Mi fisso quando le forze della natura incontrano culture ancestrali
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Shintakar

La bufera soffiava inarrestabile. L'oceano bianco di neve immergeva qualsiasi cosa. Terra e cielo si accoppiavano in un vortice bianco d'amore furente; diventavano una cosa unica. Gli Dei erano adirati. Sfogavano la propria rabbia con bianchi fischi gelidi che penetravano la carne, ghiacciavano le ossa e il cuore.
Una piccola figura, curva, fatta di pellicce, sedeva immobile nel nulla. Lo scorrere dei fiumi, il soffiare dei venti, avevano lasciato sulla sua pelle solchi, avevano piegato le sue ossa e indebolito i suoi muscoli. Ma lì, in mezzo alla bufera, al cospetto degli Dei, quella figura pareva immobile e solida come le fondamenta della terra.
Una sottile riga leggermente piegata verso l'alto disegnava uno strano sorriso sulle labbra della vecchia. Due strette fessure non lasciavano intravedere gli occhi. Lei capiva la rabbia degli Dei. In quel momento stava aspettando che loro la accogliessero. Qualcosa nell'ordine naturale del mondo era cambiato, lei lo sentiva. Qualcosa, da qualche parte era successo. Era qualcosa di profondamente sbagliato. Una potenza, sconosciuta alla terra da lungo tempo, era stata richiamata alla vita portando con sé, inevitabilmente, morte. Le entità con le quali lei comunicava erano adirate per questo. Solo loro avevano il potere di distribuire vita e morte e mai avevano pensato di condividere questo potere con gli umani.
"Shintakar" sentì chiamare il proprio nome. La vecchia figura iniziò a contorcersi come radici di alberi millenari che lentamente cercano la vita. Le braccia andarono a vorticare verso il cielo. Le fessure degli occhi si spalancarono lasciando il posto a bianchi bulbi senza colore. Una schiera di denti invisibili si apriva dentro la bocca divelta in una smorfia di dolore dalla quale fumo nero ne usciva, fumo denso che si arrampicava verso l'alto, fumo urlante. Le urla della sofferenza degli Dei.
Cadde stremata atterra. La vecchia in posizione fetale, in un profondo sonno senza sogni, giaceva immobile.
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Il lottatore

La folla come sempre era gremita sugli spalti. I gradini di pietra venivano pestati dalle migliaia di piedi fasciati di cuoio. Le masse di colori oscillavano disegnando onde variopinte che rilassavano il lottatore nell'arena. La sabbia sotto i suoi piedi era bollente e in alcuni punti era diventata fangosa per via del mescolamento del sangue con le budella che venivano riversati a terra dai più fortunati che avevano il privilegio di morire.
La testa rasata lasciava il protagonismo ad una folta barba a punta color nero come le vesti della morte. La sua caratteristica, e ciò che lo rendeva effettivamente interessante, era il fatto di combattere senza nessunissima armatura ad eccezione di un paio di pantaloni verde oliva che arrivavano fino a sotto il ginocchio. Del resto usava i suoi lunghi arti come fruste d'acciaio per troneggiare sull'avversario.
Alle sue spalle il cancello si aprì rumorosamente. Tra le grida della folla uscì il suo avversario. Un niglik. In quel periodo se ne vedevano tanti, cacciati dalla capitale ad est, migravano in cerca di un posto sicuro verso sud. O meglio, quei pochi che riuscivano a sfuggire dalle guardie imperiali o della provincia capitolina. Gli altri, quelli meno fortunati, venivano catturati da mercanti di schiavi e gettati nelle arene per divertire ed intrattenere le masse.
Basso, con lo sguardo impaurito e i lineamenti dolci, con gli occhi a mandorla e decisamente goffo. Aveva una pelle, come molto di loro ormai, color mattone, cotta dal sole. Erano ormai scomparsi i niglik non imbastarditi dalla pelle chiara e lo sguardo nobile, persi nel ricordo delle montagne a nord, tra il freddo e la vergogna di chi voltando lo sguardo dall'altra parte ha tradito la propria razza. il niglik si presenta armato di lancia e vestito di cuoio bollito si fa avanti impaurito e sperando di impaurire.
Il lottatore rimase immobile attendendo l'attacco dell'avversario. Le braccia lunghe cadevano sui fianchi. Granitico con gli occhi chiusi lo aspettava. Urla tutt'intorno, urla di sopra, urla di sotto... urla davanti: aprì gli occhi!
Con eleganza e fluidità si spostò di lato quando l'avversario già immaginava di averlo colpito. Quello rotolò faccia avanti nella derisione generale.
"abbiamo un altro fortunato oggi" pensò il lottatore vedendo il suo avversario alzarsi e sputare a terra la sabbia che gli era entrata in bocca.
Non aveva remore a battersi con altri lottatori, lì nell'arena. Erano già carne morta una volta là dentro, non faceva differenza se a finirli sarebbe stato lui o qualcun'altro il giorno dopo. Lì erano morti che si battevano contro altri morti. Per questo il pubblico era sempre così numeroso. Venivano a nutrirsi di quello spettacolo orrendo, ne traevano piacere e soddisfazione. Vedere la morte che danza chiusa in una gabbia è rassicurante, non può afferrarti e non può portarti con sé. Dava la sensazione di essere vivi e immortali.
All'improvviso però il lottatore si accorse di star lottando.
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