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lestoriedellasera · 8 months
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In questa puntata Linda racconta la sua storia, una donna che ad un certo punto della sua vita si trova intrappolata nella rete invisibile della violenza domestica. Il racconto rivela le sottili manipolazioni e le violenze fisiche ed emotive subite da Linda. Una storia di resilienza e forza, che offre uno sguardo crudo sulla violenza di genere e sulla lotta per la sopravvivenza in una situazione che sembra non avere via d'uscita. Un viaggio attraverso il buio, la speranza, ma alla fine arriva Emanuele ed inizia la strada verso la rinascita. Testi, musiche, pre e post produzione Paolo Castelfranato
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lestoriedellasera · 10 months
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La seconda puntata segue Aridiano, tecnico di radiologia e sassofonista, durante la sua prima missione a Kabul con Emergency. Attraverso le sue esperienze in un contesto di guerra, affronta paure, attacchi e la devastante realtà dei bambini colpiti dalle mine. Il racconto si conclude con il suo ritorno in Italia e l'arrivo dei soccorsi di Emergency dopo il terremoto, riflettendo sulla dualità di essere chi offre aiuto e chi ne ha bisogno, e sulla persistente sofferenza dei bambini che, nonostante tutto, "non piangono mai". Sigla finale Naja - Andrea Castelfranato
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lestoriedellasera · 2 years
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Le tre del pomeriggio - Prodromo e Prologo (on Wattpad) https://www.wattpad.com/1283147811-le-tre-del-pomeriggio-prodromo-e-prologo?utm_source=web&utm_medium=tumblr&utm_content=share_reading&wp_uname=PaoloCastelfranato&wp_originator=SUhmgtuBXZPsgw7yb4U2H%2Bm1pSBMAqxdaSpyKwsYr43B%2FR4ypNl2Bbx8UbsUGqOgWb0zh3hO%2Fv6DAo0zpTsamDL7scdbTsZe414AsNIAjQXGCbu%2F0IiHLlpbzigqsV6Y Raccolta di racconti brevi.
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lestoriedellasera · 2 years
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Estrapolazioni del pomeriggio , fisso il mare, cerco di arrivare ad un accordo con lui, ad un patto di tolleranza reciproca.
Abbiamo la stesso carattere.
#moleskine
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lestoriedellasera · 2 years
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Il portone era aperto, l’androne antico puzzava di urina e di cibo speziato, di bucato steso ai balconi  ad asciugare al profumo di lavanda.  Mi affacciai furtivo come un gatto in cerca di cibo in quel buio pesto e calpestai il pavimento fatto di pietra lavica.
Non mi sentivo tranquillo. Feci un respiro profondo ed entrai lentamente voltandomi indietro più volte, mi avvicinai alla grata in ferro che proteggeva la porta di ingresso e schiacciai il dito sul campanello che riportava il suo nome scritto a mano,  con inchiostro rosso su un ritaglio di foglio a quadretti.
Sentii il rumore di sblocco della serratura elettrica, afferrai la maniglia del portone e spinsi in avanti. Non ero convinto, anzi, ero convinto del contrario, che forse stavo facendo un’altra delle mie  cazzate,forse me ne sarei pentito, cosa ci facevo lì? Una parte di me, la meno razionale, mi prendeva a calci nel culo per darmi la forza di fare quei venti gradini che mi separavano dal suo appartamento, l’altra quella più razionale mi suggeriva di uscire subito e di andare a bere una birra al porto.
Avevo comprato per l'occasione una bottiglia di Bourgogne Blanc, un vino per far bella figura,da bere insieme, per fingermi intenditore e per far colpo, come quando sei a caccia di cinghiali ed hai solo una cartuccia in canna.
Da lei mi separavano due rampe di scale,  venti gradini malfermi in cemento colorato,  l'odore del suo profumo era nell'aria e mi iniziava a dare una leggerezza strana alle gambe.
L'avevo persa di vista vent’anni fa, una brutta mattina di Giugno, davanti all'ultimo the al limone bevuto insieme. Rivedevo quei momenti scorrermi come un film a colori davanti agli occhi, noi due seduti insieme, lei che mi parlava stringendomi la mano e quelle parole,difficili, dure, come una legnata sui denti,  che uscivano dalla sua bocca come fossero scritte da una mano invisibile. Mi ricordo ancora la sua frase, “ perderemmo tutto, dobbiamo fermarci”. Ci stavamo lasciando e probabilmente ancora non ero entrato nella parte dell’abbandonato. Ero legato ancora ad una piccola speranza, ad un ripensamento dell’ultimo minuto, oppure no,non avevo capito nulla e noi  ci stavamo solo sospendendo.
Nel frattempo io ero invecchiato, avevo abbandonato le partite a calcetto con gli amici  ed  ero ingrassato, i capelli avevano delle belle chiazze color bianco e mettevo gli occhiali da vicino per leggere. Cosa avrebbe pensato rivedendomi dopo tutti questi anni?
Avevo le mani che mi sudavano, come quando a quindici anni vai incontro al tuo primo appuntamento, solamente che io in quel momento ne avevo cinquantaquattro e otto mesi.
Poi apparve lei, era sul pianerottolo che mi aspettava, con il suo sorriso splendido di sempre. Era rimasta come me la ricordavo, solamente un paio di rughe che si sottolineavano quando sorrideva, ma erano a completamento di un ritratto perfetto.
“Quanto tempo Enrico…quanto tempo” disse quasi sospirando fissandomi negli occhi; mi abbracciò forte, io non riuscii a ricambiare quella stretta, rimasi fermo immobile bloccato da quelle sue braccia bianche esili senza riuscire a dire una parola.
Il profumo dei suoi capelli era rimasto lo stesso di vent’anni prima, era qualcosa di leggero come l’aria, che non riesco ancora oggi a descrivere. Ebbi un momento di smarrimento, forse stavo per cadere privo di coscienza, debole e sopraffatto da quei ricordi che come un fulmine erano entrati nella mia testa.
Poco dopo, con un gesto della mano mi invitò ad entrare. Agnese dopo aver lasciato il suo lavoro al tribunale di Milano aveva deciso di trasferirsi in Francia.  Viveva in un vecchio appartamento nel centro storico di Marsiglia, in rue Montpellier, da cui godeva una vista magnifica su Notre Dame de la Gare. Il palazzo forse era stato costruito negli anni venti e l'appartamento in cui viveva, bello, grande e con ampi spazi ricordava un magazzino. Aveva le pareti colorate di  blu con le persiane in legno rosse montate sulle enormi finestre ad arco, scrostate dal tempo e dalla salsedine.
Al soffitto non aveva lampadari ma un dedalo di lampadine legate tra di loro con del filo elettrico color crema,come quelle che si trovano sulle barche dei pescatori, che accese disegnavano un piccolo cielo stellato.
Aveva un buon gusto per l'arte, alcune pareti erano dipinte di rosso,  altre invece erano addobbate con delle frasi di Saramago scritte in corsivo.
Lei era bellissima, quasi angelica, con il suo viso botticelliano ed i capelli biondi mossi che ricadevano volutamente sulle spalle.
Agnese era un'anima fragile, una donna in un corpo piccolo, delicato come se fosse della materia più fragile al mondo.
Amavo scriverle poesie, racconti, piccole frasi che disseminavo tra le camere di casa quando abitavamo insieme.
Mi ricordo della sua sensibile vulnerabilità, la stessa di una margherita in un prato,  nel momento preciso  in cui ti stai avvicinando per raccoglierla.
I miei pensieri erano immagini vive, come luci di lampare isolate nel mare di notte, quasi fiammelle, che sempre ad occhi chiusi mi indicavano quella strada sicura verso di lei.
Per vent’anni avevo vissuto nel buio pesto della mia vita, ma non mi sono mai sentito solo. Avevo distratto il mio tempo o forse non sapevo nulla, avevo solo domande a cui le risposte non arrivavano.
Le mie frasi per lei erano sincere, spontanee, composte come un abito  in seta di alta sartoria, ed i miei versi, le scivolavano sulla pelle, come gli sguardi che si scambiano due ballerini di tango.
“ Siediti Enrico” esordi’, “ ho comprato la poltrona nuova da un negozio di oggetti vintage poco distante da qui, provala, ti concedo l'onore di essere il primo ospite a sedersi sulla mia nuova poltrona”
Feci un sorriso a denti stretti, così mi avvicinai alla poltrona in finta pelle di colore verde e mi sedetti.
Era soffice, morbida, forse troppo, infatti sprofondai e dovetti afferrarmi con le mani ai suoi braccioli per non catapultarmi all’indietro.
Agnese sorrise rumorosamente portandosi la mano davanti la bocca.
“ Cazzo ridi che sono finito quasi sotto il pavimento! “ risposi facendo finta di essere infastidito.
“Ma quanto sei Scemo! E' una poltrona che ha una storia...e poi mi piace cosi” rispose con un misto tra un sorriso e una smorfia.
“Vado a preparare un the'” disse avviandosi verso la cucina.
Mi ricordavo bene i suoi infusi, era praticamente a conoscenza di tutte le pozioni a base di spezie, fiori e frutti  essiccati esistenti al mondo. Quel cassetto della credenza era probabilmente un mondo in miniatura fatto di profumi e odori.
“ Ecco qui, un bel the' al gelso” mi offri' la bevanda in un tazza di ceramica rossa dipinta a mano.
“ Mi ricordo dei tuoi famosi the” dissi mentre giravo il cucchiaino, “mi ricordo anche di quella volta al bar in cui ordinasti un The che non fosse una tisana e una tisana che non fosse un the” 
Scoppiò a ridere quasi facendo cadere il contenuto bollente della tazza sul suo vestito di lino bianco.
“La barista andò in crash come il mio Windows 95 quando lo obbligavo ad aprire il Word” esclamai ridendo.
Nel frattempo, il tempo nel nostro parlare scorreva lento,come quando versi l'olio di oliva su una fetta di pane fresco. L'olio scivola suadente, si addentra nella mollica e diventa tutt'uno con essa.
Cosi, eravamo noi, nonostante fossero trascorsi vent’anni dall'ultima volta, tra di noi non c'era nulla di perfettibile, tutto era incastrato come il movente dell'omicidio perfetto.
Da quella finestra riuscivo a vedere un pezzetto di cielo ed a contare le stelle presenti con un dito. Quel profumo di cibo, mi riportava con la mente ad Istanbul,  alle sue strade, alle botteghe artigianali ed ai chioschi di kebab e bevande  intrise di spezie.
Ma la realtà  mi risucchiò a Marsiglia,  in Rue Montpellier a casa di Agnese, con una sensazione mista a felicità e incredulità. 
Improvvisamente non ero più sicuro che quello fosse il mio posto, non ne ero sicuro neanche quando suonai al campanello. 
Ero finito in un vortice di ricordi e di profumi  che non riuscivo a controllare,  una caduta libera verso il buio Profondo.
Uno scontro tra il passato ed il presente.
Avevo aperto la porta che conduce verso il tunnel dell' ipocognizione, non riuscivo ad interpretare quella realtà.
" Da quando in qua' parli da solo?"
La voce di Agnese ruppe quel momento di pausa che mi ero preso dalla vita reale.
" Come scusa? " risposi facendo finta di non aver capito.
" Be, ti stavo vedendo da un pò,  gesticolavi con le mani come se stessi parlando con una persona davanti a te" disse Agnese ad un passo dallo scoppiare a ridere.
" a volte mi succede,  inizio a pensare così forte che mi distacco dalla realtà ".. poi aggiunsi, " mi succede spesso, soprattutto quando sono solo in auto".
Lei sorrise tirando fuori della tenerezza, una quasi comprensione.
" Tieni bamboccione,  bevi, è Bourbon ti farà bene" mi disse con una voce materna e sicura.
Pensare che il Bourbon era il liquore di Terry Savalas uno dei miei attori preferiti,  il tenente Kojack.
  Un liquore da uomini duri, tutti d'un pezzo che non chiedono mai e prendono tutto, tutto il contrario di me, ma in quel momento entrai nei panni del poliziotto e iniziai a bere.
Sentivo l'effetto della vasodilatazione dovuta dal liquore colorarmi le guance, anche Agnese se ne era accorta ed iniziò a ridere con occhi felici e divertiti.
" Ridi ridi.." esclamai tossendo; " non sono abituato all'alcol e mi fa sempre questo effetto, scusami, sto facendo una figura da pivello" continuai tossendo.
Lei continuò a ridere, poi posò il suo bicchiere a terra e si alzò facendo scivolare i piedi sul pavimento.
Si avvicinò e si mise a sedere sulle mie gambe, mi fissò e mi regalo' una carezza sul viso.
Continuò a guardarmi,  come a studiare ogni piccolo pezzo di viso, ogni centimetro di pelle.
"Si è fatto tardi, meglio fermarci"  dissi tutto d'un fiato ma in maniera riflessiva.
Agnese tirò indietro il viso per un attimo,  poi si tolse gli occhiali da vista, quelli in celluloide bianchi.
" come vuoi, anche se non capisco " disse in modo un po distaccato, quasi seccata dalla mia richiesta.
Mi tolsi gli occhiali da vista e li riposi nel taschino interno della mia giacca.
Cadde il silenzio,  come quando nevica di notte e l'aria è ovattata, in quel momento  una bava di vento dal sapore di mare entrava dalla finestra in modo distratto.
Agnese si alzò e andò verso la finestra per chiuderla, si fermò un attimo poi si girò verso di me. Con quel movimento della testa i suoi capelli biondi mossi sussultarono all'indietro e caddero morbidi sulla schiena.
" Quindi ? Cosa vuoi fare ora?" Mi interrogò come se fosse una maestra delle elementari.
Trascorse un tempo indefinito, nel frattempo mi ero alzato e con la schiena mi ero appoggiato alla porta che dava sull'ingresso dell'appartamento.
In quel momento arrivo’ una folata di vento, portava con sé l'odore di salsedine, l’odore del mare. Per un attimo senti’ freddo, la sua pelle ebbe un sussulto, come se quell’aria gelida fosse un presagio.
" Me ne vado,  nessun rancore Agnese, vado via.." dissi quasi sterile.
" Ho capito..non ti rivedrò mai più " rispose  ad occhi bassi.
Mi avvicinai a lei e le posai un ultimo bacio sulla guancia pallida.
Poi mi incamminai verso l'uscita, prima di uscire mi voltai verso di lei e le sorrisi..
" devo farlo, mi dispiace,  ma sai..perderemmo tutto"
Con quell’ultimo atto di coraggio, le ripetei la frase con cui vent’anni prima mi lascio’, senza un motivo, senza un perche’.
Dio solo sa’ quanto mi peso’ pronunciare quella frase, voltare le spalle ed andare via, ma con coraggio chiusi la porta dietro di me.
Non la vidi più
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lestoriedellasera · 2 years
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A Lampedusa ormai è Autunno, quei pochi turisti rimasti sono andati via con l’ultimo volo stagionale, siamo in pochi ora , gli abitanti, i pescherecci e gli amori estivi abbandonati su qualche spiaggia di sabbia.
E’ rimasto qualche anziano seduto al tavolino di qualche bar ancora aperto, dei bambini passano il tempo giocando con  un pallone di cuoio e giù al porto dei pescatori fanno manutenzione alle reti da pesca.
Un uomo di spalle, nella penombra della sua camera è immerso nei suoi pensieri, il suo sguardo è fisso verso la finestra della camera. I suoi occhi chiari penetrano il vetro ed escono liberi trasportati dalla brezza marina. Fuori c'è il mare, ha un colore blu intenso ed è leggermente increspato, all'orizzonte delle nuvole scure si avvicinano, dei lampi dalle varie sfumature di giallo colpiscono l’acqua a cinque miglia dalla costa,regalando al cielo sfumature effimere che si disperdono nell’aria. 
Enrico,  così si chiama quell'uomo, appoggia le mani sulle ginocchia, poi si alza dalla sedia e va verso la porta, la apre ed esce, poi attraversa la strada lasciando il portone  in rovere aperto consumato dalla salsedine.
Si guarda intorno ed attraversa la strada, una bava di vento fresco gli smuove i capelli brizzolati mentre la camicia tenuta fuori dai pantaloni, sventola in modo disordinato come se fosse un bianco lenzuolo al vento. 
Si ferma davanti agli scogli che confinano con il marciapiede, si toglie gli occhiali da vista e strizza gli occhi verso l'orizzonte. 
Cerca di vedere qualcosa, poi punta lo sguardo in alto,  cercando le nuvole di pioggia, chiude gli occhi. 
Respira profondamente, resta ad occhi chiusi per assaporare l'odore presago del temporale, quell'odore di sabbia mista a pioggia.
Il mare si fa più agitato, quasi rabbioso e la schiuma delle onde che si infrangono sugli scogli arriva fino a lui, quasi a tracciare un confine tra l’uomo e l’acqua, un confine tra due regni.
Si mette le mani in tasca, stringe le spalle, inizia a piovere, grosse gocce di acqua bagnano il marciapiede,   le sue Lumberjack ed i suoi vestiti.
Apre gli occhi, tende le mani aperte davanti a sé che si bagnano di acqua piovana, poi se le strofina ed annusa il palmo di una di esse,sorride leggero.
Il campo visivo  si allontana, Enrico  rimane in quel punto,fermo, immobile,  si fa sempre piu’ piccolo, la pioggia inizia a cadere violenta e come degli schiaffi colpisce la terra bagnando tutto cio’ che incontra, lava via i pensieri, annaffia i ricordi piu’ cari, cerca di restituire a loro nuova vita, ma lui affonda, non ce la fà,  annaspa e si  perde nel suo respiro.
Era arrivata la prima pioggia 
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lestoriedellasera · 2 years
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Potrei raccontarvi anche di Clelia , la signora della palazzina di fronte,che alle due precise di notte porta Peppino, il suo cane di razza ignota a fare la pipì,sono entrambi anziani, si sorreggono a vicenda.
Ha dietro di sé diverse primavere, gli occhi vividi, ancora presenti, ma il suo sguardo ha davanti un futuro sempre più vicino.
Le sue giornate sono tutte uguali, sono misure di tempo con la stessa tonalita’ di grigio, come la sua malinconia, uguale alla sua solitudine. Lei indossa un trucco leggero, mantiene la dignità con la schiena dritta, anche se i segni del tempo hanno marcato dei solchi sul suo corpo, il viso racconta di una giovane donna, bella, dai modi gentili. Era rimasta sola dopo la guerra, il suo fidanzato partito per la campagna di Russia era stato dato per disperso, inghiottito dal bianco puro della neve, lei lo aveva aspettato per quarant’anni davanti al sagrato della chiesa dell’Annunciata, tutti i giorni, sempre vestita in modo elegante, con il suo cappellino a fiori e con un filo di trucco.
Quel posto era il luogo dove si erano visti l’ultima volta e dove si erano dati appuntamento una volta terminata la guerra.
Lui non tornò più, di quel ragazzo non si seppe più nulla, ora ha Peppino, si accompagnano insieme, lei ogni tanto si siede sulla panchina verde sotto la quercia, quella poco distante casa sua e comincia a parlargli.
Peppino sale a fatica su quella panchina, si distende ed appoggia la testa sulle gambe di Clelia, si accuccia, poi chiude gli occhi, ascolta le parole di lei, si consola, si consolano.
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