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Freedom is a fate...
#end of colonialism#end of apartheid state#end of ethno-state#end of settler colonialism#end of impunity#end of mass killings#end of ethnic cleansing#end of famine induced starvation#end of complicity with genocidal state#end of occupation#viva la resistance#free palestine
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Today Israel killed beloved journalist Anas al-Sharif. May he be the light of Revolution.
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Darwish
Si è legata l’esplosivo alla vita e si è fatta esplodere.
Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio.
É il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.
Da quattro anni, la carne di Gaza schizza schegge di granate da ogni direzione.
Non si tratta di magia, non si tratta di prodigio.
É l’arma con cui Gaza difende il diritto a restare e snerva il nemico.
Da quattro anni, il nemico esulta per aver coronato i propri sogni, sedotto dal filtrare col tempo, eccetto a Gaza. Perché Gaza è lontana dai suoi cari e attaccata ai suoi nemici, perché Gaza è un’isola.
Ogni volta che esplode, e non smette mai di farlo,
sfregia il volto del nemico, spezza i suoi sogni e ne interrompe l’idillio con il tempo.
Perché il tempo a Gaza è un’altra cosa, perché il tempo a Gaza non è un elemento neutrale. Non spinge la gente alla fredda contemplazione, ma piuttosto a esplodere e a cozzare contro la realtà. Il tempo laggiù non porta i bambini dall’infanzia immediatamente alla vecchiaia, ma li rende uomini al primo incontro con il nemico. Il tempo a Gaza non è relax, ma un assalto di calura cocente.
Perché i valori a Gaza sono diversi, completamente diversi.
𝐋’𝐮𝐧𝐢𝐜𝐨 𝐯𝐚𝐥𝐨𝐫𝐞 𝐝𝐢 𝐜𝐡𝐢 𝐯𝐢𝐯𝐞 𝐬𝐨𝐭𝐭𝐨 𝐨𝐜𝐜𝐮𝐩𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐞̀ 𝐢𝐥 𝐠𝐫𝐚𝐝𝐨 𝐝𝐢 𝐫𝐞𝐬𝐢𝐬𝐭𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐚𝐥𝐥’𝐨𝐜𝐜𝐮𝐩𝐚𝐧𝐭𝐞.
Questa è l’unica competizione in corso laggiù.
E Gaza è dedita all’esercizio di questo insigne e crudele valore che non ha imparato dai libri o dai corsi accelerati per corrispondenza, né dalle fanfare spiegate della propaganda o dalle canzoni patriottiche.
L’ha imparato soltanto dall’esperienza e dal duro lavoro che non è svolto in funzione della pubblicità o del ritorno d’immagine.
Gaza non si vanta delle sue armi, né del suo spirito rivoluzionario, né del suo bilancio. Lei offre la sua pellaccia dura, agisce di spontanea volontà e offre il suo sangue.
Gaza non è un fine oratore, non ha gola.
É la sua pelle a parlare attraverso il sangue, il sudore, le fiamme.
Per questo il nemico la odia fino alla morte, la teme fino al punto di commettere crimini e cerca di affogarla nel mare, nel deserto, nel sangue.
Per questo, gli amici e i suoi cari la amano con un pudore che sfiora quasi la gelosia e talvolta la paura, perché Gaza è barbara lezione e luminoso esempio sia per i nemici che per gli amici.
Gaza non è la città più bella.
Il suo litorale non è più blu di quello di altre città arabe. Le sue arance non sono le migliori del bacino del Mediterraneo.
Gaza non è la città più ricca.
(Pesce, arance, sabbia,
tende abbandonate al vento,
merce di contrabbando,
braccia a noleggio.)
Non è la città più raffinata, né la più grande, ma equivale alla storia di una nazione.
Perché agli occhi dei nemici è la più ripugnante, la più povera, la più disgraziata, la più feroce di tutti noi. Perché è la più abile a guastare l’umore e il riposo del nemico ed è il suo incubo.
Perché è arance esplosive,
bambini senza infanzia,
vecchi senza vecchiaia,
donne senza desideri.
Proprio perché è tutte queste cose, lei è la più bella, la più pura, la più ricca, la più degna d’amore tra tutti noi.
Facciamo torto a Gaza quando cerchiamo le sue poesie.
Non sfiguriamone la bellezza che risiede nel suo essere priva di poesia. Al contrario, noi abbiamo cercato di sconfiggere il nemico con le poesie, abbiamo creduto in noi e ci siamo rallegrati vedendo che il nemico ci lasciava cantare e noi lo lasciavamo vincere.
Nel mentre che le poesie si seccavano sulle nostre labbra, il nemico aveva già finito di costruire strade, città, fortificazioni.
Facciamo torto a Gaza quando la trasformiamo in un mito perché potremmo odiarla scoprendo che non è niente più di una piccola e povera città che resiste.
Quando ci chiediamo cos’è che l’ha resa un mito, dovremmo mandare in pezzi tutti i nostri specchi e piangere se avessimo un po’ di dignità, o dovremmo maledirla se rifiutassimo di ribellarci contro noi stessi.
Faremmo torto a Gaza se la glorificassimo.
Perché la nostra fascinazione per lei ci porterà ad aspettarla.
Ma Gaza non verrà da noi, non ci libererà.
Non ha cavalleria, né aeronautica, né bacchetta magica, né uffici di rappresentanza nelle capitali straniere.
In un colpo solo, Gaza si scrolla di dosso i nostri attributi, la nostra lingua e i suoi invasori.
Se la incontrassimo in sogno forse non ci riconoscerebbe, perché lei ha natali di fuoco e noi natali d’attesa e di pianti per le case perdute.
Vero, Gaza ha circostanze particolari e tradizioni rivoluzionarie particolari.
(Diciamo così non per giustificarci, ma per liberarcene.)
Ma il suo segreto non è un mistero: la sua coesa resistenza popolare sa benissimo cosa vuole (vuole scrollarsi il nemico di dosso).
A Gaza il rapporto della resistenza con le masse è lo stesso della pelle con l’osso e non quello dell’insegnante con gli allievi.
La resistenza a Gaza non si è trasformata in una professione.
La resistenza a Gaza non si è trasformata in un’istituzione.
Non ha accettato ordini da nessuno, non ha affidato il proprio destino alla firma né al marchio di nessuno. Non le importa affatto se ne conosciamo o meno il nome, l’immagine, l’eloquenza. Non ha mai creduto di essere fotogenica, né tantomeno di essere un evento mediatico. Non si è mai messa in posa davanti alle telecamere sfoderando un sorriso stampato.
Lei non vuole questo,
noi nemmeno.
La ferita di Gaza non è stata trasformata in pulpito per le prediche.
La cosa bella di Gaza è che noi non ne parliamo molto, né incensiamo i suoi sogni con la fragranza femminile delle nostre canzoni.
Per questo Gaza sarà un pessimo affare per gli allibratori.
Per questo, sarà un tesoro etico e morale inestimabile per tutti gli arabi.
La cosa bella di Gaza è che le nostre voci non la raggiungono, niente la distoglie.
Niente allontana il suo pugno dalla faccia del nemico. Né il modo di spartire le poltrone del Consiglio Nazionale, né la forma di governo palestinese che fonderemo dalla parte est della Luna o nella parte ovest di Marte, quando sarà completamente esplorato.
Niente la distoglie.
É dedita al dissenso:
fame e dissenso,
sete e dissenso,
diaspora e dissenso,
tortura e dissenso,
assedio e dissenso,
morte e dissenso.
I nemici possono avere la meglio su Gaza.
(Il mare grosso può avere la meglio su una piccola isola.)
Possono tagliarle tutti gli alberi.
Possono spezzarle le ossa.
Possono piantare carri armati nelle budella delle sue donne e dei suoi bambini.
Possono gettarla a mare, nella sabbia o nel sangue.
Ma lei non ripeterà le bugie.
Non dirà sì agli invasori.
Continuerà a farsi esplodere.
Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio.
Ma è il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.
𝑆𝑖𝑙𝑒𝑛𝑧𝑖𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝐺𝑎𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝑀𝑎ℎ𝑚𝑜𝑢𝑑 𝐷𝑎𝑟𝑤𝑖𝑠ℎ, 1973
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Frederic William Burton, "The Meeting on the Turret Stairs", 1864, National Gallery of Ireland.
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This morning, on my way to the clinic, though even calling it that feels absurd now, it is more graveyard than refuge; I saw a girl. She was sixteen, no older. She was thin, with the kind of tiredness around her eyes that children should never know. In her hands, she carried a pot, a blackened metal container, steaming faintly. Inside was a thin, soupy liquid. It was mostly water, with a few pale white beans floating like little wrecks in an ocean of absence.
Behind her, her father moved through the crowd with a soldier’s gaze. It was not the gaze of one trained for war, but of one forced to survive it. He was scanning faces, perhaps for danger, perhaps for hope, or perhaps for something in between.
The girl looked back once, then again. When she saw him turn away, she seized that brief moment of freedom. She dipped her fingers into the pot, scooped a few beans, and stuffed them into her mouth with the speed of guilt. Her eyes darted around as she chewed, terrified that he might see her, that he might scold her. Not because he was cruel, but because that pitiful soup was meant to feed not one child, but an entire family. Perhaps five. Perhaps ten. We no longer count mouths. Only spoons.
There was a kitchen once, a charity. They cooked for over a thousand families every day. They did it not for profit, and not for recognition, but because their souls could not do otherwise. That kitchen shut down three days ago. Not because people stopped being hungry, but because the shelves became empty. The rice, the oil, the flour — everything ran out.
And now the people go to the American aid centers.
Yes, of course. "Humanitarian corridors." What a beautiful phrase. How clean, how sterile, how bureaucratically elegant. It sounds like "collateral damage" or "operation." The Americans built them. The Israelis secured them. And forty people die at their gates every day.
Crushed. Shot. Starved. They come seeking bread and leave as corpses.
Everyone knows this. Absolutely everyone. And yet they still go.
Hunger will drive a man to walk toward his own execution if there is even a shadow of rice behind the gun.
Yesterday, my friend Al-Aloul went. He is not a fighter. He is a software engineer, a quiet man.
He came back stabbed, in the neck.
Six stitches. Blood soaked through his shirt.
But he smiled.
"I got the box," he said. "They did not take it."
What kind of world is this? What kind of man smiles through blood because he has a box of flour?
This is not the war of tanks and planes. Those have become irrelevant. This is the war of hunger, the war of slow death.
Mothers fast for days, not in spiritual devotion, but because their sons must eat first.
Children stand in line for aid, not knowing if they will return alive.
Girls eat in secret, and fathers carry shame heavier than bread.
This is genocide by exhaustion, by silence, by paperwork, and by averted eyes.
Do you want to know what the modern age has made of evil?
It has made it bureaucratic.
Digitised.
Professionalised.
A genocide in which the world debates definitions while children chew air.
The child who ate those beans is more real than your opinions.
My friend who smiled through blood has more dignity than your excuses.
Gaza is not a headline. It is a mirror.
And when you look at it, what you see is the measure of your own humanity.
You want God to speak?
Perhaps he already has.
He speaks through the silence of that girl.
Through the blood on that box.
Through the words I now write with shaking hands.
Gaza is not dying.
It is being crucified.
And we are the crowd at Golgotha.
Watching.
@ezzingaza (on X)
#GazaGenocide
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“Pensavo oggi, guardando questo cielo piovigginoso, che se, per un'improbabile grazia, si fosse d'improvviso alzato l'azzurro, non sarei stato colto né da stupore, né da speranza. Anche la nostalgia ha finito di persuadermi. Ho varcato tutti gli stadi dove l’uomo può ancora trovarsi una ragione di vivere. Gli alti cieli delle notti chiare, se mai ancora dovessero scoprirsi per me, avrebbero un significato di commiato. Non sai - e chi saprà? - quest’infelicità di sentirsi abbandonato. Abbandonato anche dalle cose; anche dalla terra, anche dal mistero delle stagioni. Non aver prossimo; si potrebbe popolare il mondo di confidenti immaginari; ma non essere cresciuto in nessuna terra; ma non portare in nessun luogo l’aria famigliare dell’origine; ma vagare sempre in esilio. Mi sono creato un paese di cristallo, perché fatalmente dovessi accorgermi, da qualsiasi punto, che non era naturale. E non si può vivere a lungo di quest’ allucinazioni ideali. La vita è una dura disputa mossa da guai concreti, e ci vuole un terreno nel quale attecchire, e ci vuole il caldo che maturi e odori, e ci vuole la sera che inondi di malinconia e la mattina che rinfreschi e rassereni. Non ho che strade, strade e strade: il grigio perfido di questo cammino senza conclusione.”
— Giuseppe Ungaretti, Vita d'un uomo
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La tua irrequietudine
mi fa pensare
agli uccelli di passo
che urtano ai fari
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche
la tua dolcezza,
turbina e non appare,
e i suoi riposi sono anche più rari.
Non so come stremata tu resisti
in questo lago
d’indifferenza ch’è il
tuo cuore
Eugenio Montale, "Dora Markus" in Le occasioni
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Gaetano Cusati, Natura morta, 1685-1720
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Lavinia Fontana (Italian,1552-1614)
Portrait of Antonietta Gonsalvus, 1583
oil on canvas
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Sorrento, 30 marzo 1929
… un momento solo di silenzio, ricordo, tra i balzi inquieti del vento: a Mergellina, presso il parapetto del lungomare, dinnanzi al golfo che si sbiancava nelle brume scialbe, sotto un cielo pieno di ditate rosa.
E stamattina, su di un balcone del castello di S.Martino, con uno strapiombo sotto, di cinquanta metri e tutta Napoli, galleggiante nell’azzurro, che ci mandava un dondolio discorde di campane…
Eravamo, verso il mezzogiorno, in un chiostro; avorio-ruggine contro il turchino…
Ora ho dinnanzi a me una settimana di contemplazione: qui tutto è bello di una bellezza che fa persino male, dinnanzi a cui non senti che il tormento di non saperti estasiare abbastanza. Ti racconterò a voce di quei tramonti, che paiono ricalcati da un ventaglio giapponese, di queste notti insieme nel silenzio, striate di lumi tremuli che fanno il solletico al mare.
Non sono né triste né lieta: sono una forma di sensazioni indefinite.
Stasera, dinnanzi alla prima stella, stavo per farmi, istintivamente, il segno della croce…
- Antonia Pozzi, bigliettino all'amica Lucia Bozzi in "Antonia Pozzi, Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938"
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Dancing figures from Etruscan tomb frescoes.
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Non so altro di me, di noi, del futuro. Non so nulla del presente, se non che non c'è limite a questa lotta con l'orrorге.
- Cristina Campo, Lettere a Mita
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Qui stava il torto, qui l’inveterato errore: credere che d’altro non vi fosse acquisto che d’amore. Oh le frotte di maschere giulive oh le comitive musicanti nei quartieri gentili… Alla notte altre musiche rimanda la terrazza più alta e di nuovo fiorita si dilunga la strada fuori porta? Ma venga, a ora tarda, venga un’ora di vero fuoco un’ora tra me e voi, ma scoppi infine la sacrosanta rissa, maschere, e i vostri fini giochi di deturpato amore: nell’esatto modo mio di non dovuto amore e dissipato, gente, vi brucerò.
— Vittorio Sereni
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Tacciono i boschi e i fiumi,
e ‘l mar senza onda giace,
ne le spelonche i venti han tregua e pace;
e ne la notte bruna
alto silenzio fa la bianca luna;
e noi tegnamo ascose
le dolcezze amorose.
Amor non parli o spiri,
sien muti i baci e muti i miei sospiri.
[var. al. Sian muti i baci ardenti e i miei desiri.]
In "I madrigali autografi di Torquato Tasso a Carlo Gesualdo (Madrid, Real Biblioteca, ms. II/3281)", Edizione critica a cura di Diego Perotti, Franco Cesati Editore
#torquato tasso#madrigali#carlo gesualdo#tacciono i boschi e i fiumi#poesia#rime d'amore#rinascimento#poesia italiana
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