Tumgik
Capitolo 2 - Il giorno che in Italia scoppiò la rivoluzione
Libero Giordano era stato vetraio e, in gioventù, ottimo scalatore. Aveva avuto brevi amori libertari e lunghi dolori senza rimedi. E dato che non esistono cerotti abbastanza grandi per certe ferite, spesso si trovava a curarsi con la bottiglia.
Quella sera Libero stava rientrando dal bar con una birra nella tasca della giacca. Sono cose che faceva. Andava a bere, ne ordinava una, due, tre, poi perdeva il conto e partiva dimenticandosi di averne nelle tasche, nelle mani, nella testa. Quella sera era la tasca. La sinistra. Ma ce n'era anche tanta nella testa. Ogni passo la birra sciaguattava bagnandogli il fianco. Ma Libero non se ne accorgeva, perché la notte era bella e le stelle luminose. Sono notti così che fanno l'umanità, pensava superando il cancello di casa. Sono notti così e si fermò ancora un attimo a odorare le stelle. “Dovrei guardarle più spesso”- si disse- e pensò che erano cinquant'anni che ormai viveva lì. Ma che c'è sempre il modo di viverli di più, i luoghi, i paesi, le case, le cose. Li impregniamo- si diceva- della nostra presenza e finiamo per scordarci che hanno un carattere e un'anima anch'essi. Perché i posti sono le persone e le persone sono le storie. Si diceva filosoficamente. Poi pensava che cinquant'anni sono davvero tanti e si chiedeva dove li avesse infilati; perché non ne avesse alcuna traccia se non nelle scanalature delle pelle. Bisognerebbe essere capaci di vivere solo nel presente, bisognerebbe. Invece niente. Dove sono finiti, tutti gli anni? Pensava ancora. E lo prendeva una malinconia sconfinata. E pensava che fa male pensare. Che tutto l'alcol di questo mondo, tutte le droghe, tutte le puttane e le sofferenze e le testate la notte contro il muro e tutto il male che siamo capaci a farci, tutto questo non riesce ad annullare il tuo essere senziente. Poi guardò ancora il cielo luminoso e si chiese A cosa serve la vita? A cosa serve? Si diceva disperato. E all'improvviso si ricordò di Socrate.
“Socrate!”, gridò. “Socrateee!”
Avanzò nel buio e inciampò in una ruota di bicicletta. “Cristo!”. Riuscì però a rimanere in piedi; fece il giro della casa e intanto continuava a pensare a Socrate: “Soocrateee! Guarda qui che casino... Soooocrateeee!”
Il cane emerse dal buio. Ciondolando stracco, fece qualche passo, si avvicinò e si lasciò cadere sui piedi.
“Socrate, cazzo. Guarda che roba!”
Eccolo lì anche lui: dov'era finito il cane di una volta? Quello che inseguiva faine e cinghiali. Che si lanciava a rotta di collo per declivi montani ad acchiappar volpi. Guardalo, che pena, ridotto a un pensionato. Povero Socrate, pensò Libero, povero me.
“Non ti riconosco più, Socrate. Ma che mi combini?”
Socrate alzò il muso per annusare l'aria, tirò una scoreggia e guaì.
“Ah, diamine!” Libero si voltò ed entrò in cucina. La casa era buia e stanca e odorava di erbe umide. Si lasciò crollare sul divano e la birra lo innondò.
“Gesù, ma che vita...”
Tolse il bicchiere di tasca, accese il televisore e gli apparvero dei puntini gialli e azzurri che si muovevano impazziti su uno sfondo verde. L'oppio dei popoli. Questo paese non imparerà mai.  Una voce dalla televisione gridava come non ci fosse un domani “Posizione di fuorigioco di Chiellini...” poi gridava altre cose e poi gridò lapidaria: “E' finita!”. Come l'iscrizione su un'epigrafe. Per fortuna, pensò Libero. Magari danno un film. Ma quello ripeteva è finita e il film non arrivava. E continuava: è finita, è finita; ma sentivi che in quel è finita c'era dentro un dramma indescrivibile. La fine di un mondo.
Infatti la voce si fermò per una piccola pausa, poi il tono divenne funereo e ripeté di nuovo “E' finita.” Poi lo disse ancora una volta, “E' finita”, con sempre minor convinzione. E te lo saresti immaginato che nel dirlo scoteva la testa come a liberarsi dai cattivi pensieri. “L'Italia non si qualifica ai Mondiali di Russia 2018...”
La gente defluiva dalle gradinate dello stadio. Il portiere piangeva. Le telecamere riprendevano scene di depressione collettiva.
Solo gli svedesi erano in estasi. Come possono esserlo gli svedesi. Sobriamente ubriachi con corna da vichingo piene di birra agitate in aria. Per uno che gioisce c'è sempre un altro che piange. Nel mondo è così, pensò Libero. Il nostro benessere a discapito di sofferenze altrui.
Poi all'improvviso capì.
“Occazzo. Ooooccazzooo!” gridò. “Non si è qualificata! L'Italia non si è qualificata! Occazzo l'Italia non si è qualificata!”.
Saltò dal  divano e si lanciò al piano di sopra. “Dov'è?... Maddov'è!” cominciò a buttare all'aria certe carte e lettere e mutande “Santa miseria, dove l'ho infilato, porco mondo... l'Italia non si è qualificata ai mondiali... ma dove cazzo l'ho messo! Dove... guarda te che cazzo di casino! Quante volte glielo dicevo di non mettere a posto tra la mia roba. Non si trova più un... Ah! Eccola!”
Stringeva in mano una grossa busta sigillata. Color carta da pacchi. Vecchia e gonfia col timbro sbiadito e gli angoli smangiati. La strappò. Chiamava il cane: “Vieni Socrate, vieni, corri, è il momento!” Ma quello non arrivava e allora “Muoviti ci siamo!” gli gridava.
Il cane arrivò arrancando stancamente gradino dopo gradino.
E lui gli diceva: “E' il momento! Socrate!!! Diamine! Ci siamo!... Emmuoviti! Non ci posso credere... Dopo tanti anni!”. Tirò fuori dalla busta un ciclostilato “Pensa che me ne stavo per dimenticare, Gesù...” e cominciò a leggere.
Addi' 5 maggio 1972,
Collettivo Insurrezionale Permanente, sezione 5/B, sottosezione 22.
Compagno! Se stai leggendo questo bollettino è perché l'ora ICS è scattata. Il piano per la liberazione del sottoproletariato è entrato nelle sue ore cruciali. Il popolo italiano, che vive esclusivamente in funzione dei mondiali di calcio, è in ginocchio. Non per niente  il Collettivo Insurrezionale Permanente, dopo lunghi dibattiti, ha deciso di far coincidere l'inizio della rivoluzione con l'esclusione della nazionale italiana ai primi mondiali di calcio disponibili. Siamo strenuamente convinti che questa sia l'unica occasione per creare nel popolo italiano quel substrato di frustrazione e rabbia insitamente necessario per la riuscita di ogni sollevazione popolare che si rispetti. Siamo altresì persuasi che la mancata qualificazione al mondiale risveglierà gli istinti animali, se non proprio sociali, nell'homo italicus. Se stai leggendo queste righe, caro compagno, vuol quindi dire che il momento è giunto, l'ora sacra suonata. Che l'Italia borghese e imperialista non si è qualificata ai mondiali e che tu sei pronto a prendere in mano le redini della rivoluzione. Aprendo la busta allegata scoprirai quale sarà il tuo obiettivo. E ricordati. Non porti domande. A volte i mezzi paiono fumosi, ma chiari sono gli intenti nelle illuminate menti dei loro ideatori. Fino alla Vittoria!”
Libero guardò il cane. “Ci siamo Socrate. E' arrivato finalmente il momento. E' arrivato!”. Libero era uno scolaretto eccitato. Di colpo la sbornia gli era scomparsa. Strappò la seconda busta e lesse a voce alta: “Compagno Libero, la tua è una missione di estrema e vitale importanza per la riuscita del progetto. Solo qualcuno di agile e preparato come te potrebbe portarla a compimento.” Libero si guardò le mani che stringevano la lettera, le dita, che da giovani e vigorose, artigli d'aquila, col tempo erano diventate rinsecchite e rugose, con vene azzurrine che solcavano gli anni. “Abbiamo pertanto totale fiducia nelle tue capacità logistiche e fisiche in nome del sottoproletariato e della rivoluzione.”
Poi la lettera proseguiva con dei grossi blabla e poi dei blablabla e poi ancora blabla. Si poteva riconoscere, in quelle parole, la visione nitida ma accademica del professor Lo Jacono. Di colpo anni e anni della vita passata in attesa stavano per acquistare un significato. Ecco, a cosa serve la vita, minuti e ore eternamente riprodotti in un continuo, apparentemente inutile, susseguirsi, tutto per attendere il solo scoccare di un unico momento perfetto e cruciale. Ed ecco finalmente arrivare il punto: “Compagno Libero. Dovrai scalare la parete est del Picco del Diaul nella Val Masca e raggiungere la centralina accanto alla cappella di San Rocco. La centralina controlla il traffico di tutte le cabine telefoniche delle vallate meridionali: dalla Maira fino alla Val Tanaro. Il tuo compito è di distruggere la centralina e...”
Cabine telefoniche?! Aveva aspettato cinquant'anni per ricevere l'ordine di interrompere la linea delle cabine telefoniche di quattro sperdute vallate alpine?!?!?! Ma se non ce n'erano neanche più di cabine telefoniche! Ma perché? Perché non l'occupazione di una caserma, un ospedale, un punto nevralgico. O un simbolo: fare esplodere la statua di Barbaroux a Cuneo. Potevamo almeno boicottare la fiera del marrone, per Dio! La sagra del cappone di Morozzo. Far saltare in aria Le Baladin o slow-food, finti rivoluzionari capitalisti dei miei quaglioni. Qualcosa che dia un po' di visibilità, cazzo! Le cabine telefoniche... Ma come si fa ad avere una fede politica in un paese come questo dove pure le rivoluzioni si risolvono in carnevalate! Guardò il cane che aspettava.
“Mi sa che Lo Jacono non era poi così visionario come pensavamo, Socrate.”
A quel punto sentì bussare alla porta e il sangue da complottista gli si gelò nelle vene. Maledetti fascisti, pensò. Fottuti figli di troia. Sospettava che lo tenessero d'occhio almeno dall'83. Si cacciò in bocca il ciclostilato e cominciò a masticarlo. Ma la carta invecchiata era pastosa e non riusciva a ingoiarla. Bussarono ancora ma con maggiore veemenza. Libero stava diventando vermiglio. I colpi aumentarono e lui fece uno sforzo erculeo per buttare giù una palla di carta grossa come il Ruanda. Si sentì una spallata, due, infine un colpo sfondò la porta nel momento in cui Libero ingoiava il volantino. Comparve un omaccione in controluce.
“Sì?...” domandò Libero riprendendo fiato.
L'omaccione portava una zazzera sporca che poteva esser stata una fluente criniera rossa, il volto e le mani ricoperti da lentiggini come capocchie di chiodi arrugginiti: indossava un pelliccione peloso di yak morto malamente e portava un mitragliatore in spalla.
“Sono l'Irlandese,” disse solo.
Libero lo guardò cercando di capire il livello di follia nei suoi occhi.
“Mi scusi?” gli fece.
L'uomo si avvicinò alla finestra, scostò la tendina e guardò fuori. “Sono l'Irlandese,” ripeté.
“Posso sapere di cosa stiamo parlando?”
“L'Irlandese, Cristo! Sono l'Irlandese! Non l'hai letta la lettera?”
“Che lettera?” cercò di prender tempo Libero.
“La lettera, for fuck sake, la fottuta lettera del cazzo. L'hai letta o no?”
“Io, veramente non so...”
L'Irlandese gli si piazzò davanti. Faceva ombra alle montagne. Con gli occhi inchiodati nelle pupille di Libero, indicò la lettera sul tavolino senza degnarsi di guardarla. Cristo la lettera! Aveva mangiato il ciclostilato, ma aveva dimenticato la lettera.
“Quella fottuta lettera. L'hai letta o no?”
“Quella lettera?...”
L'Irlandese la prese in mano, inforcò un paio di occhiali da vista e finì di leggerla: “Distruggere la centralina e resistere a ogni tentativo di offesa. In questo compito sarai affiancato dall'Irlandese.”
Ributtò la lettera sul tavolino. “E l'Irlandese sono io.”
Libero fissò la porta di casa sua: “Non sei un poliziotto?”
“Ho l'aria del poliziotto?”
“Non lo so, immagino che i poliziotti non abbiano per forza l'aria da poliziotti, sennò si farebbero riconoscere subito.”
“Spero che tu abbia preparato l'attrezzatura.”
“Mi hai sfondato la porta di casa...”
“Non aprivi. Io sono operativo.”
“Ma adesso chi me la ripara?”
“Le porte sono un'invenzione borghese per delimitare la proprietà privata!”
“Ma qui l'inverno fa freddo, con cosa lo chiudo quel buco?” e indicò la voragine nel muro che dava sul burrone della notte.
“Ci penserà il comitato.”
Libero prese la lettera in mano.
“A proposito del comitato. Ma sarà ancora valida? Sono passati cinquant'anni...”
“Io ci sono e tu ci sei.”
“Se è per questo c'è anche il cane.” Socrate tirò una scoreggia e guaì. “Ma non possiamo mica fare una rivoluzione a tre.”
L'Irlandese tornò a smicciare fuori dalla finestra. “Il comitato sarà operativo. Non ci sono date di scadenza per la rivoluzione.”
“Va bene, va bene. Allora fammi andare a prendere un paio di calze di lana, ché la notte fa fresco.”
“Calze di lana,” sogghignò l'Irlandese. “Quando ci battevamo contro gli inglesi non avevamo neanche i fucili, e tu parli di calze di lana.”
“Sarete stati più giovani... a proposito, non puoi dirmi come ti chiami? Mica posso chiamarti Irlandese.”
L'Irlandese sorrise perché nella vita aveva avuto tanti di quei nomi che manco se li ricordava più. C'era il nome con cui lo chiamava sua madre, quello con cui lo avevano chiamato gli amici, quello usato dai nemici, il nome con cui lo chiamavano certe donne in certe notte di primavera; c'erano i nomi conosciuti nell'umiliazione, c'era sporco irlandese mangiamerda, c'era come lo chiamavano in carcere i secondini quando gli infilavano il manganello su per il culo e ridevano, c'erano tutti i nomi della sofferenza, dell'eterna sconfitta, dell'effimera vittoria, della fuga, delle nuove vite, dei nuovi passaporti. Nuovi nomi. Sempre.
Si buttò sul divano, tirò fuori una fiaschetta di whisky dalla giacca e gli diede una bella sorsata: “Chiamami Seamus, se proprio vuoi. Ehi, com'è che qui c'è puzza di birra sul divano?”
“Un incidente,” gli fece Libero dalla stanza. “Piuttosto, vuoi qualcosa da mangiare prima di partire?”
“Mangiare,” sorrise Seamus. “Quando facevamo incazzare gli inglesi con lo sciopero della fame, allora dovevi chiedermelo. Adesso non mi serve a molto, non ti pare? E poi ho questo!” e tirò giù un'altra golata di whisky. “Aaah, che roba ragazzi! Sento scendere il fuoco fino nelle mutande.”
“Ti dispiace se io mi preparo un panino?”
“Certo che mi dispiace, cazzo. Dobbiamo andare. Figurati se la rivoluzione aspetta che te ti prepari un panino!”
“Ma a metà mattinata mi viene un calo di zuccheri.”
“Calo di zuccheri! Dovevi esserci a Derry nel '76. Eravamo inseguiti da mezza polizia britannica, entriamo di corsa in questa sala da té cercando l'uscita sul retro, e quel figlio di puttana di Paddy Donnovan che fa? Si siede al tavolino con due vecchie inglesi, appoggia il mitra accanto alla teiera e, con l'accento di Belfast più stretto che può, gli dice...”
“Scusa se te lo chiedo Seamus. Ma tu sei veramente irlandese?”
“Il papa beve?”
“Mhà, credo di no...”
“E invece sì che beve, Gesù Cristo! Non l'hai mai visto durante la messa che si tira giù certe pinte!”
“Veramente fa parte della liturgia...”
“Già, e la liturgia chi l'ha decisa?”
“Non ti seguo più...”
“Non importa, la questione è: il papa beve? Sì. Quindi io sono irlandese!”
“Una logica un po' contorta, però...”
“E' logicissimo!”
“Come vuoi. Ma la domanda in realtà voleva essere un'altra. La questione è: se sei irlandese, perché parli così bene italiano?”
“Perché...?! Stai scherzando? Sono cinquant'anni che me ne sto a Castelmagno a mangiare formaggi ammuffiti, bere whisky e aspettare che la rivoluzione cominci. Ci mancherebbe che non avessi imparato a parlare una lingua imbecille come l'italiano in cinquant'anni! Il gaelico, quella sì che è una lingua, cazzo!”
“Scusa, ma se sono cinquant'anni che stai a Castelmagno, cosa ci facevi a Derry nel '76?”
L'Irlandese smise di sorridere. “Mi stai dando del bugiardo, amico?”
Libero deglutì a fatica: “No, è solo che... voglio dire...”
L'Irlandese scoppiò in una fragorosa risata: “Cristo che faccia! Te la sei fatta sotto, eh! Tranquillizzati!”
“Sì, be'. Ma allora eri a Derry o a Castelmagno?”
“Vedi vecchio mio. Nostro signore Gesù Cristo non è il solo che sia morto e risorto. Se capisci cosa voglio dire.”
“Veramente no.”
“Lo immaginavo. Se hai preso i tuoi panini e le tue calze di lana, andiamo.”
Uscirono nella notte, Libero chiamò il cane che arrivò ondeggiando lentamente sulle anche scassate e si incamminarono sul sentiero.
“Come faremo a far saltare la centralina?”
“A quello ci penso io.”
“E con cosa?”
L'Irlandese infilò una mano nella tasca, cacciò fuori un candelotto di dinamite. “Un regalino dalla Madre Patria.”
Mentre salivano verso il crinale della montagna, con passo incerto nel buio della notte, la brezza che prelude all'alba si alzò facendo frinire i castagni. Poi l'aurora si presentò all'appuntamento e l'alba subito dopo, in leggero ritardo, timidamente nascosta dietro la punta delle montagne che si alzavano grigie e violette tutt'attorno.
Il sipario si stava levando sul mondo. Il grande spettacolo replicava una volta ancora. E questa volta solo per loro tre.
Nubi immobili, sfilacciate, galleggiavano in un cielo scrostato. La parete est della cima del Diaul è un lastrone liscio come il culo di un bambino che scende a picco per trecento metri. Prega che non ti scivolino le chiavi di tasca perché sei certo che non le ritrovi più. E prega Iddio che quei passanti per la cordata, piantati chissà quando e chissà da chi, tengano, perché ti raccoglieranno col cucchiaino e la tua bara sarà una scatoletta per il tonno, se qualcosa va storto. Non guardare in basso. Sopratutto. Non devi guardare anche se ti viene da farlo. Inevitabilmente. Quando stai salendo e ad un certo punto- e c'è sempre quel punto- ti dici Non devo guardare in basso, e lì comincia la tortura che ogni metro le pupille tirano giù e tu devi fare uno sforzo con tutte le tue energie per tenere gli iridi piantati nel prossimo passaggio, nella prossima fenditura nella roccia.
Le mani non più giovani di Libero, con dita che erano state un tempo artigli, cercavano lo spazio minuscolo, la sporgenza invisibile a occhio, la tastavano, la saggiavano, e poi i nervi, dal polso alla caviglia, tiravano per far sprofondare la montagna mezzo metro indietro.
Sotto, più morto che vivo, rosso in volto e con gli occhi fuori dalle orbite, l'Irlandese cercava di seguire i passaggi che lo avevano preceduto.
Di tanto in tanto si fermava, penzolante nel vuoto, si apriva la fiaschetta e tracannava del malto a 70, poi la richiudeva, piantava la suola contro la parete liscia come le chiappe di un bambino e si preparava a ripartire.
“Tutto bene?” gli chiedeva allora Libero.
“Un gioco da ragazzi, avresti dovuto esserci quella volta in cui salivamo in cordata le cascate Vittoria per sfuggire a un battaglione...”
E poi partiva con le sue canzoni repubblicane e la voce si perdeva verso il fondo della valle dove- minuscoli animaletti di pezza- pascolavano mucche e pecore su verdi distese di prati, accanto a casette in legno ingentilite da file fiammeggianti di gerani rossi.
“Posti di merda...” pensava l'Irlandese, e cantava più forte la nostalgia del Mayo o la lunga strada per Tipperary.
Qualche metro più giù, impassibile, fluttuava Socrate; le zampe a penzoloni nel precipizio, un'imbardatura che lo sosteneva dal sottopancia, e lo sguardo di chi ormai ne ha viste troppe per stupirsi. Hop Hop Hop ad ogni sforzo di Libero corrispondeva una sua ascensione; verticale e indifferente. Giusto un bau ogni tanto, abbastanza svogliato, per salutare una lucertola o una stella alpina stupite di vederselo davanti.
Superato lo sperone dell'arpet, veniva l'ultimo tratto. Cento metri che erano come volare sulla vallata. Nessuno era mai riuscito a scalarli. Nessuno, tranne Libero Giordano, nel lontano 1967. Per questo era stato scelto per la missione.
Oggi non ci si pensava più a salire dalla parete est perché sul versante sud c'era una canalone più accessibile, e a nord si snodava ancora l'antica mulattiera diventata una pista percorribile in macchina.
Infatti “Perché diavolo non prendiamo la pista?” aveva chiesto Libero al momento di infilarsi i ramponi alla base della parete.
“Perché potrebbe essere controllata. Potremmo essere localizzati.”
“Guarda che è più facile vederti su una parete nuda che su un sentiero.”
“Questi sono gli ordini, “ aveva risposto l'Irlandese.
“Che razza di risposta sarebbe?”
“L'unica che ti deve interessare.”
“Non sei molto gentile...”
“La rivoluzione non si fa con la gentilezza. Come quando eravamo in Venezuela e...”
“Sì, senti. Me lo racconti dopo, eh, del Venezuela. Spero che tu sappia scalare perché non sarà una passeggiata.”
“Non preoccuparti per me,” aveva detto l'Irlandese. “Quando ero in Svezia col fronte di liberazione Inuit...”
E in effetti si era difeso bene. Sbuffando e soffiando, puzzando di whisky e cantando le sue dannate canzoni irlandesi, era riuscito ad arrivare fino a quel punto. Ma adesso c'era la salita dell'arpet. E qui si cominciava a far sul serio.
Finite le minuscole prese, le millimetriche sporgenze, le rientranze infinitesimali, le briciole di appigli. Adesso gli stava davanti una lastra verticale completamente intatta, inscalfibile, creata da Dio nella notte dei tempi per rendere quella cima impenetrabile a qualunque uomo.
Libero puntò i piedi e si bilanciò all'indietro sfidando col naso il vento e la cima. La fissava come il vecchio sarto che deve inforcare la cruna con un filo finissimo. Un misto di esperienza, cecità e dita tremanti.
“Tutto sta a tremare nel modo giusto,” disse.
“Di che parli?” chiese l'Irlandese.
“Preparati ché adesso si comincia veramente.”
L'Irlandese d'un colpo smise di sorridere. I suoi occhi virarono dal blu oltremare al grigio. Colore dell'oceano in tempesta. Le labbra sottili abituate a suggere whisky si tirarono in orizzontale.
“Andiamo,” disse solo.
E cominciò l'ascesa. Le dita come ventose si appiccicavano laddove non v'erano appigli, dove la polvere scivolava nel baratro disperata, loro si aggrappavano al niente, scalavano i soffi e le correnti che s'alzavano dal fondo della valle e li sospingevano verso la vetta. Un passo dopo l'altro, un gradino impalpabile dopo l'altro. Senza fretta ma senza esitazione. Libero saliva con la facilità di un bambino che gattona a cui avessero semplicemente rigirato il pavimento. Tratteneva la fatica nelle goccioline di sudore e nei tendini tesi del collo. Controllava il respiro mentalmente. La mano andava da sola, ma il respiro lo devi controllare. Controlla il respiro Libero, controlla il respiro, chiudi gli occhi. Gli occhi non ti servono, la mano trova da sola il suo passaggio, il piede la segue, ma gli occhi li devi tenere chiusi e devi controllare il respiro. La scalata è mistica. E' innalzarsi verso Dio, andarlo a cercare tirargli il giacchetto e dirgli Ti ho trovato. Anche se ti sei rifugiato sulle cime più impervie, circondato solo dalla tua immensa bellezza, io ti ho trovato. E con te condividerò questo momento senza inizio e senza fine. Eterno, mi dirai. Eterno, ti risponderò sorridendoti, e potrò dire di aver sorriso a Dio. E tu di aver sorriso a un uomo Libero.
Sotto, a sei o sette metri di distanza, saliva l'Irlandese, contro ogni legge della natura. Il suo fisico immenso da possente bevitore di Guinness, da rissoso figlio di puttana con braccia come rami di baobab, gettando fuori whisky da ogni poro della pelle, stava inspiegabilmente al passo con Libero. La sua scalata non aveva niente di aggraziato, ma pareva, ciononostante, non avesse fatto altro nella vita dal giorno in cui era venuto al mondo. Che dal primo vagito si fosse aggrappato al seno di sua madre e da quel momento non avesse più smesso di scalare. La sua era una salita ingorda e incattivita, portata avanti a forza di braccia e di morti che gli riecheggiavano nella memoria. I morti di Belfast, Derry, Dungannon, Coalisland, “Inglesi figli di cane,” masticava nella bocca. “Inglesi figli di un cane bastardo,” ripeteva senza posa dando a quelle parole un sapore rabbioso per sfidare e vincere la verticalità di quel mondo folle.
Socrate s'era addormentato, dondolando come un pendolo nel precipizio sognava di quando era giovane e inseguiva le lepri; e sognando, agitava le zampe nel vuoto ritrovando, almeno in sogno, la leggerezza delle membra e la spensierata agilità dei muscoli.
Quando si svegliò erano arrivati sulla cima. Confuso nella sua mente di cane Socrate partì di corsa stupendosi, pochi metri dopo, che le zampe fossero pesanti e lente, e che i polmoni gli si riserrassero attorno al respiro, e che l'aria non bastasse, e le anche facessero già male. Si fermò. Si lasciò cadere e guaì con un latrato che voleva dire Chi mi ha ingannato?
“Che ha il tuo cane?” chiese l'Irlandese frugando nello zaino.
“Eh?”
Libero stava riavvolgendo la corda tra palmo e gomito.
“Il cane. Che gli prende?”
“Non lo so. Domandaglielo.”
L'Irlandese guardò Libero con un moto di stizza. Poi soppesò il tritolo nella mano. Voglio fare un buon lavoro, pensò, e raddoppiò la dose.
“Andiamo,” disse dopo un po'.
“Di già?”
“Prima lo facciamo meglio è.”
L'Irlandese piazzò la carica esplosiva e si allontanò. Un minuto dopo tornò aggiungendone ancora una manciata. Nel dubbio, disse solo.
“Che dubbio?”
“Tappati le orecchie.”
“Cosa?”
L'esplosione produsse un boato che finì dentro il cervello di Libero; sbalzato a  cinque metri di distanza cadde mollemente sulle rocce.
Volarono zolle d'erba e frammenti di metallo e pietre e terra e brandelli di cielo in ogni direzione. Volarono. E della centralina telefonica non rimase neppure il ricordo. Polverizzata. Come non fosse mai esistita. Come un'epoca lontana. Cabine telefoniche come gli acciarini dell'ottocento.
L'esplosione provocò un'onda d'aria che fece ondeggiare la campana della cappelletta di San Rocco che prese a battere DIN DON DIN DON DIN DON DIN DON e a valle i contadini che lavoravano nei campi e le vecchie con i foulard in testa si fermarono a guardare il cielo. Prima pensando a un tuono e che il pomeriggio estivo nascondesse l'insidia del temporale; ma poi la campana, la campana della cappella di San Rocco che comincia a suonare. Come aveva fatto nel '15 prima dello scoppio della guerra, e nel '52, quando la frana aveva travolto la frazione di Rialto, e nel '64 quando il vecchio Bastianin non lo vedevano da un pezzo e andarono in malga e lo trovarono appeso per il collo a un trave e le mucche che muggivano con le mammelle doloranti piene di latte, e poi adesso, la campana che suonava ad annunciare chissà quale disgrazia. E le donne si buttarono in ginocchio e si fecero il segno della croce. Prima le vecchie, poi le bambine, poi tutte quante, anche Marlen dell'osteria che bestemmia come un diavolo e fa a gara con gli uomini a braccio di ferro e a bicchieri di vino. Anche lei si butta in ginocchio e si fa il segno della croce, perché qui non ha niente a che vedere con la religione la messa e don Saverio. Qui è credenza popolare. E la credenza popolare è realtà. Così si butta in ginocchio e si segna e mormora tra le labbra le litanie che le hanno insegnato da bambina Liberaci dal male, risparmiaci dalla tragedia, liberaci dal male.
E intanto in cima, sopra il picco dell'arpet, Libero si sveglia e si guarda attorno e non vede più niente. Una caligine è scesa a coprire ogni cosa. La centralina è scomparsa, così com'è scomparso l'Irlandese. Solo Socrate, lì accanto, sta fermo, col muso infilato sotto le zampe davanti a cercare una protezione qualsiasi a quella giornata da dimenticare.
Così Libero si alza, ammaccato e coperto di polvere. Il viso porta due dita di terra tra cui spiccano i suoi occhi azzurri come una ceramica portoghese. Si aggira nel silenzio che l'aria esplosa ha portato con sé e non trova traccia di niente che conoscesse. Si avvicina alla chiesa. Ha perso il senso del tempo. Vede la campana che si agita ma non ne sente il suono. Solo il vorticare dell'aria nelle orecchie come il mare nelle conchiglie, poi passa il tempo e arriva un risucchio, un fischio acuto, e dopo- ma solo parecchi minuti, dopo- il bronzeo rintocco gli giunge all'orecchio. Libero si muove, allora, entra nella cappella dalla porta spalancata. Il pavimento è cosparso di vetri in frantumi. Davanti all'altare l'Irlandese ha un ginocchio a terra, le dita strette al mitra al quale si appoggia, e sta pregando. Sta recitando una preghiera. Sta dicendo Signore, Signore dei poveri, Signore degli emarginati. Signore dei carcerati e delle puttane. Signore degli ultimi e dei dimenticati. Signore degli sconfitti, Signore degli orfani, Signore dei drogati e dei vinti, Signore degli alcolizzati. Signore dei violenti. Signore dei ladri. Signore dei traditori e dei traditi. Signore dei disoccupati. Signore dei protettori. Signore dei licenziati, dei riconvertiti, degli indebitati. Signore dei vecchi. Signore di chi lotta. Di chi ha paura. Signore di chi difende la vita. Signore delle donne. Signore dei froci. Signore dei senzaterra. Dei senzatetto. Dei senza dignità. Signore dei pazzi. Signore delle cantine umide. Di chi rovista nelle immondizie. Signore dei bambini. Signore degli indifesi. Signore dei malati di cancro. Signore dei disperati. Signore dei sofferenti. Signore degli impotenti. Signore. Signore proteggi noi tutti, tu che solo sei a noi conforto. Tu a cui solo noi possiamo appellarci perché ogni altra forma di appello per le umane istanze ci è stata negata. Proteggici. Dacci la pace. E se non puoi, dacci la guerra.
Poi si fa il segno della croce. Lento come una messa. E infine Andiamo, dice alzandosi.
“Andiamo? Dove andiamo?” chiede Libero.
Ma l'Irlandese non risponde. L'Irlandese ha preso un banco della chiesa e l'ha buttato sotto il portico. Poi ne ha preso un altro e gliel'ha gettato sopra. E un altro, e poi un altro ancora. Poi anche l'altare, che in realtà era poco più che un asse di legno, lo ha divelto a sua volta e buttato sui banchi anch'esso.
“Che stai facendo?” gli chiede Libero, ma non ottiene risposta. L'Irlandese sembra in trance. “Ehi, si può sapere che ti prende? Sei sordo?! Ehi, parlo con te, testa di cazzo di un malato mentale di un irlandese figlio di puttana!”
Allora l'Irlandese si ferma e lo guarda, ha ancora una sedia in mano e gli dice: “Ci dobbiamo preparare. Quel botto l'avranno sentito fino in valle.”
“Certo che l'avranno sentito!” gli dice Libero. “Ti costava tanto fare una cosa discreta? L'avranno sentito altro che in Valle. L'avranno sentito fino a Nizza.”
“Ci dobbiamo preparare,” dice solo l'Irlandese, e butta la sedia sulla massa di mobili che già giace sotto il portico. “Abbiamo bisogno di una barricata. Dobbiamo essere pronti. Non saprete né il giorno né l'ora.”
Libero lo guarda. “Seamus,” gli dice. “Seamus. Tu cominci a spaventarmi. Davvero.”
“Dammi una mano.”
E così anche Libero comincia a prendere sedie e inginocchiatoi dalla cappelletta e ad accatastarli.
Poi, quando hanno finito, si mettono dietro. L'Irlandese tira fuori una pistola dalla cintola, la porge a Libero. “Tieni. Non spararti nelle palle,” gli dice. Libero la prende guardandola con un misto di paura e attrazione. L'Irlandese controlla l'otturatore del suo mitra. Poi si appoggia alla barricata. Fissa la strada da cui dovrebbero arrivare i nemici. E i due aspettano.
“Seamus?...”
“...”
“...”
“Non mi chiamo Seamus.”
“...”
Il cielo ha stracci di nuvole che lo percorrono senza fretta. Ti viene da chiederti dove stiano andando, se siano attese da qualche parte. E' il terzo giorno. Fa caldo. Non hanno più niente da mangiare. Le forze dell'ordine, o l'esercito, avrebbe dovuto essere qui subito. Mezz'ora dopo l'esplosione. Un'ora, dai. Invece tre giorni e non si vede anima viva. Saranno occupati a sedare la rivoluzione altrove. Pensa che casino nelle città. A Torino, Genova, Milano. Ma noi dobbiamo restare all'erta, vigili. Possono arrivare da un momento all'altro. Magari mandano le teste di cuoio. Quelli non scherzano. Se avessero mandato su una pattuglia di carabinieri a controllare sarebbe stato un gioco da ragazzi. Li avremmo presi in ostaggio e ci saremmo impossessati delle loro armi. Ma le teste di cuoio sono un altro paio di maniche. Speriamo che questo ritardo non sia cattivo segno. Forse è proprio per questo che ci mettono tanto. Dovranno far intervenire le unità speciali. Fa caldo. Ho fame. Bisogna resistere. E poi bisogna pensare al cane. Fa caldo. Le nuvole sembrano stracci. Sono tre giorni.
L'Irlandese non distoglie lo sguardo dalla pista in terra battuta di cui si scorgono solo gli ultimi venti metri. “Mi chiamo Liam Donovan,” dice.
Libero si volta e lo fissa in faccia.
“Sono nato a Derry 67 anni fa. Mia madre se n'è andata di casa che avevo 13 anni. Se n'è andata a Liverpool con un rappresentante di scarpe. Sono entrato nell'IRA a 15 anni. Ho passato più tempo in prigione a prendere botte dai secondini che all'aria aperta. Ho tre figli, da qualche parte. Tutto il resto che ti ho detto, il Venezuela, Long Kesh, la Svezia e tutto quanto, è tutto vero. Solo il nome. Ma non l'ho fatto apposta. E' solo che non ho più l'abitudine.”
Poi guarda Libero e sorride. “Mi girerebbero le balle a morire con una pallottola in corpo e qualcuno che mi tiene la mano urlando Seamus, Seamus, tieni duro!”
Anche Libero sorride.
“Liam.”
“Già.”
“Secondo te arriveranno?”
“Prima o poi, di sicuro.”
Qualcuno ha pulito il cielo. Le nuvole sono state raggruppate in un angolo lasciando il piatto liscio.
“Un rappresentante di scarpe?”
“Un vero coglione.”
“Hai ancora un po' di whisky?”
“Di quello finché vuoi.”
Bevono. Poi richiudono gli occhi sulla pista sterrata da cui dovrebbero apparire le teste di cuoio, o i carabinieri, o la marina, o l'esercito della salvezza, o chiunque si degni di venire a ingaggiar battaglia a queste altitudini e a questi disperati.
Liam comincia a cantare una canzone di una rivoluzione lontana. Sempre sconfitti mai arresi. Canta a voce spiegata come a sfidare il mondo.
Ma il sole picchia come un martello, e anche sotto il portico della cappelletta il caldo si fa opprimente e asfissiante. Socrate non muove più. Un lieve spazzolare della coda di tanto in tanto a denotare una scossa di vita. Libero si asciuga la fronte con un fazzoletto e Liam sputa; uno sputo che cade nella terra che diventa scura e cattiva ma subito si asciuga e il sole gira sulle loro teste da est a ovest, in cerchi concentrici che si disegnano assordanti. Il sole e il caldo e le cicale o i grilli o che diavolo di altro animale sia a frinire in quel modo. E le lucertole che corrono tra le sterpaglie secche fanno un crepitio di fuoco. E un'aquila gira immobile nell'immobilità del sole nell'immobilità del cielo nell'immobilità del tempo. Un'aquila. Il sole. Il cielo. Il tempo. Quarto giorno. Quinto giorno. I nervi usurati. Libero si è lasciato cadere con la schiena contro la barricata. Fissa il cardine della porta e non muove. Liam ha finito il whisky. Sputa ancora a terra, ma la bocca secca non stacca più che qualche goccia. Ormai le sue canzoni sono mormorii a mezza bocca. Socrate si è ritirato nel fresco della cappella e non muove più.
Poi d'improvviso. Liam ha un fremito.
“Libero, Libero!”
“Che c'è?” chiede Libero senza alzarsi, mantenendo lo sguardo fisso sul cardine della porta.
“Libero credo che ci siamo...”
“Eh?”
“Laggiù, per tutti i Santi! Della polvere che si alza!”
“Cosa?!” Libero è già in piedi. Saltato sulla barricata la pistola in pugno. Aguzza lo sguardo. “Dove?”
“Laggiù, lo vedi dietro quello sperone di roccia?”
Libero si concentra. Vede la terra tremolare per il calore. La roccia vibra e si deforma.
“Io non...” ma poi forse... “Sì. Sì, lo vedo anche io!”
Un risbuffo di polvere giallognola si alza nell'aria.
“Una jeep?”
“Più probabile un camion. La nuvola mi pare grande.”
“Un camion. Porca puttana, un camion!”
E i due si guardano sorridendo. E' arrivato il momento. Cazzo se è arrivato. Non stanno più nella pelle. Liam controlla il detonatore con cui ha minato la strada. Libero estrae il caricatore come ha già fatto altre mille volte e lo controlla per accertarsi che le pallottole non se ne siano andate. Lo reinfila nel calcio della pistola che fa CLACK e arma il carrello che fa CLUNCK. E' pronto.
Anche Liam lo è.
Infila l'occhio nel mirino, e il mirino sulla pista di terra battuta che appare dopo l'ultima curva.
Gli sudano le mani. Gli sudano anche gli occhi, se è per questo. Sbatte le palpebre e rimette la pupilla nel centro della strada.
La nuvola si avvicina e cresce di dimensione e di intensità.
“Forse i camion sono due.”
“Sarebbe meglio per loro si arrendessero subito,” dice Liam e si morde il labbro fino a farselo sanguinare, ma non sente niente. L'adrenalina gli mangia il cervello e ha tagliato i ponti con tutte le terminazioni nervose.
Due camion. E' la rivoluzione che è cominciata. Non è più reversibile. Da qui non si torna più in dietro. Ci sono momenti nella vita in cui sai che hai passato il punto di non ritorno. Questo è uno di quelli. Aspettano. Il cuore batte all'impazzata.. La mani sentono il morso freddo dell'acciaio e il dito si appoggia contratto sul grilletto. E' pesante, la pistola, Dio se pesa. Non gli era mai sembrata pesante in tutti quei giorni come adesso. Lo stomaco è chiuso in un nodo, contrazione nervosa. Deve abbassare le braccia perché la pistola è diventata un macigno di duecento chili. Distende i gomiti, si rimette in posizione.
La nuvola sta per apparire. Ancora nessun avvisaglia del ruggire del motore. Solo la nuvola che si avvicina. Il dito è pronto. Ancora nessun rumore. La spalla è tesa. La nuvola vien fuori dalla curva e dalla nuvola se ne esce con un balzo in avanti una pecora. Con uno scampanio acuto e un belare che riempie la vallata. Ne compare un'altra e poi un'altra.
E' una fiumana bianca di lana che solleva un polverone arancione. A metà del gregge, un pastore in jeans e camicia a quadri, grida agitando il bastone “Ehuuu, ehuuu!” e dà qualche colpo qua e là alle bestie per farle avanzare, mentre i cani trottano lungo i bordi per tenere compatto quel fiume di lana che scorre davanti alla cappella di San Rocco riempendola di polvere. Libero e Liam non si muovono. Guardano increduli la transumanza e si chiedono se c'è stato un momento preciso nelle loro vite in cui tutto ha cominciato ad andare a fanculo. Il belare cancella anche quella domanda.
Poi piano il gregge si allontana e la polvere aspetta qualche minuto, galleggia lì nell'aria prima di affondare sulle pietre, sui fili d'erba, sulla chiesa, sul tetto, sulla barricata, sulle armi e sui sogni. Su Liam e su Libero.
Il belare si è fatto lontano, ora. Ogni cosa è gialla e polverosa. Restano, per terra, le piccole cacche nere e rotonde delle pecore.
“E adesso?” chiede Libero lasciandosi scivolare a terra.
Liam gli si siede accanto: “Non lo so.”
Sposta una pietra con il piede. “Hai una sigaretta?”
“Non fumo.”
Silenzio. Per qualche minuto nessuno ha voglia di parlare. Poi da qualche parte una cicala frinisce e da un cespuglio si alza in volo una cincia bigia. Le sue ali grigine battono rapide, velocissime, piccole palpitazioni da messaggio morse che disegnano onde nell'aria; all'improvviso scarta, si alza nel vuoto e volteggia. Il vento soffia e la porta. Libero l'ha seguita con lo sguardo, poi sorride: “La bellezza,” dice.
“Cosa?”
“La ragione per cui viviamo, la bellezza.”
E il pugnetto di piume si perde nel cielo alto, azzurro. Terribilmente sconfinato.
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Capitolo 1 Calcio d’inizio – la  cellula ponentina
La ricordava bene quella serata al Covo, eccome se la ricordava. Capitata per caso, in quei suoi giri turistici per luoghi più metafisici che reali, più immaginati che vissuti realmente. Non le accadeva spesso di starsene in un angolo ad ascoltare e basta ma la confidenza era virtuale, soprattutto stava cercando di capire il taciuto, intuiva che ci fosse qualcosa di più tra le righe, molto di non detto, una tensione che faceva capolino a tratti, qualcosa che andava oltre una semplice disputa, quelli che apparivano come attacchi erano in realtà inviti. Era una sfida ad iniziare, una scintilla che attendeva solo di far esplodere un ordigno che attendeva da tempo, quella lite era solo il detonatore, e una volta capito non ebbe più dubbi. apparivano come attacchi erano in realtà inviti. Era una sfida ad iniziare, una scintilla che attendeva solo di far esplodere un ordigno che attendeva da tempo, quella E ora, tornata a casa, girava una manovella con Russia – Arabia Saudita in sottofondo cercando di far funzionare quel vecchio ciclostile minimizzando i danni da inchiostro. Quando anni prima avevano smantellato la vecchia sede di DP uno dei compagni più grandi le aveva chiesto se le piaceva, sapeva che, oltre che gattara, sarebbe diventata un'accumulatrice compulsiva. Finalmente, dopo parecchia attesa in soffitta, tornava utile. Sogghignava pensando che proprio quel vecchio compagno le aveva raccontato degli Angeli del ciclostile, di come tante ragazze venissero comunque relegate nelle cantine umide, dando come contributo alla causa il monotono gesto legato al ciclostile manuale, certo non era la cucina ma non c'era poi questa grande differenza. Ora toccava a lei, la differenza era che questo era solo l'inizio, da lì sarebbe partito tutto, era il sasso nello stagno, avrebbe organizzato un cerchio sempre più ampio, per i rapporti con il Covo, l'altro sasso nello stagno, c'era il Rapace, con i periodici viaggi in quella direzione. I primi comunicati erano pronti, si passava all'azione.
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Capitolo 0 - Overture
Cinque whisky, una distanza incolmabile. Tredici Novembre, nel bugigattolo di trenta metri quadri che chiamiamo covo, tardo pomeriggio, la proiezione di una retrospettiva sul movimento negli anni più caldi, le frange lottarmatiste, i cuscinetti paramilitari, le larghe masse, le teste calde, i cani sciolti, i legalitari alla coda del treno. Rituale laico ripetuto a cadenza ritmica, come le assemblee settimanali, un confronto col mondo fantastico al quale ti ascrivi per affinità, col quale da decenni non hai alcun legame, se non un certo sognare romantico. Il bardotto che nelle vene ha sangue di cavallo. La proiezione inizia relativamente presto, a seguire un appuntamento doveroso e più popolare. Nonostante il freddo umido, le inaspettate precipitazioni e la vetrina dell'ingresso che proprio non ne vuole sapere di rimanere saldamente chiusa, le birre ghiacciate vagano a iosa, contributo al posto e al vizio. Non siamo quel genere di gruppo che sistemicamente fa le cose, il dibattito a fine proiezione non è doveroso, capità là dove c'è interesse, altrimenti via il dvd e si beve discretamente fino al prossimo da farsi o all'abbassarsi della serranda. In questo caso si parla, animatamente, io e F. . Le sopracitate birre scarseggiano e la sete permane, si passa ai whisky. E una discussione sulle pratiche dell'epoca svia indecorosamente sui posizionamenti ideologici. All'angolo rosso del ring lui, un marxista leninista ortodosso. A quello nero un anarchico organizzativo. Nel mezzo della discussione un gruppo folto di ascoltatori, per lo più ventenni, che qua e là provavano ad inserirsi, trovare sintesi, decontestualizzare gli eventi, evitare il conflitto in favore di una quadra tarda a venire. Pompieri. Dall'esclusione dal processo tecnologico al postoperaismo, dalla faida spagnola alla svolta nazionalista, dalla necessità del potere al dovere di distruggerlo. Ogni fandonia dell'altro viene affrontata con fare chirurgico e i toni s'alzano mentre sullo schermo scorrono le prime informazioni utili, le formazioni di Italia e Svezia nei Playoff che decideranno se quest'anno, come sempre, l'Italia ci sarà ai mondiali. Come sempre. Come sempre è la routine che ci fotte. Sono informazioni inutili, due a zero secco o siamo fuori dai giochi, certo, potremmo sfangarla con un gol in partita e il pathos sui rigori, ma non abbiamo l'età per tanta emozione e quello a cui piace che si soffra fino all'ultimo è F., io sono molto più felice con le soluzioni brutali e dirette, due gol al primo tempo e catenaccio senza poesia fino alla fine. Le immagini scorrono con una lentezza impressionante, e la partita è così piatta che succede l'impensabile: continuiamo a parlare di politica. E non di cose pratiche e basse, non dell'oggi, della precarietà degli operatori nella ristorazione, della difficoltà nelle piccole botteghe chiuse dai lavori in corso, della privatizzazione dei parchi pubblici. No, parliamo di posizionamenti ideologici, perché è evidente che c'è voglia di sfuggire alla noia anche a costo di litigare. Il climax tocca le sue punte più alte all'inizio del secondo tempo, quando vengo accusato dello sterminio di San Cristobal nel 1997, perché una scelta militarmente inopportuna e di matrice anarchica ha permesso quel massacro, ed è colpa mia e della gente come me. La risposta repentina è che è stato da infami incarcerare e far fuori i machnovisti dopo tutto quello che hanno fatto per la rivoluzione, offrendo gente e terra ai porci capitalisti in cambio di una pace tattica. 1920, giù di lì. Ben inteso che nel 1997 militavo nella scuola elementare Edmondo De Amicis. Il losco burocrate che contestavo, invece, nel 1920 non so cosa facesse. Cinque whisky, una distanza incolmabile. Giocare non ci bastò più e parlammo di cose più vicine, cose davvero nostre. È curioso come si vesta con le date le vittorie e con i nomi delle città le sconfitte. Dicemmo il nome di una città, e di colpo la noia mi sembrò una scelta preferibile, perché sputare sul sangue vivo è orribile. Come con un ictus, ma sopravvivendo. Vertigini, difficoltà di comprendere gli altri, cefalea, confusione. Bruttura nella bruttura, il fischio finale e un pareggio indegno. Fuori dai mondiali, fuori dal mondo e fuori di me. Non oltre, non per molto. L'elettricità nell'aria mi suggerisce l'ovvio e permette di leggere la fase. Fra le derive ideologiche e il vuoto d'impiego di forza e passione suggellato da quella squadra di merda che è la nostra nazionale, il pertugio necessario per un colpo di mano. Qualcosa che non posso condividere però, non ancora, con le azioni farò valere le mie ragioni e so già cosa colpire per dare un segnale. So che all'orizzonte minacce lovercraftiane contemplano il paese, ma sacche di resistenza stanno cospirando e se ispirate agiranno capillarmente. Una rivoluzione diffusa e non strutturata, tsunami di rivolte. Questo mondiale lo vinciamo fuori dal campo.
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