Tumgik
#un posto per scrivere che hanno spostato
fujikoi · 4 months
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ci sarebbe interesse per una comunità dedicata alla tv italiana? tv in generale
qualcuno l´ha già creata?
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katherineee00 · 4 years
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Quando la violenza non è solo fisica...
Mi sto controllando con tutte le mie forze per non impazzire, le mani mi tremano, il cuore mi batte così forte che me lo sento in gola, la testa mi vaga da un pensiero all'altro alla velocità della luce, vorrei tirare un pugno così forte da spaccarmi il braccio, da scoppiare a piangere per il dolore lancinante al braccio e non sentire più il dolore che provo dentro. Io ci ho creduto davvero in questa relazione, io davvero ci ho messo tutta me stessa, ho fatto tutti gli sforzi possibili per farla funzionare, e ci tenevo, ci tenevo come a poche cose ho tenuto nella mia vita. Ma lui mi ha fatto sentire un fallimento, mi ha fatto sentire inferiore, mi ha fatto sentire brutta, mi ha fatto sentire stupida, mi ha fatto sentire la seconda scelta, mi ha costretto a cambiare il mio aspetto, a fare di tutto per piacergli esteticamente, a cambiare il mio carattere, mi ha fatto diventare una stronza che punta solo al successo, che se ne frega se agli altri non vanno bene le tua aspirazione o quello che fai. Mi ha fatto entrare in un mondo che non mi apparteneva, un mondo in cui mi sentivo inadeguata, un mondo di persone che badava solo al lusso e alle cose superficiali. Passavo giornate intere a capire come permettermi oggetti di marca che non mi facessero sfigurare in questo mondo, che non mi facessero sentire fuori luogo e giudicata, passavo giornate in cui crollavo, urlavo ai miei genitori e a mia mamma soprattutto, che proprio non se lo meritava, che era uno schifo di mamma, perché mi dava meno di quanto gli altri genitori dessero ai propri figli, perché odiavo quanto mi facesse pesare una spesa, quanto ci dovesse pensare a spendere una cifra a cui invece l'altro mondo in cui ero stata catapultata neanche faceva caso. Certe volte facevo dei pensieri, nella mia semplicità, tipo a come si potesse mettere un condizionatore in ogni stanza e lasciarlo liberamente aperto tutto il giorno senza che i genitori dicessero nulla, a come con tanta facilità si andasse sempre a cena fuori in ristoranti costosi, senza neanche porsi il problema dei prezzi e porsi il problema di avere abbastanza soldi. Pensavo queste cose ma non le dicevo, sarei sembrata una poveraccia, non volevo essere diversa dagli altri, e ho passato così anni della mia vita, come una ragazzina stupida che vuole farsi accettare per quello che non è. Ho iniziato a provar rabbia nei confronti delle mie semplici amiche che sono quelle che non mi hanno mai giudicato se un giorno avevo i capelli fuori posto, se un giorno ero giù di morale, e che ancora adesso mi sono vicine, mi faceva rabbia che avessero meno soldi di me e che non potessimo fare tutte le cose che con i soldi facevo con l'altro mondo, ma che avrei fatto con molto più piacere con loro. Mi sono trovata un lavoro, non volevo dar conto a mia mamma delle mie spese, come le potevo spiegare che avevo bisogno di 50 euro a sera per uscire con gli amici del mio fidanzato? Che avevo bisogno di una borsa di marca perlomeno, non dico tutti i vestiti, ma almeno una borsa di marca che potessi sfoggiare per sembrare a colpo d'occhio una a cui i soldi non mancano. Ora sto lavorando, un lavoro che non mi dispiace ma non si potrebbe dire neanche che mi piace, e sgobbo ogni giorno senza voglia, pensando al fatto che invece di essere là dovrei studiare e che sto perdendo di vista il mio obiettivo principale: diventare un medico. E per la seconda volta non ho passato quel maledetto test, perché ho passato le mie giornate a lavorare su un ambulanza e quando tornavo a casa ero stanca fisicamente e mentalmente e dovevo assolutamente scrivere al mio fidanzato perché sennò mi pareva capace di dimenticarsi di me. Capitava a volte che avessi degli imprevisti, che lavorassi di più o che semplicemente a casa mi mettevo a fare delle cose che non gli dicevo, magari mi guardavo un film, magari stavo a scrivermi con una certa persona ed ero online da tempo, ma lui non si chiedeva cosa stessi facendo, ritornavo sulla sua chat sperando che fosse interessato o preoccupato per quello che facevo ma lui non aveva ancora risposto ai miei messaggi di un'ora prima. Questo perché era concentrato su quello che stava facendo lui, che la maggior parte delle volte era studiare, e riusciva a rimanere concentrato o perché non gli fregava abbastanza di me o perché semplicemente  si fidava. Per lui era facile, di cosa doveva preoccuparsi? Sapeva che io ci tenevo a lui, che ero la persona più sincera di questo mondo e che anche se non ci fossimo sentiti per un po' non c'era nulla di cui preoccuparsi. E a me faceva piacere che fosse così. Dovrebbe essere così per tutte le coppie, ci si dovrebbe sempre fidare ciecamente del proprio fidanzato come se fosse tuo fratello o il tuo migliore amico che anche se non ti scrive, non ti da spiegazioni su qualcosa, o non lo vedi per qualche giorno, non ti passerebbe neanche per l'anticamera del cervello che stia facendo qualcosa che ti fa soffrire. Il problema è che io non mi fidavo di lui. E non mi fidavo non perché mi fossi svegliata un giorno e avessi deciso di fare la fidanzata possessiva e gelosa, ma perché io quando lui era partito per l'America mi ero letteralmente strappata il cuore dal petto, glielo avevo dato in mano e gli avevo detto" portalo con te, ti giuro che mi fido di te e del fatto che lo saprai tenere con cura". Avevo perso i miei amici, perché nessuno accettava come era nata la nostra relazione, forse per il mio bene alcuni o altri perché infastiditi dal fatto che era palese che stessimo prendendo in giro tutti. Ora non saprei dirvi se hanno avuto ragione, all'inizio pensavo che fosse assurdo, che non avesse un senso prendersela in sto modo per qualcosa che non li riguardava affatto, ora, se qualcuno mi venisse a dire" io non potevo sopportare di vedere quanto lui si stesse prendendo gioco di te e quanto tu gli corressi dietro come una stupida" invece di incazzarmi per avermi abbandonato lo abbraccerei e scoppierei a piangere. Se invece mi venissero a dire che eravamo irritanti, tremendi da vedere, che davamo fastidio, che avevamo detto o fatto qualcosa che non dovevamo, gli chiederei il motivo per cui non me lo ha detto prima, gli chiederei scusa se mi rendessi conto che ha ragione e scoppierei comunque a piangere. Sì piangerei un sacco, perché mi sento immensamente sola e solo chi si sente davvero solo può capire quanto, senza cattiveria, si apprezzi chiunque ti stia vicino in quel momento, anche se in  passato lo hai odiato, non ha un carattere che ti va troppo a genio e ci sarebbero questioni da risolvere. Mi sento sola perché nonostante questa persona non mi facesse sentire a mio agio, all’inizio pareva che fossi riuscita a cambiarlo un po', ad aprimi con lui, e a conoscere anche quello che non era solo apparenza di lui. Sentivo che le cose ben o male andassero bene, o meglio, per una coppia che, appena formata, si era trovata con 6 ore di fuso orario e chilometri di distanza le cose non andavano male quanto pensassi. Ogni tanto litigavamo, perché durante la settimana diceva che studiava sempre, e quando ci sentivamo in videochiamata non mi guardava neanche perché giocava alla play. Litigavamo perché tante volte diceva che andava a dormire e invece l'ultimo accesso su Instagram era ore dopo, vedevo foto con gente di cui non mi aveva mai parlato, in luoghi in cui, secondo quello che mi raccontava , non ci era mai stato. Dopo un po' ho iniziato a dubitare di quello che mi diceva, ho iniziato a non dormire la notte, mi svegliavo ogni ora perché se non gli chiedevo io che faceva, dalle sue 5 di pomeriggio che io andavo a dormire alle sue 3 di mattina lui non mi scriveva neanche un messaggio. Ho iniziato a svegliarmi prima la mattina, perché sapevo che lui era sveglio, gli scrivevo e lui mi diceva" ora vado a dormire" come se non mi volesse sentire né dare spiegazioni. E io andavo in università con l'angoscia, la pancia che mi faceva male, la testa che non sapeva a cosa pensare. Allora ho iniziato a “indagare”, controllavo sulla mappa di Snapchat durante la notte se si muoveva, ma nonostante la mappa dicesse che si era spostato dall'altra parte del corridoio del dormitorio lui continuava a dire che era solo una stupida mappa di un social. La mattina allora ho iniziato a chiamarlo in videochiamata, lui puntualmente la prima volta non rispondeva, mi diceva che non gli era arrivata la chiamata o che il telefono gli si bloccava quando cercava di rispondere. Io iniziavo a perdere la pazienza, gli scrivevo" non dire cazzate, rispondi immediatamente" e lui rispondeva, con il fiatone di chi ha appena corso, sempre sul letto, solo, in stanza e al mio" che fai?" rispondeva sempre" niente di che". Un giorno mi disse che non era possibile che io mi fidassi così poco di lui, che questo lo faceva star male e mi chiese una pausa. E da lì di pause ce ne furono altre e di litigate ancora di più. Ogni volta mi chiedevo se fossi io il problema, mi torturavo, mi ripetevo che probabilmente ero io quella che stava rovinando la relazione. Scrivevo ai mie amici, gli amici di cui parlavo prima che dopo un po' hanno preferito allontanarsi da me, chiedendogli che cosa ne pensavano e la maggior parte delle volte mi veniva detto che la dovevo smettere di stressarlo così e che comunque lui era sempre stato così, che non potevo aspettarmi da lui la gentilezza e l'amore del mio ex, e che dovevo piantarla perché come non stava scrivendo a me non stava scrivendo neanche a loro, che ci erano amici da prima che conoscessi loro e lui. E io ci provavo, ma nonostante questo le cose non andavano, io ci provavo ma mi sentivo una cretina a far finta di non vedere. I giorni passavano, lui si era trovato delle "migliori amiche" a suo dire, non sapevo niente di ste qua, non capivo come potesse definirle così se come diceva lui era sempre in stanza a studiare o a giocare alla play, era pure entrato in una confraternita,  era molto spesso là non so a far cosa, ed è pure capitato che mi scrivesse che andava in nottata ad una festa a New York, non chiusi occhio quella notte e lui non mi scrisse assolutamente niente. E vi sembrerà strano ma nonostante questo, nonostante lui mi facesse sentire inadeguata, nonostante io non sapessi quasi nulla della sua vita, nonostante fossi abbastanza sicura che mi stava nascondendo qualcosa, io ero innamorata di lui, non so perché, era come una sfida per me riuscire a far funzionare il nostro rapporto. A Natale tornò in Italia, io lo accolsi nel migliore dei modi, lo andai a prendere in aeroporto, durante quei 5 mesi avevo fatto tutto quello che potevo fare se non troppo, avevo trascurato gli esami all'università, e non voglio dare interamente la colpa a lui del mio fallimento,  ma se per un secondo voi poteste sentire la brutta sensazione che ho provato quei mesi, quando cercavo di organizzarmi con il fuso orario e lo studio, quando la mia testa non faceva altro che immaginare come stava, cosa stava facendo, il posto in cui si trovava e lo sentivo lontano e sconosciuto come puoi sentire un evento di storia che studi a scuola di anni fa, vi rendereste conto che concentrarsi sullo studio ma anche su te stessa, sugli amici, sui progetti di vita era quasi impossibile. Quel natale io scoprii che  mi aveva mentito su un miliardo di cose, che aveva fatto cose che non mi aveva detto, che si era sentito con gente di cui non mi aveva detto nulla, che si era avvicinato al mondo della droga e che ogni volta che mi diceva di essere in un posto ne era in un altro. Il problema è che non si fermò a quello, non fu una grande e unica delusione, ma queste cose son continuate, per mesi, era quasi diventato un gioco, lui mi diceva balle quasi per dispetto perché sapeva che le odiavo e io attraverso le sue frasi che magari dicevano cose diverse a distanza di settimane, i suoi accessi sui social, i suoi atteggiamenti, dovevo scoprire le sue bugie. Ho iniziato a seguire gente in America, non avevo alba di chi fossero, passavo pomeriggi a guardare le loro foto, le loro storie, a cercare lui in queste foto o addirittura nello sfondo per capire se un certo giorno che mi aveva detto che era in stanza a studiare o dormire era a qualche festa o con qualcuno, e ogni giorno scoprivo cose nuove, e ogni giorno litigavamo, ma litigavamo davvero tanto, ogni volta pareva che fosse arrivata la fine della nostra relazione, piangevo come una pazza, iniziavano a venirmi gli attacchi di panico, per quanto fosse assurda la situazione, per quanto non ci potessi credere che avesse fatto certe cose, ma soprattutto che le avesse fatte dopo che per la miliardesima volta mi aveva supplicato di fidarmi di lui. Era così assurda la situazione, che pareva avesse una malattia, perché non è che i nostri caratteri non fossero compatibili, le cose non funzionassero o cose del genere, semplicemente lui era come se avesse una vita di cui io non ero a conoscenza e non riuscisse a farne a meno,  e scoprivo cose assurde, che mi aveva mentito su cose su cui non aveva senso mentire, o che mi aveva nascosto cose che non avrei mai pensato che avrebbe avuto il coraggio di fare. Nonostante lo facesse di continuo ogni volta cascavo dalle nuvole, perché all'inizio, non c'è stato un momento in cui ho pensato che non fossi più innamorata di lui, che non andava più, era un passare da momenti di assoluta felicità che erano momenti falsissimi perché erano i momenti in cui mi mentiva, in cui io ero concentrata a riprovare a fidarmi di lui e lui si prendeva gioco di me, a momenti in cui non potevo credere di avere una persona del genere al mio fianco. Probabilmente se mi fossi semplicemente " disinnamorata "le cose sarebbero state più semplici, il problema è che io continuavo a esserlo, e continuavo a pensare che lui avesse un problema che bastava solo curare. Per mesi non sono riuscita ad aprire gli occhi sul fatto che stavo diventando pazza, che quello non poteva essere amore, che il suo era un continuo trovare scuse e che ero sempre nervosa, che stavo davvero buttando la mia vita all'aria per lui. Vivevo in un gioco, lui giocava con me, io soffrivo. Perdevo le mie giornate a pensare e a pensare, mi sono letteralmente mangiata il cervello a pensare a ogni cosa che facesse e dicesse per capire se le cose stavano funzionando davvero, lui continuava a dirmi" non mento" ma il problema è che non sapevo se stesse mentendo proprio in quel momento o se era la buona volta che cambiava davvero, ed è davvero una brutta bestia non avere fiducia e non sapere se tutto quello che stai vivendo è realtà o illusione. E il suo non rendersi conto di cosa faceva, la sua non vergogna nel ripetermi ogni volta" da oggi puoi fidarti", la sua sfacciataggine nel dirmi" dai dammi un bacio" mentre io lo guardavo come se fosse un estraneo, con il cuore e la testa in frantumi, per me era disarmante. Dopo quasi due anni, sono cambiata moltissimo, ero la ragazza più ottimista, più ingenua, con voglia di ridere, di ballare e di vivere che potessi incontrare per strada e sicuramente anche il mio essere così non è che fosse perfetto, avevo meno ambizioni, meno dedizione, e certe volte risultavo ridicola agli occhi della gente che non mi conosceva, perché mi comportavo come mi passava per la testa fregandomene del giudizio degli altri, ma almeno ero felice e la gente mi voleva bene, perché non c'era cattiveria in quel che facevo, non c'era giudizio, presunzione o altro. Ad ora penso che mi servirebbe uno psicologo, non so più chi sono, non so più come comportarmi, ho perso tutti e la gente non mi vede più con gli occhi di una volta. Ho il cuore rotto in mille pezzi, non ho fiducia in nessuno, ho capito quanto il mondo è brutto. Avrei preferito che mi picchiassero, che mi investissero con una macchina, sarebbe stato un grande dolore fisico che o mi avrebbe portato alla morte o a una guarigione definitiva poi. Questi tipi di male non ti passano, neanche con il passare degli anni, mentre ti stai divertendo ad una festa ti si attorciglia lo stomaco di colpo perché vedi uno che gli assomiglia, mentre conosci una persona hai paura che possa essere come lui, mentre dormi ti riappare in sogno e ti svegli con l'amaro in bocca e le mani che tremano. Questo male, ti rimane per sempre in un angolo del cuore.
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temporanea · 6 years
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Provvisorio (ma un po’ meno delirante, si spera)
Il 17 di gennaio 2017 mia sorella è morta di cancro. Il 30 di maggio del 2017 ho scoperto di avere un tumore al seno. Mi sono operata a luglio, poi di nuovo a settembre. A ottobre ho iniziato la chemioterapia. I primi di febbraio del 2018 mia madre si è rotta il femore. Ho mollato casa e tutto e mi sono trasferita da lei ad assisterla mentre finivo la chemio. A giugno ho concluso le pratiche e aperto un airbnb. Mi sono occupata della casa, degli affitti, dei conti, dei cani, di mia madre e dei miei zii. Verso l’autunno ho iniziato a sentirmi sempre più triste e stanca e sola e cupa. A dicembre ho iniziato a fare cose strane, Ho iniziato a balbettare, a non riuscire a dare il resto, a fare confusione con le date e i numeri, a non riuscire a scrivere. Ho continuato a fare tutto quello che potevo, ho pensato di essere stanca e stressata e di aver star andando di zucca. Il giorno di Natale mi sono bloccata, non riuscivo più a parlare ed è stato strano Mi sono spaventata. Ho pensato di essere matta. Ho continuato la mia vita, ospiti, pulizie, burocrazia di inizio anno, famiglia. Ho cercato una terapeuta perché parlare era sempre più strano, per il balbettare così innaturale per me. Ho prenotato una visita da un neurologo. Il 26 di gennaio ho avuto la crisi. Per fortuna non ero sola, non ero solo con mia madre. Mi hanno portato in pronto soccorso. Sono scappata e mi hanno inseguito con l’ambulanza. Non riuscivo a dire altro che “voglio andare via  voglio andare via voglio andare via” la mia mano destra non era più mia, la vedevo ma non mi apparteneva, non riuscivo più a muoverla. Anche adesso non è esattamente mia, come non lo è esattamente il mio occhio destro o la mia gamba. Esattamente non so qual è la mia parte destra. Non distinguo la destra dalla sinistra e faccio un po’ di confusione. In pronto soccorso mi hanno detto che avevo una lesione al cervello e che sarei dovuto essere operata. Ho chiesto: che lesione? una metastasi? sì. Ho pianto. Non capivo niente. Ma non ero sola. È arrivata mia figlia, ha parlato con mezzo mondo, si è informata, ha capito, ha parlato, ha trovato un posto, mi ha fatto dimettere, è arrivato mio cugino a prendermi e mi hanno portato a Milano. Venerdì 15 mi operano. È sempre un’operazione al cervello ma non pare sia una difficile operazione al cervello. Non sono preoccupata, spaventata sì, gli ospedali mi spaventano ma è comprensibile. Sono felice. È la combinazione di antiepilettici e cortisone ma è l’amore che mi sento intorno che conta. ll mio cervello sinistro è spostato e il mio cervello destro sta vivendo il suo momento. Mi pare di avere una candela accesa in mano, una piccola fiamma che mi fa sentire calda e luminosa e tutto, tutto mi pare pieno di valore e dopo tanto buio è una sensazione meravigliosa. Non sento il tempo, ho una settimana, meno ormai, ma i miei piedi sono fermi nella corrente e la corrente scorre senza passare. Il mondo si muove e io sono ferma, sospesa. Venerdì potrei non esserci più. Non io, non la me che sono da sempre. Potrei essere diversa, potrei non esserci e basta. Non lo so e al momento non importa. Ci sarà tempo per far scorrere il tempo dopo, se ci sarà ancora tempo da scorrere. Se potessi salvare tutta questa conoscenza che sento adesso, questa improvvisa immersione nell’universo yoga in cui mi trovo ne varrebbe la pena. Ma al momento siamo io e la mia luce, non posso portare altri bagagli, non so cosa ci sia oltre. Sono felice, non posso fare altro che essere felice.
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ipusheveryoneaway · 6 years
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Quanto coraggio ci vuole a lasciar andare persone, luoghi e attimi che ci hanno scosso, che ci hanno spostato il cuore? Uno passa le sue giornate a difendersi e se ne va in giro a dire “voglio solo stare tranquillo”, ma la verità è un’altra: vogliamo solo essere stupiti. Stupirsi, con il passare degli anni, diventa il miracolo più difficile da compiere. A un certo punto un tramonto inizia a sembrare solo un tramonto e un bacio non ha più la potenza di far cadere il mondo. Io ho paura, sai? Paura che niente possa più bastarmi. Paura di non scrivere più, di non amare più, di non divertirmi più davvero. Certe volte rido per finta e poi mi viene il mal di pancia perché ridere per finta secondo me fa venire un sacco di dolori. Certe volte piango pensando a quando un venerdì sera libero e un buon bicchiere di vino rimettevano tutto a posto. Ogni tanto mi ripeto: non dirò mai più “per sempre” credendoci fino in fondo. Non dirò mai più “a domani” senza provare un brivido di terrore. Non salirò mai più sulle montagne russe, perché so già che non fanno per me. Il brutto è proprio questo, forse: cresci, invecchi, e ti convinci di saper tutto di te. Cosa ti piace, cosa non ti piace, cosa è adatto ai tuoi occhi, alle tue mani, alla tua mente. Dici “non ho tempo da perdere” e ti chiudi nel tuo mondo fatato, quello in cui niente può deluderti, ma nemmeno farti volare. Forse il brutto è questo: a un certo punto non ti interessa più niente di volare. Ti basta andare avanti senza troppi intoppi. Io però voglio che il mio cuore balli, che i miei capelli saltino di gioia, che le mie mani danzino sulla schiena di qualcuno che mi sappia guardare come se fossi nuda anche quando sono vestita. Io non voglio dire “mai più”, io voglio dire “di nuovo, ancora, ci provo”. Voglio fare quello che amo e ogni tanto anche quello che odio, che non si sa mai. Che potrei cambiare senza accorgermene, e sarebbe un vero peccato, perché cambiare è tutto, cambiare è esistere davvero.
Susanna Casciani
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residancexl · 5 years
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Conversazione con Daniele Ninarello #Pastorale
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[Paul Klee, Pastorale (Rhythms), 1927]
Mi parli del tuo nuovo progetto artistico Pastorale, terzo lavoro che fa parte di un ciclo di rituali coreografici esperienziali? Molte idee arrivano mentre lavori e negli anni si accumulano contaminandosi a vicenda. Mentre alcune cerchi di cristallizzarle in una creazione, altre restano ai bordi per poi rientrare in un secondo tempo come dei tasselli che si ricorrono dando vita ad un processo di ricerca nuovo. Da tempo dedico il mio lavoro al tema del disorientamento, in particolare alle modalità in cui il corpo può orientarsi nel costruire le sue molteplici relazioni con l'ambiente, e a come organizza i suoi pensieri e i suoi gesti. Sono interessato alle relazioni che il corpo costruisce con lo spazio che esso stesso genera, uno spazio inteso non unicamente come luogo fisico ma anche umorale, emotivo col quale costantemente si misura, si conosce. Mi è sempre interessata questa relazione. In questi anni ho iniziato a fare dei laboratori di pratica condivisa con dei danzatori e con degli amatori. A Matera in occasione del festival “Nessuno Resti Fuori” ho lavorato sulla migrazione e sul tema dell'inclusione, e per l’occasione avevo ideato una serie di pratiche da condividere con il gruppo di lavoro. Stetti a lungo a guardare questa città molto particolare, costruita dall’uomo ma scavata nella roccia. Quando guardi Matera percepisci una totale armonia nel susseguirsi di forme che creano una sintonia quasi musicale. Mi sono perso in quel panorama e riappacificato. Tutte le pratiche corporee si concentravano sulla camminata, sul migrare e sul camminare come pratica estetica e creativa, ridefinendo il modo in cui descriviamo lo spazio che percorriamo e di conseguenza la relazione che creiamo con questo. Si concentravano su elementi specifici come la derivazione, la continuità, la ripetizione e la comunità. Caratteristiche rappresentative anche del rituale: anch’esso ti ricolloca, ti trasforma rinnovandoti, è comunitario. Da qui ho composto una piccola collezione di pratiche collettive che portavano i corpi ad orientarsi attraverso la percezione della realtà plastica che li circonda. Cominciavo a osservare e comprendere come tutti i segnali che ogni giorno incontriamo informano il corpo. Poi mi sono spostato a New York e qui è proseguita la riflessione sulla pratica del camminare e della migrazione, in particolare sul dualismo tra essere sedentario e essere nomade che è alla base della natura umana. Al MOMA di New York, camminando tra le opere, mi sono imbattuto in una piccola opera di Paul Klee che si chiama Pastorale (Rhythms) e sono rimasto rapito. Mi ha risucchiato, ero ossessionato da questa successione di simboli, di segni che a volte mi rimandavano a una mappa, a volte mi sembravano persone, a volte una partitura musicale e a un certo punto una coreografia. Così ho iniziato a scrivere. Mi sembravano geroglifici, una profezia, un codice da decodificare, qualcosa che appartiene a un passato che arriva semplicemente attraverso l’immediatezza del simbolo, una superficie su cui i segni vibravano tutti insieme. Da qui è arrivata la prima intuizione di scrivere una Pastorale di segni percorsa dai corpi.
Oltre a Klee, qual è l’immaginario che sta nutrendo questo nuovo lavoro? Da una parte il mondo della pastorale a partire dall’opera di Klee. Poi molti altri sono i riferimenti e tra questi c’è Moondog, un musicista non vedente di New York. È un compositore che per molti anni della sua vita si è esibito in strada. Era chiamato il “Vichingo della 6th Avenue” e stava in mezzo alla strada come fosse un oracolo. Registrava i suoni della città e le sue voci, costruiva strumenti musicali. È come se cercasse di entrare a contatto con il mondo, di fotografarlo mentre risuonava tutto insieme. La sua musica è incredibile e non appena l’ho ascoltata è arrivata l’intuizione: la pastorale come l’altrove in cui percepisci che sei mosso nel flusso eterno delle cose, il momento in cui non c’è separazione e riesci a collegarti. Voglio costruire una pratica che permetta al corpo di essere mosso solo attraverso ciò che veramente percepisce, che registra, che scrive, che sia in grado di farsi geroglifico e segno nello spazio a partire da una sensazione che ha percepito, come un gesto che nasce spontaneo nel corpo, un impulso che ti nomina. Il nostro occhio costantemente legge e incorpora le vibrazioni e la ritmica delle geometrie e delle immagini che incontra, possiamo udire e percepire come tutto cade intorno a noi e insieme a noi, come tutto risuona su di noi e di noi. Ho iniziato a lavorare sulla percezione delle realtà architettoniche, di come attivano i nostri sensi, di come noi percepiamo lo spazio in cui ci stiamo muovendo, come lo decifriamo costantemente per poi espandere questa modalità tra i corpi. Durante il processo ho poi ripreso a studiare Numeri di Philippe Sollers, ho deciso di adottare questo testo per il processo poichè ha in sé tutte le questioni centrali di Pastorale. Pastorale ora prende spunto da questi elementi.
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[un’immagine di Moondog]
Mi sembra che la pratica di cui parli lavori principalmente sulla presenza e in questo la relazione con lo spazio mi sembra centrale: entrando in relazione al luogo in cui è viene si modifica la struttura coreografica? Una volta costruita la struttura coreografica generalmente rimane la stessa, ma può subire delle variazioni suggerite dal luogo in cui si colloca. Da luogo a luogo ciò che varia è la percezione del corpo nell'attraversare la struttura coreografica. Tratto lo spazio come una cassa di risonanza, comunico con i suoi elementi che informano e attivano le mie percezioni. Il corpo non è mai indifferente allo spazio che abita, il più delle volte ne è succube, io cerco di ridefinire i rapporti attraverso una maniera diversa di descrivere il luogo che abito. Avviene come un’esperienza sensoriale, una sorta di reintegrazione di architetture, forme ed elementi originariamente generati dal corpo e dal suo passaggio. Credo che il corpo stia allo spazio come il gesto sta al corpo, il corpo è un segno nello spazio. Mi interessa questa relazione, questo confine in cui il corpo si muove parlando in ascolto dei pensieri che nascono da ciò che percepisce nel fuori. Il pensiero è già architettura. Non c’è differenza tra un gesto che facciamo mentre parliamo e il movimento che risponde a qualcosa percepito all'esterno. È come tentare di riallinearsi con il fuori e con il dentro, e quindi portare questo principio come dinamica di relazione tra i corpi. Con Pastorale la volontà è quella di riflettere su queste dinamiche di relazione nel mondo, sulla nostalgia dell'unisono che c'è nelle nostre relazioni, di quanto poco sopportiamo il silenzio che ci unisce. Ritornare all'unisono significa risuonare insieme, percepire come siamo gli uni inscritti negli altri. Avvicinarsi a moti della natura, alla sua bellezza, al suo incessante ed eterno perseguire l'armonia delle forme.
A che punto della tua ricerca coreografica per Pastorale si è inserita la residenza a Vicenza? A Vicenza ho consolidato alcune pratiche che da tempo sto esplorando. La cosa più importante è sempre trovare la giusta modalità di trasmettere ai danzatori questo pensiero. Mi sono posto la domanda: come posso sentirmi libero quando i segni che ho a disposizione per esprimermi sono limitati? Se per esprimere una sensazione chiara ho a disposizione un codice di pochi elementi? [...] mi sto focalizzando su questo punto, sulla possibilità di sentire come la percezione genera un impulso, un pensiero, e su come varia l'intensità e la qualità di un segno nel corpo a seconda del segnale esterno o interno che lo genera. Queste modalità di lavoro erano già nate in Kudoku, dove insieme a Dan Kinzelman esploro questi concetti tra suono e gesto. Quello che mi interessa è che il corpo colga l’istante in cui sta vivendo, che le parole e i movimenti che genera nascano da uno stato contemplativo, che siano frutto di associazioni istantanee, carichi di tutto ciò che hanno da offrire al mondo.
Per Pastorale collabori con la dramaturg Gaia Clotilde Chernetich, come nasce il confronto con la studiosa rispetto al lavoro sulle pratiche di scrittura coreografica? Prima abbiamo lavorato sulla lettura e stesura di molti materiali cercando di tenere il dialogo costante e aperto, e di analizzare da diversi punti di vista la questione centrale al lavoro. In un secondo momento ho cercato di far partire il lavoro da questi materiali, facendo molta ricerca e sperimentando diverse modalità di approccio del corpo. Per me è fondamentale affidarmi alla sensibilità di Gaia, la sento molto vicina. Lei mi ha portato riferimenti molto precisi che hanno alimentato il mio immaginario e stimolato il mio pensare. Ci scambiamo materiali e idee continuamente.
Cosa ti porti a casa dopo questi primi giorni di residenza? Pastorale vuole essere un modo per tornare alla natura, una natura intesa come concedersi alle cose che ci animano, trovare quel silenzio in cui si agitano per scorgere il loro ordine. Pastorale necessita di un abbandono al ritmo di tutte quelle cose che ci cadono negli occhi e che risuonano sulla pelle. Pastorale è una percezione che arriva, un pensiero che nasce e si manifesta in un’esistenza.
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sunsetshunter · 6 years
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"Quanto coraggio ci vuole a lasciar andare persone, luoghi e attimi che ci hanno scosso, che ci hanno spostato il cuore? Uno passa le sue giornate a difendersi e se ne va in giro a dire “voglio solo stare tranquillo”, ma la verità è un’altra: vogliamo solo essere stupiti. Stupirsi, con il passare degli anni, diventa il miracolo più difficile da compiere. A un certo punto un tramonto inizia a sembrare solo un tramonto e un bacio non ha più la potenza di far cadere il mondo. Io ho paura, sai? Paura che niente possa più bastarmi. Paura di non scrivere più, di non amare più, di non divertirmi più davvero. Certe volte rido per finta e poi mi viene il mal di pancia perché ridere per finta secondo me fa venire un sacco di dolori. Certe volte piango pensando a quando un venerdì sera libero e un buon bicchiere di vino rimettevano tutto a posto. Ogni tanto mi ripeto: non dirò mai più “per sempre” credendoci fino in fondo. Non dirò mai più “a domani” senza provare un brivido di terrore. Non salirò mai più sulle montagne russe, perché so già che non fanno per me. Il brutto è proprio questo, forse: cresci, invecchi, e ti convinci di saper tutto di te. Cosa ti piace, cosa non ti piace, cosa è adatto ai tuoi occhi, alle tue mani, alla tua mente. Dici “non ho tempo da perdere” e ti chiudi nel tuo mondo fatato, quello in cui niente può deluderti ma nemmeno farti volare. Forse il brutto è questo: a un certo punto non ti interessa più niente di volare. Ti basta andare avanti senza troppi intoppi. Io però voglio che il mio cuore balli, che i miei capelli saltino di gioia, che le mie mani danzino sulla schiena di qualcuno che mi sappia guardare come se fossi nuda anche quando sono vestita. Io non voglio dire “mai più”, io voglio dire “di nuovo, ancora, ci provo”. Voglio fare quello che amo e ogni tanto anche quello che odio, che non si sa mai. Che potrei cambiare senza accorgermene, e sarebbe un vero peccato, perché cambiare è tutto, cambiare è esistere davvero."
-Susanna Casciani.
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Ieri il viaggio con Lucky è andato bene. In autobus e in tramvia il problema maggiore era reggersi mentre dovevo controllare Lucky, la borsa e la valigia. In treno il posto singolo vicino ai bagni che ho scelto era ottimo. Ha ringhiato solo a un altro cane della carrozza, quando quest'ultimo è stato portato fuori un attimo a una fermata. Gli dava noia la museruola, qualche volta mi è saltato addosso per guardare fuori dal finestrino, ma alla fine è stato bravo e non ha fatto troppo casino.
La camera dove dormo qua di notte è meravigliosamente fresca, il letto sta proprio sotto la finestra(in realtà l'ho trovato spostato ma l'ho rimesso in posizione), ma la connessione internet quassù è quasi assente. Infatti mi sono appostato in un punto buono per scrivere questo post prima di andare a letto ma lo sto pubblicando solo adesso.
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Sono arrivato insieme alla pioggia e ai fulmini, ieri sera doveva esserci l'ultima serata di una specie di festicciola organizzata per le strade del paese la sera. Una serie di bancarelle che potevo vedere ma che pioggia e fulmini mi hanno precluso. Vabbè. Oggi vado al mare, ma potrei non fare il bagno perché non può farlo Lucky.
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amoreinendovena · 6 years
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Quanto coraggio ci vuole a lasciar andare persone, luoghi e attimi che ci hanno scosso, che ci hanno spostato il cuore? Uno passa le sue giornate a difendersi e se ne va in giro a dire “voglio solo stare tranquillo”, ma la verità è un’altra: vogliamo solo essere stupiti. Stupirsi, con il passare degli anni, diventa il miracolo più difficile da compiere. A un certo punto un tramonto inizia a sembrare solo un tramonto e un bacio non ha più la potenza di far cadere il mondo. Io ho paura, sai? Paura che niente possa più bastarmi. Paura di non scrivere più, di non amare più, di non divertirmi più davvero. Certe volte rido per finta e poi mi viene il mal di pancia perché ridere per finta secondo me fa venire un sacco di dolori. Certe volte piango pensando a quando un venerdì sera libero e un buon bicchiere di vino rimettevano tutto a posto. Ogni tanto mi ripeto: non dirò mai più “per sempre” credendoci fino in fondo. Non dirò mai più “a domani” senza provare un brivido di terrore. Non salirò mai più sulle montagne russe, perché so già che non fanno per me. Il brutto è proprio questo, forse: cresci, invecchi, e ti convinci di saper tutto di te. Cosa ti piace, cosa non ti piace, cosa è adatto ai tuoi occhi, alle tue mani, alla tua mente. Dici “non ho tempo da perdere” e ti chiudi nel tuo mondo fatato, quello in cui niente può deluderti, ma nemmeno farti volare. Forse il brutto è questo: a un certo punto non ti interessa più niente di volare. Ti basta andare avanti senza troppi intoppi. Io però voglio che il mio cuore balli, che i miei capelli saltino di gioia, che le mie mani danzino sulla schiena di qualcuno che mi sappia guardare come se fossi nuda anche quando sono vestita. Io non voglio dire “mai più”, io voglio dire “di nuovo, ancora, ci provo”. Voglio fare quello che amo e ogni tanto anche quello che odio, che non si sa mai. Che potrei cambiare senza accorgermene, e sarebbe un vero peccato, perché cambiare è tutto, cambiare è esistere davvero.
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laienaisback · 6 years
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Quanto coraggio ci vuole a lasciar andare persone, luoghi e attimi che ci hanno scosso, che ci hanno spostato il cuore? Uno passa le sue giornate a difendersi e se ne va in giro a dire “voglio solo stare tranquillo”, ma la verità è un’altra: vogliamo solo essere stupiti. Stupirsi, con il passare degli anni, diventa il miracolo più difficile da compiere. A un certo punto un tramonto inizia a sembrare solo un tramonto e un bacio non ha più la potenza di far cadere il mondo. Io ho paura, sai? Paura che niente possa più bastarmi. Paura di non scrivere più, di non amare più, di non divertirmi più davvero. Certe volte rido per finta e poi mi viene il mal di pancia perché ridere per finta secondo me fa venire un sacco di dolori. Certe volte piango pensando a quando un venerdì sera libero e un buon bicchiere di vino rimettevano tutto a posto. Ogni tanto mi ripeto: non dirò mai più “per sempre” credendoci fino in fondo. Non dirò mai più “a domani” senza provare un brivido di terrore. Non salirò mai più sulle montagne russe, perché so già che non fanno per me. Il brutto è proprio questo, forse: cresci, invecchi, e ti convinci di saper tutto di te. Cosa ti piace, cosa non ti piace, cosa è adatto ai tuoi occhi, alle tue mani, alla tua mente. Dici “non ho tempo da perdere” e ti chiudi nel tuo mondo fatato, quello in cui niente può deluderti, ma nemmeno farti volare. Forse il brutto è questo: a un certo punto non ti interessa più niente di volare. Ti basta andare avanti senza troppi intoppi. Io però voglio che il mio cuore balli, che i miei capelli saltino di gioia, che le mie mani danzino sulla schiena di qualcuno che mi sappia guardare come se fossi nuda anche quando sono vestita. Io non voglio dire “mai più”, io voglio dire “di nuovo, ancora, ci provo”. Voglio fare quello che amo e ogni tanto anche quello che odio, che non si sa mai. Che potrei cambiare senza accorgermene, e sarebbe un vero peccato, perché cambiare è tutto, cambiare è esistere davvero.
Susanna Casciani
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camminidiliberta · 4 years
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Riflessioni sull’educazione: Scuola   di   Barbiana,  Lettera a una professoressa
Lettera a una professoressa dei ragazzi della Scuola di Barbiana è una condanna dei pregiudizi sociali nelle scuole. Scritto da un gruppo di studenti contrariati dal modo in cui il sistema scolastico bocciava i bambini delle classi povere; gli studenti scrissero dei saggi in forma epistolare per comunicare le loro opinioni riguardo il classismo sociale e per confrontarsi con i loro insegnanti. Questi saggi sono stati raccolti in Lettera a una professoressa che divenne una condanna sul modo in cui i ragazzi erano trattati nella scuola pubblica italiana. È una critica veemente sostenuta da analisi statistiche e bilanciata da suggerimenti per una riforma.
Lettera a una professoressa è stato scritto da otto adolescenti, allievi della scuola di Barbiana, con l'aiuto dei loro compagni di classe e sotto la supervisione di Don Milani. L'intento del libro è suscitare una risposta da parte dei genitori appartenenti alle classi povere, che sono invitati ad organizzarsi per far fronte ad un sistema scolastico che sfavorisce i loro figli; e da parte di un istituto magistrale disposto ad aiutare gli allievi di Barbiana che tentavano di diplomarsi maestri per dar vita ad una scuola rispettosa delle esigenze dei poveri e quindi più equa di quella pubblica. Il testo è scritto informa epistolare, dando del lei o del voi a chi legge, e con frequenti inflessioni vernacolari del Mugello. I concetti fondamentali sono: critica verso la selezione operata tramite la bocciatura durante la scuola dell'obbligo, valorizzazione della condizione e della cultura popolare. I ragazzi poveri che venivano bocciati finivano prestissimo a lavorare nei campi o nelle fabbriche. Mantenere un figlio agli studi costa tanto ad una famiglia benestante quanto ad una indigente, ma per la seconda famiglia non è possibile permettere ai figli di studiare per molti anni, di conseguenza le bocciature hanno per loro l'effetto di terminare gli studi, con tutte le conseguenze sociali e lavorative di non aver finito neppure le scuole dell'obbligo. I ragazzi appartenenti alle classi sociali povere hanno maggiori difficoltà nello studio in quanto sono privi delle risorse culturali di cui dispongono le classi agiate: libri, gite culturali, supporto educativo da parte di genitori che hanno studiato. In conseguenza vengono bocciati più spesso rispetto ai loro coetanei benestanti. Come spiegato la bocciatura equivaleva ad una precoce fine della vita scolastica; anche se le scuole elementari venivano terminate, seppur con qualche anno di ritardo, il vero problema erano le medie: in questo caso i ragazzi erano già abbastanza grandi per lavorare. Si noti che Lettera a una professoressa è stato scritto nel 1967, mentre la legge che introduceva la Nuova Media obbligatoria è del dicembre 62; si trattava dunque dei primi anni in cui veniva esteso l'obbligo scolastico. I ragazzi di Barbiana, statistiche ISTAT alla mano, hanno dimostrato come fossero spesso i più anziani di età, già bocciati alle elementari, ad essere respinti alle medie, e come nella maggior parte dei casi questi ragazzi fossero figli di contadini e operai. Naturalmente gli insegnanti davano cattivi voti a chi andava male, senza conoscere le condizioni socio-economiche delle famiglie d'origine, e qui i ragazzi di Barbiana sottolineano con grande maturità dicendo che non c'è nulla di più ingiusto che far le parti uguali tra diseguali. Infatti Gianni, figlio di contadini che non hanno un solo libro in casa, farà molta più fatica nello studio di Pierino, figlio di un dottore che ha insegnato a leggere al figlio prima ancora di mandarlo a scuola. In particolare i ragazzi di Barbiana criticano l'artificiosità del programma scolastico, basato sulla cultura delle classi dominanti. Notano che non c'è nulla sul giornale che serva agli esami, a riprova di quanto poco attuale sia quel che si studi, le lingue vengono affrontate attraverso la grammatica, così che ragazzi incapaci di sostenere una conversazione prendano ugualmente buoni voti, mentre ragazzi di Barbiana, pur tenendo molto alle lingue e facendo spesso periodi all'estero,non riuscivano ad arrivare alla sufficienza. Allo stesso modo la storia era insegnata con enfasi sulle epoche antiche, ma si ignorava la storia contemporanea; le scienze studiate da libri; l'educazione fisica come sport. A Barbiana si difendeva invece la cultura popolare. L'educazione fisica non esisteva, esisteva il duro lavoro dei campi e dei taglialegna; per la storia non si sapeva la mitologia greca, ma si conoscevano la seconda guerra mondiale e i sindacati; per le scienze si sapeva bene la botanica, come la sanno i contadini: senza i nomi in latino. Anche il sistema di voti e registri, che porta a studiare per l'interrogazione e non per la conoscenza, è uno dei bersagli della critica. I ragazzi di Barbiana sottolineano come nelle scuole si studi per il diploma, perché è l'essere diplomati e non l'essere colti ad accrescere il proprio status. Per sintetizzare il problema viene usata una bellissima analogia: la scuola è come uno spedale che cura i sani e dimette i malati, gli allievi al termine delle medie sanno scrivere solo perché sono quelli che hanno imparato a casa, chi aveva realmente bisogno è stato respinto. Vengono quindi proposte delle riforme. Per prima cosa non bocciare nella scuola dell'obbligo, portare tutti alla terza media. Secondo i ragazzi di Barbiana la scuola dell'obbligo è un diritto sancito dall'articolo 34 dalla Costituzione. Tutti sono adatti ad acquisire un sapere di base. Una chicca umoristica è la proposta di pagare a cottimo gli insegnanti, un tanto per ogni studente portato alla fine dell'obbligo scolastico. Proposta seria è l'introduzione del tempo pieno per gli studenti bisognosi. Visto che i ricchi possono pagarsi le ripetizioni, sarebbe giusto offrire un doposcuola agli allievi che non hanno a disposizione gli strumenti per studiare da soli. Gli autori si rendevano perfettamente conto che questo avrebbe significato togliere agli insegnanti il privilegio di un orario di lavoro molto ridotto rispetto a quello di altre professioni; nonché togliere tempo per i guadagni extra ottenuti in maniera non lecita grazie alle ripetizioni. Tutte queste cose sono denunciate apertamente nella Lettera. Infine viene proposto uno scopo alla scuola, che non sia semplicemente quello di prendere il diploma. Il fine è indicato nella “lingua per essere uguali”. In altre parole si tratta di impossessarsi di un'alfabetizzazione per essere uguali ai benestanti e cessare di sentirsi membri delle classi subalterne, per poter dialogare a testa alta con tutti. Discorso diverso alle superiori. Alcuni degli allievi di Barbiana hanno frequentato le magistrali con l'intento di diventare maestri. Alle superiori è lecito bocciare, perché non si sta più parlando di un diritto di ogni cittadino, quindi è bene selezionare, purché la selezione sia onesta. Ossia nel rispetto della cultura popolare e contemporanea. Gli autori si chiedono se serva sapere il latino e occorra essere in grado di tradurre dall'italiano al latino per essere un buon maestro, e se invece non serva sapere i nomi delle piante, che tutti i contadini sanno e i maestri no. Inoltre, bisogna essere laureati per insegnare matematica o è il privilegio di una casta che vuole difendere il posto di lavoro? In generale a Barbiana veniva rifiutata la Pedagogia della cultura dominante,considerata una scienza deformata e troppo astratta. A Barbiana il problema pedagogico aveva sempre il nome di una persona.
Che cosa è cambiato dai tempi in cui è stato scritto Lettera a una professoressa? Ingenuamente si potrebbe rispondere che la situazione è radicalmente mutata, infatti le scuole medie adesso sono molto più eque. In realtà il problema non è stato risolto, si è solo spostato. Adesso le considerazioni dei ragazzi di Barbiana valgono per le superiori e l'università, soprattutto per il post-laurea. I titoli di studio che consentono l'inserimento in posti di lavoro prestigiosi sono le lauree, i master e le specializzazioni. Tutti questi titoli costano sia tempo sia denaro. Una professione, ad esempio, quale l'avvocatura richiede un tirocinio post-laurea di 18 mesi, normalmente non retribuito. I percorsi di area medica sono ancora più lunghi, esasperando la necessità di personale medico da inserire in tempi brevi nella sanità pubblica. I costi scolastici e le tasse universitarie sono sostenibili da una famiglia indigente? Le politiche sociali sono sufficienti? Quali risposte ai tempi della DAD, verso l’abbandono scolastico e il diritto allo studio? Le proposte di Don Milani e dei ragazzi di Barbiana costituiscono ancora oggi degli spunti, da ri-contestualizzare, che fanno riflettere.
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giancarlonicoli · 4 years
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Questo articolo serve a farvi sapere che Salvatore Aranzulla ha lasciato il piccolo “monolocale milanese di Porta Romana a Milano” (testuale)  in cui abitava prima e si è spostato in uno spazioso appartamento di City Life, quartiere chic sempre di MIlano.
21 apr 2020 08:30
I NATIVI DIGITALI NON SONO COSÌ DIGITALI! PAROLA DI ARANZULLA – IL DIVULGATORE INFORMATICO PIÙ FAMOSO D’ITALIA: “VANNO IN TILT QUANDO SI CHIEDE DI CARICARE UN DOCUMENTO SU GOOGLE DRIVE. USANO I SOCIAL MA NON SANNO USARE EXCEL” – CHI AVREBBE MAI IMMAGINATO LE LAUREE A DISTANZA? - SMART WORKING? “IO LO FACCIO DA 14 ANNI. ALL’INIZIO MI CRITICAVANO, ORA FATTURO…"
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Piera Anna Franini per “il Giornale”
Nel periodo della quarantena, due ragazzi italiani su dieci non stanno facendo nulla. Degli 8,3 milioni di studenti, 1,6 milioni non sono infatti coinvolti nella didattica a distanza. Numeri che rispecchiano il 24° posto occupato dall' Italia nella classifica europea Desi (Indice di digitalizzazione dell' economia e della società).
A scattare la fotografia è Salvatore Aranzulla, il più conosciuto divulgatore informatico d' Italia. Il suo sito (www.aranzulla.it) è il numero uno per visite su argomenti di informatica e tecnologia: parlano i 740mila clic al giorno. Per molti è un angelo salvatore: quando non si sa che app scaricare, si blocca il sistema operativo o non si trova la password giusta, basta digitare il problema sul motore di ricerca e trovare la soluzione offerta da Aranzulla.
Lei ci tira sempre fuori dai guai digitali. La ringraziano per questo?
«Ricevo tantissime mail ogni giorno. In epoca pre-Covid19, quando partecipavo a eventi e giravo per Milano, mi fermavano regolarmente per salutarmi e dirmi grazie. Uso il passato perché mi sono isolato ben prima dei vari decreti. Soffro di una malattia infiammatoria all' intestino, prendo regolarmente farmaci per tenerla sotto controllo, ho preferito evitare i rischi del contagio da subito isolandomi in casa».
Con un' azienda che fattura 3 milioni probabilmente non abita più nel monolocale milanese di Porta Romana a Milano. Giusto?
«Sono a City Life e l' appartamento è spazioso, una parte l' ho adibita a ufficio».
Perché per lei il telelavoro è una prassi quotidiana da anni
«Per me e per i 14 componenti della squadra dell' azienda».
Per le riunioni cosa usate?
«Skype. Impeccabile».
E per i contatti al volo?
«E-mail, lo strumento più semplice ed efficace che ci sia».
Ora più che mai sono venuti al pettine i nodi dell' emergenza digitale nella scuola italiana. O almeno: in tanta scuola italiana. Una sua riflessione?
«Purtroppo è venuto a mancare un coordinamento a livello nazionale. Le scuole si sono mosse in maniera indipendente, cosa che alla fine sarà penalizzante. Pensiamo ai docenti che annualmente migrano di scuola in scuola, che oggi lavorano con una piattaforma e da settembre, cambiando istituto, molto probabilmente dovranno abbandonarla a favore di un' altra. Sarebbe stato opportuno muoversi uniti anche per ottimizzare i corsi di formazione: ti concentri su una piattaforma e formi il personale su quella. Senza contare il fatto che alcune piattaforme sono collassate, travolte dai clic».
Chi ha superato la prova? Quali sono le migliori?
«Difficile dirlo. Però va detto che alcune sono costruite in casa, e non sono state concepite per un utilizzo così massivo. Le piattaforme dovevano essere pronte per essere scalate.
Quelle legate a Google, per esempio, erano state pensate da subito per i grossi numeri».
Possibile che al di là del Covid-19, non fosse considerato un grosso problema l' ignorare l' Abc del digitale?
«Bisogna darsi una svegliata, è innegabile, partendo dagli strumenti di base. È essenziale avere almeno un dispositivo, che sia computer o tablet: basta che ci sia uno strumento, anche solo per accedere ai servizi pubblici.
Di recente ho fatto il passaporto elettronico, ho fissato l' appuntamento telematico, poi arrivato in questura in tre minuti avevo il documento. Pensiamo alla fatturazione elettronica. Non puoi non attrezzarti, al giorno d' oggi. Qualcosa, però, si sta muovendo. Pensiamo al telelavoro, le aziende si sono adattate subito. E comunque al di là dell' arroccamento di qualche sindacato, la maggior parte delle scuole ha reagito, chi avrebbe mai immaginato le lauree a distanza?».
I cosiddetti nativi-digitali, in concreto, quanto sono digitali?
«Sembrerebbe poco, vanno in tilt quando si chiede di caricare un documento su GoogleDrive. Il problema è che molti si limitano a utilizzare i social network, poi non sanno scrivere in Word o Excel. Perché una cosa è avere il cellulare e smanettare con Instagram o TikTok, e un' altra è sapere utilizzare gli strumenti. Spesso i ragazzi non hanno le competenze di base, quelle certificate dalla patente europea».
Pare che lei non vada tanto d' accordo con i social.
«Li uso con molta parsimonia. Ogni tanto faccio delle storie su Instagram. Un tempo avevo livelli di concentrazione più alti, ora notifiche e altre forme di intrusione limitano la capacità di stare sul pezzo. Bisogna difendersi. Ecco perché ho annullato tutte le notifiche mantenendo solo quelle di Whatsapp e dei messaggi».
Lei offre risposte semplici e concrete. Però prima di arrivare al nodo cruciale, fa un' introduzione. Dritte secche e chiarissime.
«Avevo 12 anni quando ho iniziato a sviluppare i primi contenuti. E ho sempre visto nel paragrafo iniziale il modo per tranquillizzare il lettore. È come se lo facessi accomodare in poltrona: il lettore si siede, si rilassa ed è pronto per affrontare il problema».
Nei giorni del #iorestoacasa, gli italiani digitali sono ancor più digitali. Forse troppo? Domanda che le pongo perché spesso lei lancia, diciamo, diete «detox».
«Come ha rilevato l' americana Cloud-flare nel Nord Italia in epoca Covid-19, il traffico internet è aumentato del 30%. C' è gente collegata a internet da mattina a sera. Bisogna fare attenzione.
Io sono sempre andato in palestra ogni giorno per creare uno stacco e ora che non posso andarci, ho comprato bande elastiche e mi alleno in casa, un' ora al giorno. Per dire che bisogna ritagliarsi degli spazi extra computer. Non bisogna perdere il contatto con la realtà. Ora che siamo tutti a casa, anziché ordinare il piatto pronto, facciamolo noi, dedicando un' ora del nostro tempo alla cucina».
Ma lei al computer quanto sta?
«Dipende dal periodo. Vado dalle tre ore alle dodici se serve. E sto così tanto al computer che ho bisogno di ricorrere a colliri. Però devono essere delle eccezioni perché - ripeto - bisogna ritagliarsi spazi extra computer».
Un paio di anni fa disse che sarebbe andato in pensione il 24 febbraio 2020, giorno del trentesimo compleanno. La vediamo ancora iperattivo. Cambiato idea?
«Spesso mi arrabbio con me stesso perché c' è sempre qualcosa da fare ed è una corsa senza sosta. Però ho provato a stare fermo per alcuni giorni, addirittura calmo sul divano, ma non riesco a non fare nulla. Anche perché sei lì, sul divano e pensi agli amici in attività. No, non posso. A gennaio mi ero prefissato di portare il sito alla massima velocità entro febbraio per ritirarmi in santa pace. Invece? Ho riscritto parte del codice, ora il sito è più veloce del 26%. Nel frattempo sono spuntate altre idee per cui non vado in pensione».
Un imprenditore nato. Ma almeno le vacanze, quelle le fa?
«Non vado oltre i quattro giorni, poi devo tornare al lavoro».
Ha una laurea alla Bocconi. Non in informatica ma in management.
«Quando mi iscrissi all' università volevo trasformare la mia passione in un' azienda vera e propria. E per farlo era opportuno acquisire competenze manageriali. O almeno questo fu il ragionamento che feci».
E che rifarebbe?
«Assolutamente sì, continua a interessarmi il lato gestionale dell' azienda. Per il mio sito ho bisogno di professionisti con super-competenze nei rispettivi settori, con abilità che superino le mie. Mi sono circondato di collaboratori specializzati su singoli temi, espertissimi in determinati ambiti».
In quanti si sono offerti di acquistare la società?
«In tanti, ma non ha senso venderla perché è legata al mio nome. Tema non banale. Poi economicamente va bene, tre milioni l' anno. Perché venderla?».
In sintesi, lei è un giovane uomo ricco. Che rapporto ha col denaro?
«Continuo a fare la vita di sempre».
Si sa che viaggia moltissimo. Non mi dica che va in economy.
«Vado in business. È tra i pochi piaceri che mi concedo. Anche perché ho la passione per gli aerei. Per raggiungere la meta, mi costruisco un tragitto complicato pur di provare determinate compagnie. Poi mi piace soggiornare in hotel confortevoli. Per il resto, vita semplice e di lavoro. Il web ospita siti talmente riconoscibili e rodati da non lasciare spazio alla concorrenza. Si va da Aranzulla a GialloZafferano per la cucina, per dire».
Ci sono ancora nicchie occupabili?
«Oggi gli spazi sono sempre più risicati e la pubblicità vale sempre meno, quindi per riuscire a guadagnare, devi poter vendere tantissima pubblicità. E comunque il tuo sito deve fare grandi, ma grandi, numeri. Quindi, o ti accontenti di rimanere piccolo, lavorando per conto tuo con piccoli ricavi, oppure riesci a diventare un colosso: il Louis Vuitton del digitale. In ogni caso, in questa fase economica è chiaro che la pubblicità crollerà».
Lei come si informa? Carta o digitale?
«Leggo i vari quotidiani on line, poi mi sono costruito una lista di siti internet che seguo via twitter. Mi piace il cartaceo, ma lo leggo quando viaggio. Ma nove info su dieci vengono dal web».
Viaggia per?
«Passione, piacere».
Mete legate al mare, da siciliano verace qual è?
«Stranamente non mi piace il mare. Amo visitare le grandi metropoli, da Tokyo a New York. Ho un debole per le città costruita da zero, penso a Dubai dove sono stato decine e decine di volte».
Va per musei? Teatri?
«No. Mi piace girare per la città, camminare senza una meta precisa.
A Milano capita che compia 15 km al giorno. A Dubai o Muscat mi diverto a vedere cosa c' è di nuovo, come cambiano i quartieri in pochi mesi».
Riprendiamo il discorso di lei, siciliano di Caltagirone, che adolescente viene a Milano dove studia e lavora.
«Lavoravo per pagarmi le rette, e comunque l' esperienza in campo fa bene. Bisogna partire rapidamente se vuoi essere indipendente. Il lavoro non cade dal cielo. I ricavi vengono se sei sul mercato, se sei competitivo, se punti sull' innovazione. Bisogna entrare nel mercato del lavoro il prima possibile».
Che studente era?
«Studioso. Continuo a non capire i ragazzi che si inventano una cosetta e subito smettono di andare all' università credendo di essere arrivati.
La scuola dà gli strumenti per gestire un' azienda, non puoi fermarti a un colpo d' intuito. Come fai a gestire un' azienda se non sai leggere un bilancio?».
L' italiano ha tante qualità, ma fatica a solidarizzare con il successo altrui. È nota la faccenda di Wikipedia italiana che le ha negato la pagina perché Aranzulla non avrebbe i criteri di fama necessari. Altri attacchi?
«All' inizio mi criticavano molto. Dicevano: Com' è possibile che tu riesca a guadagnare dando risposte stupide.... Gli utenti mi hanno poi dato ragione, il sito è esploso e le critiche implose. Quanto a Wikipedia so che la persona che mi ha cancellato dalla versione italiana ha tentato di fare altrettanto sulle Wikipedia in altre lingue, fallendo però».
Come si vede nei prossimi cinque anni?
«Voglio continuare a fare quello che sto facendo. Ovviamente cambieranno le tematiche, l' imperativo del mio lavoro è essere al passo coi tempi».
In tutto questo, è riuscito a farsi una fidanza? O una tele-fidanzata?
«Certo. Sta con me, ma si occupa di tutt' altro. Non è nemmeno appassionata di informatica anche se ora si sta un po' aprendo».
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nuvoleverticali · 4 years
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4/11
Sul 27 barrato Comincio a scrivere questo capitolo su un treno diretto a Bologna. Ci vado per portare mio padre allo stadio, ancora una volta. Ora ha ottantasette anni e due stampelle, che valgono tre anni l’una e portano il totale dell’età a novantatré. I suoi capelli sono rimasti neri, ma la sua anima è ferita. Un mese fa ha perduto sua moglie, mia madre, il nostro faro. Il bisogno di consolazione richiede cerimonie. Andare allo stadio è una cerimonia e io l’ho capito per un caso fortuito. Mentre mio padre frequentava l’ospedale ha smarrito il portafogli. Gliel’hanno ritrovato l’indomani, semivuoto. Spariti soldi e carte di credito. Eppure lui, controllato il contenuto di uno scomparto, misteriosamente sorrideva: c’era ancora il biglietto della partita Bologna-Sampdoria, autunno del 1996, risultato finale 2 a 1, gol decisivo del russo Kolyvanov. All’epoca lavoravo come inviato. Reduce da un servizio a Rimini, ero passato da Bologna e, sorprendendolo, avevo proposto a mio padre di andare insieme allo stadio. Non ho conservato quel biglietto, lui sì. Tra gli amorevoli riti celebrati da padre e figlio, quello della partita, sugli spalti, mi era sembrato fino a quel giorno un luogo comune elevato a mito maschile, erede del bordello, antenato del nulla. In quest’altra occasione il 2 a 1 è stato a sfavore del Bologna, sconfitto dal Milan per un gol decisivo segnato dall’italiano Bonaventura. Avevamo due posti in tribuna e, curiosamente, tutti gli altri erano occupati tranne quello accanto a mio padre. Lui allora si è spostato, lasciando tra noi uno spazio vuoto, sul quale ha posato la mano. Non ha detto niente, e nemmeno io. Il nostro è sempre stato un rapporto fondato non sui silenzi, ma sulla superfluità delle parole. Quando, nel 1992, mentre vivevo a Torino, gli annunciai al telefono che stavo per separarmi, prese il primo treno, andammo a pranzo, non disse nulla, ritornò alla stazione e di lì a Bologna, a casa. Il suo modo di amare consisteva nel farsi vedere, dichiararsi presente all’appello. Avrebbe fatto lo stesso anche con mia madre, che allo stadio non era andata mai, almeno fino a quella domenica. Ho posato anch’io la mano sul posto vuoto tra noi, a distanza da quella di mio padre. Era blu, il sole non lo raggiungeva. La luce del sole è rimasta anche a fine partita, quando faticosamente abbiamo lasciato gli spalti, nonostante avesse cominciato a cadere una pioggia fitta e fine. Ci siamo riparati sotto un’affollata pensilina. È stato lì che ho confidato a mio padre l’intenzione di lasciare l’incarico che tanto lo inorgogliva da quando lo avevo assunto. Non riusciva a capire il perché, di che altro andassi in cerca. “Vedi,” ho provato a spiegargli, “ogni volta che è finita una relazione sentimentale mi hai fatto la stessa domanda, quella di poco fa: perché, di che altro vai in cerca?” Non lo sapevo allora e non lo so oggi, so soltanto che quando capisci di dover andare via devi farlo, se vuoi sperare di arrivare in un luogo da cui non voler ripartire al risveglio. “Io non sono stato come te,” ha detto mio padre, parlando di se stesso al passato. “Io sono stato sempre con la mamma, cercando di aggiustare le cose con il tempo... con la vita... un po’ qua e un po’ là... e alla fine andavano anche bene.” Per lavoro ristrutturava appartamenti o riparava guasti che negli appartamenti si producevano. Aggiustare era la sua specialità. Talvolta usava anche il verbo “accomodare”. Sistemava, smussava, rendeva le cose fruibili, talora addirittura comode. Non era facile riuscirci, con mia madre: lei ti trascinava, e quando pensavi di aver visto il traguardo lo spostava un po’ più in là. Questo era stato il suo segreto: tenerci impegnati, per limitare le nostre distrazioni. Aveva funzionato meglio con mio padre; io, essendo stato solo e solitario, avevo sviluppato troppa fantasia. Ora, se esiste un altro mito familiare, è la storia d’amore dei propri genitori. È difficile accettarne l’ordinarietà, l’assenza di qualcosa, un particolare almeno, che la renda unica, se non nel bene almeno nel male. L’impresa più ardua che si possa compiere nel raccontarla è dunque restituirla per quel che effettivamente è stata, accettando di derivare da una vicenda e non da una leggenda. Vale per i miei genitori quel che lo scrittore americano Richard Ford ha scritto dei suoi nel memoriale Tra loro: “Quando erano insieme, compreso il tempo in cui io vissi con loro (e spesso a causa di questo), la vita – credo – sembrò loro migliore di qualunque vita avrebbero potuto aspettarsi, tenuto conto di come e dove era iniziata”. Entrambi i miei genitori venivano da famiglia umile, dalla campagna, da studi interrotti troppo presto, nonostante vivaci potenzialità. Qualche volta li ho visti stupiti di quel che avevano raggiunto in seguito, benché non fosse niente di eccezionale. Era lì, nel contemplare quella soglia di soddisfazione, o addirittura di contenuta felicità, che mia madre diceva sospirando: “E adesso succederà qualcosa di brutto...”. Mio padre scuoteva la testa in silenzio, lasciando a me, per questioni generazionali, il compito della protesta. La memoria risolve il senso della storia nell’aneddotica e così io procedo per scene stratificate e sovrapposte nel cercare di capire, sotto la pioggia e sotto il sole, significato e percorso dell’amore di mio padre. Tempo prima, allo sbocco da un’anestesia, dopo un riuscito intervento chirurgico durato sei ore, preso da euforia cercò di raccontare tentazioni e deviazioni, ma intervenni prontamente sulla farfalla che regolava il flusso del liquido nella flebo, riportandolo al sonno, custode nei secoli dei secoli. Mia madre ha vissuto mio padre come una vocazione irrinunciabile, nel nome del figlio, certo, ma anche del dogma dell’irreversibilità delle scelte. Ne ha fatte poche, decisive, e non si è concessa neppure di pensare di rinnegarle. Quando le chiedevano del marito diceva: “È un gran lavoratore!”. E io fin da bambino mi sono domandato se avrei voluto essere amato o ricordato così. Ma quello era il suo modo di amare, indefettibile e sicuro. Mio padre, il suo, lo ha accomodato e, alla fine, lo ha reso eroico. Cinquantanove anni insieme hanno prodotto una sera d’inverno in cui mia madre, ricoverata in ospedale, stava cominciando a morire (perché tutto era quasi perfetto e quindi qualcosa di brutto era infine accaduto). Consumate la cena e le vaghe chiacchiere tra sconosciute accomunate da un breve destino, si era addormentata. Senza che se ne accorgesse, il cellulare in carica era scivolato sotto il cuscino. La suoneria, già al minimo per non disturbare, era stata ulteriormente attutita. A qualche chilometro di distanza, mio padre chiamava invano per il bacio della buonanotte. Nessuna risposta. La sera avanzava e la sua preoccupazione cresceva. Tentò di raggiungerla attraverso il centralino dell’ospedale, ma si perse nel labirinto di interni e reparti sbagliati. Allora, alle nove passate, si rivestì, calcò sulla testa un cappello da pioggia, prese le due stampelle e uscì di casa. Non osò guidare l’automobile sulla strada lucida. Non chiamò un taxi. Aspettò sotto il portico l’arrivo del 27 barrato. Si issò a bordo. Scese all’ottava fermata. Arrancò fino all’ospedale, salì al quarto piano, raggiunse la camera e si affacciò oltre la soglia, grondante. Sua moglie dormiva tranquillamente. Il filo del cellulare collegato al caricabatteria sbucava da sotto il cuscino. Una delle altre ricoverate lo vide, sorpresa. Lui accennò un saluto alzando la stampella, poi girò su se stesso, riprese l’ascensore, la strada lucida, il 27 barrato e poco dopo le undici raggiunse il suo letto e si lasciò cadere. L’indomani all’alba, mia madre ascoltò dalla vicina un racconto di fantasmi gocciolanti nella semioscurità e credette fosse uno scherzo o una favola. Poi trovò la valanga di chiamate senza risposta e capì che quel fantasma era un uomo in carne e ossa riparate, sangue e sentimento. O meglio, che lo era diventato. Ci aveva impiegato cinquantanove anni? E allora? Le fotografie si scattano al traguardo. Ricordami così. Non accennare un applauso, basta un sorriso. Al mattino, quando mio padre si presentò con il pigiama di ricambio di cui lei aveva bisogno, mia madre contestò che non era stato stirato, si rifiutò di indossarlo e chiese le fosse riportato la sera nelle opportune condizioni. Lui avvertì la badante di attenderlo con il ferro caldo. La campagna di Russia della sera precedente finì in una nota a piè di pagina, quasi una preoccupazione esagerata, fuori luogo. L’anziana rom che fumava sigarette in corridoio, consapevole che il cancro ai polmoni era indifferente quanto lei, mi disse: “Sua madre troppo severa con lui”, ma io sapevo che era un gioco delle parti nel quale ora tutto era concesso a lei. Ho conosciuto i miei genitori per cinquantotto anni e per più di cinquanta sono stato in grado di valutarli, come individui e come coppia, ma ho sempre evitato di giudicarli. Certo è che mi sono apparsi un assortimento del caso e della necessità. Eppure, chi li ha incontrati solo nella fase finale ne parla come di un miracolo di unione, affetto, sostegno reciproco. Il bello è che io stesso posso confermarlo. Gli altri hanno visto il presente storico, io la storia farsi presente. Quella di due persone diverse che hanno cercato una strada comune e prima le hanno imposto il mio nome, ma alla fine le hanno dato il loro. Hanno rispettato i voti, nell’ultima fase li hanno onorati. Hanno lavorato tutta la vita, anche su se stessi. Non si sono limitati a sopportare, hanno portato alla loro costruzione quel che era mancato all’inizio e a metà. Non perché si siano arresi, ma per provare a vincere. Mio padre ha probabilmente sognato accanto a sé una donna più socievole e spregiudicata. Mia madre non ha sognato alcunché, perché se poi si fosse realizzato, allora sarebbe successo qualcosa di brutto. All’incrocio tra aspettative e timori li attendeva la realtà e con quella si sono misurati. Il tempo è stato un dono, ricambiato con l’impegno. Li ha aiutati la fragilità, tanto quanto la forza. Più di tutto, il saper trovare forza nella fragilità. È lì che mio padre ha compiuto il suo capolavoro. Mai stato in ospedale fino agli ottant’anni, successivamente ne è entrato e uscito come una vecchia auto dall’officina ricambi, con lo spirito e la curiosità di un aggiustatore che si vede aggiustato. Una valvola qui per evitare lo scoppio dell’aneurisma, due cazzuolate là per cementare i femori, una cornea usata al posto di una guasta. Avrebbe avuto bisogno anche di un secondo trapianto di cornea perché il primo occhio, senza la collaborazione dell’altro, aveva ripreso a indebolirsi. Da lontano vedeva ancora bene, ma da vicino no, ed era una pena guardarlo, davanti a un giornale, scorrere faticosamente le righe con l’aiuto della lente d’ingrandimento. Era in lista d’attesa: la prima volta era trascorso più di un anno per ricevere la chiamata. A sorpresa, per il secondo tentativo fu contattato dopo sei mesi. Ascoltò e rispose educatamente: “No grazie, non posso”. E perché mai? Sarebbe ritornato in fondo alla lista, avrebbe dovuto aspettare ancora e chissà per quanto, e nel frattempo l’altro occhio... E perché mai, papà? “Perché adesso è tua madre ad avere il problema più grande e io devo pensare a lei, non essere altrove per dedicarmi a me. Non voglio che lei si preoccupi, deve pensare solo a se stessa ora, e poi...” Esitava a dirla, ma capivo che c’era un’altra ragione, così remota che non riuscivo a immaginarla. “...e poi non voglio che lei creda che mi sto preparando per il dopo, per essere a posto quando lei non ci sarà più.” L’idea mi schiaffeggiò due volte: la prima per la certezza che conteneva, la seconda (il manrovescio) per quel che di mio padre rivelava: l’approdo. Era arrivato in porto. Mia madre, sua sposa da una vita, era il suo ultimo amore. Lui aveva cucinato una ricetta a fuoco lento, aggiungendo ingredienti a distanza di anni, a volte decenni. La sua invernale devozione aveva procurato sorpresa e allegria. Il giorno in cui disse no al trapianto aveva imparato l’ultima manovra: il sacrificio. Mia madre invece lo conosceva per vocazione, di genere e generazione. Questo le aveva reso, in un certo senso, le cose più facili. Le sue scelte non conoscevano il dubbio, anche se implicavano la sofferenza. È per questo che sono affezionato alla storia di mio padre e quella racconto. In lui ci sono un percorso, qualche errore, una crescita. C’è il riscatto della minore sensibilità che nel tempo e con la rinuncia si fa devozione. Avere un talento è un dono, costruirselo una fatica. Si fanno i film su Salieri, più che su Mozart, su quell’impossibile rincorsa al sublime che in altri si manifesta semplicemente con l’apertura degli occhi. Mio padre è Salieri che a fine vita, davanti a un Mozart stremato, azzecca una sequenza di note perfetta. E quando si gira per ricevere un applauso, o un sorriso, Mozart non c’è più, è andato nell’altra stanza, per sempre. Sono persuaso che tutti gli uomini e le donne che hanno perso chi amavano facciano prima o poi, ricordandoselo e no, lo stesso sogno. Io lo ricordo, anche se credo di averlo fatto una volta sola e molti anni fa. Nel sogno dio è un ciabattino, anziano ma senza barba, con una camicia azzurra abbottonata fino al collo e un grembiule di cuoio. Ti guarda e ti offre un paio di scarpe sfondate. Le tiene davanti a te facendole oscillare, poi dice: “Se le indossi e cammini senza sosta verso est per trecento chilometri puoi arrivare dall’amore che hai perduto e rivederlo, per un attimo. Poi morirai”. Tu prendi le scarpe, senza esitare, te le metti ai piedi, parti e sei felice, felice da scoppiare. Penso che mio padre abbia fatto quel sogno, e che nel sogno non avesse le stampelle. Si sarà stupito, di quello e della felicità, come della pioggia con il sole tra le gocce e tutta quella luce che splende per noi: non sarà questa l’ultima partita. Una cosa ancora su quel sogno, una cosa vera. Me l’ha raccontata una compagna di liceo, ora professoressa di scienze. Riguarda il suo, di padre. Disse che aveva fatto la campagna di Russia ed era scampato, ma non aveva mai smesso di parlarne, fino alla morte avvenuta decenni più tardi nel suo letto. Ricordava perfettamente la ritirata, ne sentiva ancora addosso le sensazioni. Avanzare nel gelo era una tortura, fermarsi una condanna. Diceva: “I russi avevano i piumini d’oca, già allora, noi calzature di cartone pressato fabbricate in Piemonte e cappotti di lana che diventavano fradici e pesanti, a ogni passo di più”. Eppure, avanti. La tentazione di lasciarsi cadere nella neve era un canto di sirene. La cosa che più lo aveva colpito erano le espressioni dei volti di quelli che cedevano. Lo facevano di schianto, senza neppure rallentare: all’improvviso, giù. Li vedeva davanti a sé, alberi abbattuti nella foresta umana. Proseguiva, li affiancava e poi superava. All’inizio li guardava, poi più. Smise per via di quel che vide nei loro occhi: qualcosa di troppo vicino alla felicità. Se non ne esiste una più grande della liberazione dal dolore, loro, i morti, l’avevano raggiunta. I corpi senza vita sorridevano. La fine era una beatitudine. Era terribile e rischiava di diventare ineludibile. Allora imparò a guardare soltanto avanti, verso il nulla che nascondeva la vita, facendola pensare come una promessa vana. Eppure continuò. Lui e pochi altri, sempre più distanti e sempre più vicini. Avevano capito, visto, quanto fosse più facile e perfino bello morire, ma soffrirono per vivere. E per raccontare che ne valeva la pena. Ne vale la pena. Poi c’è questo ricordo, che mi ha trafitto sul treno del ritorno. È una sera di qualche anno fa, tre o quattro credo, non sono sicuro. Sono andato a Bologna a trovare i miei e, cosa rara, sono rimasto per la notte a casa loro. La sera sono uscito a cena con vecchi amici prendendo l’auto di mio padre. Rincaso poco prima delle undici. Penso stiano già dormendo, ho le chiavi ed entro, cauto ma neppure troppo perché vedo la luce arrivare dal salotto. Mio padre è seduto a un paio di metri dal televisore. Siccome non sente bene, indossa le cuffie per seguire un vecchio film che non riconosco. Mia madre è in poltrona, illuminata da una lampada legge attentamente il giornale. Nessuno dei due si volta o alza la testa al mio ingresso: non mi hanno sentito né visto arrivare. Rimango in piedi, poi mi siedo nella poltrona libera. Sono vicino a entrambi, se mia madre allungasse il braccio potrebbe sfiorarmi, invece continua a leggere assorta un articolo di cronaca nazionale, qualche dolore lontano in cui sicuramente si immedesima. Mio padre ride a una battuta che non posso sentire perché chi non ha le cuffie è escluso dall’audio. Continuo a stare lì, in silenzio, li osservo, vicini e distanti, o viceversa, nella loro bolla di intimità, nei loro diversi interessi, che non sono interscambiabili ma convivono nella stessa stanza. I minuti scorrono, mia madre fa frusciare le pagine del quotidiano su cui scrivevo – un giorno troverò in un raccoglitore tutti i ritagli improvvisamente significanti –, mio padre abbassa lo sguardo durante la pausa pubblicitaria, come se stesse pregando. Un quarto d’ora è trascorso quando mi alzo, schiarisco la voce e annuncio: “Buonanotte!”. Mia madre ha un sussulto, mio padre se ne accorge con la coda dell’occhio e si gira. Entrambi sono stupefatti: “Da quanto tempo sei qui?”. Per non allarmarli rispondo: “Un minuto, o due”. Si interrogano su come possano non avermi sentito o visto entrare in casa. La risposta la troverò anni più tardi, in una galleria vicino a Firenze: i miei genitori non mi hanno mai visto, ma mi hanno pensato quasi per ogni attimo della loro esistenza da che sono nato. Io, al contrario, li ho pensati raramente, ma li ho visti, li ho sempre visti. E adesso, proprio adesso, non smetto di pensarli, e li penso insieme. Senza più, mai più, un minuto di non amore.
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pangeanews · 5 years
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“Non avrai una vita Ernesto Che Guevara, ma un destino”. Una mostra inattesa sul “Che”, il corpo della Storia
Dunque il corpo della Storia è quello. Un corpo immobilizzato sulla barella, terreo, gli occhi come selci che separano ricordo a codardia. La barba caotica conferisce al corpo, il corpo della Storia, un’ambizione cristica – un Cristo con la divisa da guerrigliero. Giovanni Bellini in Bolivia saprebbe trarre una fatidica Deposizione, con stuolo di estatici visitatori.
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Quelli non sono discepoli, però – ma nemici, forse traditori (anche in questo, si rispetta il cliché evangelico). Uno per tenacia ricorda Tommaso – il fucile al posto dell’indice. Insieme agli altri ammira il corpo, il corpo della Storia, con un certo timore: e se non fosse morto? Quante vite può avere un mito, quante può valerne? Due soldati, uno con una granata appesa alla giacca manco fosse un fazzoletto da tasca, fissano la camera, complici, severi. Pensano di poter sostituire quel corpo, certi di aver fatto la Storia. Ma la Storia – e la Storia, si sa, ha un odore laido, la Storia non è di chi attraversa i giorni nuotando, facendosi bombardare da un sospiro di stelle – non si fa imbragare dai briganti di terz’ordine. Il morto ha un viso così indelebile da essere replicato – manco fosse il Crocefisso – in centinaia di migliaia di bandiere e di t-shirt. Si può dire che il giorno della morte, in realtà, coincida con il giorno della nascita di quel corpo, il corpo della Storia.
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Il ‘Che’ fotografato da Osvaldo Salas (1914-1992): “Nel 1959, mentre Castro conduce con successo la rivoluzione cubana, lo chiama a Cuba. Osvaldo Salas, accompagnato dal figlio Roberto, allora diciottenne, ritorna e diventa capo del dipartimento di fotografia del quotidiano Revolución ed illustrerà per ventitré anni l’evoluzione dell’avventura cubana”
Questo è l’enigma: la gloria bacia qualcuno, ma la Storia ha bisogno di un morto per compiersi. Un morto dalla natura immortale – così quei colpi che bucano il collo, in realtà, sono stimmate, e subito, qualcuno, come i venditori di reliquie del Medioevo, misura e prezza il dito mignolo del ‘Che’, il naso, l’occhio destro, la fibbia della cintura, la rotula, il prepuzio. C’è chi pensa di fatturare reliquie fasulle, tratte da un misero calco, e di venderle nell’imbuto sudamericano, e poi a Nord. Anche qualche adepto della Cia non rifiuta l’acquisto dell’unghia del ‘Che’, perché al netto delle infamie – la Storia è così, eleva dal niente i bastardi per ergerli a re – conta l’eroe, e chi non preferisce una giungla all’ombra di un grattacielo di Manhattan, e chi non imbraccerebbe la prima, perfino la più misera, guerra ‘per la libertà’ pur di sfilarsi dalla frustrazione quotidiana. Meglio il massacro che timbrare il cartellino, osa dire, qualcuno, ingoiando quella vigliaccata.
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Disposti a tutte le guerre perché il sangue è eros e la parola magica, ‘popolo’ è come falangi di visionari straccioni al casino, estasi, eutanasia dell’ordinario.
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La spavalderia prima dello spavento: la Storia è un lebbrosario. Assurgere a simbolo è una dannazione, per un uomo – ogni scelta è una finestra sul fraintendimento. La fotografia del ‘Che’ ucciso sembra una deposizione bastarda: la t-shirt al posto del sudario, i comizi al posto del sepolcro schiantato, La guerra di guerriglia al posto del Vangelo. Qualcuno è stato Giuda – di certo, risorgerà. Uno sbaglio della giovinezza, l’avventatezza dell’avvenire, fece dell’avventuriero un castrista che castrava. Anche uccidere, nella foga ideale, può essere disciplina. Non gli restò che morire per dare autenticità alla Storia – della sua resta un corpo, parte di ceramica, il ‘Che’ non era più lì, era una medaglia, una canzone, una bestemmia, una utopia, un sibilo.
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Il libro più bello sul ‘Che’ lo ha scritto un irredimibile scalmanato, che ha fatto il salto dalla gauche all’abisso, Jean Cau. Nel 1978 firma, per Juillard, Une passion pour Che Guevara, poi pubblicato dalla risorta (per poco) Vallecchi nel 2004, con prefazione di Pino Cacucci, poi scomparso. “È il ritorno dalla battuta e i cacciatori hanno finalmente ferito e catturato la più temibile di tutte le fiere. Ti hanno obbligato a camminare, malgrado le tue ferite, ma il ritorno verso il villaggio di La Higuera assumeva un’andatura troppo lenta di processione. Inciampavi, somigliavi a un Cristo che due centurioni portano o trascinano, non si sa. Le tue braccia passate sopra la spalla dei due ‘berretti verdi’ che ti tenevano, così sistemato, per i polsi. I tuoi piedi che sfioravano il suolo. ‘Pesa…’, ha detto uno dei soldati all’ufficiale. ‘Pesa mucho…’. Allora l’ufficiale ha detto di portarti con una coperta. Ecco fatto. Quattro soldati serrano tra i pugni i cordoni di questo drappo funebre che ondeggia come un’amaca al ritmo della loro marcia. Stelle rosse vi nascono: il tuo sangue che inzuppa la coperta”.
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Con la profezia della morte che avvampa, Jean Cau racconta la storia del ‘Che’ (“Ciò che mi affascina e mi commuove è la serietà che metti nel recitare una parte di politico rivoluzionario che non è tua. Sono affascinato perché so che hai un appuntamento a La Higuera e che la luce alla Rembrandt del tuo cadavere nudo – della pelle così bianca, del petto imberbe e così mortalmente lattiginoso – spostato (era sul lavello) per collocarlo su questa sorta di tavolo-barella, e la luce che illumina questo libro, decompone l’universo della tua vita… Non avrai una vita, Ernesto Che Guevara, ma un destino”). Riesce a essere fermo all’estasi, Cau (“Mi piace ammirare. Mi piace rispettare. Mi piace arrendermi, quando sono vinto dall’angelo. Ebbene, ti amo e ti rispetto, ma con un’irritazione che mi indigna. Quanto ad arrendermi a te, no, anche se per un omaggio respingo la terra della mia salvezza”); legge nel ‘Che’ l’ulteriore fine di un mondo, come se l’assassinio (di spalle) chieda d’essere temprato nel reiterare. “E i giovani dell’Occidente… Sono così giovani ed io, sulla mia sedia di paglia, improvvisamente così vecchio. Avrò saputo leggere e scrivere. Amare, non so. Vivere? Oh, non c’è di che vantarsene quando non si è morti a vent’anni. Come te, Ernesto, figlio mio, che non avesti mai un’altra età. E i giovani dell’Occidente che non la finiscono di sognare la Rivoluzione hanno appuntato il ‘poster’ del guerrigliero al muro della loro stanza. Per alimentare gli ultimi fuochi del forno che si spegne, non hanno altro che questo rettangolo di carta, lambito dal languore delle fiamme e che si contorce sotto la carezza”.
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Spesso, sul corpo morto del ‘Che’ s’impalca la metafora cristica – quel corpo a Jean Cau pareva dipinto dal Mantegna, aveva la torsione luminosa di Rembrandt. Qualcosa di pittorico e di preordinato, comunque – forse perché il destino è un artista. “Da tremila anni muore lo stesso toro nero che ho visto mille volte rotolare e il sole girava tra le sue alte corna. Da duemila anni il Crocifisso agonizza e rinasce ogni giorno sino alla fine del mondo. Si dice. Topi, tori e Gesù Cristi, ce ne sono sempre a bizzeffe”.
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Il ‘Che’ ammorba la Storia, frate nel convento del proprio ego. Nelle lettere pubblicare da poco a Cuba come Epistolario de un tiempo. Cartas 1947-1967, il ‘Che’ si districa dai ruoli governativi (“Abbiamo commesso molti errori in ambito economico. Il primo, il più importante, è stata l’improvvisazione con cui abbiamo portato avanti le nostre idee, tramite una politica estemporanea”, scrive a Castro), percorre il preludio di una filosofia anarchica (“A Cuba non viene pubblicato nulla, se escludiamo i ‘mattoni’ sovietici che hanno l’inconveniente di non farti pensare, dal momento che sono stati scritti perché tu debba soltanto digerirli… Abbiamo fatto molto, ora dobbiamo imparare a pensare”, scrive ad Armando Hart, Ministro dell’Educazione cubano). Ma la Storia lo ha avvinto, divorando il suo volto, per renderlo riconoscibile a tutti.
*
Pensando al ‘Che’, prediligo lo scarto, il ‘pazzo in Dio’, che adempie la fede nel fango dell’irriconoscenza, nel gargarismo dell’incomprensione. Scacciato da tutti, cacciato da ogni luogo, senza l’armatura della tunica, il ‘pazzo in Dio’ indossa quei versetti scanditi e sconvolgenti di Paolo: “Andavano, vestiti di pelli – senza niente – bastonati – bistrattati – il mondo non è degno di loro. Perlustravano i deserti, le montagne, s’inoltravano nelle grotte della terra” (Lettera agli Ebrei 11, 37-38). Radicalità che abbaglia per eccesso di precisione, che ha dettaglio in questi versetti intagliati della Prima lettera ai Corinzi (3, 18-19), che qui segno secondo la traduzione di Giovanni Testori:
Non cedete a seduzione. Chi di voi secondo le regole del mondo si sente sapiente, s’annulli e si faccia demente. Solo allora si sentirà veramente sciente. La scienza di questo mondo presso Dio è totale insipienza.
Al corpo della Storia antepongo il suo opposto: la carne. Allo stremare dell’azione, lo spreco.
Davide Brullo
*La mostra “Che” inaugura a Domodossola, martedì 22 ottobre 2019, dalle ore 11 alle 13, in via Mellerio 2, per cura dell’École des Italiens. Verranno mostrate fotografie di René Burri, Alberto Korda e Osvaldo Salas, da collezione privata. L’interesse particolare riguarda alcuni scatti, presi da anonimo a La Higuera, Bolivia, il 9 ottobre 1967, che mostrano il ‘Che’ morto, finora mai visti in Italia (una di queste campeggia in copertina)
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Essere a conoscenza degli incarichi di ogni proprietario di casa che dovrebbe provenire da un nuovo pezzo di sculacciata proveniente da tutti gli immobili. Soprattutto all'interno di quartieri costosi, l'acquisto di beni può richiedere a una residenza di cedere a regolamenti completi in merito a come la sua o la tua ex casa può essere quella di trovarvi mantenuti in combinazione con trattati. Una relazione romantica completa dei proprietari di casa di solito fornisce tali regolamenti. La potenziale clientela dovrebbe criticare attentamente queste caratteristiche fino ad ora prendere una decisione. Se hai già preparato il lavoro di preparazione e scoperto la 'conoscenza', la tua società saprà che ci possono essere delle volte e anche dei luoghi in cui dovresti impostare il nostro orologio attraverso quali sforzi e il picco della tua marea in genere la mistica chitarra basso aiuterà un aspetto. Sono in grado di venire da un incredibile gulley a nome di esempio per essere trovati in un qualche particolare pensiero della marea. Questo è certamente il caso in cui vengono visualizzati specifici 'compiti'. Certamente non solo usa pazienza, abilità, pratica e conoscenza in relazione a dove, inoltre, quando catturare con successo i bambini, ma spesso la sensazione di installazione di molte ore in insieme con sconti speciali infine i premi sono molto auto-divertimento oltre l'idea. Quanto probabilmente vorresti scrivere in pochi su ciò che potresti pensare è ora caldo, e inoltre essere all'interno di una proporzione della tua giusta opinione? Sembra troppo bello per essere generalmente vero? Beh, probabilmente non è generalmente così durevole come pensi. quando ascolto principalmente un modo consigliabile in modo che tu possa costruire rapporti di fiducia umani ed essere più capace di mostrare alla tua famiglia potenziale pubblico di riferimento che ogni persona ha un valore veramente reale in realtà potrebbe essere quello di prestargli risorse gratuitamente, il mio in secondo luogo, il pensiero è che se tutte le persone stanno raggiungendo questo obiettivo, la mia consorte non deve essere costretta a sprecare un'educazione gratuita. Queste strategie che ho semplicemente spostato brevemente in modo particolare sono quasi sempre quelle che spesso richiedono - essere ricercate su questa piattaforma individuale e poi continua con una buona squadra più tipicamente associata a professionisti finanziari che capiscono come aiutare veramente ottenere questo successo per qualcuno. Questo non è uno dei dozzine di 'piani' che consistono in passi che dovresti seguire su un libretto sul tuo pregiato e poi in 20 anni una Golden Goose Superstar Scontate rande oca d'oro ti mette un Sneakers Superstar Golden Goose erto numero di persone preziose. Il coordinamento di 401 (k), Roth IRA, investimenti, assicurazioni sulla vita regolari, volontà oltre ai trust è spesso qualcosa che gli esperti ritengono abbia bisogno di più comunità di quanto sia considerato prudente qui e francamente con gente che è sempre stata molto più qualificata tu della mia opinione. A4: La nostra è la prima attuale verso le domande più grandi quando si richiede molta considerazione. Un posto di pancia non è mai solo una sorta di procedure minori. Di solito avrai la cicatrice intestinale che si adatta dopo l'intervento chirurgico, quando al suo punto più audace può rivelarsi piuttosto commovente. A meno che tu non possieda un carattere individuale elastico che può far fronte quando si tratta di stress per l'ansia, un socio, un familiare o un amico o un familiare potrebbe essere in genere qualcuno che potrebbe cambiare la tua prospettiva principale della tua impresa quando si prova indietro. Mardi Gras Fever è una video slot machine a 5 rulli e 20 payline che ha bisogno di uno stile di decorazione del Mardi Gras completamente nuovo di Orleans. È stato rilasciato a febbraio, l'anno 2008. Mardi Gras Fever accetta monete oltre $ 0,01 che possono $ 0,50, insieme al maggior numero possibile di monete che sembrano poter scommettere anche per un giro è 200. Tutto il primo premio è 2.000 monete. Tutti quelli che ci usano per affari, le cose delle nostre dimensioni, hanno bisogno di una tattica pubblicitaria efficace, piena di risorse. Se la tua famiglia può facilmente permettersi ogni singolo campanello e / o fischietto, la pubblicità televisiva e cinematografica esegue inoltre le cose in un tempo superlativo come K Mart, questo è essenziale. La maggior parte per quanto riguarda noi, tuttavia, non può permettersi di pagare per quella forma di campagne pubblicitarie e possiede per recuperare alternative che sono a buon mercato, ma nonostante tutto portano alloggio la salsiccia.
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negocentrismo · 7 years
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Quando ero piccolo io negli anni Ottanta, bastava studiare e la questione era risolta. Una vita gloriosa si stendeva davanti a noi, che avremmo potuto studiare, non avremmo dovuto emigrare, avremmo avuto una vita piena e ricca di soddisfazioni. L’Italia pompava fatturato, i Mondiali di Italia 90 erano la rappresentazione chiarissima di come stava evolvendo e crescendo e godendo questo Paese.
Poi, sarà che siamo arrivati terzi ai Mondiali, sarà che all’improvviso il Pentapartito non c’era più con il bel faccione di Craxi a rassicurarci, sarà che quello che era considerato il più grande imprenditore italiano si è buttato in politica, insomma, la situazione è degenerata. E non solo qui da noi, che alla fine dei conti eravamo abituati ad arrangiarci, ma in tutto l’Occidente, mentre il rising billion del Terzo mondo cominciava a dirci “Ehi, pure noi vogliamo le robe fighe che avete voi!”. I segnali c’erano ma non li sapevamo cogliere, quando ancora Roberto Baggio sbagliava i rigori a Usa 94.
Insomma, ci siamo ritrovati laureati e abbiamo cominciato a scrivere “Dott.” o “Dott.ssa” alla fine dei curriculum ma a nessuno fregava più niente del fatto che fossimo Dott. o Dott.ssa. Bisognava studiare ancora, fare un Master, fare i debiti, e poi raccapezzarsi a passare una vita saltando da un lavoro all’altro.
Insomma, dopo che tutti ci avevano detto “Studia così starai bene”, ci siamo accorti che non era così. E hanno pure cominciato a dire che era colpa nostra che eravamo stati abituati bene e che dovevamo adattarci. E a me viene da dire che non l’avevamo chiesto noi di essere trattati bene, non eravamo stati noi a creare le pubblicità del Mulino Bianco dove tutto andava sempre bene, non eravamo noi ad aver girato i film con Jerry Calà ed Ezio Greggio che ci avevano riempito la testa di successo, di vita bella e soldi facili. L’avevate fatto voi, che oggi siete sessantenni o settantenni e dopo averci riempito di palle sul fatto che voi avevate lavorato duramente ma adesso noi non avremmo fatto la stessa fine vi siete ritrovati con la casa di proprietà mentre noi fatichiamo a mettere insieme il pranzo con la cena. Vi siete ritrovati con più macchine nel garage mentre noi faticavamo a fare l’abbonamento dei mezzi. Ci avete bruciato, maledizione, e ci abbiamo messo anni ad accorgercene. E non avete fatto nulla per prepararci allo sfascio, ce lo siamo ritrovati davanti, e l’unica cosa che avete saputo dirci era: “Adeguati, non c’è budget”. E dove cazzo sono finiti tutti quei soldi? Stanno lì, nelle vostre pensioni con il sistema retributivo, nei pensionati a 50 anni che poi hanno aperto un’altra attività, stanno negli aiuti di Stato alle aziende che mettono gli operai in cassa integrazione, nei telegiornali che appena c’è uno sciopero in un qualsiasi cazzo di stabilimento FIAT fanno parlare i sindacati che se ne escono dicendo “Gli operai!!! Il lavoro!!! Le pensioni!!!” e poi quando vai a parlare con loro dicendo “Sono un precario, mi servirebbe una mano per un prestito” ti rispondono che non sei un operaio, che dovresti imparare a lavorare, che loro non sono preparati sui contratti atipici, che non sanno di cosa stai parlando perché loro devono preoccuparsi degli operai, degli insegnanti di ruolo e dei pensionati. E se vai a parlare in banca ti chiedono se hai una casa di proprietà, e ti ritrovi a quarant’anni a far firmare dei documenti ai tuoi che devono garantire per te neanche fossimo ancora a l liceo a farci firmare le giustificazioni.
Sapete che c’è? Avete vinto voi. Questa guerra l’avete vinta voi. Ora, però, basta.
Perché dopo averci riempito la testa di cacate sul posto fisso, sul lavoro, su tutto, abbiamo capito che oggi non funziona così. Noi l’abbiamo capito, voi no. E quindi ci siamo adattati, ma non come volevate voi. Abbiamo messo su famiglia lo stesso, abbiamo cominciato a fare 15 lavori diversi, lavori che non riusciamo manco a descrivervi e che a un certo punto ci saremmo anche rotti il cazzo di descrivervi mentre siamo lì ad aiutarvi perché “Non funziona Google”, e a 30 anni abbiamo più voci noi nel curriculum che voi a 60. E quasi mai, se ci offrono il posto fisso, lo vediamo come il posto in cui lavoreremo fino alla fine dei nostri giorni, ma come il posto in cui abbiamo qualche certezza di lavorare per qualche anno senza essere sbattuti fuori a calci appena il vento gira, e dopo qualche anno siamo noi che ce ne andiamo, perché non abbiamo più stimoli e vogliamo averne di nuovi.
Siamo noi che sappiamo come usare i social network che voi usate solo per giocare e mandarvi i buongiornissimi, sappiamo che alcuni giornali sono attendibili e altri no, non ci facciamo fregare dai titoli del Corriere e di Repubblica o dal telegiornale su Rai Uno che pensavate dicesse sempre la verità.
Volevamo fare quello che sognavamo da piccoli, e lo facciamo. Magari non ci prendiamo dei soldi ma continuiamo perché vogliamo farlo, non abbandoniamo quello che volevamo fare solo perché vorreste vederci sistemati.
Non ci sistemeremo, fatevene una ragione, non per ribellione ma perché è impossibile fare quello che avete fatto voi negli ultimi anni del Novecento. Purtroppo o per fortuna, non è dato saperlo. Abbiamo quarantanni e ci vestiamo ancora con le magliette dei gruppi rock e andiamo ancora ai concerti e guardiamo i film e le serie tv perché il limite della giovinezza si è spostato, anche se voi ci considerate giovani fino a 35 anni se dobbiamo chiedere un prestito o partecipare a un bando di concorso, giovane fino a 50 se invece dobbiamo chiedere un aumento al lavoro.
Siamo noi che stiamo sistemando la situazione anche se ci avete regalato una macchina rotta. E non ci avete fatto neanche gli auguri quando ci siamo saliti sopra ma ci avete detto “Vai piano”. Col cazzo che andiamo piano, non possiamo andare piano, rendetevene conto.
Abbiamo fatto pace con quello che ci avevate promesso e non avete mantenuto. Non avremo la pensione? E vaffanculo, faremo senza. Non avremo una casa di proprietà? E vaffanculo, ce ne andremo da un’altra parte dove gli affitti costano meno. Non avremo la macchina? E vaffanculo, tanto la macchina non serve più a nessuno.
Lavoriamo spesso più duramente di voi, perché voi davanti avevate il sogno realizzabile di sistemarvi, noi invece abbiamo il sogno irrealizzabile di mettere in banca qualcosa una volta pagato tutto. E non ce la faremo, e quindi vaffanculo, andiamo avanti lo stesso.
Metteremo in piedi startup, aziende, studi e cooperative, e assumeremo i ventenni pagandoli davvero perché non passino le stesse disgrazie che abbiamo passato noi, e se non riusciremo a pagarli per qualche motivo non ci nasconderemo dietro il “Almeno fai esperienza” oppure dietro il “Fai un lavoro che ti piace, vuoi anche essere pagato?” come troppo spesso fate voi che pensate che oggi sia possibile lavorare come una volta.
Insegneremo ai nostri figli che la vita è difficile, molto difficile, ma che possono fare qualsiasi cosa e non gli romperemo il cazzo dicendo “E allora quando ti sposi?” oppure “Non vieni mai a trovarci!”. Si sposeranno e faranno figli quando vorranno, se vorranno, e non ci metteremo in mezzo. Ci verranno a trovare quando avranno voglia loro, non costringendoli col ricatto sentimentale dopo avergli costruito attorno la gabbia della famiglia che ancora oggi continua a ingabbiare migliaia di persone che a cinquantanni si sentono ancora figli prima che uomini o donne.
Nessuno dovrà passare quello che abbiamo passato e stiamo passando noi, quello che voi non riuscite ancora a capire perché per voi gli anni Settanta non sono mai finiti, pensate ci siano ancora le lotte operaie, Guccini alla Festa dell’Unità e il Festival di Sanremo con il superospite internazionale.
Sapete che c’è? Avete vinto quella guerra, ma quella che stiamo combattendo noi, voi non sapete neanche che è in corso. Cazzi vostri, non possiamo starvi appresso in eterno, abbiamo da fare.
Tratto da: https://medium.com/@cicciorigoli/come-hanno-fottuto-i-trenta-quarantenni-51c295050a6c
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snarkive · 8 years
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Segni per una pratica che abilita
Posso scrivere quello che voglio?
Un’occasione di libertà, prima di tutto, prima di parlare di educazione o inclusione. Baumhaus è nato dietro la stazione centrale di Bologna, in Bolognina, una zona in cui negli anni hanno organizzato eventi e iniziative che davano un senso immediato (e diverso dai canoni) allo sport, all’hip-hop e ad altri linguaggi e arti urbane, pensate come occasione di aggregazione e condivisione di saperi. Una casa sull’albero, Baumhaus parte dalla conoscenza dell’esperienza di ragazze e ragazzi che non si trovano in pieno nei percorsi ufficiali, nella scuola o negli spazi di socializzazione ufficiale. E nasce sapendo di stare, e voler stare, in un territorio. Ci siamo conosciuti nel 2015, in occasione di CoopUp e di ZacBaum. Li abbiamo trovati in un momento in cui stavano cercando un posto in cui portare laboratori e opportunità di aggregazione e lavoro, secondo un approccio di capacitazione e orizzontalità su cui stavano ancora sperimentando. Discutendo di quello che ci piaceva fare e che ci incuriosiva, abbiamo deciso di lavorare insieme sugli strumenti e sugli approcci di coprogettazione, per sviluppare alcune questioni fondamentali (i bisogni di ragazze e ragazzi, gli usi e le funzioni dello spazio, il rapporto tra regole e appropriazione, etc.). A noi interessava un’occasione per sperimentare strumenti di codesign in ambito sociale: a che condizioni possono includere? Cosa dicono del progetto a cui sono dedicati? Abbiamo iniziato con una domanda semplice e corta: perchè coprogettare? Le risposte ci hanno subito portato sulla strada dell’appropriazione e della conoscenza dei bisogni: lo facciamo per conoscere il bisogno di saperi e di relazioni, per aggregare e generare passioni. Colori, parole e segni Nel corso del 2016 abbiamo realizzato quattro sessioni, tra laboratori ed eventi pubblici, mischiando strumenti di arte pubblica, co-design e pratiche di narrazione, coinvolgendo adolescenti, musicisti ed operatori dei servizi sociali. Abbiamo iniziato con un incontro di autocoscienza, insieme alla crew di On the Move, nata dal laboratorio hip hop che è una delle prime tappe di Baumhaus. Condividere le esperienze e le emozioni di ciascuno è servito a definire le ragioni per cui il collettivo è nato e si è consolidato, tanto per aspetti personali che artistici. In altre due occasioni, a Bologna per Baum (sui pannelli che trovate in via di Vincenzo) e al teatro dell’Elfo a Milano per il festival LAIV ACTION, abbiamo creato due lavagne collettive, per permettere a tutte e tutti di raccontare cosa volessero imparare e di che spazi avessero bisogno: hanno partecipato complessivamente più di duecento persone di tutte le età, facendo emergere temi e dimensioni che sono trasversali rispetto all’età in termini di bisogni. C’è molta voglia di realizzarsi vestiti e di spazi belli e curati, ma soprattutto di pace e di libertà, sono queste due le parole che abbiamo trovato più volte, in colori e lingue diverse. Un ultimo laboratorio è stato organizzato con gli operatori dei servizi sociali ed educativi del quartiere, per creare un’opportunità di condivisione di esperienze e strumenti in merito agli spazi e ai percorsi contro la dispersione scolastica. Oltre a trovare nuove prospettive e piccole pratiche per leggere i bisogni delle famiglie e delle ragazze e dei ragazzi, abbiamo discusso di mutualità, supporto e coordinamento tra chi lavora nelle rete di centri sul territorio, i cui bisogni sono importanti tanto quelli di chi li frequenta.
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Voglio un posto in cui c’è pace Voglio imparare da chi ho accanto e da gente capace E quindi cosa fare di ciò che resta sui fogli e sulle lavagne? Dal nostro punto di vista, leggermente spostato di lato seppur vicino, questo processo è servito per comprendere sia su cosa concentrasi (i bisogni) che come farlo (insieme ai ragazzi e alle ragazze). Ora, nel definire interventi su spazi o laboratori, il gruppo di Baumhaus sta già lavorando su entrambe le dimensioni, nonostante le complessità della progettazione di oggetti così ibridi, lavorando tanto sui bisogni emotivi e relazionali delle persone coinvolte che sulla sostenibilità, senza rinunciare alla bellezza e alle complessità delle cose che accadono nel territorio. Gli spazi devono essere attrattivi, con poche regole, condivise e incrementabili. Serve un ambiente in cui poter prendersi cura del prossimo, partendo da un ascolto alla pari, spazi che possano essere adattati e incrementati. I saperi e le competenze che ragazze e ragazzi vogliono fare proprie, oltre alla musica e ai linguaggi contemporanei, sono quelli legati alla cura del sé e del prossimo. Non si sa se dentro alla casa sull’albero ci saranno telai per la serigrafia gestiti secondo un modello di banca del tempo o rampe da skateboard. Nè se assomiglierà più a co-working o uno spazio autogestito. Abbiamo però capito che dovrà rispondere a bisogni emotivi e relazionali di chi sta immerso in una quotidianità fatta troppo spesso di conflitti e disuguaglianze sociali ed economiche: la parola ‘pace’ è comparsa inaspettata ed è tornata più volte nei laboratori. Il bisogno di protezione non sta solamente nelle caratteristiche dello spazio ma nelle sue regole, nel fatto che i ragazzi e le ragazze ci si possano ritrovare sapendo che possono prendersi cura gli uni degli altri. Poter esprimere ciò che si sente o si sta vivendo senza temere conseguenze: si ha quasi vergogna di chiedere se si può, ma è un bisogno forte e Bauhmhaus può usarla come opportunità. Un luogo che esprima pace: i conflitti stanno in casa e per strada, non si ignorano, devono emergere ma (perché possano emergere) serve un’alternativa alle logiche oppositive e prestazionali che tengono su narrative e istituzioni dominanti. Dovrà far sentire le persone al centro di percorsi di crescita seri, non laboratori semplificati per utenti a rischio, e orizzontali, in cui poter mettere in discussione strumenti e obiettivi degli stessi percorsi. Le ragazze e i ragazzi che abbiamo incontrato vogliono imparare quello che gli può effettivamente servire. Che sia hip-hop, grafica, cucina, serigrafia o arte pubblica, c’è voglia di stare dove le cose accadono per davvero, nei laboratori, nelle redazioni e nelle cucine. On The Move è nato così: un gruppo di ragazze e ragazzi che si ritrovavano per rappare a XM24, imparando insieme, prendendosi cura dello spazio e degli altri, e costruendosi credibilità e un percorso artistico. Prima di tutto servono occasioni di cura e affetto, spazi in cui tutte e tutti possano sentirsi accolti e rispettati.
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(un paio di pagine da un numero di ID magazine dell'anno scorso)
Co-progettare = abilitare? Co-progettare ha tante accezioni e si porta appresso anche degli assunti, alcuni dei quali imperfetti e pericolosi. Veniamo al dunque: per noi non è di per sé un processo democratico né abilitante. Questo può essere garantito dalla relazione tra il processo e la natura di ciò che sarà sviluppato (uno spazio, un’impresa, una narrazione, un social network, etc.). Il coinvolgimento delle persone può essere funzionale a una progettazione più efficace ed efficiente, ci crediamo da parecchio, ma può soprattutto essere la premessa per un’opportunità di gestione aperta, co-gestione o autogestione (questo è poi un punto ulteriore, anche se molto prossimo e urgente). Baumhaus è nata come comunità che condivide cura, socialità e saperi, basata su principi di equità e accesso alle pratiche. Sia che diventi uno spazio o una rete di azioni diffuse, dovrà continuare a essere co-progettata e trovare una relazione, non solo un equilibrio, tra le dimensioni, tra l’aggregazione e le pratiche artistiche, sociali ed economiche che ha attorno. Uno spazio per condividere relazioni, cura e saperi, può essere co-progettato a condizione di continuare a farlo, tutti i giorni. È questa la seconda (bella) rivelazione del percorso, che è emersa netta solo a inizio 2017. Usare la coprogettazione come strumento di analisi, di coinvolgimento e di azione, in una relazione viva e quotidiana con la visione politica del progetto.   aprile 2017 Michele x snark
info: michele.restuccia chez gmail.com
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