare.
Eppure un sospetto si insinuò in me. Mi resi conto che i ruoli di ‘musicista’ e ‘strumento’ non fossero così ben definiti con questo affamato violino. Era una creatura con i propri bisogni e i propri scopi.
I bisogni erano abbastanza semplici. Sangue. Carne. Non in quantità eccessive, all’inizio. Sella pelle grattata via e tagliata e che cantava per il dolore. E le ricompense erano grandi, in quanto con ogni esibizione, la sofferenza si mescolava alla melodia, e le mie dita sanguinanti inumidivano quelle corde.
Anche il mio pubblico mostrò un notevole appetito per la mia arte, e mentre progredivo lungo il percorso scolastico la mia reputazione iniziò a crescere.
Ero richiesto, osannato, celebrato. E per tutto il tempo, sanguinavo. Quelli che mi ascoltavano si erano mai veramente accorti del mio sacrificio?
Vedevano la lenta trasformazione delle mie dita, mentre ogni sonata estraeva il suo prezzo? Gli applausi mi seguivano mentre ogni lunga nota era accompagnata dal mio sangue vitale, e dal mio dolore.
Eppure continuai a suonare per loro. Come avrei potuto fare altrimenti?
Ero fiero, un uomo indipendente, le mie più grandi ambizioni realizzate. Eppure, mentre venivo ricoperto di ammirazione, non fui mai elevato oltre i confini delle mie origini. Il raffinato mondo dei miei nobili patroni mi era inaccessibile.
Ricevetti una discreto patrimonio, un po’ di fama accompagnava il mio nome, ma non mi fu mai concesso di sfuggire del tutto alla condizione della mia nascita.
Fu solo allora, nelle profondità del mio dolore e della mia amarezza, che scoprii una verità nascosta. Una verità che adesso ti consegno, assieme al violino.
Il sangue per le sue corde non deve necessariamente essere tuo.
Non fu il semplice altruismo a portarmi ad accettare posizioni di tutoraggio in quelle trafficate città in cui offrivo i miei servigi, dando un’educazione musicale ai poveri e ai facilmente dimenticati, senza chiedere niente in cambio. Niente tranne che per uno studente ogni tanto, di cui nessuno avrebbe sentito la mancanza.
Forse per questo sbiancherai, e mi condannerai come un mostro. Ma scoprirai che nutrire questo strumento, adesso tuo, è di vitale importanza. Solo una volta l’ho suonato senza pagare il suo prezzo: avvolgendo le dita in spesse bende affinché le sue corde affilate mi tagliassero.
Avevo pensato che avrei suonato in maniera smorta, che alla mia performance sarebbe mancata l’ispirazione. Eppure la musica che venne dal mio strumento quel giorno fu in qualche modo più bella di quanto non fosse mai stata. Era vivace, pulsante, portava con sé uno spirito di movimento, un irresistibile bisogno di danzare. Guardai verso il mio pubblico, un piccolo gruppo di borghesi Austriaci minori, e vidi nei loro occhi uno sguardo strano e familiare. Uno che non vedevo da molti, molti anni. Non da quella notte nella carrozza con lo sventurato signor Bardwell.
Poi si scagliarono gli uni contro gli altri, una danza di denti e unghie, strappando e tirando. Guardavo mentre un uomo che soffriva di gotta vestito di seta smeraldo succhiava gli occhi dalla testa del figlio e li schiacciava nella bocca come ciliegie mature. Una riservata giovane donna ornata d’oro strappò le gote del suo promesso mentre cantava seguendo la musica che non riuscivo a smettere di suonare. Fu solo quando un candelabro venne ribaltato e la stanza fu avvolta dalle fiamme che riuscii finalmente a interrompere la mia esibizione, e a fuggire.
Forse tu darai prova di maggiore forza di volontà, e riuscirai a distruggere questa cosa affamata fatta di legno e intestini di gatto.
Ma io non posso farlo. E non intendo farlo. Poiché la mia musica, ah, la mia divina musica, è davvero un balsamo per le ferite mai rimarginate della mia esistenza.
Nelle sue celestiali melodie ho trovato conforto, un rifugio tessuto da fili eterei.
E forse lo troverai anche te.
Nutri il mio violino, nipote, poiché io gli ho dato tutto ciò che possiedo e ancor di più.
[Sam hai i brividi]
[Gwen continua a scrivere mentre parlano]
ALICE
Il caro nonno Augustus racconta sempre delle storie così carine.
SAM
Perché mai qualcosa del XVIII secolo dovrebbe finire nella lista di Freddy?
ALICE
(con un ghigno) Ti avevo detto che Gwen era rimasta indietro.
GWEN
(Irritata) Qualcuno ha probabilmente digitalizzato un vecchio reperto storico ed è finito nel motore di ricerca.
ALICE
E fu così che venne risolto il mistero della Lettera Alquanto Vecchia. Cavolo, ho i brividi.
GWEN
Forse se lavorassi per davvero ti scalderesti.
[Sam ridacchia]
ALICE
(a Sam) Sì, potresti ritrovarti un reperto storico per errore. Non perderei tempo a catalogarlo o a valutarlo.
GWEN
Mentre io consiglierei al nostro nuovo collega di ricordare che viene pagato proprio per fare questo. Tra l’altro, serve comunque per il tuo punteggio.
ALICE
E a te serve davvero quel punteggio, no, Gwen?
GWEN
Serve a tutti.
ALICE
Non a me!
[Alice pigia un bottone e il suo pc si spegne]
Ho finito. Sam?
[Alice prende le sue cose]
SAM
Più o meno…
ALICE
Allora vi invito gentilmente a togliervi dalle scatole ed andare a casa a riflettere su quanto sia importante concentrarsi sul proprio lavoro.
SAM
Sì. …sì.
[Anche lui prende le sue cose]
Vieni, Gwen?
GWEN
Non ancora.
ALICE
(allonanandosi) Proprio come avevo detto. A presto, Gwendoline cara, adios.
SAM
(la segue, silenzioso) A domani.
GWEN
(continua a lavorare) Hmmmm.
[I passi di Sam ed Alice svaniscono mentre escono]
[Silenzio, tranne per Gwen che scrive]
[Un Ding! Improvviso, come la notifica di un’email]
GWEN
Hmmmm?
[Fa un doppio clic]
[Inizia una registrazione, la qualità dell’audio è pessima]
KLAUS
(video, supplicando) Ti prego. Ti prego, non devi farlo!
LENA PIÙ GIOVANE
(video) Sappiamo entrambi che devo.
GWEN
(Riconoscendola) Lena?
KLAUS
(video) Po-Potrei sparire di nuovo! Non lo saprebbero mai!
GWEN
Ma che diavolo?
[Il computer si spegne]
[Traduzione di: Victoria]
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